Fonte: Osservatore Romano
13 ottobre 2008
Intervista al procuratore del Patriarcato di Babilonia dei Caldei, Philip Najim
di Francesco Ricupero
In Iraq si industria e si programma la morte; l'eliminazione dei cristiani dal Paese. La traduzione di una «politica nera», attraverso la quale in molti cercano di lucrare anche profitti illeciti. Una politica sulla quale persiste, da parte della comunità internazionale, un silenzio assordante che non è più accettabile. Mentre pubblichiamo in prima pagina una dichiarazione del Patriarca di Babilonia dei Caldei, il cardinale Emmanuel iii Delly, in questi giorni a Roma per il Sinodo dei vescovi, il suo Procuratore Philip Najim spiega in un'intervista a «L'Osservatore Romano» quali sono le condizioni di vita dei cristiani nel Paese dopo gli ultimi violenti attacchi da parte di estremisti islamici, «bande criminali che vogliono a tutti i costi rallentare e bloccare il processo di pace che gli iracheni vogliono raggiungere».
Monsignor Najim, cosa sta accadendo in Iraq?
L'Iraq è stato trasformato in una piazza di morte, un Paese dove si industria e si programma la morte ai danni di persone indifese. E a pagarne le conseguenze sono soprattutto le comunità cristiane di Mossul che negli ultimi giorni stanno subendo delle vere e proprie persecuzioni, mai viste prima. Solo nella giornata di oggi (ieri, domenica, n.d.r) un migliaio di persone hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni perché minacciate da gruppi di terroristi senza scrupoli. Non si può andare avanti in questo modo. C'è troppo silenzio attorno a questa vicenda. Un silenzio che rischia di distruggere la speranza del popolo iracheno che è alla ricerca della pace e della fratellanza.
Cosa sta facendo la Chiesa per aiutare le comunità cristiane di Mossul?
Ad al Kosh, a pochi chilometri da Mossul, due monasteri caldei hanno aperto le loro porte per accogliere le famiglie in fuga da Mossul, ma anche la diocesi è impegnata ad aiutare i rifugiati. Si tratta di circa mille persone, molte delle quali donne e bambini, terrorizzate per le violenze e le minacce subite. Bande armate provenienti da Qal'at Sukkar stanno diffondendo un clima di terrore tra la popolazione. Sabato pomeriggio tre case abitate da cristiani sono state fatte esplodere e le famiglie costrette ad assistere alle violenze. Questa città è oramai preda di forze oscure, bande criminali che vogliono a tutti i costi rallentare e bloccare il processo di pace che gli iracheni vogliono raggiungere.
Al di là delle violenze, c'è diffidenza o intolleranza tra le diverse etnie presenti nel Paese?
Assolutamente no. Tutte le etnie irachene hanno sempre convissuto in un clima di tolleranza e di rispetto reciproco. Gli iracheni non hanno mai considerato la religione come un mezzo per dividere, anzi sanno benissimo che la religione unisce e può dare un grande contributo al processo di pace. Un segnale è arrivato dagli imam che nella preghiera del venerdì invitano i musulmani a non creare violenza. Questo è molto importante per il futuro del Paese. Tutte le religioni e le etnie che fanno parte della nazione sono unite sotto il nome della patria Iraq.
Cosa è cambiato nel Paese dalla morte dell'arcivescovo Rahho?
Purtroppo, non è cambiato nulla. Prima della morte di monsignor Rahho, era stato ucciso il suo segretario padre Ragheed Ganni, e insieme all'arcivescovo sono state uccise altre tre persone: l'autista e due guardie del corpo. Certamente a Mossul la situazione è peggiorata, c'è un oscuro interesse a svuotare questa città dai cristiani. Questa è una politica nera, non è a favore dell'uomo, non è una politica atta a migliorare la situazione e a portare la democrazia e la pace nel Paese. Non si può creare la pace quando togli la vita umana che è un diritto naturale dell'uomo e soprattutto è un dono di Dio.
Ma perché gli attacchi nei confronti dei cristiani? Il loro comportamento destabilizza l'equilibrio del Paese?
I cristiani vengono perseguitati e minacciati perché sono una comunità debole, non hanno mai avuto interessi politici al fine di guadagnare qualcosa. Il popolo cristiano in Iraq vuole soltanto la pace, vive amando la sua patria, vuole essere libero per contribuire a costruire un Iraq migliore, e lo fa cercando il dialogo con le altre comunità. Oggi, ci chiamano minoranze e come semplice cittadino non capisco cosa vuol dire minoranza. Se c'è una costituzione, questa parla di popolo iracheno e non di cristiano o musulmano. Io non sono una minoranza, sono un iracheno. Noi siamo cristiani iracheni, anche nei nostri documenti di identità c'è scritto «iracheno».
Cosa sta facendo il Governo per porre fine alle violenze?
Purtroppo, nulla. Per esempio il governatore di Ninive, Kashmula, ha assicurato che farà di tutto per fermare queste bande di terroristi, invece non riesce a imporsi perché è debole. Lo dimostra la fuga in massa dei cristiani da Mossul. Da diversi giorni si registrano episodi di violenza e il governo non ha fatto nulla per impedirli.
E la comunità internazionale?
Stesso discorso. C'è un silenzio assordante da parte di molti Paesi e questo ci preoccupa. Anche le forze di occupazione in Iraq, purtroppo, contribuiscono a destabilizzare il Paese, poiché non riescono a garantire la pace. Nessuno si preoccupa di noi e dell'Iraq. Grazie a questa intervista vorrei richiamare l'attenzione di tutti affinché intervengano per porre fine alle violenze e rispettare la vita.
Le organizzazioni umanitarie riescono a far giungere i loro aiuti ai rifugiati?
Anche le organizzazioni umanitarie incontrano serie difficoltà a operare a Mossul e in Iraq. Purtroppo non manca chi specula su questa drammatica situazione. L'unico aiuto efficace offerto ai cristiani iracheni viene dalla nostra Chiesa che accoglie nei monasteri e nei luoghi di culto centinaia di persone offrendo un supporto psicologico. Purtroppo, i cristiani iracheni stanno subendo un'umiliazione inaccettabile. Scappano dall'Iraq per bussare alle porte di Paesi non sempre disposti all'accoglienza. In Siria, Libano, Turchia e Giordania vivono in una situazione di clandestinità. In Europa, invece, dove sono circa 80.000, stiamo cercando, grazie all'aiuto della Commissione degli episcopati della Comunità europea, di creare un programma di accoglienza e d'integrazione perché queste sono persone che hanno perso la loro dignità.
di Francesco Ricupero
In Iraq si industria e si programma la morte; l'eliminazione dei cristiani dal Paese. La traduzione di una «politica nera», attraverso la quale in molti cercano di lucrare anche profitti illeciti. Una politica sulla quale persiste, da parte della comunità internazionale, un silenzio assordante che non è più accettabile. Mentre pubblichiamo in prima pagina una dichiarazione del Patriarca di Babilonia dei Caldei, il cardinale Emmanuel iii Delly, in questi giorni a Roma per il Sinodo dei vescovi, il suo Procuratore Philip Najim spiega in un'intervista a «L'Osservatore Romano» quali sono le condizioni di vita dei cristiani nel Paese dopo gli ultimi violenti attacchi da parte di estremisti islamici, «bande criminali che vogliono a tutti i costi rallentare e bloccare il processo di pace che gli iracheni vogliono raggiungere».
Monsignor Najim, cosa sta accadendo in Iraq?
L'Iraq è stato trasformato in una piazza di morte, un Paese dove si industria e si programma la morte ai danni di persone indifese. E a pagarne le conseguenze sono soprattutto le comunità cristiane di Mossul che negli ultimi giorni stanno subendo delle vere e proprie persecuzioni, mai viste prima. Solo nella giornata di oggi (ieri, domenica, n.d.r) un migliaio di persone hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni perché minacciate da gruppi di terroristi senza scrupoli. Non si può andare avanti in questo modo. C'è troppo silenzio attorno a questa vicenda. Un silenzio che rischia di distruggere la speranza del popolo iracheno che è alla ricerca della pace e della fratellanza.
Cosa sta facendo la Chiesa per aiutare le comunità cristiane di Mossul?
Ad al Kosh, a pochi chilometri da Mossul, due monasteri caldei hanno aperto le loro porte per accogliere le famiglie in fuga da Mossul, ma anche la diocesi è impegnata ad aiutare i rifugiati. Si tratta di circa mille persone, molte delle quali donne e bambini, terrorizzate per le violenze e le minacce subite. Bande armate provenienti da Qal'at Sukkar stanno diffondendo un clima di terrore tra la popolazione. Sabato pomeriggio tre case abitate da cristiani sono state fatte esplodere e le famiglie costrette ad assistere alle violenze. Questa città è oramai preda di forze oscure, bande criminali che vogliono a tutti i costi rallentare e bloccare il processo di pace che gli iracheni vogliono raggiungere.
Al di là delle violenze, c'è diffidenza o intolleranza tra le diverse etnie presenti nel Paese?
Assolutamente no. Tutte le etnie irachene hanno sempre convissuto in un clima di tolleranza e di rispetto reciproco. Gli iracheni non hanno mai considerato la religione come un mezzo per dividere, anzi sanno benissimo che la religione unisce e può dare un grande contributo al processo di pace. Un segnale è arrivato dagli imam che nella preghiera del venerdì invitano i musulmani a non creare violenza. Questo è molto importante per il futuro del Paese. Tutte le religioni e le etnie che fanno parte della nazione sono unite sotto il nome della patria Iraq.
Cosa è cambiato nel Paese dalla morte dell'arcivescovo Rahho?
Purtroppo, non è cambiato nulla. Prima della morte di monsignor Rahho, era stato ucciso il suo segretario padre Ragheed Ganni, e insieme all'arcivescovo sono state uccise altre tre persone: l'autista e due guardie del corpo. Certamente a Mossul la situazione è peggiorata, c'è un oscuro interesse a svuotare questa città dai cristiani. Questa è una politica nera, non è a favore dell'uomo, non è una politica atta a migliorare la situazione e a portare la democrazia e la pace nel Paese. Non si può creare la pace quando togli la vita umana che è un diritto naturale dell'uomo e soprattutto è un dono di Dio.
Ma perché gli attacchi nei confronti dei cristiani? Il loro comportamento destabilizza l'equilibrio del Paese?
I cristiani vengono perseguitati e minacciati perché sono una comunità debole, non hanno mai avuto interessi politici al fine di guadagnare qualcosa. Il popolo cristiano in Iraq vuole soltanto la pace, vive amando la sua patria, vuole essere libero per contribuire a costruire un Iraq migliore, e lo fa cercando il dialogo con le altre comunità. Oggi, ci chiamano minoranze e come semplice cittadino non capisco cosa vuol dire minoranza. Se c'è una costituzione, questa parla di popolo iracheno e non di cristiano o musulmano. Io non sono una minoranza, sono un iracheno. Noi siamo cristiani iracheni, anche nei nostri documenti di identità c'è scritto «iracheno».
Cosa sta facendo il Governo per porre fine alle violenze?
Purtroppo, nulla. Per esempio il governatore di Ninive, Kashmula, ha assicurato che farà di tutto per fermare queste bande di terroristi, invece non riesce a imporsi perché è debole. Lo dimostra la fuga in massa dei cristiani da Mossul. Da diversi giorni si registrano episodi di violenza e il governo non ha fatto nulla per impedirli.
E la comunità internazionale?
Stesso discorso. C'è un silenzio assordante da parte di molti Paesi e questo ci preoccupa. Anche le forze di occupazione in Iraq, purtroppo, contribuiscono a destabilizzare il Paese, poiché non riescono a garantire la pace. Nessuno si preoccupa di noi e dell'Iraq. Grazie a questa intervista vorrei richiamare l'attenzione di tutti affinché intervengano per porre fine alle violenze e rispettare la vita.
Le organizzazioni umanitarie riescono a far giungere i loro aiuti ai rifugiati?
Anche le organizzazioni umanitarie incontrano serie difficoltà a operare a Mossul e in Iraq. Purtroppo non manca chi specula su questa drammatica situazione. L'unico aiuto efficace offerto ai cristiani iracheni viene dalla nostra Chiesa che accoglie nei monasteri e nei luoghi di culto centinaia di persone offrendo un supporto psicologico. Purtroppo, i cristiani iracheni stanno subendo un'umiliazione inaccettabile. Scappano dall'Iraq per bussare alle porte di Paesi non sempre disposti all'accoglienza. In Siria, Libano, Turchia e Giordania vivono in una situazione di clandestinità. In Europa, invece, dove sono circa 80.000, stiamo cercando, grazie all'aiuto della Commissione degli episcopati della Comunità europea, di creare un programma di accoglienza e d'integrazione perché queste sono persone che hanno perso la loro dignità.