"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

31 dicembre 2020

Il Papa in Iraq. Un documento congiunto tra Papa Francesco e il Grand Ayatollah Ali Al Sistani? Possibile, ma...


Se Papa Francesco riuscirà alla fine a portare a compimento la sua Visita apostolica, vero Pellegrinaggio a Ur dei Caldei (5 - 8 marzo 2021 - Iraq), la terra del Patriarca Abramo, probabilmente sarà trovato la modalità per un incontro con il Grand Ayatollah Ali Al Sistani, leader carismatico della maggioranza dei sciiti, persona rispettata e molto ammirata dalla leadership di altre confessioni religiose. In merito a questo eventuale momento dell'agenda papale alcuni, senza le attenzioni dovute, hanno prospettato l’anticipazione di una presunta firma da parte di Al Sistani del Documento sulla Fratellanza umana sigillato solennemente lo scorso 4 febbraio ad Abu Dhabi da Papa Francesco e dal Grande Imam dell'Università e Moschea di Al Azhar.
E' curioso però leggere un'affermazione di questa natura poiché il Grande Iman Ahmed al-Tayeb è un importante leader spirituale dei musulmani sunniti mentre Al Sistani è leader dei sciiti.
Le differenze e controversie religiose, coraniche e politiche fra le due correnti sono molte e a volte severe. Non è immaginabile dunque, allo stato attuale delle cose, che il Papa possa chiedere e ottenere che Al Sistani apponga la sua firma in un testo scritto un anno fa e firmato dal Capo della Chiesa Cattolica e dal'Imam di al Azhar. E' molto più probabile e realistico, se il viaggio si farà, la firma di una nuova dichiarazione congiunta sulla fratellanza e convivenza pacifica da parte di Francesco e Al Sistani. Successivamente è possibile che a questo documento aderiscano altri leader sciiti di altri paesi.

L’Iraq, il Papa e la pace: intervista esclusiva a Bruno Geddo responsabile ACNUR

Franco Peretti

Da molto tempo l’Iraq rappresenta a livello mondiale una zona calda da un punto di vista politico e spesso i mezzi di comunicazione sociale hanno parlato e parlano di questa comunità per molti e preoccupanti motivi.
Recentemente poi, e la notizia è di qualche settimana fa, papa Francesco ha annunciato al mondo la sua decisione di andare in terra irachena nel prossimo mese di marzo.
Per capire qualcosa di più, nella giornata della pace proclamata dalla Chiesa Cattolica, ho scelto di intervistare un protagonista delle missioni umanitarie dell’ONU, che per trent’anni ha prestato la sua attività all’interno di questa struttura ricoprendo diversi ruoli, con incarichi di alta responsabilità anche in Iraq.
Si tratta di Bruno Geddo, che, come ho appena detto, per tre decenni è rimasto dentro il sistema organizzativo delle Nazioni Unite e di conseguenza ha una conoscenza molto precisa dei problemi e delle difficoltà delle aree nelle quali ha operato.
L’esperienza, maturata in prima linea negli interventi umanitari, è molto vasta. In tutta la sua carriera si è occupato in modo particolare di una serie di aree regionali dell’Africa sub sahariana, del nord Africa e del Medio Oriente.

Nell’ultimo periodo nell’ambito dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) Geddo ha ricoperto l’incarico di rappresentante di questa istituzione proprio in Iraq. Da questo suo recente incarico gli è derivata una profondo e preciso quadro della realtà irachena che nel corso di questa intervista emergerà in tutto il suo spessore.Le notizie, che mediante giornali e televisioni arrivano dall’ Iraq non sono sostanzialmente tranquillizzanti. Molto spesso si ha la sensazione, per non dire la certezza, che, nonostante i tentativi di dimostrare che tutto è controllato ai vari livelli, sotto la cenere ci siano ancora carboni accesi molto pericolosi e soprattutto carboni assai idonei a generare vampate di fiamma molto potenti. Quale è il suo punto di vista?
“La situazione irachena desta forti inquietudini a causa di due fattori concomitanti. Da un lato: il continuo degrado delle istituzioni, afflitte a vari livelli da corruzione, da incompetenza e da spreco di risorse mai raggiunti prima a causa del sistema di spartizione di posti e prebende negli organismi statali e nella pubblica amministrazione periferica tra sciiti, sunniti e curdi. Dall’altro: la progressiva sostituzione dello stato da parte di tribù e clan nella gestione del territorio e della giustizia, con le comprensibili e conosciute conseguenze in termini di nepotismo, settarismo ed esclusione. Questi due fattori hanno profondamente minato la fiducia della popolazione nelle istituzioni e nel sistema democratico, determinando un continuo calo nel tasso di partecipazione ai processi elettorali e imponenti, ma sterili, manifestazioni di protesta in tutto il Paese“.
L’economia dell’ Iraq ha però un forte strumento idoneo a generare risorse con la sua commercializzazione
“È vero, l’Iraq ha una grande ricchezza naturale, il petrolio, ma l’economia rimane asfittica e incapace di crescere nonostante questo patrimonio, anche perché il ribasso di lungo termine del prezzo del petrolio costringe lo stato a tagliare la spesa per i servizi al fine di continuare a pagare i salari di milioni di pubblici funzionari in una pubblica amministrazione pletorica che di fatto funge da ammortizzatore sociale contro la disoccupazione”.
In paese dove l’economia è stagnante non può certamente crescere l’occupazione ed in modo particolare l’occupazione giovanile, ma potrebbero crescere le tensioni sociali
“Questi fattori determinano una cronica disoccupazione e sottoccupazione giovanile e crescenti livelli di povertà. La situazione socio-economica è ulteriormente aggravata dall’emergenza sanitaria dovuta al COVID-19. Ciononostante, tutti i tentativi di cambiamento sulla spinta dei movimenti di protesta sono falliti. In una situazione non dissimile dal dramma libanese, il sistema politico è bloccato dai veti reciproci e non è in grado di rispondere alle istanze di riforma e alle richieste di equità e giustizia portate avanti dalla società civile. Per molti giovani iracheni l’unica valvola di sfogo rimasta sembra essere l’emigrazione, che impoverisce ulteriormente il Paese“.
Nelle sue affermazioni si trovano elementi assai precisi per cogliere il quadro economico iracheno. Sembrano però opportuni a questo punto alcuni approfondimenti legati alla questione della sicurezza. Verrebbe spontaneo dire che da sempre manca la sicurezza in questi territori; in questi ultimi anni poi, in base a quanto si apprende dalle fonti di informazione, la situazione è diventata ancora più grave.
“Anche la situazione di sicurezza in Iraq desta preoccupazioni crescenti. Certamente l’incapacità della classe politica a riformare il Paese non produce un miglioramento dei livelli di sicurezza. Del resto la sicurezza non viene neppure potenziata dalla geopolitica regionale che vede l’influenza iraniana esercitare un pesante effetto di bloccaggio sulla situazione irachena contribuendo alla stagnazione del Paese. In questi periodi inoltre sia la contrapposizione politica molto conflittuale tra Stati Uniti e milizie popolari sciite, sia l’ordine di ulteriore riduzione delle forze americane rimaste sul territorio, rischiano di riproporre l’errore commesso nel 2011, quando, a causa del ritiro prematuro delle truppe americane in Iraq, gli Stati Uniti non valutarono adeguatamente le conseguenze derivanti dalle umiliazioni quotidiane inflitte alla popolazione sunnita e la deriva settaria del governo di Nuri al Maliki”.
In questo contesto di debolezza istituzionale si può allora affermare che si trova il terreno fecondo per la nascita dell’ ISIS?
“Furono sostanzialmente queste le cause profonde dell’ascesa repentina dell’ISIS davanti, tra l’altro, ad un esercito iracheno incapace di reazione. Furono proprio queste le cause, che portarono di fatto l’ISIS ad impossessarsi di un terzo del paese e dichiarare l’avvento del Califfato nel 2014. Dopo tre anni di sangue e terrore il Califfato è stato sconfitto militarmente; ma l’ideologia jihadista dell’ISIS continua a fare presa nelle menti e nei cuori di quei sunniti che si sentono vittime di discriminazione, emarginazione e ingiustizia da parte della maggioranza sciita. Approfittando della disattenzione del mondo a causa del COVID-19 e del disimpegno americano, l’ISIS si sta riorganizzando moltiplicando le sue cellule sul territorio. Malgrado un esercito meglio addestrato e più efficiente, con azioni puntuali i miliziani uccidono capi religiosi e tribali non allineati, attaccano postazioni militari e civili inermi, minacciano le popolazioni rurali in certe aree del paese e incendiano campi e raccolti per renderne la vita ancora più precaria“. In questo paese martoriato dalle guerre e dalle lotte intestine si registra la presenza dei cristiani, che in base ai dati statistici rappresentano però una minoranza sempre più esigua. È possibile avere qualche elemento conoscitivo più preciso?
“La situazione delle minoranze cristiane in Iraq, in gran parte di rito caldeo e siriaco, cattolico od ortodosso, sembra essere caratterizzata da un declino ormai inarrestabile. Dal 2003 ad oggi la popolazione cristiana e scesa da 1,5 milioni a circa 250,000 persone, un declino in percentuale dal 5% allo 0,2 % della popolazione irachena. Attentati alle chiese, assassinii e rapimenti di sacerdoti, fedeli minacciati e uccisi, erano fenomeni già cominciati con l’avvento di Al Qaeda; seconda dati del Catholic Register, una rivista americana, più di 1350 Cristiani sono stati uccisi dal 2003 e già prima del 2014 più di 70 chiese erano state bombardate. Ma l’occupazione di dodici villaggi cristiani di Ninive da parte dell’ISIS tra 2014 e 2017 ha portato violenza e sopraffazione ad un inedito livello di brutalità e barbarie, causando la fuga di massa delle popolazioni terrorizzate per cercare protezione nel Kurdistan iracheno, chiese sistematicamente profanate e bruciate, abitazioni in gran parte incendiate e saccheggiate. La scelta imposta dall’ISIS ai Cristiani era semplice: convertirsi, fuggire o essere uccisi. A Qaraqosh, che prima dell’occupazione dell’ISIS contava 55,000 abitanti, non più di 21.000 sono tornati. A Mosul, antico crocevia di etnie e religioni diverse, 45 chiese sono state danneggiate o distrutte, ma solo una ad oggi è stata restaurata, mentre i cristiani tornati a vivere in città sono meno di un centinaio”.
La descrizione, appena fatta, mette in evidenza una distruzione dalle dimensioni inimmaginabili da un punto di vista economico. Si può intuire che esista non solo un problema economico, potrebbe esistere nelle popolazioni cristiane il trauma delle violenze subite.
“Mentre i danni materiali possono essere riparati, quelli psicologici non sono facilmente rimediabili. I traumi subiti mettono in forse, minano la fiducia in un futuro di pacifica convivenza tra cristiani e mussulmani. Anzi a ben vedere forse, oggi, questa convivenza è già compromessa”.
Quali sono le richieste dei cristiani? Che cosa potrebbe capitare in mancanza di precise assicurazioni delle autorità governative?
“In mancanza di fiducia, per tornare le popolazioni cristiane domandano garanzie di protezione; ma sanno che il governo di Bagdad non può fornirle, e mancano le condizioni politiche per l’invio di una forza internazionale di protezione a Ninive. E così che l’emigrazione di massa diventa l’unica alternativa plausibile agli occhi delle giovani generazioni; e le comunità di Cristiani iracheni in Europa, Stati Uniti, Canada e Australia crescono a vista d’occhio. Godono del benessere materiale, ma la loro lingua, devozione e tradizioni sono in pericolo. A Qaraqosh, prima dell’arrivo dell’ISIS, il 92% dei cristiani parlavano l’aramaico, la lingua di Gesù, e la stragrande maggioranza dei giovani faceva volontariato in parrocchia e assisteva alla messa domenicale. Con l’emigrazione in altre realtà e continenti sarà sempre più difficile mantenere questi tratti distintivi ed il rischio è che le radici e l’identità di una comunità antichissima vadano perdute per sempre”.
In queste settimane un annuncio molto importante è venuto dalla Chiesa di Roma: papa Francesco sarà nel prossimo mese di marzo in Iraq. Questo evento sicuramente ha molti significati: vuole essere un messaggio per far sentire i fedeli iracheni inseriti nella comunità cristiana, ma contiene anche un significato idoneo a rafforzare la fraternità ( termine questo che è preferito da papa Francesco a fratellanza) tra cristiani e mussulmani. Una sua riflessione sull’annuncio di Francesco.
“La visita del Papa in Iraq, a lungo desiderata ma sempre rimandata per ragioni di sicurezza, non ha solo un altissimo valore simbolico ma riveste anche un’importanza concreta sotto vari aspetti. Prima di tutto la testimonianza di solidarietà, conforto e incoraggiamento alla chiesa che soffre, rappresentata in maniera potente dai cristiani iracheni e più in generale in Medio Oriente, una minoranza religiosa che si sta lentamente estinguendo sulle stesse terre in cui è stata presente da 1600 anni. Egualmente importante, la richiesta di concrete garanzie per la sicurezza e protezione della minoranza cristiana a Ninive, in modo da inviare un segnale positivo e ridurre la pressione all’emigrazione, che tra l’altro priverebbe l’Iraq del ruolo di equilibrio della minoranza cristiana nel complesso mosaico etnico – religioso del paese. Poi il messaggio di dialogo tra le fedi abramitiche e comune appello alla fratellanza universale per promuovere armonia e pace tra i popoli, sulla scia della Dichiarazione di Abu Dhabi. Infine un appello alla tolleranza e pacifica convivenza tra le diverse componenti del popolo iracheno, che resta profondamente diviso tra sette e fazioni e soggetto a pericolose manipolazioni interne ed esterne. Senza tolleranza e accettazione di opinioni diverse, la democrazia in Iraq rimarrà gracile e fragile”.
Tra i momenti significativi del soggiorno in Iraq del papa, vi è pure l’incontro con i’ autorevole Ayatollah Ali al Sistani. Questo è un personaggio di grande prestigio nel mondo mussulmano. Forse potrebbe nascere un nuovo dialogo e potrebbero aprirsi le porte a nuove iniziative di collaborazione. Del resto questo Papa guarda con molta attenzione e con sensibilità nuova all’opportunità di una collaborazione tra le due comunità religiose.
“Il viaggio del Papa in Iraq offre un’occasione unica per un incontro con il Grande Ayatollah Ali al Sistani a Najaf, città santa e fulcro dell’Islam sciita assieme a Kerbala; incontrando l’anziano Ayatollah dalla grande influenza sul popolo sciita iracheno e iraniano, il Papa potrebbe inviare un messaggio importante all’Iran e alla componente sciita dell’Islam, finora esclusa dal dialogo privilegiato della Chiesa con le autorità religiose sunnite di Al-Azhar”.
Finora Lei ha fatto una serie di precise sottolineature socio-politiche. Adesso invece la domanda è un po’ personale. Conoscendo l’itinerario apostolico di papa Francesco e conoscendo i luoghi che dal pontefice saranno visitati, dia per un attimo spazio alle sue emozioni
“Per quel che riguarda la visita alle comunità cristiane di Ninive, mi emoziona l’idea che il Papa celebri messa nella chiesa madre di Qaraqosh, che solo tre anni fa era un tempio dissacrato e vuoto, la navata annerita dal fuoco e gli altari distrutti. Spero che a Mosul sia inclusa una sosta del Papa alla chiesa di Nostra Signora delle Ore, storica testimonianza della presenza cristiana nell’antico centro della città sventrato dalla guerra; l’imponente edificio e rimasto in piedi ma e stato devastato dall’ISIS dopo averlo usato come officina per confezionare bombe ed esplosivi, e per impiccare i condannati a morte. Spero anche che l’itinerario del Papa gli permetta di sostare alle rovine del santuario del Profeta Giona, simbolo di Mosul e prima moschea fatta esplodere dall’ISIS per distruggere l’identità della popolazione musulmana della città e sottometterla alla volontà del Califfato. Sarebbe un gesto potente di solidarietà verso coloro che non si sono lasciati sopraffare dal terrore jihadista, nel nome dei profeti dell’Antico Testamento e di Abramo, progenitore comune delle religioni del Libro”.

Iraqi Christians face an uphill battle for survival

By The New Arab
Sofia Nitti

Father Nadhir Dako's voice is barely audible as the call to prayer sounds from nearby mosques in the neighbourhood of Dora in southern Baghdad.
"There was an altar, there, in the middle," he says softly, walking through the deserted church. "And a cross…I used to celebrate mass as a parish priest of this church in 1996. And look now, there is nothing left. There are not even Christian families living in this neighbourhood anymore".
Saint Jacob church was burnt down by Islamic State (IS) militants in 2015 and never rebuilt. "It does not even make sense anymore," sighs the 55-year-old priest. Before the US invasion in 2003, Dora hosted the largest community of Assyrian Christians in the Iraqi capital. Today, the nearest church is a few blocks away but grows emptier every week.
Before the fall of Saddam Hussein, Iraq was home to one of the largest Christians communities in the Middle East but years of war, persecution from Al Qaeda, and then IS, has forced thousands of Christian families into exile.
 "There are less than half a million Christians left in all Iraq, out of six million in 2003. In Baghdad they were more than 750,000. Today, they are no more than 75,000," explains William Warda, President of the Hammurabi organisation for the protection of religious minorities.

The Christian community in Iraq has dwindled by 90 percent since 2003

During 35 years as a priest in Baghdad, Father Nadhir Dako has seen many churches close down. In his parish, the Chaldean church of Saint Joseph in Karrada, central Baghdad, the situation is also bleak. "I have around 150 families of the faithful left. All the others went to Turkey, Jordan or Europe and no one ever managed to come back. In their absence, Shia pro-Iranian militias who dominate Iraqi society seized their properties".
In a country controlled by corruption, jobs in public administration positions are often distributed among influential members, nearly all Sunni or Shia.
As each day passes, more and more Christians consider the possibility of leaving Iraq, which is facing the worst economic crisis in recent history.
"Here in Karrada, a lot of people work in shops in the zone where anti-government protests raged from October 2019. And then, months of lockdown because of the Covid-19 pandemic made the rest," explains the priest.
But communitarian disputes are also a pressing concern.
Sanaa Hannah Aissa and her husband Raad Aso Sabri lost two children because of IS. Years after the end of the so-called caliphate, they still don't feel safe to express their faith in Baghdad. "When we sit on our porch, we cannot help thinking that our children got killed here and anybody could come back to hurt us again," they say mournfully, holding in their hands photos of their murdered boys. Years of war have also impacted the community spirit and mutual assistance once present in the parish. "Our hearts are always in pain. We all have our problems and none of us has any strength left to take care of others," admits Sanaa.
This Christmas, their hopes were raised by the announcement of Pope Francis' visit in March 2021.
The first ever visit to Iraq by a Pope, Sanaa is not alone in hoping that it might help improve the fortunes of the persecuted Christian community in the country. In their Christmas messages, the bishops of Iraq sent a message of hope to Christians who have emigrated. According to Cardinal Luis Raphael Sako, Patriarch of the Catholic Chaldean Church in Iraq, the Pope's visit will "give back hope to the Iraqi people who suffered a lot and will encourage Christians to come back".
This year for the first time, Christmas Day was officially recognised as a public holiday across Iraq. Announced two years ago by the government, the measure was ratified by Baghdad's parliament at the beginning of December, alongside news of the Pope's visit. But much work is still to be done by Iraqi legislators to protect Christians in the country.
According to Iraq's constitution, Islam is a fundamental source of rights, and no law can be issued if it does not conform to the principles of Sharia law.
"Christians face many problems today because of laws that should be amended," William Warda says. "Laws related to inheritance for example. In Islam, a woman inherits half that of a man. Or laws concerning marriage, divorce and the adoption of children. Minors from non-Muslim couples are still registered as Muslim even if one of the parents was or decided to become Muslim, regardless of the wishes of the other parent," he says.
In a country which is 97 percent Muslim, religious minorities are tolerated, but often from a distance. "This society walks on a track, like a train, Christian families walk in one direction, Muslim families walk in another direction and they both coexist peacefully," Raad Mohsen Al-Samarrai, Imam at Al-Hamid Al Majid- Mosque and a scholar in Islamic jurisprudence, says. "This coexistence does not mean that they should marry each other, the two societies understand that they are Christian families on one side and Muslim families on another side." Nevertheless, Father Nadhir says he receives couples on a weekly basis facing issues with their religious communities. "Saida converted to Islam to marry a Muslim man. They had three children, then divorced after ten years of marriage," he recalls. "Now she wants to come back to her Christian faith and marry with a Christian man. But she says her husband's community is threatening her not to do so," the priest says, adding "for Christians wanting to remain as such, even after a mixed marriage, or for Muslims wanting to convert, there is still no other way than going abroad".
With Christians now less than two percent of the Iraqi population, Father Nadhir is sorrowful about the future. "It's very hard when you see your followers leave the country. You pray alone at the altar, with just a few people. You feel yourself a foreigner".

Patriarch Sako on the New Year’s Day and Peace International Day: No Peace without Raising Awareness of Peace and Non-violence Culture


Photo Chaldean Patriarchate
Unfortunately, our world and our country are witnessing a frantic and sometimes an armed race for power and money, rather than providing services.
There is no real peace unless we get rid of this “fatal” selfishness in order to consolidate true fraternity among us.
Peace is an essential and ultimate goal for every human being, and without it there is no stable life and no progress.
However, to achieve it, people must be educated intellectually, religiously and socially on fraternity values, tolerance, non-violence and synergy, in addition to improving alertness of the importance of these principles for a pleasant life. 

Religiously: The mission of religions is to spread and consolidate a culture of peace, fraternity and love.
A true “faithful” – but not someone who use religion as an umbrella to hide his interests-, peace lives within him, reflects it in his surroundings and with everyone who communicates with.
This sort of spirituality fills his heart with comfort and joy: “Blessed are the peacemakers, they shall be recognized as children of God” (Matthew 5/ 9).

From this Standpoint, Spiritual Leaders Must: 
1. Purify religious ideas from “teaching programs” that are overwhelmed with misconceptions and traditional opinions; renew religious speeches to accommodate the contemporary requirements, in a way that suits people’s lives, dignity and realize their good without affecting its dogma. 
2. Promote human and national common “believes”; spread spiritual tolerance, and affection; patriotism; and respect religious and intellectual pluralism.

The Government: Should assume its full responsibilities in protecting all citizens according to the logic of citizenship, law and institutions; as well as respecting their rights and dignity.

This formation should focus on shared commitment and being open-minded to build peace, stop wars and protect human rights, through education in the family (home school), regular schools, Churches, Mosques and media. In his message for the 54th World Day of Peace marked on 1 January 2021, Pope Francis stated: “At the beginning of the new year, I would like to extend my warmest greetings to Presidents, Prime Ministers, Heads of International Organizations, Spiritual Leaders and believers of different religions, women and men of good will. I send you my warmest wishes that this year will advance on the path of fraternity, justice and peace between individuals, communities, peoples and nations”. 2020 was a difficult year for everyone, especially due to the consequences of the Corona pandemic, and absurd conflicts. We hope that the new year 2021 will be less stressful, and the situation will be better, so we can enjoy “normal life”.
Therefore, I ask you to pray, may peace dwell in the hearts of people, Iraq, the Middle East and the world, so that the walls of hatred and violence will fall down forever.
I also request prayers for the success of Pope Francis’ visit to Iraq, in a hope that this country will be different afterwards.

 Happy New Year for you, Iraq and the whole world

30 dicembre 2020

Il Papa in Iraq e il rinnovo dell'intesa con Israele

By AGI
Nicola Graziani

Papa Francesco visiterà l'Iraq dal 5 all'8 marzo e farà tappa a Bagdad, alla piana di Ur, legata alla memoria di Abramo, a Erbil, e a Mosul e Qaraqosh, nella piana di Ninive.
"A suo tempo sarà pubblicato il programma del viaggio, che terra' conto dell'evoluzione dell'emergenza sanitaria mondiale", è stato spiegato.
Come spesso accade in diplomazia, il peso delle parole è inversamente proporzionale al tono della voce.
Ecco allora che quasi nessuno si accorge di come, poco dopo l’annuncio del viaggio di Papa Francesco in Iraq (paese che rappresenta in questo momento il cuore di tutti i problemi di una regione problematica come il Medioriente), qualcuno abbia sollecitato la chiusura dei negoziati tra Santa Sede e Israele.
Pierbattista Pizzaballa, dell’Ordine dei Frati Minori, è il patriarca latino di Gerusalemme cui Bergoglio ha voluto di recente imporre il pallio. Insomma, tra loro c’è grande assonanza. Pizzaballa non ha usato toni forti, quindi la questione è importantissima, anche se in pochi se ne sono accorti. 
Qualche giorno fa, commentando la prossima visita papale, il francescano che vive da trent’anni in Terrasanta ha sottolineato: “Una grande sfida, perché la pandemia si sta spandendo anche in Iraq e dubito che a marzo saranno tutti vaccinati. È un bel gesto di solidarietà verso il mondo cristiano iracheno che ha sofferto tantissimo e che da trent’anni è sotto continua pressione”.
L’idea che se ne ricava è che la decisione del viaggio sia stata presa in condizioni, se non eccezionali, di rado ricorrenti. Non si ha l’impressione di un pieno ritorno – auspicabile – alla normalità, quanto piuttosto di una leggera forzatura dei tempi e dei modi. Segno che si vogliono stringere le viti e far ripartire la macchina, magari per cogliere l’attimo in cui si sono allentate le maglie della politica mediorientale dopo il cambio di inquilino della Casa Bianca. Un cambiamento di scenario che segue e forse consegue il raggiungimento di una serie di accordi tra Israele e alcuni paesi arabi, ultimo dei quali il Marocco. Un’eredità anche dell’era Trump, sicuramente una base su cui partire per il lavoro dei prossimi anni.
Non a caso il Custode ha ricordato un particolare interessante: buona la conclusione di tutte queste intese, ma resta pur sempre da rinnovare quella che Israele ha firmato in un dicembre di diversi anni fa (era il 1993) proprio con la Santa Sede. “È necessario chiudere”, ha sottolineato, “Come Chiesa viviamo in una sorta di limbo giuridico che va risolto. Anche aprire un conto bancario oggi è una via crucis. Questo perché non abbiamo una identità giuridica chiara. Sono cose che devono essere risolte”.
Quando, 27 anni fa esatti, venivano stabilite le relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Israele sembrava l’inizio di una nuova fase.
Tutt’oggi, effettivamente, si considera quello uno dei punti più alti del pontificato di Giovanni Paolo II, arrivo di un cammino iniziato con la storica visita alla sinagoga di Roma. Da allora però, nonostante altri passi siano stati compiuti nel 1997, la piena collaborazione è rimasta un obiettivo cui puntate piuttosto che un traguardo raggiunto.
L’impasse nasce da ostacoli di carattere fiscale ma riguarda anche l’amministrazione dei beni della Chiesa a Gerusalemme e dintorni. Sembrano ritocchi, ma quella Santa è Terra dove l’immobiliare conta e non poco ai fini della stessa sopravvivenza. Nel corso dell’ultimo anno, poi, le cronache hanno dovuto registrare casi di occupazione da parte dei coloni israeliani di lotti in Cisgiordania di proprietà ecclesiastica, con conseguente riacutizzarsi delle diffidenze reciproche. Su queste pesa anche il precedente, risalente alla tarda primavera, della sentenza con cui la Corte distrettuale di Gerusalemme ha respinto in maniera definitiva l’istanza presentata dal Patriarcato greco ortodosso che chiedeva di annullare la vendita di tre proprietà immobiliari patriarcali all’organizzazione di coloni ebrei Ateret Cohanim.
La partita se possibile è ancora più grande, se il cardinale Pietro Parolin, ancora nel 2019, si rivolgeva all’ambasciatore israeliano Oren David rimarcando la bontà di quelle intese, ma anche altre due cose. La prima, per l’appunto, quanto sia necessario “addivenire ad un accordo sulle questioni finanziarie, che ci auguriamo possa presto concludersi”. La seconda: “una rinnovata e proficua collaborazione con la Chiesa cattolica in Israele”, affinché “il Paese possa dimostrare con fierezza la viabilità della sua democrazia garantendo a tutti uguali diritti e pari opportunità per la costruzione di un futuro di pace e concordia”.
Passaggio, quest’ultimo, che venne tradotto come un esplicito riferimento legge sullo «Stato della nazione ebraica», madre di quasi tutti i timori delle minoranze non ebraiche del Paese mediorientale.
Inoltre, appena pochi mesi fa, la possibilità che Israele annettesse una serie di insediamenti ebraici in Cisgiordania aveva spinto sempre Parolin ad una chiara presa di posizione. Rivolgendosi all’ambasciatore israeliano come a quello degli Stati Uniti, il porporato aveva manifestato “la preoccupazione della Santa Sede circa possibili azioni unilaterali che potrebbero mettere ulteriormente a rischio la ricerca della pace fra Israeliani e Palestinesi e la delicata situazione in Medio Oriente”.
Di seguito era stata ribadita la linea che da sempre è quella di Oltretevere: Israele e Palestina hanno il diritto di esistere e di vivere in pace e sicurezza, dentro confini riconosciuti internazionalmente.
In una parola: il quadro era confuso quanto basta a bloccare i lavori della commissione bilaterale che dovrebbe portare a compimento gli accordi tra Santa Sede e Israele.
E oggi Pizzaballa ricorda che si vive in “un incubo” e che lui “sono 25 anni che sente dire che si è ad un passo dalla conclusione”, ma la conclusione non arriva mai. Dal momento del suo intervento la situazione politica israeliana è tornata a ingarbugliarsi, e si andrà per la quarta volta in due anni ad elezioni anticipate. Non si sa se lo stallo che ne è all’origine e che ora probabilmente durerà fino almeno alla fine della primavera spingerà a cercare di chiudere almeno questo capitolo.
Ma la Chiesa sa aspettare.
Magari non altri 27 anni.

OLTRE L’APOCALISSE. Ripartire da Baghdad

Antonio Spadaro

Accogliendo l’invito della Repubblica d’Iraq e della Chiesa Cattolica locale, Papa Francesco compirà un Viaggio Apostolico nel suddetto Paese dal 5 all’8 marzo 2021, visitando Baghdad, la piana di Ur, legata alla memoria di Abramo, la città di Erbil, come pure Mosul e Qaraqosh nella piana di Ninive».
Così il 7 dicembre, Matteo Bruni, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, annunciava un viaggio tanto desiderato da Francesco.
E ha aggiunto che il programma del viaggio «terrà conto dell’evoluzione dell’emergenza sanitaria mondiale».
Senza dimenticare la condizione di pandemia da Covid-19, anzi pienamente consapevole della sua morsa, Francesco compirà il suo primo viaggio dopo 15 mesi di stop.
Ma non è questa la notizia. Un virus ha distrutto le barriere umane, attraversandole senza chiedere permessi o abbattendo frontiere e dogane, svelando una umanità nuda. Il Pontefice, tenendo fisso lo sguardo sul mondo, ha deciso che questo era il momento per programmare un viaggio in Iraq.
Perché?
Il Covid-19 è diventato lo specchio di un virus pervasivo ben presente nel cuore dell’uomo, metafora che svela un mondo malato. Vi è una sorta di pandemia dello spirito e dei rapporti sociali della quale quella del coronavirus diventa simbolo e immagine.
Il viaggio in Iraq si deve inquadrare in questa emergenza sanitaria dello spirito come missione della Chiesa in quanto «ospedale da campo».
Il luogo idea­le per porre la tenda di questo ospedale è la piana di Ninive, che era stata occupata da parte del sedicente «Stato Islamico», tra il 2014 e il 2017, e così Ur dei Caldei, luogo di origine delle tre religioni abramitiche: ebraismo, cristianesimo e islam.
 Il 25 gennaio del 2020 Francesco aveva ricevuto il presidente iracheno, Barham Salih, parlando di «favorire la stabilità e il processo di ricostruzione, incoraggiando la via del dialogo e della ricerca di soluzioni adeguate a favore dei cittadini e nel rispetto della sovranità nazionale».
In quella occasione il Papa ha regalato al Presidente un medaglione della pace raffigurante un deserto guarito, cioè una landa desolata che diventa un giardino. 
E al momento dello scambio di doni ha espresso un suo desiderio: che il Presidente dell’Iraq gli portasse «una carta di identità» che attestasse «Papa Francesco figlio del figlio del figlio del figlio… di Abramo», con riferimento al padre delle tre religioni monoteiste. 
Questo è il punto: il Pontefice ha identificato in questi mesi di lockdown e di crisi sanitaria mondiale un chiaro punto focale della sua missione: la fratellanza umana, per la costruzione della quale le religioni possono offrire un «prezioso apporto» (cfr Fratelli tutti [FT], nn. 271-287). 
Per questo ha deciso di ripartire da Baghdad. 
Un filo tiene legata la piazza San Pietro – che, in piena pandemia, il 27 marzo ha visto Francesco pregare da solo per il mondo – e i luoghi della Mesopotamia, culla della civiltà antica, profanata dalle violenze dello Stato Islamico, dai conflitti regionali e internazionali, dalla persecuzione dei cristiani, dall’esodo di massa di tantissimi iracheni in cerca di una vita migliore. 

Sappiamo che da tempo Francesco meditava di visitare l’Iraq. Ne aveva parlato il 10 giugno 2019 durante un’udienza alle Opere di aiuto alle Chiese orientali: «Un pensiero insistente mi accompagna pensando all’Iraq, perché possa guardare avanti attraverso la pacifica e condivisa partecipazione alla costruzione del bene comune di tutte le componenti anche religiose della società, e non ricada in tensioni che vengono dai mai sopiti conflitti delle potenze regionali».
Il peso del passato califfale di Baghdad si riverbera nell’oggi come snodo di imperialismi, epicentro di visioni apocalittiche che vogliono accelerare la fine dei tempi con la violenza della filosofia dell’homo homini lupus, in una dialettica fra tensioni millenarie e mobilitazione militante.
Quella di Francesco è una sfida dal forte valore «politico», perché capovolge la logica dell’apocalisse che combatte contro il mondo, perché crede che questo sia l’opposto di Dio, cioè idolo, e dunque da distruggere al più presto per accelerare la fine del tempo.
È una sfida a chi non trova alternative all’essere martiri o apostati. No. C’è un’altra opzione, quella evangelica: essere fratelli. «Basta violenza, basta guerra, basta conflitti. Il viaggio del Papa in Iraq sarà un grido di fratellanza, un anelito di armonia, pace e solidarietà»: così da Baghdad il patriarca caldeo, il card. Louis Raphael Sako, ha commentato a caldo la notizia. «Fratellanza e convivenza armonica», questa la speranza, ha ripetuto il cardinale. Egli ha evocato il profeta Ezechiele, che è vissuto a Babilonia, parlando agli ebrei che in quel tempo vivevano fuori delle proprie terre, come rifugiati, scoraggiati: «Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti», dicevano. E allora Ezechiele profetizzava: «Così dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete. Saprete che io sono il Signore» (Ez 37,5-6).

Si riparte da Baghdad, dunque, per vedere le ossa rinsecchite divenire vitali e infuse di spirito. La notizia del viaggio ha chiuso il 2020 e ha aperto, nella speranza, il 2021. Ritorniamo a sognare, diremmo con il titolo di un volume che il Pontefice ha scritto in conversazione con Austin Ivereigh e nel quale ha affermato:
«Ecco la buona notizia: esiste un’Arca che ci aspetta per condurci a un domani nuovo. La pandemia del Covid-19 è il nostro “momento Noè”, purché e quando troveremo l’Arca dei vincoli che ci uniscono, della carità, della comune appartenenza».
Bisogna tornare al luogo d’origine dell’arca di Noè, alla Mesopotamia, dunque. E il Papa lo farà fisicamente. L’arca riappare nel luogo nel quale è stata concepita per spaccare il mare ghiacciato dell’indifferenza. Francesco da qui potrà evocare un «nuovo umanesimo», che in Fratelli tutti descrive così: «Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!» (FT 8).

Papa Francesco in Iraq. Patriarca Sako: “Allo studio incontro con Ali al-Sistani e firma del documento di Abu Dhabi”

Daniele Rocchi
28 dicembre 2020

Papa Francesco, durante la sua prossima visita in Iraq (5-8 marzo) potrebbe incontrare a Najaf, città santa degli sciiti, la guida spirituale sciita, l’ayatollah Ali al-Sistani, e firmare il documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, così come fece il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi con il grande imam sunnita di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb.
 “È un desiderio che condividiamo con gli sciiti” conferma al Sir il patriarca caldeo di Baghdad, card. Louis Rapahel Sako - Da Najaf sono venuti a chiedere della visita e abbiamo voluto esprimere questo desiderio alla Santa Sede perché sappiamo che il Pontefice è uomo del dialogo. Ha già incontrato Al-Tayyeb, massima autorità sunnita, e penso sia molto importante che possa incontrare anche quello degli sciiti e fare da ponte tra sciiti e sunniti”.
“Questo –
aggiunge il cardinale – potrebbe avere un impatto enorme a livello internazionale sulla convivenza pacifica e sul dialogo. Aspettiamo che la Santa Sede dica qualcosa in merito a questa proposta condivisa con Najaf. Come è noto gli sciiti sono la maggioranza in Iraq e il grande ayatollah qui ha una enorme valenza religiosa e politica e sociale”.
“Il documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune
– spiega Mar Sako – è un testo universale e non sarà necessario cambiarlo. Vale la pena ricordare che la terza enciclica di Papa Francesco ‘Fratelli tutti’, pubblicata il 4 ottobre scorso, trae spunto proprio da questa dichiarazione comune. È anche per questo motivo che nel logo della visita apostolica abbiamo messo, in caldeo, arabo, inglese e curdo, il versetto di Matteo 23,8 ‘Voi siete tutti fratelli’”.

Programma del viaggio.
In attesa di capire se l’incontro tra Papa Francesco e Ali Al-Sistani sarà possibile, si delinea nel dettaglio il programma del viaggio.
“Il Papa – dichiara al Sir il patriarca caldeo – arriverà il 5 marzo a Baghdad dove incontrerà le autorità civili irachene. Seguirà l’incontro con il clero cattolico. L’indomani dovrebbe recarsi di mattina presto a Ur dei Caldei dove si terrà una celebrazione interreligiosa, una preghiera comune cui prenderanno parte cristiani e musulmani. Con loro anche un rappresentante della comunità ebraica irachena – a Baghdad ci sono diverse famiglie di fede ebraica – e poi mandei e yazidi. L’incontro interreligioso dovrebbe incentrarsi sulla figura di Abramo. Nel Corano, così come nella Bibbia, si trovano dei passaggi relativi ad Abramo. Da Ur potrebbe così partire un messaggio al mondo intero: siamo tutti, nella fede, figli di Abramo. Dopo Ur il ritorno a Baghdad e la sera la messa nella cattedrale caldea. Domenica 7 marzo il Papa dovrebbe fare tappa a Erbil, dove incontrerà le autorità del Kurdistan, poi sarà a Mosul e a Qaraqosh, nella piana di Ninive. Qui incoraggerà i cristiani a perseverare nella speranza e a ricostruire la fiducia con gli altri. La sera a Erbil celebrerà la messa in uno stadio, perché le chiese sono piccole, subito dopo il ritorno a Baghdad. Lunedì il rientro a Roma. La nostra speranza è che prima del ritorno a Roma si possa trovare il tempo per andare a Najaf”.
“Sarebbe un segnale
importantissimo – ribadisce il patriarca Sako -. I musulmani iracheni nutrono un grandissimo rispetto per Papa Francesco, lo ritengono un pontefice aperto e amante del dialogo. Ieri – rivela Mar Sako – ho avuto un colloquio con un’importante autorità sciita che mi ha espresso tutto il desiderio di promuovere e partecipare a questa visita. Vogliamo – mi ha detto – fare qualcosa di degno per accogliere il Pontefice”.

Primo Natale festa nazionale.
Intanto quello appena trascorso è stato il primo Natale festa nazionale per l’Iraq. “Un momento importante per tutto il Paese – dichiara il cardinale – riconoscere questa festa è un segno molto importante per tutti i cristiani perché vuole dire riconoscerne la storia e anche la fede. Alla Messa della notte di Natale in cattedrale era presente il presidente della Repubblica, Barham Salih, che ha tenuto anche un discorso. C’erano anche autorità sciite, diplomatici e personalità varie. Essere presenti nella vita del popolo iracheno, di fede cristiana, è un gesto di grande significato. Posso dire – conclude il patriarca caldeo – che è cominciata una nuova fase”.

29 dicembre 2020

Cartoline di auguri da tutto l'Iraq ai cristiani di Qaraqosh, una delle tappe del viaggio papale.

By Baghdadhope*

Qaraqosh assurgerà agli onori della cronaca nel marzo 2021 quando sarà visitata da Papa Francesco nel'ambito del suo viaggio in Iraq, il primo viaggio apostolico dopo lo scoppio della pandemia di coronavirus. 
Controllata dall'ISIS dal 2014 al 2016 la cittadina, chiamata anche Baghdida o Hamdaniya, dal nome del distretto del governatorato di Ninive in cui si trova, è da sempre uno dei centri simbolici della cristianità irachena ed è in questi giorni protagonista di una singolare iniziativa riportata da Ankawa.com 
Il giorno della vigilia di Natale a Qaraqosh è arrivato infatti un autobus pieno di volontari che trasportavano 1400 cartoline di auguri di Natale indirizzati alla popolazione cittadina da connazionali di tutto il paese. 
"Congratulazioni ai fratelli cristiani" recitava ad esempio una cartolina proveniente dalla città di Bassora, all'estremo sud del paese. 
Un'iniziativa "che ha fatto felice le persone" che non si aspettavano di ricevere gli auguri da tutto il paese ha dichiarato il suo curatore, Nashwan Mohammed.
Le cartoline, tutte scritte e disegnate a mano, sono caratterizzate non solo dagli auguri e dai riferimenti alla festività cristiana del Santo Natale, ma anche dai simboli dei governatorati da cui provengono.
Così, ad esempio, quelle provenienti da Bassora hanno disegnati i ponti sospesi caratteristici della città sullo Shatt al Arab che, grazie ai suoi canali, è anche conosciuta come la "Venezia del Medio Oriente" quelle provenienti dalla capitale Baghdad hanno Piazza Tahrir dove solo la pandemia ha fermato le proteste dei giovani iniziate nel 2019, quelle in arrivo dal governatorato di Salah al Din riportano la grande moschea di Samarra e quelle da Mosul il famoso minareto "gobbo" della moschea di Al Nuri che nel 2014 vide l'istituzione del califfato dell'ISIS e che dall'ISIS stesso fu fatto crollare nel 2017 durante la battaglia per la riconquista della città. 

28 dicembre 2020

Il Patriarca caldeo Sako: non appare saggio il progetto di creare una “provincia cristiana” nella Piana di Ninive


Foto Rudaw.net
La soluzione dei problemi affrontati dai cristiani in Iraq non passa attraverso la creazione di una “enclave cristiana” con base nella Piana di Ninive, che finirebbe per diventare “il capro espiatorio” nelle lotte tra le diverse fazioni settarie.
Lo ha ribadito il Cardinale Louis Raphael Sako, Patriarca di Babilonia dei caldei, in un’ampia intervista rilasciata a Rudaw TV, emittente del gruppo editoriale con base nel Kurdistan iracheno.
I cristiani – ha spiegato il Patriarca – rappresentano nella società irachena una componente “senza milizie”, senza apparati tribali di protezione, e in questo tempo in cui il Paese è continuamente lacerato da tensioni e conflitti “non è saggio chiedere per noi l’autonomia in seno a una provincia. In quel modo diventeremmo il capro espiatorio tra i contendenti. Adesso è meglio per noi vivere insieme ai nostri vicini. Chiediamo a tutti di rispettare i nostri diritti, di non provare a modificare gli equilibri nelle regioni in cui viviamo. Ma se proviamo a chiedere una provincia o un’area con statuto speciale per i cristiani, finiremo per pagare un prezzo più alto”.
Il Patriarca caldeo Sako ha più volte espresso le sue riserve davanti alle ipotesi di istituire nella Piana di Ninive un'area “protetta” per i cristiani.
La Provincia di Ninive, storicamente disseminata di cittadine e villaggi a maggioranza cristiana, è da lungo tempo al centro di progetti ideali volti creare un'area indipendente dal punto di vista politico- amministrativo, progetti fortemente caldeggiati da gruppi organizzati in alcune comunità della diaspora caldea e assira.
Tale prospettiva era stata in qualche modo rilanciata anche alla Convention nazionale promossa a Washington nel settembre 2016 dalla organizzazione no profit Usa In Defense of Christians (IDC).
Nella recente, ampia intervista rilasciata al gruppo editoriale Rudaw, il Patriarca caldeo ha ribadito che gran parte dei cristiani fuggiti dalla Piana di Ninive nel 2014 davanti all’avanzare delle milizie dello Stato Islamico (Daesh) non sta facendo ritorno alle proprie terre d’origine perché “hanno perso la fiducia nei propri vicini”, i quali in molte situazioni locali si sono impossessati dei loro beni e delle loro case. “Non è stato solo Daesh a bruciare tutte le case. Ci sono state anche altre mani che hanno acceso il fuoco, e nell’area ci sono milizie di diversa matrice che impongono pedaggi, incutono timore e minacciano le proprietà delle persone, in un modo o nell’altro”.
Il Cardinale iracheno ha anche fatto riferimento ai processi che proprio nella Piana di Ninive, tradizionale area di insediamento delle comunità cristiane autoctone, stanno alterando i precedenti equilibri demografici, alimentando paure e incertezza tra la popolazione.
Il Patriarca caldeo ha ribadito che la condizione di violenza e conflittualità permanente in cui l’Iraq versa dal 2003 – anno delle campagne militari a guida USA che posero fine al regime di Saddam Hussein – potrà essere superata solo quando si archivieranno i sistemi di gestione e spartizione del potere su base settaria etnico-religiosa, per fare posto a uno “Stato civile moderno” basato sul principio di cittadinanza, in grado di garantire uguaglianza di diritti e doveri per tutti i cittadini, a prescindere dalla loro appartenenza etnica o religiosa. Nell’intervista, il Patriarca si è anche soffermato sull’annunciato viaggio di Papa Francesco in Iraq, in programma dal 5 all’8 marzo 2021.
“Il Papa è una persona di pace, e non penso che ci saranno attacchi contro di lui. Il governo sta lavorando alla protezione del viaggio”, ha assicurato il Cardinale Sako, che si è anche soffermato su alcuni dettagli del programma, confermando il momento di condivisione spirituale con letture dalla Bibbia e dal Corano che vedrà ebrei, cristiani e musulmani riuniti insieme nel nome di Abramo, padre di tutti i credenti, per l'invio di messaggi di pace “in Libano, in Yemen, in Iran e in Libia”. Oltre alle annunciate tappe della visita papale a Erbil Mosul e Qaraqosh, il Patriarca caldeo ha espresso la speranza che il Papa possa recarsi anche a Najaf, città santa dell’islam sciita, dove risiede l’Ayatollah Ali al Sistani.

Testo integrale dell'intervista a Rudaw.net sul sito del Patriarcato Caldeo
مقابلة بطريرك الكلدان، لويس ساكو مع  فضائية روداو
December 25, 2020

Iraq in need of Pope's visit to unite country, Cardinal Louis Sako says

December 26, 2020

Cardinal Louis Raphael I sako
Pope Francis
’ visit to Iraq is vital to encourage Christians to stay in the country as their numbers are dwindling rapidly, the head of Iraq’s Catholic Church said on Thursday. 
Cardinal Louis Raphael Sako, Patriarch of Babylon of the Chaldeans and head of the Chaldean Catholic Church, told The National the planned visit would carry messages to remind Iraqis of peace and coexistence. “It will place an emphasis on the true meaning of brotherhood and citizenship; we are only family and it will encourage Christians to stay in the country and to integrate and build confidence between each other towards a better future. It will give hope,” Cardinal Sako said.
The government in Baghdad described the papal visit in March as a “historic event” that sends a message of peace to Iraq and the whole region.
Cardinal Sako likened the pope’s Iraq visit to the one that he embarked on in Abu Dhabi in 2019.
That visit culminated in the historic declaration of fraternity and peace between nations, races and religions.
The declaration was signed the pontiff and Sheikh Ahmed Al Tayeb, the Grand Imam of Al Azhar.
“The visit to Iraq comes during an exceptional time. The country is the axis of culture and religion, it is a holy land, its people have suffered a lot,” Cardinal Sako said.
The pope will send a message to Iraqis that they must “stop fighting each other” and push them to “love and help each other to build their country and live in dignity and freedom”, he said.
Pope Francis is expected to visit Baghdad, Ur, a city linked to the Old Testament figure of Abraham, as well as Erbil, Mosul and Qaraqosh in the Nineveh plains, between March 5 and 8.
It will be his first trip in more than a year after all his overseas visits were cancelled because of the coronavirus pandemic.
“The visit to Mosul and Qaraqosh, the biggest Christian town in the north, will be to encourage Christians to stay and to rebuild trust with their neighbours,” Cardinal Sako said.
Cardinal Sako said the pope might also visit the holy Shiite city of Najaf to meet Grand Ayatollah Ali Al Sistani, Iraq’s top Shiite cleric.
“We hope he can visit Najaf – it has an impact on the Iraqi situation and also because of the place of Najaf and its authority. The authorities in Najaf are welcoming the idea,” he said.
There only about 500,000 Christians left in Iraq following sectarian warfare after the 2003 US-led invasion and the seizure of a third of the country by the extremist group ISIS in 2014.
“The situation is getting better, there are no attacks against Christians, but the situation is bad for all Iraqis,” he said. 
Christianity in Iraq dates back to the first century of the Christian era, when the apostles Thomas and Thaddeus are believed to have preached the Gospel on the fertile flood plains of the Tigris and Euphrates rivers.
Cardinal Sako, 72, was born in Zakho in northern Iraq and has played a central role in interfaith dialogue in the country.
He was elevated to cardinal in June 2018 by the pontiff in a move that was seen as a show of support to Iraq’s declining Christian population. The College of Cardinals forms the senior ecclesiastical leadership of the Catholic Church, offering counsel to the pope and electing his successor.

Corruption is rife in the Iraqi state: Chaldean Catholic Patriarch

Dilan Sirwan
December 25, 2020

Photo Rudaw
The head of the Chaldean Catholic church condemned Iraqi state corruption on Thursday, and said Iraq has not done enough for the country’s Christian community in the aftermath of persecution by the Islamic State (ISIS).
“Iraq is a rich country,” the Patriarch of Babylon of the Chaldeans told Rudaw’s Hawraz Gulpi on Thursday, but “corruption has spread to every single part of the state.”
“Christians have faced kidnapping, killing, and their churches were blown up in Iraq, then ISIS came to Nineveh and destroyed everything.”
“Three and a half years later they returned to their homes, but the government did not help them in any way.” 
 Christians in Iraq have continued to suffer “assault, harassment, and even attempts of demographic change,” the Patriarch said.
 The Christians in Iraq’s government “do not represent us”, he said, but “the people who put them in those positions.”
 “They either represent the Shiites or the Kurds”.
The Patriarch also criticized the government’s quota system for minorities including Christians, calling it “unnecessary”.
 “Bring a Muslim minister instead of a Christian one – as long as they respect and serve Iraq, we will be honored to have them,” he said.
The Patriarch commended the Kurdistan Regional Government (KRG) for welcoming Christians into the Kurdistan Region when the Islamic State attacked, and called the KRG “a secular government that respects democracy and does not differentiate between different ethnicities.”
However, he said that Christians often face “hate speech” from the people in “Erbil, Duhok, and rest of the Kurdistan Region.”
Estimates for the number of Christians living in Iraq vary dramatically.
According to the Patriarch, there were more than 1.5 million Christians in Iraq before the fall of Saddam in 2003, but waves of persecution since has caused their number to dwindle to around 500,000.
According to figures provided to Rudaw by Chaldean bishop Najib Mikhael and Iraqi member of parliament Klara Odisho Yaqub, only 350,000 Christians remain in Iraq.
Sako, an Assyrian and a native of Zakho, was appointed head of the Chaldean Catholic Church in 2013 by Benedict XVI, the pope at the time.
Sako was made a Cardinal in 2018 by Pope Francis II.
Pope Francis used part of this year’s Christmas message to highlight the plight of children in conflict zones – particularly Iraq, Syria and Yemen.
"On this day, when the word of God became a child, let us turn our gaze to the many, all too many, children worldwide, especially in Syria, Iraq and Yemen, who still pay the high price of war," he said.

24 dicembre 2020


Buon Natale e Buon Anno Nuovo

Edo Bri'cho o Rish d'Shato Brich'to

عيد ميلاد سعيد وسنة ميلادية مباركة

Happy Christmas and Happy New Year

Feliz Navidad y Feliz Año Nuevo

Feliz Natal e Feliz Ano Novo


Joyeux Noël et Bonne Année

Fröhliche Weihnachten und Gutes Neues Jahr

God Jul och Gott Nytt År

By Baghdadhope*

Per la Vigilia su Rai Gulp il cartoon ispirato al Natale delle comunità cristiane in Medio Oriente


I colori del Natale
Foto AFNews
In questo periodo speciale, Rai Ragazzi dedica il proprio film di Natale alle comunità cristiane del Medio Oriente. In prima visione assoluta su Rai Gulp, il 24 dicembre (alle ore 17.25 e alle 22.20) andrà in onda un cortometraggio d’animazione per raccontare un Natale speciale: quello delle minoranze cristiane in Medio Oriente, che negli ultimi anni sperimentano sempre maggiori difficoltà e pericoli per festeggiare la ricorrenza. Il film, della durata di 15 minuti, sarà disponibile anche su RaiPlay.
Prodotto dalla società Enanimation di Torino in collaborazione con Rai Ragazzi, con la regia di Stefania Raimondi – autrice anche del soggetto e della sceneggiatura – e le musiche del compositore pluripremiato agli Emmy Awards Gigi Meroni, autore e musicista per anni presso la Hans’s Zimmer Media Ventures, “I colori del Natale” ha per protagonisti tre ragazzini che riescono a ritrovare nelle piccole cose lo spirito della festa
“Abbiamo pensato al film circa un anno fa per ricordare che per tanti bambini e famiglie del Medio Oriente la festa del Natale è ancora una sfida, dopo gli anni della guerra. E’ ancora più importante pensarci oggi in cui anche noi siamo chiamati a una festeggiare il Natale in un modo diverso”, spiega Luca Milano, direttore di Rai Ragazzi. “Il film è ambientato in un villaggio simile a quelli che papa Francesco visiterà nel prossimo marzo in Iraq”. 
Rientrati nel loro villaggio dopo la guerra, mentre la cattedrale è un cumulo di macerie e tutte le messe della notte di Natale sono cancellate per motivi di sicurezza, i tre sfuggono al controllo delle loro famiglie per cercare di realizzare il sogno di Miriam: far sì che lei possa tornare a colorare il presepe.
La missione, all’apparenza semplice, si complica strada facendo a causa del buio e di paurosi personaggi che incontrano sul loro cammino ma, per fortuna, grazie alla piccola Sara, riescono a trovare riparo tra le macerie della cattedrale.
Sarà proprio qui che i ragazzi troveranno quello che stanno cercando e, tutti insieme, grazie ai colori di Miriam, passeranno un magico Natale e ritroveranno, in tante piccole cose, il vero spirito della festa.
Un altro film dagli stessi produttori dello special “Francesco”, il primo film tv a cartoni animati sulla figura di San Francesco, l’opera italiana di animazione più vista dell’anno con circa un milione e mezzo di spettatori, andato in onda il giorno del Santo patrono d’Italia lo scorso 4 ottobre su Rai Gulp e Rai1.

Christmas Unites a Divided Iraq

Jayson Casper

Last week, the parliament unanimously passed a law to make Christmas a “national holiday, with annual frequency.”
The latter phrase gave great “joy and satisfaction” to Cardinal Louis Raphael Sako, patriarch of the Chaldean Catholic Church. Last October, he presented an official request to Iraqi President Barham Salih to make Christmas a permanent public holiday.
“Today Christmas is truly a celebration for all Iraqis,” said Basilio Yaldo, bishop of Baghdad and Sako’s close associate. “This is a message of great value and hope.”
In 2008, the government declared Christmas a “one-time holiday.”

In 2018, the parliament amended the law to make Christmas for all citizens.
But after each occasion, it was not renewed.
“The declaration is beautiful, but it is very late,” said Ashur Eskrya, president of the Assyrian Aid Society–Iraq.
“But our trouble is not in holidays, it is in the situation of our people.”
The Christian population of Iraq numbered roughly 1.4 million prior to the US invasion. Today, following years of war and the ISIS insurgency, Christians are estimated at less than 250,000.
Land appropriation continues in the Nineveh Plains, Eskrya said. And Christians suffer with all Iraqis the deterioration of the economy amid COVID-19 restrictions.
Christian Iraqis were always allowed to celebrate Christmas themselves, he said. Those who worked for the government received two days off—and three for Easter.
Eskrya lives in Dohuk, in the Kurdistan Autonomous Region, in northern Iraq. Home to the majority of Iraqi Christians, since 2003 it has similarly sometimes given Christmas as a holiday for all.
But decorations fill city streets and local malls, he said, while the government provides Assyrian Christians an additional seven religious and ethnic holidays.
But the Kurds are one reason Iraq cannot settle on a singular national holiday. The nation achieved independence from Great Britain on October 3, 1932, but this coincides with a day of mourning over a Kurdish icon who defied Saddam Hussein.
The dictator’s overthrow has also been proposed as a national day, but is too divisive a date within Iraqi politics. Even Ramadan divides Iraqi Muslims: Sunnis follow the Saudi Arabian designation, Eskrya said, while Shiites follow Iran.
Symbolic also is the lack of a national anthem, as Iraq’s failure to develop a coherent identity has hurt the Christian community.
Ara Badalian, pastor of the National Baptist Church in Baghdad, called the Christmas declaration “a great achievement” that emphasizes the Christian component of society.

But more is needed.
“I hope it will be accompanied by helping the tiny minority of Christians to remain in Iraq,” he said. “[The government] must rebuild their damaged homes, and provide them with protection.”
Many Christians hoped last year’s nonsectarian protest movement would contribute to a national identity. The crackdown—which killed hundreds—led the Chaldean Catholic Church to cancel Christmas celebrations.
The protests, however, led to the appointment of a reformist prime minister, Mustafa al-Kadhimi, who promised Sako he would help ensure the safe return of Christian refugees.
The government may have had an incentive in prioritizing Christmas.
Earlier this month, Pope Francis announced his first trip in the wake of COVID-19 will take him to “the plains of Ur, linked to the memory of Abraham.”
The 84-year-old would become the first pontiff to visit Iraq, pandemic conditions permitting.
“An insistent thought accompanies me when I think about Iraq,” stated Francis in June 2019, when he first announced his intention.
“I want to go … so that it can look to the future through peaceful and shared participation in the construction of the common good.”
Sako called the Christmas designation “one of the first fruits,” and hopes more will follow.
“Everyone in Iraq, Christians and Muslims, esteem [Pope Francis] for his simplicity and nearness,” Sako said.
“His words … are those of a shepherd. He is a man who brings peace.”
A primary reason for the visit is encouragement, wrote Rifaat Bader of the Catholic Center for Studies and Media, based in neighboring Jordan.
In Kurdistan’s Erbil, the pope will visit Christians who fled from ISIS. And going to Mosul and Qaraqosh in the Nineveh Plains, he hopes to inspire them—and those abroad—to return to their ancestral home.
These areas comprise 80 percent of Iraq’s remaining Christians.
Eskrya is skeptical.
“The government can do nothing to get the people to return home,” he said, emphasizing the need for a culture of respect for Christians as indigenous citizens.
“One holiday, and one visit, will not change things.”
Nonetheless, areas of Baghdad have already been decorated for Christmas. A 16-foot tree stands in one mixed-faith neighborhood, overlooking the Tigris River.
St. George Church, the only Anglican congregation remaining in Iraq, will have a socially distanced holiday.
“Christians who stayed in Iraq celebrate a Christmas filled with challenges—but also with joy, as the angels told the shepherds,” said Faiz Jerjes, the parish priest.
“Exactly the same as when Christ was born.”
Parliament’s unanimous vote to make Jesus’ birth an annual holiday succeeds where other national holidays have failed.

Six years after ISIS, mixed fate for Nineveh churches


Chiesa caldea Mar Qaryaqos Batnaya
Foto Mesopotamia Heritage
Churches still lie in ruin six years after the Islamic State (ISIS) swept through the Nineveh Plains, with others slowly rebuilt by Christians returning to the remains of their villages. 
The St Qaryaqous Chaldean Church in Batnaya, 20 kilometers north of Mosul, has not been rebuilt due to a lack of aid.
Najib Batrs' grandfather built the church in 1944. 
"At least 70 percent is destroyed. We can’t rebuild it. It is still in ruins. We ask for someone to rebuild it, be it the international NGOs or the central government," he said. 
ISIS destroyed more than 30 churches in Mosul and 40 across the Nineveh Plains. 
Most Christians fled to the Kurdistan Region as the terror group advanced. 
St George's Chaldean Church, in Tilsqof, was renovated in 2017.
"When ISIS arrived, most churches were either destroyed or burned, or ISIS left insulting graffiti on the walls. When we returned, we started slowly rebuilding them. We rebuilt the sacred sites so they are ready for worship, as a house of God," said priest Karam Najib. 
1.5 million Christians lived in Iraq before 2003. Only 350,000 remain, according to figures provided by Chaldean bishop Najib Mikhael and MP Klara Odisho Yaqub.

Reporting by Naif Ramadhan
Translation and video Editing by Sarkawt Mohammed

23 dicembre 2020

La Chiesa Cattolica in Iraq e il suo recente martirio dal 1958 fino ai giorni nostri. Il Patriarcato di Babilonia dei Caldei e le altre chiese

Maria Grazia Moretti

La Chiesa cattolica in Iraq è parte della Chiesa cattolica universale. E’ formata da Chiese sia di rito latino sia di rito orientale. Il gruppo più rappresentativo che raccoglie i tre quarti di tutti i cristiani iracheni, è costituito dalla Chiesa Cattolica Caldea, il cui capo ha il titolo di Patriarca di Babilonia dei Caldei. 
Esistono inoltre comunità siro-cattoliche, armeno-cattoliche, greco-cattoliche e latine. Le origini della Chiesa Caldea Quando si dice Chiesa Caldea (Caldea regione storica della Mesopotamia) si pensa immediatamente all’Iraq. 
A guidarla c’è il Patriarca Louis Raphaël I Sako, patriarca di Babilonia che ha sede a Baghdad. La Chiesa caldea in Iraq è suddivisa in una arciparchia propria del Patriarca e 7 eparchie, così si chiamano le diocesi di rito orientale. 
La chiesa caldea appartiene alle Chiese cattoliche di rito orientale o Chiese sui iuris orientali: si tratta di Chiese particolari in piena comunione con la Santa Sede che conservano le proprie tradizioni cristiane orientali in merito alla spiritualità, alla liturgia che prevede, ad esempio che la messa – celebrata sia in arabo che in aramaico - sia quasi tutta cantata compresa la lettura del vangelo, a qualche questione teologica, e alla normativa canonica e disciplinare, che le distinguono dalla Chiesa sui iuris latina. I fedeli sono poco più di 600 mila, non solo in Iraq però, perché i Caldei sono presenti in Iran, Siria, Libano, Turchia, Egitto, Stati Uniti, Canada e perfino Australia oltre naturalmente ai molti fedeli caldei in Europa affidati ad un visitatore apostolico (nominato dal Papa per le comunità della diaspora che non hanno una guida o un responsabile appartenente al proprio rito liturgico). 

Dal medioevo al XV secolo
 Cresciuta fin dall’inizio in mezzo alle persecuzioni, ha conosciuto nel Medio Evo uno slancio missionario senza pari, che l’ha condotta dall’Alta Mesopotamia fino al Golfo persico, dall’India alla Cina. 
Origini antiche dunque quelle della Chiesa caldea, di cui si parla per la prima volta nella bolla Benedictus sit Deus promulgata da papa Eugenio IV per sancire l’unione della Chiesa Cattolica con i nestoriani ed i maroniti di Cipro che venivano chiamati con il termine di “caldei” per distinguere i neoconvertiti dalla chiesa d'origine nestoriana. 
L’unione durò poco e molti dei neoconvertiti, già nel 1450 ritornarono al nestorianesimo. Nel 1500 furono gli assiri a cercare nuovamente un dialogo con Roma. 
La Chiesa Assira fu caratterizzata a partire dalla metà del XV secolo da una tradizione di successione patriarcale ereditaria, da zio a nipote introdotta da Simeone IV. Il fatto che una sola famiglia controllasse la sede patriarcale indebolì la Chiesa d’Oriente sul piano intellettuale, spirituale, pastorale e amministrativo, a causa dei contrasti e delle divisioni che si produssero tra i fedeli, soprattutto quando la carica di Patriarca finiva in mano a un ragazzo (di 18 anni, di 15 e financo di 12 anni). 
 Fu proprio il rifiuto di accettare uno di questi patriarchi nel 1552, che spinse un gruppo di vescovi Assiri a rivolgersi a Roma. L’abate Yuhannan Sulaqa venne a tale scopo nominato patriarca, con l’incarico specifico di promuovere questa volontà di unione presso la Chiesa Cattolica. Il riavvicinamento diede i suoi frutti nel 1553, quando Papa Giulio III lo proclamò Patriarca con il nome di Simeone VIII "dei Caldei" e lo ordinò vescovo nella Basilica di San Pietro il 9 aprile di quello stesso anno.
La nuova comunità non ebbe vita facile, lo stesso Sulaqa nel 1555 fu imprigionato e torturato per quattro mesi fino a morire. La Chiesa caldea considera perciò Sulaqa il “martire dell’unione” (1). I cinque vescovi consacrati da Sulaqa elessero come suo successore il monaco ‘Abdisho‘ Marun IV ‘Abdisho‘ (1553-1570), che, recatosi a Roma e ottenuto il riconoscimento di Papa Pio IV, stabilì la sua sede in un monastero presso Seert, dove rimase fino alla morte.
I Patriarchi seguenti rimasero in comunione con la Santa Sede fino al XVII secolo, ma nessuno si recò a Roma per ottenere la conferma papale. Alla fine del Seicento questa linea patriarcale tornò gradualmente alla dottrina tradizionale, di espressione nestoriana, mentre si perdevano i contatti con Roma. Da questa linea discende l’attuale Chiesa assira d’Oriente. 

22 dicembre 2020

Padre Salar Boudagh: un sacerdote caldeo a servizio degli sfollati della Piana di Ninive

By Baghdadhope*

Il Ministero per l'immigrazione e gli sfollati iracheno ha espresso apprezzamento per il lavoro svolto da Padre Salar Suleiman Boudagh, Direttore dell'Ufficio per la Ricostruzione della Piana di Ninive (sezione nord) in sostegno ed assistenza allo stesso ministero per quanto riguarda la chiusura dei campi profughi, il ritorno su base volontaria degli sfollati nella Piana di Ninive e la distribuzione degli aiuti ai bisognosi.
Ministero Immigrazione e sfollati e lettera di apprezzamento per Padre Salar Padre Salar
Foto MOMD
Il Ministro dell'Immigrazione, Evan Faeq Yakoub Jabro, come riportato dal sito del ministero, ha dichiarato che “Padre Salar Suleiman Boudagh ha contribuito al ritorno di 3000 famiglie sfollate alle proprie zone di origine supervisionando personalmente la distribuzione degli aiuti a queste persone, così come quelli consegnati a più di un migliaio di persone del distretto di Alqosh." 
"Un animo nobile" ha continuato il ministro, "Si riconosce nei tempi difficili, ringraziamo lui e la sua squadra perchè hanno riportato il sorriso sui volti degli sfollati e riconosciamo il grande ruolo avuto dalla Chiesa e dai sacerdoti nel loro ritorno alle aree di origine."    

Patriarch Sako: Message of Christmas 2020


Dear Sisters and Brothers,
For the past two decades, we have celebrated Christmas in an insecure condition that continue to worsen significantly in 2020 due to Corona pandemic in an unprecedented way. Moreover, we were obliged to suspend prayers and pastoral activities in our Churches since March 2020 for the safety of our people.

Christmas: Restoring Spiritual Serenity
In the midst of such disturbing situation, we, faithful should focus on the meanings of Christmas rather than on the “appearance” of our celebration, which would be restricted also, because of Corona. However, despite all the circumstances, Christmas remains a source of hope and strength to restore spiritual serenity through our intimate celebration within the family and the Church community based on the real meaning of Christmas, so that the birth of Christ will be in our hearts and our families, filling us with the grace of confidence. Jesus Christ keeps telling us: “Do not be afraid” (Mark 6: 50), and “Behold, I am with you all the days” (Matthew 28: 20). Remembering these words will help us to overcome fear, hold onto our faith and deepen our fraternal relationships.
Christ was born, so we must born in Him and with Him, into another level of life and relationship. The word of God is incarnated in the human nature of Jesus Christ to incarnate in us as well. On the other hand, the birth of Jesus Christ enable us to participate spiritually in the divine life. Let us remember what he said: “But to those who did accept Him and believed in His name He gave them power to become children of God” (John 1:12).
Jesus simply lived a relationship of love and obedience to God and a relationship of love, solidarity, and service with the people. This is what we should meditate on at Christmas, and look for a way to live it on daily life, so that the Word of God fill our hearts and enable us to regain our spiritual purity and sanctify our efforts towards a better future.
This change takes place when the community is united in love and prayers that bring light, warmth, comfort, and helps in generating confidence and enthusiasm to continue walking forward together.

Christmas: to Establish Fraternal Solidarity
Christmas invites us to show solidarity with each other and extend a helping hand to the needy, especially unemployed, and students struggling with Corona pandemic consequences to continue their studies. Let us remember again what Jesus said: “as you did this to one of the least of these brothers of mine, you did it to me” (Matthew 25: 40). Up to-date, the Patriarchate has provided more than $150,000 to help the needy, without distinction.

Christmas: Reconciliation and Achieving Peace
Jesus Christ taught us that God is the Father of all humanity, and that we are brothers of one family. According to this spirit, Pope Francis in his Encyclical “We are all brothers” urged us to be sincere brothers rather than fighting each other. Therefore, Christians and Muslims should leave their differences aside, love and serve each other as family members. Let us join hands as one team to change our situation and overcome these crises and give the priority to our homeland, by mutual respect that consolidate values ​​of coexistence.
We are saddened to say, that Iraq currently is at the “crossroads” facing the most difficult challenge. So, we have either to re-initiate our relations on good principles to rebuild our country on sound rules, or the storm will lead us to the worst!

Sisters and Brothers
Faith, prayer and charitable contributions would prepare us to celebrate Christmas and the new year, so that God may shower our hearts with His graces and blessings. This way, we will gain the strength to overcome the “trial” and enjoy the angels’ hymn of peace on Christmas Eve: “Glory to God in the highest and on earth peace and good hope for human beings” (Luke 2: 14), peace in Iraq and hope for Iraqis.
May our dear Lord grant Iraq and the whole world to live in peace and recover from Corona pandemic. I call you to grab the opportunity of Pope Francis’ visit to Iraq on 5-8 March 2021, by being creative in preparing for such an important event for the sake of our country and the region.
I wish to all of you a very Merry Christmas and a blessed New Year.

Maran Tha, come, Lord Jesus Christ, we need you and we are waiting for you.