"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

31 ottobre 2013

Iraq, nuova strage. Mons. Sako: islam vuole il dialogo per ristabilire la pace


 Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, riceve oggi a Washington il primo ministro iracheno, Nuri al-Maliki, giunto alla Casa Bianca per cercare soluzioni alla più grave escalation di violenza registratosi nel Paese dal 2008 con oltre settemila morti dall'inizio dell'anno. Anche oggi la notizia di almeno 12 persone uccise in attentati condotti tra Baghdad e il nord del Paese. Intanto, l’appello per la pace in Iraq, pronunciato ieri all’Angelus domenicale da papa Francesco, ha suscitato apprezzamento proprio nel Paese del Golfo. Ricordiamo che la Santa Sede ha annunciato l’istituzione di un Comitato permanente di dialogo tra le comunità religiose irachene. Iniziativa, questa, che si affianca alla proposta sciita di aprire un confronto tra le realtà del Paese.
Marie Duhamel ne ha parlato con Sua Beatitudine, Louis Sako, patriarca di Babilonia dei Caldei

"Veramente, è la prima volta che in Iraq questa iniziativa del dialogo viene dai musulmani. Sono loro che hanno chiesto di poter avere un dialogo con la Santa Sede. Il gruppo sciita ha invitato anche alcune autorità sunnite e cristiane. Questa presa di coscienza verso l’importanza del dialogo è molto importante: vuol dire che non c’è soluzione alla crisi attraverso la violenza, la distruzione, la guerra, ma solo il dialogo. Un dialogo equilibrato e capace di aiutare a vedere il bene comune, per realizzare la convivenza tra tutta la comunità, nonostante le diverse appartenenze religiose o etniche differenti. Bisogna rispettare tutti e tutti sono uguali davanti alla Costituzione. Tutti hanno diritto di essere liberi e di essere rispettati. Penso che questi valori debbano essere molto apprezzati".

Duplice attentato in Iraq: 24 morti. Il nunzio a Baghdad: disarmare i terroristi


La violenza in Iraq non ha pause. Ieri un duplice attentato kamikaze è stato sferrato contro i soldati iracheni e i membri delle milizie anti al-Qaeda a Tarmiyah, città a circa 50 chilometri a nord di Baghdad: i morti sono almeno 24. In questo clima, è stato accolto con gratitudine nel Paese l’appello di pace del Papa alla fine dell’udienza generale di ieri. Parole di speranza, ma che racchiudono anche tutto il dramma che sta vivendo l'Iraq, ancora alla ricerca di stabilità.
Per un commento sull'appello del Papa, Salvatore Sabatino ha intervistato mons. Giorgio Lingua, nunzio apostolico in Iraq e Giordania


Bè, innanzitutto, un sentito ringraziamento al Santo Padre per questo appello che mi sembra più che mai opportuno. Infatti, statistiche non ufficiali parlano di circa 7.000 morti dall’inizio dell’anno a causa di attentati terroristici: quindi, c’è veramente bisogno di una maggiore riconciliazione, di pace, di stabilità. Credo che sia stato più che opportuno richiamare l’attenzione, invitare tutti alla preghiera perché non c’è molto che si possa fare se non, appunto, confidare nell’aiuto di Dio.
Qualche giorno fa, in occasione dell’apertura dell’anno accademico dello Studio teologico interdiocesano di Fossano, lei ha presentato un lungo rapporto in cui elenca tutti i pericoli che corre la minoranza cristiana in Iraq, ma invita anche alla speranza. Ecco: qual è il sentimento predominante tra i cristiani in Iraq, la sfiducia o proprio la speranza?
Direi che è difficile parlare proprio di speranza, quando si vede la realtà tragica che ci circonda. La speranza è una virtù, una virtù cristiana che a volte è forse nascosta nel cuore di ogni cristiano; ma mi pare di poter dire che c’è. C’è quando la si vede e quando la si sente nell’ottica della fede. Non c’è speranza se non c’è fede.
La storia contemporanea ci insegna che i cristiani in Iraq sono stati decimati dalle violenze, ma soprattutto dalla paura: moltissimi sono andati via dal Paese. Si può parlare, secondo lei, di persecuzione dei cristiani in Iraq?
In questo momento mi sembra esagerato parlare di persecuzione. Si può forse parlare di discriminazione, ma non è più come negli anni passati in cui erano specificamente oggetto di attentati terroristici: in questo momento stanno vivendo la tragica realtà di tutti i cittadini iracheni, in cui purtroppo non si riesce a porre fine a questi atti di violenza che spesso non sono neppure rivendicati e non si capisce bene quale ne sia la radice e la motivazione.
Quella della comunità cristiana in Iraq è una storia millenaria, risalente addirittura al primo secolo dopo Cristo. Proprio per questa loro presenza storica i cristiani, seppure suddivisi in una grande varietà di confessioni e di riti, sono sempre stati molti rispettati nel Paese. Oggi come vengono visti e che ruolo svolgono?
Mi sembra di percepire un grande apprezzamento nei confronti dei cristiani, per quello che hanno fatto e per quello che sono. E' gente che lavora, gente onesta che ha contribuito e contribuisce al bene del Paese. Purtroppo, essendo un piccolo numero alcune volte un po’ emarginato e un po’ discriminato, è chiaro che si trovano a vivere una situazione difficile e non sempre si sentono apprezzati per quello che hanno fatto e per quello che sono.
Una delle maggiori difficoltà che vive il Paese in generale, quindi non solo la comunità cristiana, riguarda soprattutto la mancanza di sicurezza. Come si vive la quotidianità in un Paese in cui la protagonista assoluta è la violenza?
Alcuni giorni fa si è svolto ad Amman un convegno internazionale di donne cattoliche; partecipava anche una ex ministro irachena, il ministro del’Immigrazione, la dottoressa Pascale Warda. Lei diceva, in un modo molto drammatico, che ogni sera con suo marito ringrazia il Signore perché i figli sono tornati. Questa è la realtà che vivono le famiglie: una grande incertezza e una grande gratitudine a Dio quando vedono tornare i figli la sera.
Lei è convinto che per arrivare a questa tanto sperata normalizzazione si debba creare innanzitutto occupazione, puntare sulla cultura e sul benessere in generale. Il governo ha dimostrato sensibilità in questo senso, ma sicuramente si può fare di più. Cosa?
Senza dubbio, bisogna agire sul disarmo della popolazione, dei gruppi terroristici; avere quindi un maggior controllo del territorio, perché finché non si riesce ad assicurare la pace, ad evitare questi attentati terroristici, c’è poco che si possa fare.
Un’ultima domanda: come vede il futuro per la Chiesa irachena?
Il futuro dipende molto dalla situazione politica. Io ho detto più volte che ho speranza perché credo che il Signore abbia guardato, fin dall’inizio della storia della salvezza, a questo Paese e quindi credo che non se ne sia dimenticato. Quello che il popolo iracheno sta attraversando è una prova che potrà far maturare di più la comunità cristiana e farla ritornare ad una maggiore autenticità evangelica.

30 ottobre 2013

Appello del Papa per la pace in Iraq. Il card. Tauran annuncia la nascita di un comitato interreligioso

By Radiovaticana

Invito del Papa alla preghiera per l’Iraq, teatro di quotidiane azioni violente, cosi come ha sottolineato Francesco al termine dell’udienza generale, prima di salutare una delegazione di rappresentanti di diversi gruppi religiosi iracheni, presenti alla riunione organizzata a Roma dal Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso con le sovrintendenze sciita, sunnita, cristiana, yazida e sabea del Ministero iracheno per gli Affari religiosi.
Il servizio di Roberta Gisotti:

Siete “la ricchezza del Paese” ha detto Papa Francesco ai rappresentanti religiosi iracheni, accompagnati dal cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Dicastero vaticano per il dialogo interreligioso, che ha promosso questo primo incontro tra diversi credi in un Paese non ancora rappacificato ad oltre 10 anni dall’inizio della cosiddetta ‘seconda guerra del Golfo’, che ha causato tra i 100 e i 150 mila morti, un milione mezzo di rifugiati, la fuga di circa la metà dei cristiani, intorno ai 500 mila.
Questo l'appello del Papa:

“Vi invito a pregare per la cara nazione irachena purtroppo colpita quotidianamente da tragici episodi di violenza, perché trovi la strada della riconciliazione, della pace, dell’unità e della stabilità”.

E, un saluto particolare il Papa ha voluto rivolgere anche ai pellegrini iracheni presenti in Piazza San Pietro:
“Quando sperimentate insicurezze, smarrimenti e perfino dubbi nel cammino della fede cercate di confidare nell’aiuto di Dio, mediante la preghiera filiale, e, al tempo stesso, di trovare il coraggio e l’umiltà di aprirsi agli altri. Quanto è bello sostenerci gli uni gli altri nell’avventura meravigliosa della fede! Il Signore vi benedica”.


Ma quali sono stati gli obiettivi e gli esiti della riunione di rappresentanti religiosi iracheni, che si è conclusa stamane con una dichiarazione comune? Lo abbiamo chiesto al cardinale Jean-Louis Tauran:

La riunione aveva come scopo principale la creazione di un ‘Comitato’ - il nome non è ancora deciso - per il dialogo interreligioso, una struttura che abbia degli appuntamenti regolari in modo da favorire questa armonia di cui il Paese ha tanto bisogno. Quindi è una cosa molto importante e pubblicheremo anche un comunicato, dove si parla della nascita di questa nuova struttura di dialogo, perché speriamo che così si capisca che il dialogo interreligioso è anche un bene per l’intera società, perché mettiamo insieme tutto ciò che abbiamo in comune, musulmani e cristiani, a disposizione della società. La religione non è da temere, la religione è una ricchezza!

Quindi una sorta di ‘comitato di saggi’: qual è stato il clima di questa riunione?

Un clima di grande cordialità e di amicizia. Infatti non abbiamo avuto alcun problema per la redazione del comunicato finale. Direi che ciò lascia sperare bene.

I punti salienti di questo comunicato?

Sarà, prima di tutto, l’insistenza sui valori comuni che abbiamo - quindi la famiglia, la scuola, la giustizia, la pace - e poi anche la creazione di questa struttura di dialogo, che si incontrerà alternativamente un anno a Roma e un anno in Iraq.

Questo comitato avrà la possibilità anche poi di interfacciarsi e di dialogare con le autorità politiche e istituzionali?

No, questa è un’altra cosa: rimane una struttura di dialogo interreligioso e non politico.

Sappiamo che la comunità cristiana ha sofferto fortemente e che si è dimezzata in questi dieci anni. Si è parlato anche di questo?

Sì, abbiamo parlato di questo. Ma loro dicono che - e me lo ripeteva anche il capo della delegazione – che tutti questi attentati non sono fatti da iracheni, ma sono fatti da mercenari. Loro dicono: “Noi con i cristiani non abbiamo alcun problema; siamo sempre vissuti assieme”. Insistono molto sul fatto che la violenza non è fatta dagli iracheni, ma viene importata.

Quindi bisognerà lavorare proprio per la riconciliazione umana di questa popolazione
..
Certo, certo! Se non c’è l’amicizia e il rispetto, cosa possiamo fare?

29 ottobre 2013

Iraq: al dicastero per il Dialogo Interreligioso, riunione con le diverse comunità religiose del Paese

By Radio Vaticana

E’ in corso, presso il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, una riunione organizzata dallo stesso dicastero con le Sovrintendenze shiita, sunnita, cristiana, yazida e sabea del Ministero per gli Affari Religiosi della Repubblica dell’Iraq. Lo scopo di tale iniziativa, informa una nota del Pontificio Consiglio, è quello di avviare una collaborazione fra il dicastero vaticano e le comunità religiose irachene nella prospettiva di istituire un Comitato permanente di dialogo.
Il card. Jean-Louis Tauran, presidente, del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, ha aperto i lavori che prevedono una presentazione delle comunità religiose irachene nonché quella del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Si rifletterà, quindi, sull’attuale situazione delle comunità religiose nella Repubblica dell’Iraq e del dialogo fra di loro. L’importante riunione, la prima – conclude il comunicato – offre l’opportunità di approfondire la reciproca conoscenza e di valutare ulteriori prospettive di dialogo. Il 30 ottobre i partecipanti, a conclusione dei lavori, saluteranno Papa Francesco.

28 ottobre 2013

Monsignor Giorgio Lingua: "Cristiani in Iraq tra paure e speranze"

By Baghdadhope*

Baghdadhope pubblica i testo integrali dell'intervento e dell'omelia di Mons. Giorgio Lingua, Nunzio Apostolico in Iraq e Giordania, in occasione dell'apertura dell'Anno Accademico 2013-2014 dello Studio Teologico Interdiocesano di Fossano (CN) l' 8 ottobre scorso.
Un intervento lungo ma puntuale dal punto di vista storico, politico e religioso, che pur elencando tutti i pericoli che corre la minoranza cristiana in Iraq invita alla speranza che essa possa sopravvivere nella terra dove è nata perchè, come dice il Nunzio, le stelle che brillano su di essa sono le stesse che Abramo ha provato a contare e "tutta la storia di amore tra Dio e l’umanità ha avuto inizio lì! Come posso pensare che Dio se ne sia dimenticato?"  

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Care Eccellenza, cari fratelli e sorelle,
come sapete, sono arrivato in Iraq a metà novembre 2010, due settimane dopo il terribile attentato alla Chiesa cattedrale siro-cattolica dove hanno perso la vita 44 fedeli, due sacerdoti, 5 forze dell’ordine e 5 terroristi. Questi avevano fatto irruzione nella Chiesa durante la Messa domenicale della sera tenendo in ostaggio i fedeli per oltre 4 ore. Tra i “martiri” anche un bambino di tre anni che dopo un po’ di tempo i genitori non sono più riusciti a trattenere. Uscito dai banchi, sotto i quali si erano tutti rifugiati, si è rivolto ai terroristi che avevano sparato anche sulle immagini religiose, tra cui un quadro del Sacro Cuore, gridando: “basta, basta, basta, avete rovinato Gesù!”. Anche lui è stato freddato senza pietà.
Il giorno dopo al mio arrivo a Baghdad mi sono subito recato a visitare quella Cattedrale, a duecento metri appena dalla Nunziatura Apostolica. La scena era desolante. Macchie di sangue sulle pareti e persino sul soffitto alto almeno 8-10 metri. Ho incontrato alcuni testimoni che erano rimasti in Chiesa per quelle interminabili 4 ore. Ero colpito dalla loro rassegnazione e dalla loro serenità. Proprio in quel momento, in fondo alla Chiesa, in un battistero semi-distrutto, si stava celebrando il battesimo di un bambino. Mi è sembrata una coincidenza molto significativa: la vita continua, c’è paura, ma c’è anche speranza, mi dicevo.
Il tragico evento, tuttavia, è stato uno schock per la comunità cristiana irachena, in particolare di Baghdad, già fortemente colpita negli ultimi anni.
Solo nella Capitale irachena una ventina di Chiese hanno subito attentati. In un giorno solo, il 1° agosto 2004, ben 5 Chiese sono state colpite in Baghdad ed una in Mossul.  Tra il 2004 e il 2010 una decina di sacerdoti sono stati rapiti, 4 di essi uccisi. Anche un Vescovo, Mons. Boulos Faraj Rahho, Arcivescovo caldeo di Mossul, è morto in mano ai rapitori.
È ovvio che in queste condizioni, che si sommano ad una situazione di disagio e insicurezza generale, molti cristiani se ne siano andati ed altri cerchino di lasciare il Paese.
Nell’Esortazione Apostolica post-sinodale Ecclesia in Medio Oriente, il Papa Benedetto XVI ha sintetizzato bene, con pochi tratti, la realtà migratoria dei cristiani in Medio Oriente: “Mentre per necessità, stanchezza o disperazione, dei cattolici nativi del Medio Oriente si decidono per la scelta drammatica di lasciare la terra dei loro antenati, la loro famiglia e la loro comunità di fede, altri, al contrario pieni di speranza, fanno la scelta di restare nel loro paese e nella loro comunità. Li incoraggio a consolidare questa bella fedeltà ed a rimanere saldi nella fede. Altri cattolici infine, facendo una scelta altrettanto lacerante di quella dei cristiani medio-orientali che emigrano, e fuggendo le precarietà nella speranza di costruire un avvenire migliore, scelgono i paesi della regione per lavorare e viverci” (EMO, 35). Nelle difficili situazioni in cui vivono, il Papa evidentemente non se la sentiva di condannare quanti decidono di partire, ma lodava e incoraggiava “coloro che fanno la scelta di restare”, pensando anche a quanti, mossi da situazioni altrettanto disperate, arrivano in Medio Oriente in cerca di lavoro.  Anche in Iraq è in aumento il numero di cristiani provenienti da paesi poveri in cerca di lavoro. Badanti dalle Filippine, infermiere dall’India, manovali dallo Sri Lanka, etc. Certo, il fenomeno non è ancora particolarmente significativo, ma si registra una tendenza, a cui occorre porre attenzione.

Ma chi sono i cristiani nativi dell’Iraq?

Spesso, quando vengono a studiare in Italia, i sacerdoti e le religiose iracheni rimangono stupiti che qualcuno domandi loro: ma i tuoi genitori, erano musulmani?
I cristiani iracheni sono orgogliosi di essere invece discendenti delle comunità cristiane risalenti al primo secolo dopo Cristo. San Tommaso ha portato il cristianesimo in Iraq, dove è passato prima di recarsi in India e dove ha lasciato due suoi discepoli, Mar Addai (o Taddeo) e Mar Mari che hanno avviato le prime comunità.
Sembra che proprio in Iraq esista la Chiesa più antica del mondo, certamente una delle più antiche, costruita tra il 70 e il 110 dopo Cristo, a Kokhé (secondo le fonti siriache), antica Seleucia-Ctesifonte, come hanno dimostrato anche gli archeologi italiani Invernizzi e Gullini dell’Università di Torino che hanno operato degli studi nel sito nella metà degli anni 60 del secolo scorso.
Elenco rapidamente le chiese più significative per storia e numero di fedeli presenti in Iraq fino al 2003, le chiese cioè che il regime di Saddam Hussein aveva accettato e riconosciuto sul territorio. Non accenno, invece, perché non possiedo dati statistici attendibili, a quelle chiese, soprattutto evangeliche, nate nel paese dopo la caduta del regime e dell’arrivo dall’estero, specialmente dagli USA, di nuovi predicatori, attivi soprattutto nel Kurdistan iracheno dove raccolgono numerosi adepti anche tra i curdi di origine musulmana.

Chiesa Assira dell’Est
Diffusasi in Mesopotamia grazie alla predicazione di San Tommaso nel I secolo, fu dichiarata eretica dopo il concilio di Efeso del 431 quando abbracciò la teoria di Nestorio che si rifiutava di dare alla Vergine il titolo di Madre di Dio, riservandole solo quello di Madre di Cristo. È la seconda chiesa in quanto a numero di fedeli in Iraq ed è guidata dal Patriarca Mar Dinkha IV che risiede a Chicago, negli Stati Uniti d’America, anche se è in costruzione in Kurdistan una nuova sede patriarcale. Chissà che il suo successore non decida di ritornare nella terra di Abramo.

Antica Chiesa Assira dell'Est
Nel 1964 il Patriarca della Chiesa Assira, Mar Shimon XXIII, che già risiedeva negli Stati Uniti, decise di abbandonare l’uso del calendario giuliano a favore di quello gregoriano, che è usato nella chiesa latina. Così, quattro anni dopo, nel 1968 il Metropolita indiano della Chiesa Assira dell’Est, Thoma Darno, si recò a Baghdad dove fu eletto patriarca da chi non aveva gradito quello ed altri cambiamenti apportati dal patriarca negli Stati Uniti. La chiesa fu riconosciuta dal governo iracheno nello stesso anno, e dal 1970 è guidata da Mar Addai II che risiede a Baghdad. Pur essendosi separata di recente, ha comunque assunto il nome di Antica Chiesa Assira dell’Est perché è ritornata all’uso del calendario antico, quello giuliano. Nel 2010, tuttavia, anche questa Chiesa ha anticipato il Natale al 25 dicembre, secondo la tradizione latina del calendario gregoriano, mentre ancora celebra la Pasqua secondo il calendario giuliano.

La Chiesa Caldea
Anche la chiesa caldea si è separata dalla Chiesa Assira dell’Est. È nata, infatti, nel 1551 quando alcuni vescovi e fedeli in contrasto con la pratica della successione ereditaria del Patriarcato (zio–nipote), allora in uso, decisero di unirsi a Roma. È la più diffusa in Iraq (tra il 60 e il 70% dei cristiani sono caldei). Dal febbraio scorso è guidata dal patriarca Louis Rapahël I Sako, che è succeduto al Card. Emmanuel III Delly nominato patriarca di Babilonia dei Caldei nel 2003. In Iraq ha 7 diocesi ed è presente in Iran (2 diocesi), in Siria, in Libano, in Australia, negli Stati Uniti (2 diocesi), in Canada e in Europa, dove un Amministratore patriarcale segue i numerosi caldei emigrati recentemente. Svezia, Germania e Olanda sono i Paesi che hanno accolto il maggior numero di cristiani caldei.
Un grande contributo allo sviluppo della Chiesa caldea è stato dato dai monaci di Sant’Ormisda, passati in blocco dalla Chiesa Assira dell’Est all’unione con Roma. Attualmente hanno soltanto una quarantina di monaci, con un convento anche in Italia, a Roma, dove si recano per gli studi. Sono arrivati a contare fino a 500 monaci, soprattutto nel monastero scavato nella roccia nei pressi di Alquosh, dove si era ritirato il fondatore S. Ormisda in una vita di preghiera e penitenza. La Chiesa caldea ha poi due congregazioni religiose femminili di vita attiva, che si dedicano soprattutto all’educazione e alla catechesi: le Figlie di Maria Immacolata e le Figlie del Sacro Cuore.

La Chiesa Armena cattolica e Armeno ortodossa o chiesa armena apostolica
Gli armeni che vivono in Iraq sono i discendenti degli armeni fuggiti o forzatamente deportati dall’Armenia dopo il 1915 a causa delle violenze perpetrate dal regime dei Giovani Turchi. La Chiesa armena si ispira alla figura di San Gregorio l'Illuminatore che ha cristianizzato l'Armenia nel III secolo. San Gregorio convertì il re di Armenia che fece del cristianesimo la religione di stato. Vi sono due diocesi armene in Iraq, una cattolica ed una ortodossa o apostolica.

La Chiesa Avventista del Settimo giorno
All’inizio dell’800 negli Stati Uniti il battista William Miller, colpito dalle "profezie" del libro di Daniele, annunciò la prossima venuta del Signore tra il 1843 e il 1844. Nonostante il fallimento della previsione, l’attesa dell’evento diede origine a molti raggruppamenti, presto strutturati, tra cui la Chiesa Avventista del Settimo Giorno.

La Chiesa Cattolica latina
La presenza di una chiesa latina in Iraq, sebbene risalente a tempi ben più antichi, soprattutto grazie ai Padri domenicani e carmelitani, al giorno d’oggi è principalmente legata alla presenza di missionari e altri cattolici romani arrivati nel paese nel periodo che ha preceduto la guerra contro l’Iran (1980 – 1988).
Sono attualmente presenti in Iraq, come congregazioni di rito latino maschile: i Padri Redentoristi, i Domenicani, i Carmelitani, i missionari del Verbo Incarnato e i Rogazionisti. Per quanto riguarda le congregazioni religiose femminili, vi sono le Suore Francescane Missionarie del Cuore Immacolato di Maria; le Suore Domenicane della Presentazione della Vergine di Tours, che fra l’altro gestiscono l’Ospedale di San Raffaele a Baghdad; le Suore Domenicane di S. Caterina da Siena, anche queste hanno un ospedale a Baghdad e ne stanno costruendo uno a Quaraqosh; le Piccole Sorelle di Gesù, e le Missionarie della Carità che, lavorando secondo il carisma di Madre Teresa di Calcutta, si occupano dei bambini portatori di handicap. A breve aprirà anche una casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi e ora guidata, come sapete, dal nostro con-diocesano Paolo Ramonda.

Copta ortodossa
La Chiesa Copta fu fondata grazie alla predicazione di San Marco che portò il cristianesimo in Egitto nel I secolo. Vi erano molti lavoratori egiziani in Iraq, ma la maggior parte sono rientrati nel loro paese dopo la caduta di Saddam. Rimane ora una piccola comunità con un Parroco residente. È in costruzione a Baghdad una nuova chiesa per questa comunità.

Chiesa Greco ortodossa
La chiesa greco ortodossa, che ruppe ogni contatto con quella cattolica al tempo dello scisma del 1054 e della rispettiva scomunica del Papa Leone IX e del Patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario, è divisa in Medio Oriente in 4 patriarcati (Alessandria, Damasco, Gerusalemme ed Istanbul). La chiesa greco ortodossa in Iraq dipende dal patriarca arabo Youhanna X, titolare della chiesa di Antiochia, la cui sede è a Damasco, fratello di uno dei due vescovi sequestrati ad Aleppo e tuttora in mano ai rapitori.

Chiesa Melkita
Con il termine melchita si designano i cristiani di rito bizantino dei patriarcati di Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemme. Oggi, nell'uso comune, il termine «melchita» è attribuito ai soli cattolici di rito bizantino e di lingua araba, dovunque risiedano. La comunità melkita irachena ha una sola parrocchia a Baghdad, con poche decine di famiglie, affidata alla cure pastorale di un religioso redentorista belga.

La Chiesa siro ortodossa
Conta in Iraq circa 50.000 fedeli, presenti nelle diocesi di Baghdad, Mosul e Mar Matta, la grande parte dei quali è costituita da ex-profughi provenienti dalle province meridionali della Turchia. I siro-ortodossi sono quei cristiani orientali che non accettarono il concilio ecumenico di Calcedonia, che condannava il monofisismo (in Gesù ci sarebbe soltanto la natura divina, che assorbe quella umana) (451).

La Chiesa Siro cattolica
È nata nel 1662 per la scissione dalla chiesa siro ortodossa, ed è oggi diffusa in Medio Oriente e nella diaspora. La sede patriarcale è a Beirut ed il Patriarca, Sua Beatitudine Mar Ignatius Joseph Younan III, ha il titolo di Patriarca di Antiochia dei Siri. In Iraq le diocesi siro cattoliche sono due: Baghdad e Mosul. L’attentato di cui parlavo all’inizio ebbe luogo proprio nella Cattedrale siro cattolica di Baghdad.
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I cristiani iracheni sono quindi in gran percentuale i discendenti dei più antichi popoli abitanti la mesopotamia, sumeri, accadi, assiri e babilonesi in particolare e sono tra le più antiche comunità cristiane nel mondo.
La maggior parte di loro parla un dialetto derivante dall’aramaico, il sureth, conosciuto comunemente come “cristiano”, tant’è che si dice che uno parla “cristiano” quando si esprime in dialetto sureth. In un villaggio del nord dove vivono cristiani e musulmani mi dissero: questi musulmani sono buoni, parlano perfino cristiano!
La lingua liturgica delle denominazioni cristiani maggioritarie (caldei, siri, assiri, di cui sopra) è il siriaco, anch’esso derivante dall’aramaico, in due versioni, quella orientale, usata dalla Chiesa dell’Est e dalla Chiesa caldea e quella occidentale, usata dai siro cattolici e siro ortodossi.

Riflessioni sulla situazione attuale.
Il 9 febbraio 2010 i capi religiosi delle Chiese cristiane presenti in Iraq hanno istituito il “Consiglio dei capi delle comunità cristine in Iraq”, allo scopo di creare una linea unitaria cristiana soprattutto per trattare con le autorità politiche.
I cristiani iracheni, infatti, come ho cercato di esporre, sono suddivisi in una grande varietà di confessioni e riti, che formano un bel mosaico variopinto. Questa bellezza ne costituisce però, allo stesso tempo, anche la debolezza. Non raramente, infatti, la diversità rischia di diventare competizione e, inoltre, all’interno di uno stesso ‘colore’, diciamo così, ci sono tante tonalità diverse, non sempre in armonia. Dire quanto questa frammentazione incida sulle difficoltà che attraversano queste chiese è difficile e non penso affatto che quanto hanno subito e, a volte, ancora subiscono sia da riportarsi alle divisioni interne. Una cosa però credo: che bisogna distinguere negli avvenimenti dolorosi che accadono o sono accaduti una causa prima ed una causa remota. In un attentato, ad esempio, la causa prima è il gruppo terroristico che ci sta dietro con i suoi obiettivi, la sua agenda, che può essere la partenza dei cristiani da Mossoul o Baghdad. Ma c’è una seconda causa, remota, che bisogna considerare. Credo che nulla, infatti, succede a caso, ma tutto si svolge sotto lo sguardo d’amore di Dio, persino il male che Lui permette. Occorre domandarsi, dunque, quale il messaggio vero, dall’alto, ci sta dietro. Se credo veramente nell’amore di Dio e nella sua onnipotenza (che potrebbe anche fermare la mano ad un attentatore…) devo pensare che dietro una sua permissione c’è un messaggio di salvezza, come dietro la morte in croce di Gesù c’era. E allora occorre domandarsi: cosa vuol dire Dio ai cristiani dell’Iraq oggi? a quelli di Baghdad, o di Mossoul?
E qui penso che una risposta la possiamo trovare nel Messaggio finale del Sinodo sul Medio Oriente. Lì si dice che prima esigenza di queste Chiese Orientali -  in questo momento parliamo di quella irachena - è proprio la comunione. Per me è chiaro che dietro le prove che attraversano queste chiese c’è l’appello di Dio alla comunione. Trovo molto significativo, parlando con i Vescovi iracheni, che tutti ritengono che sia urgente ed indispensabile una maggior comunione tra di loro. Questo è il primo passo da fare: prendere coscienza delle proprie divisioni, riconoscerle, per poi cercare le piste di comunione, il che non è facile perché non tutti hanno le stesse idee, le stesse strategie, le stesse priorità, gli stessi metodi, le stesse risposte, le stesse sensibilità. Su questo c’è molto da lavorare. Personalmente ritengo che la prima cosa da fare sia quella di cominciare dalla stima reciproca: “gareggiate nello stimarvi a vicenda”, secondo l’esortazione di San Paolo ai Romani. L’ho detto più volte e non mi stanco di ripeterlo, anche perché tanti anni di violenze interetniche tra gruppi che erano abituati a tollerarsi e che di colpo si trovano a combattersi, ha portato e continua ad alimentare tanti sospetti: non ci si fida più dell’altro.

È possibile fermare la fuga dei cristiani dall’Iraq?
Va detto innanzi tutto che il problema numero uno oggi mi pare sia quello della sicurezza. La signora cristiana che fa le pulizie in Nunziatura era intenzionata a partire per l’America. Avendo trovato difficoltà nel reperire un visto che le permettesse di uscire si era rassegnata a rimanere a Baghdad. A fine maggio scorso un’auto bomba scoppiata vicino al palazzo in cui abita ha gravemente danneggiato il suo appartamento, che in parte è andato in fiamme. Come volete che possiamo convincerla a rimanere? È ovvio che ora ripensi ad andarsene. Credo che bisogna lavorare molto sul disarmo della popolazione e su un maggior controllo delle frontiere. Troppe armi sono in circolazione e, purtroppo, le armi sono fabbricate e poi comprate per essere usate. Il conflitto in Siria ha evidentemente influito sull’aumento degli attentati in Iraq. Nel solo mese di maggio scorso oltre 1400 iracheni hanno perso la vita in attentati terroristici, il mese più violento dal 2008, e a settembre si è superata la cifra dei 1000 morti. Le armi se circolano prima o poi vengono usate. E quando diventano vecchie si vendono a prezzo inferiore, ma rimangono letali!
In secondo luogo penso che occorra creare posti di lavoro, eventualmente attraverso una azione positiva di favoreggiamento o di quote per le minoranze, anziché, come in certi casi succede, di discriminazione. Va dato atto al Governo che ha dimostrato sensibilità in questo senso. Ma si può fare sempre di più.
Terzo. Mi pare importante un’opera di educazione alla tolleranza ed un lavoro di formazione nelle scuole, soprattutto nei libri di storia adottati che, mi dicono, trascurano quasi del tutto la storia pre-islamica in questo Paese, che pure è ricchissima. Tutte le minoranze, cristiane e non, come gli yezidi, i sabei e i mandei, sono ben anteriori all’arrivo dell’Islam.
Mi pare un segno positivo il fatto che alcuni intellettuali sciiti della città di Najaf abbiano chiesto l’intervento del Vaticano per esplorare oltre 70 siti archeologici cristiani nei dintorni di quella città. Uno di questi ho avuto la fortuna di visitarlo pure io. Riscoprire le radici della propria storia anziché nasconderle può contribuire ad una maggiore tolleranza.
Infine, vorrei accennare alla proposta dei parlamentari cristiani (sono in 5 nel parlamento iracheno, più un Ministro, quello dell’ambiente) i quali stanno spingendo per la creazione di una nuova provincia nella piana di Ninive, dove i cristiani e le altre minoranze potrebbero autogarantirsi la sicurezza e facilitare lo sviluppo della regione. Su questo punto vorrei fare alcune precisazioni. Occorre premettere che ogni iracheno deve aver il diritto di vivere in pace e sicurezza in ogni punto del Paese e deve poter scegliere liberamente dove installarsi e lavorare. Se nel contesto attuale, però, la creazione di una nuova provincia, può offrire a chi intende lasciare il Paese, per ragioni diverse, una opportunità di fermarsi, ben venga, ma occorre tener ben presente che:
    - non deve essere una provincia ‘cristiana’, nel senso di una ‘riserva’ per cristiani, come troppe volte è stata presentata dai media occidentali e interpretata anche da alcuni iracheni;
    - non siamo di fronte ad un problema matematico dove, dati alcuni presupposti, si può trovare una soluzione definitiva e certa. Siamo nel campo di tentativi per rispondere ad una emergenza, dove nessuno può prevedere tutti i vantaggi e tutti gli inconvenienti;
    - ciò che è bene per qualcuno, non deve danneggiare altri, altrimenti non è una buona soluzione, diventa discriminatoria;
    - si tratta di una una questione politica, la cui decisione spetta in primo luogo ai cittadini, che dovranno esprimersi democraticamente tramite referendum.

Cosa possono fare i cristiani, in particolare, per fermare questa fuga?
Per quanto riguarda i cattolici iracheni, penso che debbano sentire la presenza come una missione e sviluppare scuole, investire in educazione e mezzi di comunicazione sociale, testimoniare la carità, sollecitare la solidarietà internazionale e gli investimenti soprattutto nelle zone con un’alta percentuale di cristiani: in questo momento sono particolarmente urgenti investimenti nel campo immobiliare.
Qualcosa si sta muovendo in questo senso. Ne sono eloquente esempio i due ospedali in costruzione, uno ad Erbil e l’altro, come già accennato, a Quaraqosh; una Università, sempre ad Erbil; la restituzione di molte scuole confiscate ai cristiani dal precedente regime a Parrocchie e Congregazioni religiose, etc…
Per quanto riguarda la Chiesa universale, molto è stato fatto con la convocazione del Sinodo sul Medio Oriente e la successiva Esortazione Apostolica.
La preghiera, ovviamente, ed il ricordo, l’organizzazione di conferenze per conoscere meglio la realtà, i viaggi in Iraq (per il momento, purtroppo, è consigliabile soltanto al nord, in attesa di maggior sicurezza nel resto del Paese) per esprimere la solidarietà e studiare insieme eventuali progetti.
Certo non bisogna farsi illusioni e tener presente che non è facile capire la realtà. Chi, per secoli, si è sentito trattato come “protetto” o “tollerato”, difficilmente si fida delle buone intenzioni dei musulmani, che pure, a mio avviso, ci sono. Al contrario, chi non ha subito torti tende a vedere il positivo anche dove si nasconde una trappola.
La differenza di approccio che esiste tra chi è cresciuto in contesto islamico e chi invece, pur conoscendo bene il mondo musulmano, lo ha “scelto” piuttosto che “subìto” è notevole. Un esempio, tratto dalla realtà giordana, in molti aspetti simile a quella irachena. Un brasiliano che vive ad Amman da tanti anni mi ha invitato a cena a casa sua. Al termine mi fa vedere dal balcone della sua casa, entrambi ben illuminati, un campanile ed un minareto molto vicini, dicendomi entusiasta: “guarda che bel segno, sembra che si abbraccino!”. In quel momento arriva un altro ospite, un sacerdote egiziano, quindi cresciuto in un ambiente ben diverso da quello brasiliano, il quale subito, spontaneamente, commenta: “ecco, ogni volta che facciamo una chiesa, devono metterci davanti una moschea!”. La stessa realtà, due interpretazioni alquanto diverse. Credo importante fare attenzione a non lasciarsi condizionare dalle apparenze, a non esprimere giudizi affrettati né in un senso né nell’altro.

Si può parlare di persecuzione dei cristiani in Iraq?
Onestamente credo che si possa dire che in questo momento non c’è persecuzione vera e propria. Ci sono, certo, fenomeni di discriminazione, come spesso avviene nei confronti delle minoranze, in tutti i Paesi del mondo, nei confronti, cioè, di chi non ha la forza o il peso politico ed economico per difendere i suoi diritti.
Ci sono, senza dubbio, alcune norme che andrebbero riviste, come la questione dei figli minorenni di persone che si convertono all’Islam che devono abbracciare la religione dei genitori.
È praticamente impossibile, inoltre, per un musulmano diventare cristiano e questo è intollerabile, è indice di mancanza di libertà religiosa e di coscienza. Vi consiglio di leggere, a questo proposito, un libro molto interessante, “Il prezzo da pagare”, di Joseph Fadelle, pubblicato in Italia dalla San Paolo. Figlio di una delle più importanti famiglie di Baghdad, Joseph ha pagato con l’esilio, dopo tentativi di tortura e persino di uccisione, la sua conversione al cristianesimo.
Oggi come oggi, nella maggior parte dei casi in cui i cristiani sono oggetto di atti violenti, mi sembra che si tratti piuttosto di fenomeni tipicamente mafiosi, che sfruttano l’integralismo religioso - e fioriscono in un contesto di mancanza di sicurezza - per portare avanti disegni criminali. Diverse possono essere le ragioni, come molteplici sono gli scopi del terrorismo. Tra questi citerei, senza entrare nei dettagli: indebolimento del Governo, controllo del territorio, ignoranza religiosa, sentimenti anti-occidentali, mercato immobiliare, etc.

Quale futuro per la Chiesa irachena?
Personalmente sono ottimista. Quando guardo quel cielo e provo a contare le stelle che vi brillano e penso che è lo stesso cielo che ha visto Abramo, sono le stesse stelle che lui ha provato a contare, mi commuovo. Tutta la storia di amore tra Dio e l’umanità ha avuto inizio lì! Come posso pensare che Dio se ne sia dimenticato? Credo che per il cristiano iracheno la fede in Dio che aveva mosso Abramo, la fede nel Suo amore, non si possa discutere. Per questo sono ottimista. Direi che “fede” e “missione” sono le due caratteristiche tipiche dei cristiani iracheni. Basta leggere la testimonianza dell’Arcivescovo maronita di Damasco circa i cristiani iracheni rifugiatisi in Siria alcuni anni fa, prima, ovviamente, che scoppiasse il conflitto nella Siria stessa. Sembra di leggere una pagina della lettera a Diogneto e invece si riferisce ai cristiani iracheni di oggi, ancora erranti come loro Padre Abramo, sempre credenti come lui: “riempiono le nostre chiese – cito dalla testimonianza di detto Arcivescovo -, rendono dinamiche le nostre parrocchie e rafforzano la fede cristiana in Siria portando un soffio nuovo alle nostre parrocchie… nonostante la loro povertà e la loro condizione di vita precaria, sono generosi e sanno condividere. Bisogna vederli all’uscita delle Messe offrire e donare con gioia, sorrisi e lacrime… questi rifugiati iracheni che sono soltanto di passaggio a Damasco sono missionari ambulanti che hanno segnato la chiesa di Siria che li guarda passare e si interroga sul proprio avvenire...”. Il rischio sarebbe lasciarsi vincere dal pessimismo e pensare che soltanto ‘altrove’ si possa continuare a vivere la propria fede e la propria missione. Se si tagliassero le radici, anche i virgulti che vengono esportati perderebbero presto la loro vitalità con lo smarrimento della loro identità.

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STI, inaugurazione anno accademico 2013-2014
Omelia

Arrendersi. Sperare. Discernere.
Arrendersi alla chiamata di Dio.
Sperare nella Sua misericordia.
Discernere la Sua volontà.


Arrendersi.
Giona ascolta l’invito di Dio ad andare a predicare a Ninive. Ma lo fa dopo essere scappato. Ha tentato di fuggire da Dio, ieri il Papa nella quotidiana omelia a S. Marta ha commentato: “Siccome «non voleva essere disturbato, con il metodo di vita che lui aveva scelto, nel momento in cui ha sentito la parola di Dio cominciò a fuggire. E fuggiva da Dio». Così quando «il Signore lo invia a Ninive, lui prende la nave per la Spagna. Fuggiva dal Signore». In fin dei conti, ha spiegato il Pontefice, Giona si era già scritto la propria storia: «Io voglio essere così, così, così, secondo i comandamenti». Non voleva essere disturbato. Ecco la ragione della sua «fuga da Dio». Una fuga, ha messo in guardia il Papa, che può vedere protagonisti anche noi oggi. «Si può fuggire da Dio — ha affermato — essendo cristiano, essendo cattolico», addirittura «essendo prete, vescovo, Papa. Tutti possiamo fuggire da Dio. È una tentazione quotidiana: non ascoltare Dio, non ascoltare la sua voce, non sentire nel cuore la sua proposta, il suo invito». (Omelia a S. Marta, 7 ottobre 2013)

Finalmente, dopo le peripezie della fuga che ben conosciamo con la tempesta e il pesce che lo inghiotte, si “arrende” a quella voce e accetta di obbedire e di andare a Ninive. I niniviti si convertono e cambiano vita, in modo sorprendente, inaspettato.
Quando ascoltiamo la voce di Dio, quando obbediamo alla sua chiamata, facciamo miracoli. Molti dei presenti hanno sentito la chiamata, si sono arresi, magari dopo tentennamenti e dubbi, dopo rifiuti e tentativi di fuga, alla Sua voce. Ricordate che farete miracoli nella misura in cui saprete “arrendervi”. Occorrerà “arrendersi” sempre, non una volta sola. Mi piace parlare di “arrendersi”, perché significa che c’è una lotta, perché non è facile obbedire subito. Spesso quella voce cozza con i nostri progetti, i nostri desideri. Arrendersi è stato l’atteggiamento di Maria, dopo il colloquio con l’angelo: “Avvenga di me secondo la tua parola”.
Origene applicando a sé stesso queste parole di Maria scriveva: “Io sono un foglio bianco, dove lo scrittore può scrivere ciò che vuole. Faccia di me ciò che vuole il Signore dell’universo”.
Nell’omelia di ieri al Santuario di Nostra Signora del Rosario di Pompei, il Sostituto della Segreteria di Stato, S.E. Mons. Angelo Becciu, così commentava questa citazione di Origene: “Anche noi vorremmo essere un foglio bianco, sul quale Dio possa scrivere quello che vuole, certi che quando lui scrive compone sempre un capolavoro. Non dobbiamo pensare che dire sì a Dio, obbedire a lui, significhi annullare la nostra persona e diventare schiavi. Al contrario, seguire Dio ci fa liberi, perché così si realizza il suo disegno su noi, pensato fin dall’eternità, e molto più bello e grande di quello che noi potremmo pensare per noi stessi”.
“Arrendersi” alla voce di Dio non è segno di sconfitta, è inizio di una vera liberazione, liberazione dall’uomo vecchio per essere creature nuove.

Sperare.Nel percorso intrapreso dopo aver ascoltato, dopo essersi arresi alla Sua voce, ci possono essere delle cadute, dei fallimenti. Si può sprofondare nell’abisso del peccato, essere inghiottiti dall’uomo vecchio. Abbandonare il cammino. È l’esperienza del salmista: “Dal profondo a te grido, Signore…” implora dopo essere sprofondato nel peccato. E poi aggiunge: “io spero nel Signore, l’anima mia spera nella sua parola”. Perché spera? Perché crede che “presso il Signore è la misericordia, grande presso di lui la redenzione”. Chi crede all’amore di Dio non perde mai la speranza, ricomincia sempre. Chi non sa ricominciare è perché dubita del perdono, della misericordia di Dio. Ma la Sua misericordia è inesauribile.
Sperare dunque, sempre, perché “la sua misericordia si stende di generazione in generazione su quelli che lo temono”.

Discernere.
“Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta” (Lc 10, 41-42).
Il rimprovero di Gesù a Marta può ben essere rivolto a ciascuno di noi. Anche noi molte volte ci affanniamo e ci agitiamo per molte cose. Perché? Perché non sappiamo discernere l’essenziale dal secondario, ciò che è necessario da ciò che è superfluo, la volontà di Dio dalla nostra volontà.

C’è una differenza fondamentale tra “le molte cose” che preoccupavano Marta, e “l’unica cosa” di cui c’è bisogno, che aveva scelto Maria.
Abbiamo spesso molte cose da fare, molte di queste ci rendono affannati, ci agitano: gli studi, gli impegni pastorali, l’assistenza agli altri, ai poveri in particolare, per chi è sposato l’educazione dei figli… Non sono tutte cose buone? Non è bene dedicarsi con passione e intensità a queste cose? Il problema non sta nelle cose che facciamo, ma nel fatto che “ci affanniamo e ci agitiamo” per esse. “Affannarsi e agitarsi” significa dimenticare che Dio non ci chiede di fare due cose nello stesso momento, come se non ci desse il tempo sufficiente e la forza necessaria per fare quello che vuole da noi. Ci affanniamo e ci agitiamo quando, anziché concentraci nel compiere la volontà di Dio, vogliamo fare la nostra. Se ci sembrano sempre tante le cose da fare, è perché non sappiamo discernere, dimentichiamo che una cosa sola è necessaria. Quale? Fare quello che Dio vuole da noi nel momento presente. “Le molte cose”, sono le nostre piccole volontà, “l’unica cosa”, è la Sua volontà. Da questo punto di vista, il bene che non è volontà di Dio diventa male.
Ma non era forse cosa buona anche preparare il pranzo per Gesù? Non aveva ragione Marta chiedendo a Maria di aiutarla per poi, insieme, mettersi all’ascolto di Gesù?
Dando ragione a Maria, Gesù vuole avvertire Marta che nelle cose, per quanto buone e importanti, c’è una priorità e la priorità assoluta è ascoltare la Parola di Dio, per capire quello che Lui effettivamente vuole da noi. Senza ascolto della Sua parola non possiamo discernere l’essenziale dal superfluo, ciò che è prioritario da ciò che è secondario. Tante volte in quello che facciamo siamo preoccupati della bella figura, di non deludere le aspettative del prossimo, in realtà la ragione ultima del nostro impegno non è l’amore per gli altri, ma l’amore per noi stessi, la tentazione di fare bene le cose per dimostrare che siamo bravi. Per discernere quello che Dio vuole da noi dobbiamo liberarci da ogni attaccamento a noi stessi, è necessaria una grande umiltà.

Chiediamo alla Madonna che ci insegni ad arrenderci, a sperare e a discernere.
Maria, che hai detto: “Avvenga di me secondo la Sua Parola”, insegnaci ad “arrenderci” alla voce di Dio, Maria che hai detto: “di generazione in generazione la Sua misericordia si stende su quelli che lo temono”, insegnaci a “sperare” sempre nella Sua misericordia, Maria che hai detto: “fate quello che vi dirà”, insegnaci a “discernere” la Sua volontà su di noi ogni momento della nostra vita. Amen.

Iraq, scia di sangue. "Vanno fermate le violenze settarie di sciiti e sunniti"

By SIR
Daniele Rocchi

Il patriarca caldeo Sako, dopo una domenica di sangue, ribadisce l’impegno per la riconciliazione nazionale. La sua analisi: "Stiamo assistendo ad una lotta di potere che ha una valenza regionale, interessando la Siria innanzitutto, e l’Egitto. Alcuni Paesi del mondo arabo non hanno interesse a che queste crisi cessino. Hanno paura che da questi conflitti possano uscire poteri democratici che li costringerebbero a venire incontro alle naturali richieste di diritti dei loro popoli."
È di 61 morti il bilancio di una domenica di attentati e violenze in Iraq, dove nella capitale, Baghdad, nove bombe sono esplose in otto quartieri a maggioranza sciita. Il Paese è sempre più preda della violenza settaria, tra sciiti e sunniti. Si calcola che dall’inizio dell’anno siano morte oltre 7mila persone. Gli oppositori armati sfruttano la rabbia crescente della minoranza sunnita che si sente messa in disparte dal Governo guidato dallo sciita Nuri al Maliki. Le relazioni tra le due comunità sono state ulteriormente segnate dalla guerra in Siria. L’Iraq, infatti, insieme all’Iran è impegnato a sostenere il presidente siriano Bashar al Assad contro la rivolta armata che si sta trasformando sempre più in una corsa al potere dominata da gruppi qaedisti, islamisti e da mercenari al soldo di Paesi stranieri, apparentemente estranei alla causa siriana. Di questa nuova ondata di violenza il Sir ne ha parlato con il patriarca caldeo di Baghdad Louis Raphael I Sako.
 
Patriarca, l’Iraq sembra di nuovo sprofondare nella violenza settaria che mette di fronte sciiti e sunniti. Ieri numerosi attentati dinamitardi con oltre 60 morti…
“Un fatto davvero triste. A perdere la vita sono tutte persone innocenti. Questo conflitto settario non fa altro che aggravare una situazione già molto difficile ed allontana la possibilità di una soluzione che garantisca stabilità e sicurezza. Il Governo è incapace di controllare il territorio e di proteggere la popolazione. Per fare ciò serve un esercito professionale e forze di polizia preparate. Stiamo assistendo ad una lotta di potere tra sciiti e sunniti che non riguarda solo l’Iraq ma ha una valenza regionale, interessando la Siria innanzitutto, e l’Egitto. Ci sono, poi, alcuni Paesi del mondo arabo che hanno interesse a che queste crisi non cessino. Hanno paura che da questi conflitti possano uscire poteri democratici che li costringerebbero a cambiare per venire incontro alle naturali richieste di diritti dei loro popoli”.
Lei ha sempre sostenuto che uno strumento necessario per dirimere la crisi interna irachena, e non solo, è la riconciliazione. Già quando era arcivescovo a Kirkuk ha lavorato in questa direzione. Ma dopo tutta questa violenza ha ancora senso parlare di riconciliazione? Non servirebbe di più una forte azione politica?
“I problemi non si risolvono senza un dialogo serio. Io sono convinto che gli iracheni da soli siano in gradi di giungere ad una riconciliazione nazionale. Purtroppo a minare questa determinazione sono potenze regionali che sostengono tutti quei gruppi armati che seminano terrore in Iraq. Chi fornisce loro le armi? Chi li finanzia? Chi c’è dietro di loro?”.
Domande che calzano a pennello anche per la situazione siriana. Iraq e Siria stanno andando insieme verso la disgregazione?
“Siamo davanti allo stesso scenario. Ripeto: ci sono Paesi democratici che finanziano e sostengono gruppi ribelli armati invece di promuovere il negoziato tra le parti. Le riforme si fanno con il dialogo e non con le armi. La soluzione è e deve restare politica, non militare”.
Lo scontro confessionale tra sciiti e sunniti potrebbe modificare anche l’assetto futuro dell’Islam?
“Se lo scontro continua sarà un grosso guaio per entrambi. La maggioranza della popolazione irachena non vuole questo conflitto, non lo comprende, non lo accetta. Essa cerca la convivenza al contrario degli estremisti che fomentano la divisione e l’odio. Vogliamo riforme democratiche ma queste si ottengono formando le coscienze, preparando le persone. La democrazia non si esporta, come pensavano di fare le potenze occidentali, facendo la guerra”.
Un processo ampio di riforme, basato sul diritto e la libertà, potrebbe essere, dunque, il modo giusto per disinnescare le violenze settarie e creare democrazia, non solo in Iraq ma anche nella Regione?
“Io credo che si debba parlare di laicità positiva che non si pone contro la religione. Non ci deve essere una religione di Stato che potrebbe preludere a delle discriminazioni verso le minoranze, qualunque esse siano. Laicità positiva e cittadinanza: siamo tutti cittadini, con eguali diritti e doveri, senza distinzioni di classe, di religione, di etnia. Non ci sarà così più maggioranza e minoranza”.
Purtroppo almeno per i cristiani iracheni, e non solo, questo sembra essere un orizzonte ancora troppo lontano…
“Per il momento il futuro dei cristiani in Medio Oriente è oscuro. Vanno per questo motivo sostenuti a restare nelle loro terre. Magari attraverso dei gemellaggi tra comunità ecclesiali, parrocchie. Non è questione di denaro ma di sostegno umano e spirituale. La loro presenza è importante perché sono capaci di relazioni, di apertura mentale, fattori apprezzati ed importanti anche per i musulmani. La fuga dei cristiani dalla regione sarebbe una grave perdita anche per l’Islam, quello vero, non certo quello propugnato dai gruppi fondamentalisti armati”.

Faith in the Time of Persecution

Amel Shamon Nona, Archbishop of Mosul (Iraq)

How can we live our faith in a time of great difficulty?
What can we do for those who are persecuted because of their faith?
To ask these questions means above all questioning ourselves about the meaning of our faith. In order to be able to speak about the time of persecution, Christians must really know their own faith.
In 2010, when I was appointed Chaldean bishop of Mosul, I knew that I would be coming to a city facing an extremely critical situation with regard to security. Many Christians had already been killed, and many had been forced to leave the diocese. Brutal violence took the life of a priest, as well as that of a bishop, my predecessor: Both were murdered in extremely gruesome fashion.
I came to Mosul on January 16, 2010. The very next day, a series of reprisal murders of Christians began, starting with the killing of the father of a young man who was praying with me in church. For more than ten days, extremists continued to kill, one or two people each day. The faithful left the city to seek refuge in the small towns and villages nearby, or in the monasteries.
Since then almost half of the faithful have returned. What can we do for these people? What can one do for those who are living the difficult life of persecution?
These questions tormented me, forcing me to reflect on the right path to follow so I could fulfill my mission of service. I found the answer in the motto of my episcopate — namely, hope. I came to this conclusion: During a time of crisis and persecution, we must remain full of hope. And so I remained in the city, strengthened in hope, in order to give hope to the many persecuted faithful who likewise continued to live here.
Is this enough? No. To remain with the faithful in hope is a crucial start, but it is not enough — there has to be something more. Saint Paul reminds us that hope is linked to love, and love to faith. To remain with those who are persecuted is to give them a hope founded in love and faith. What can we do to build up this faith? I began to ask myself how our faithful were living out their faith, how they were practicing it in the difficult circumstances of their lives every day. I realized that, above all — in the face of suffering and persecution — a true knowledge of our own faith and the cause of our persecution is of fundamental importance.
By deepening our sense of what it means to be Christians, we discover ways to give meaning to this life of persecution and find the necessary strength to endure it. To know that we may be killed at any moment, at home, in the street, at work, and yet despite all this to retain a living and active faith — this is the true challenge.
From the moment when we are waiting for death, under threat from someone who may shoot us at any time, we need to know how to live well. The greatest challenge in facing death because of our faith is to continue to know this faith in such a way as to live it constantly and fully — even in that very brief moment that separates us from death.
My goal in all this is to reinforce the fact that the Christian faith is not an abstract, rational theory, remote from actual, everyday life but a means of discovering its deepest meaning, its highest expression as revealed by the Incarnation. When the individual discovers this possibility, he or she will be willing to endure absolutely anything and will do everything to safeguard this discovery — even if this means having to die in its cause.
Many people living in freedom from persecution, in countries without problems like ours, ask me what they can do for us, how they can help us in our situation. First of all, anyone who wants to do something for us should make an effort to live out his or her own faith in a more profound manner, embracing the life of faith in daily practice. For us the greatest gift is to know that our situation is helping others to live out their own faith with greater strength, joy, and fidelity.
Strength in daily life; joy in everything we encounter along the path of life; confidence that the Christian faith holds the answer to all the fundamental questions of life, as well as helping us cope with all the relatively minor incidents we confront along our way. This must be the overriding objective for all of us. And to know that there are people in this world who are persecuted because of their faith should be a warning — to you who live in freedom — to become better, stronger Christians, and a spur to demonstrating your own faith as you confront the difficulties of your own society, as well as to the recognition that you too are confronted with a certain degree of persecution because of your faith, even in the West.
Anyone who wishes to respond to this emergency can help those who are persecuted both materially and spiritually. Help bring our situation to the notice of the world — you are our voice. Spiritually, you can help us by making our life and our suffering the stimulus for the promotion of unity among all Christians. The most powerful thing you can do in response to our situation is to rediscover and forge unity — personally and as a community — and to work for the good of your own societies. They are in great need of the witness of Christians who live out their faith with a strength and joy that can give others the courage of faith.

Patriarca Sako: «Cristiani in politica per salvare l'Iraq»

Manuela Borraccino

È l’impegno dei cristiani nella vita politica e sociale la chiave di volta per la sopravvivenza del cristianesimo in Iraq e dello stesso Stato iracheno. Il patriarca di Babilonia dei caldei Louis Raphael I Sako è tornato a chiedere a presuli e laici stranieri un impegno pratico di formazione alla politica per uscire dalla difficile ricostruzione irachena, insieme all’amara constatazione che «l’Occidente non comprende i timori che i cristiani provano oggi in Medio Oriente».
Invitato sabato scorso, 26 ottobre, all’inaugurazione dell’anno accademico del Pontificio Istituto Orientale di Roma, il patriarca caldeo ha tracciato una serie di linee guida su come uscire dalla transizione senza fine che vive il Paese: l’Iraq ha conosciuto sei elezioni in otto anni e una violenza crescente che rende impossibile la convivenza e la riconciliazione nazionale. «Da dieci anni – ha rimarcato – non ci sono segnali di sicurezza né per i cristiani né per gli altri. La fragilità delle istituzioni e la debole percezione dell’identità nazionale mettono a rischio tutti ma soprattutto i cristiani». Egli ha confermato che a partire sono stati soprattutto i cristiani più istruiti e facoltosi, al punto che ormai sono rimasti solo i poveri e disagiati. «È un impoverimento per chi parte e per chi rimane, per tutto il Paese. Secondo il censimento del 1987 i cristiani erano 1 milione e 264 mila, oggi sono meno della metà. Se circa 700 mila sono fuggiti, chi ha deciso di restare deve essere incoraggiato».
Proprio per questo «dobbiamo istruire e formare le persone: serve un quadro politico per realizzare la democrazia. Chiediamo ai laici di essere più coinvolti nella cultura, nella società, nella politica del Paese: è necessario sviluppare una laicità positiva, una democrazia basata sui diritti umani, l’uguaglianza nella cittadinanza e la libertà». «Occorre formare un team specializzato di laici – ha soggiunto Sako – che studi, analizzi i problemi e proponga nuove soluzioni per migliorare la situazione delle nostre città e dei nostri villaggi, per costruire nuove abitazioni, nuove strade e creare lavoro, affinché i cristiani non si vedano costretti a emigrare. Che fare per introdurre nel Paese il rispetto della libertà religiosa e per riconoscere ai cristiani gli stessi diritti dei musulmani? Come partecipare in maniera attiva e costruttiva alla politica per servire il bene comune e non gli interessi di parte?».
Il patriarca ha caldeggiato la nascita di una coalizione dei partiti cristiani sotto un unico nome, ad esempio Unione nazionale cristiana irachena, visto che «i cristiani sono attualmente divisi in otto partiti, e questa dispersione li rende tutti irrilevanti». «Restando uniti – si è chiesto - non si potrebbe forse lanciare una campagna nazionale, con un programma come questo: “La pace e la convivenza, il rispetto di tutte le religioni e di tutte le confessioni, per una vera democrazia”? Perché non costituire un “consiglio politico cristiano” che si faccia carico dei problemi dei cristiani, senza trascurare quelli dell’intera comunità nazionale?».
Allo stesso tempo è fondamentale che i cristiani «siano presenti anche nei partiti non cristiani, soprattutto in vista delle elezioni del 2014, così da accrescere il numero dei parlamentari appartenenti alla nostra comunità: se i cristiani sono attivi, dinamici, certamente possono arrivare anche ad una quota maggiore di quella attualmente fissata a 5 parlamentari cristiani per ogni lista».
È importante che i cristiani della diaspora si iscrivano presso le ambasciate irachene all’estero per mantenere il diritto di voto, «così prezioso in tempo di elezioni». E bisognerebbe altresì creare un fondo di emergenza per aiutare le famiglie vittime di attentati (a Baghdad, Bassora, Mosul ci sono state tantissime vittime). «Occorre formare centri di emergenza per intervenire immediatamente nel sostegno alle famiglie e per rispondere a quanti sono continuamente bersagliati da azioni criminali quali omicidi, stupri, rapimenti, ruberie, incendi nelle chiese e danneggiamenti delle abitazioni. Se ci fossero tali centri, coloro che vi lavorano potrebbero intervenire rapidamente a sostegno di quegli innocenti, per non lasciarli soli di fronte a questi orribili crimini».
E ancora: «I cristiani devono unire i loro sforzi per mantenere la coesione nazionale e difendere il diritto alla libertà religiosa come una componente fondamentale della società irachena e devono unirsi per realizzare tutto questo: siamo piccole Chiese sparse qua e là, senza unità non abbiamo futuro». Questo vale anche per il dialogo con i musulmani: «Senza dialogo – ribadisce Sako – non c’è vita, non c’è convivenza, e sono pienamente convinto che la maggior parte dei musulmani sia aperta al dialogo. Ci sono i fondamentalisti, per cui tutto è politicizzato, ma ci sono anche capi religiosi sensibili al dialogo. Penso inoltre che cristiani e musulmani debbano trovare, di comune accordo, un linguaggio più comprensibile per esprimere la loro fede».
La Lega Araba, l’Organizzazione per la Conferenza islamica e le autorità religiose dovrebbero promulgare «un documento ufficiale nel quale riconoscono ai cristiani il loro diritto come cittadini uguali agli altri, separando finalmente la religione dalla politica». Inoltre «i Paesi occidentali devono dire a loro stessi che non giova a nulla fabbricare e vendere armi: meglio sarebbe per loro e per gli altri fabbricare cose utili per la vita e la prosperità».
Servono insomma pragmatismo, studio, azione, e una grande tenacia. A maggior ragione in una situazione come quella che si vive oggi nell’intera regione, dove «il fondamentalismo islamico sta crescendo e i cristiani, indipendentemente dalle loro scelte e dal loro impegno, sono vittime di una congiuntura internazionale che li supera. Gli estremisti vogliono approfittare della situazione attuale per svuotare il Medio Oriente della presenza cristiana, come se essa fosse un ostacolo ai loro piani». Il pericolo maggiore, ha concluso Sako, viene dall’esistenza di una strategia per dividere il Medio Oriente in Paesi confessionali. Ormai si parla apertamente di divisioni lungo linee etniche e confessionali sia in Iraq che in Siria.

24 ottobre 2013

Roma. Pontificio Istituto Orientale: Unità, Identità e Presenza

By Pontificio Istituto Orientale

Il Patriarca di Babilonia dei Caldei Mar Louis Raphael Sako e il Vescovo Mar Awa Royel della Chiesa Assira d’Oriente al Pontificio Istituto Orientale

Unità, Identità e Presenza

Inaugurazione dell'Anno Accademico 2013 – 2014 | 26 OTTOBRE 2013
Sessione pomeridiana in occasione della pubblicazione degli Atti del Congresso “Addai e Mari”
 
Sua Beatitudine Rev.ma Mar Louis Raphael Sako il Patriarca di Babilonia dei Caldei presiederà la Divina Liturgia Inaugurale sabato 26 ottobre p.v. alla quale seguirà la prolusione di S.Em. Rev.ma Card. Leonardo Sandri - Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali e Gran Cancelliere del Pontificio Istituto Orientale.
In occasione dell'Inaugurazione dell'Anno
Accademico 2013 - 2014, vi sarà una sessione pomeridiana dedicata alla presentazione del volume sugli Atti del Congresso Internazionale sull'Anafora "Addai e Mari" tenutosi il 25 e 26 ottobre del 2011 di cui ricorre l'anniversario.
S.B. Rev.ma Mar Louis Raphael Sako interverrà alla
sessione pomeridiana con una relazione del titolo: "Dove vanno i cristiani dell'Iraq?" insieme a Mar Awa Royel - Vescovo della Diocesi di California – Chiesa Assira d’Oriente, che terrà una relazione "Addai and Mari: an identifier of the Assyrian Church of the East".
Entrambi, ex-alunni del
Pontificio Istituto Orientale, offriranno prospettive ecumeniche e testimonianze attuali sulla situazione dei cristiani delle rispettive Chiese, Caldea e Assira d'Oriente.
Riportiamo un accenno alla relazione
di Sua Beatitudine Mar Louis Raphael Sako: […]”bisogna aprire gli occhi, per vedere i timori e considerare le speranze che animano i cristiani in Iraq, in Siria e in Egitto. Infatti la situazione di incertezza e le continue difficoltà spingono i cristiani a chiedersi: «Che sarà di noi? Quale futuro avremo, se vi sarà ancora un futuro? Qual è la garanzia per non essere uccisi o cacciati via?». Molti hanno lasciato il Paese, e la loro fuga crea un profondo disagio in coloro che desiderano rimanere e continuare la loro testimonianza con entusiasmo e tenacia.”
Testimonianze
che non saranno staccate dal passato della Chiesa, ma che, anzi, si dispongono parallelamente ad essa esattamente come “l’Anafora dei Santi Addai e Mari che rimane elemento inseparabile della Chiesa d’Oriente” (Mar Awa Royel).
Dopo un intermezzo musicale seguiranno gli interventi del R. P. Prof. Cesare Giraudo SJ - Curatore degli Atti: "Eucaristia: noi crediamo come preghiamo" e del Dr. Mario Pirolli - Coeditore degli Atti: "La versione multimediale nella riflessione sull’editoria digitale on e off line".
Qui di seguito le date del riconoscimento da parte della Santa Sede dell’anafora di Addai e Mari e la citazione con cui L’Osservatore Romano rendeva pubblica la dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede:
• Il 17 gennaio 2001 la Congregazione per la Dottrina della Fede riconosceva la validità
dell’Eucaristia celebrata con l’anafora di Addai e Mari, che la Chiesa Assira d’Oriente adopera ab immemorabili senza il racconto di istituzione.
• Il 20 luglio 2001 tale decisione, previamente approvata da Giovanni Paolo II, veniva emanata tramite una dichiarazione del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani intitolata Orientamenti per l’ammissione all’Eucaristia fra la Chiesa Caldea e la Chiesa Assira d’Oriente.
• Il 26 ottobre 2001 L’Osservatore Romano rendeva pubblica la dichiarazione della Santa Sede, nella quale si legge: «Poiché la Chiesa cattolica considera le parole dell’istituzione eucaristica parte costitutiva e quindi indispensabile dell’anafora o preghiera eucaristica, essa ha condotto uno studio lungo e accurato sull’anafora di Addai e Mari da un punto di vista storico, liturgico e teologico, al termine del quale, il 17 gennaio 2001, la Congregazione per la Dottrina della Fede è giunta alla conclusione che quest’anafora può essere considerata valida. Sua Santità Papa Giovanni Paolo II ha approvato tale decisione [...]. Le parole dell’istituzione eucaristica sono di fatto presenti nell’anafora di Addai e Mari, non in modo narrativo coerente e “ad litteram”, ma in modo eucologico e disseminato, vale a dire che esse sono integrate in preghiere successive di rendimenti di grazie, lode e intercessione» (Orientamenti).
 
Nicoletta Borgia
Roma, 24 ottobre 2013

Si allegano i link del materiale informativo dell’evento con preghiera di diffusione:

23 ottobre 2013

Northern Iraq no longer safe for Christians


An increase in violence against Christians in northern Iraq has increased the flow of Christians leaving the country.
The north, generally considered a relatively safe area of the country, had become home for many Christians fleeing from the tumultuous central and southern regions.
However, several bombings in the north in recent months have caused panic among the Christian community.
On September 22, a suicide bomb went off outside the home of Christian politician Emad Youhanna in Rafigayn, part of the Kirkuk province, injuring 19 people, including three of Youhanna’s children.
Several bomb attacks have also taken place in the northern city of Erbil, for which Al-Qaeda claimed responsibility.
In early September, Christians in the village of Deshtakh complained that they were facing harassment from local police.
A group of Christian young people said that policemen told them that they “should not be in Iraq because it is Muslim territory”.
Violence in the south of the country is also escalating. Church leaders in Baghdad say that there are attacks on Christians every two or three days.
A spokesperson for Open Doors, a Christian charity which supports Christians under pressure for their faith, said that although many Christians are still choosing to stay, the fear is that if the violence continues, they may decide they have little choice but to leave.
“It remains urgent to pray for the future of Christianity in this country,” he said. “If the present trend continues, there might be no Christian left in the whole of Iraq by 2020.”
Some commentators look back to December 2011 as a turning point for Christians in Iraq, following a number of attacks on Christian-owned shops.
Since that time, the violence against Christians in the Kurdish north has increased, with Christians being kidnapped and killed in an area once considered relatively safe.
In March 2012, an American teacher was killed in Sulaymaniyah, which provided another shock for the Christian community.
Meanwhile, the local Kurdish government has discussed ways to monitor Christian activities and accused many English teachers from the West of being Christian missionaries. It is now much harder for Westerners to receive work permits in the country.
Christians in Iraq are a clearly identifiable group. Many wear crosses or have Christian symbols on the gates of their homes.
Iraq is No. 4 on the World Watch List, which ranks the 50 countries in which Christians are most under pressure for their faith.
“Christians in Iraq are on the verge of extinction. Large numbers of persecuted Christians have fled abroad or to the (until recently) safer Kurdish region, where they face unemployment and inadequate schooling, medical care and housing. The church faces many challenges – members being killed or abducted, and a lack of capable leaders,” reports the World Watch List.

«Nel 2020 non resterà un solo cristiano in tutto l’Iraq»

By Tempi
Leone Grotti 

Molti cristiani hanno deciso di scappare dall’Iraq a causa dell’aumento delle violenze nell’ultimo mese perfino nel nord del paese, considerato il luogo più sicuro fino ad oggi. Particolarmente grave l’attacco avvenuto lo scorso 22 settembre, quando un kamikaze si è fatto esplodere contro la casa di un politico cristiano, ferendo 19 persone, compresi tre figli del politico.
CRISTIANI SPARIRANNO NEL 2020. Secondo l’Ong Open Doors, «se le cose continuano così, nel 2020 nell’intero Iraq non rimarrà neanche un cristiano. Anche se molti hanno deciso di restare, sono sempre più preoccupati dalla mancanza di sicurezza: i cristiani sono una “razza” in via d’estinzione qui». I cristiani non sono l’unica minoranza sotto attacco, la scorsa settimana sempre nel nord del paese un kamikaze si è fatto esplodere in un villaggio abitato dalla comunità Shabak, in prevalenza sciita, uccidendo 15 persone.
RECORD DI VIOLENZA. Le parole dell’Ong sono confermate da quanto dichiarato pochi giorni fa dal patriarca caldeo Louis Raphaël I Sako: «La situazione in Iraq è peggiorata. Manca la sicurezza, la gente muore nelle esplosioni, le case vengono distrutte – ha dichiarato – I cristiani hanno paura e temono attacchi, molti hanno lasciato il paese e chi resta aspetta di vedere quello che succederà». In Iraq ogni mese fa registrare un record di violenza rispetto al mese precedente e ci si avvicina pericolosamente alla media di mille morti ogni 30 giorni del biennio di sangue 2006-2007.

Coordinamento aiuti chiesa cattolica in Siria e nelle regioni limitrofe

ByVatican Information Service

Città del Vaticano, 23 ottobre 2013 (VIS). 72 milioni di dollari stanziati dalle organizzazioni umanitarie cattoliche per la crisi in Siria e nelle regioni limitrofe; 55 enti realizzatori sul campo; 20 città siriane soccorse grazie agli aiuti inviati e 32 istituzioni cattoliche coinvolte finora; aiuti dispensati anche ai rifugiati presenti in Libano, Giordania, Turchia, Iraq, Cipro, Egitto. Sono questi i dati raccolti alla data del 9 ottobre grazie alla mappatura degli aiuti distribuiti in Siria, realizzata a seguito della riunione di coordinamento degli organismi caritativi cattolici presenti nel teatro siriano, indetta dal Pontificio Consiglio Cor Unum il 4-5 giugno 2013.
La Chiesa cattolica, e le Chiese locali presenti sul territorio, sono impegnate fin dall’inizio della crisi, nel 2011, in un’opera costante di fornitura degli aiuti umanitari alla popolazione colpita dal dramma della guerra interna alla Siria. Papa Francesco ha seguito con particolare vicinanza e attenzione l'evolversi della crisi e l'opera di assistenza realizzata dalle agenzie caritative, che sono state ricevute in udienza nel corso del meeting organizzato dal Pontificio Consiglio Cor Unum. "Aiutare la popolazione siriana, al di là delle appartenenze etniche e religiose - ha detto in quella occasione il Papa - è il modo più diretto per offrire un contributo alla pacificazione e alla edificazione di una società aperta a tutte le diverse componenti".Finora, la difficoltà nel reperimento delle informazioni relativamente alle esigenze della popolazione colpita e anche allo sviluppo della situazione politica e sociale, ha portato a una certa sporadicità degli aiuti inviati e alla molteplicità delle forme di sostegno alle istituzioni presenti sul campo. Per questo, l'incontro di giugno è stata l’occasione per riunire le agenzie attive nel contesto della crisi e per decidere la nascita di un ufficio di coordinamento delle informazioni sugli aiuti umanitari stanziati dalla Chiesa cattolica, con l’obiettivo di evitare la dispersione degli sforzi compiuti e la mancanza di un approccio omogeneo. L'attività gestionale è stata affidata alla Caritas Medio Oriente-Nord Africa, con sede a Beirut: essa avrà il compito di comprendere e monitorare l’entità degli aiuti raccolti, e di condividere le informazioni necessarie tra tutte le istituzioni coinvolte, comprese quelle non presenti alla riunione presso Cor Unum.
Tale strumento permetterà di fornire alla Chiesa un quadro completo di riferimento relativamente alla situazione dell'attività umanitaria svolta e un'analisi più puntuale dei bisogni sul campo; di trasferire a Caritas Siria le informazioni necessarie sulle opere caritatevoli in favore della popolazione siriana; di evidenziare la posizione di rilievo della Chiesa cattolica tra gli attori nel settore umanitario in Siria; di condividere le informazioni all’interno del network delle organizzazioni cattoliche coinvolte, dentro e fuori il territorio della Siria.

21 ottobre 2013

Chiesa caldea, l'ex seminario diventa un condominio per famiglie bisognose


Il Patriarcato caldeo ha annunciato la prossima distribuzione del primo lotto di 16 appartamenti ricavati dalla ristrutturazione dell'ex Seminario patriarcale, destinati a nuclei familiari bisognosi. Secondo fonti del Patriarcato consultate dall'Agenzia Fides, le abitazioni verranno consegnate ai destinatari tra 15 giorni. Altre 32 unità abitative, in fase di ultimazione, saranno consegnate agli assegnatari nei prossimi mesi. Il nuovo complesso residenziale, dotato di giardini e spazi giochi per i bambini, si concentra intorno alla chiesa parrocchiale dedicata ai Santi Apostoli Pietro e Paolo.
L'iniziativa di trasformare in condominio residenziale gli edifici abbandonati che ospitavano il Seminario caldeo – trasferitosi nel 2006 a Erbil, nel Kurdistan iracheno, dopo che il rettore e alcuni docenti avevano subito una serie di rapimenti - è stata fortemente sostenuta dal Patriarca Louis Raphael I Sako anche come misura concreta per aiutare le giovani famiglie caldee a non abbandonare la propria Patria e così frenare l'esodo che in Iraq sta progressivamente erodendo le comunità cristiane autoctone di tradizione apostolica.

18 ottobre 2013

Chaldean Catholic Patriarch, Iraqi Prime Minister Discuss Plight of Christians

By AINA

On Wednesday afternoon, October 9, 2013, His Beatitude Patriarch Mar Louis Raphael I Sako visited His Excellency the Iraqi Prime Minister Mr. Nouri Al-Maliki to congratulate him on the occasion of Eid Al-Adha, and discussed with him some points concerning the Christians in the country that would encourage them to stay in their country, which received a positive response from His Excellency the Prime Minister .
His Beatitude asked His Excellency the Prime Minister to employ the Christian youth within the government departments to affirm their existence in their country; also discussed was the matters of guarding the churches and the acquisition of some people over Christians' houses. His Beatitude Patriarch Sako proposed on Mr. Al-Maliki doing an awareness campaign through media and mosques and churches to promote a culture of living together and maintaining national unity and reject all forms of violence. He also stressed the unity of the Country's officials for its security and stability, because split and division reflect negatively on the street .
His Excellency the Prime Minister emphasized the importance of unity and understanding between all parties as it has positive reflection on the street, and promised compensation for churches and putting Christian guards, opening more work opportunities for the Christians within the State's public services, and pursuing whoever had forcibly seized the homes of Christians and their property.
In the visit, His Beatitude was accompanied with His Excellency Auxiliary Bishop Shlemon Warduni, Father Saad Syrob, pastor of St. Joseph Chaldean parish, and Father Albert Hisham, Chaldean Patriarchate Media Administrator.

Translated by AINA. Original source: Chaldean Patriarchate web site 

15 ottobre 2013

Guerra scaccia guerra

By Rivista Maria Ausiliatrice - Basilica di Torino - Valdocco

Un po’ più di dieci anni fa nomi come Bassora, Ramadi o Baghdad erano noti al mondo intero che, incollato agli schermi, passava le notti a guardare le immagini di quelle città illuminate a giorno dalle bombe che per magia avrebbero dovuto portare la democrazia in Iraq.
Ora, forse, quel mondo a stento sa citare Baghdad come capitale di quel paese.
Niente di strano, succede sempre così. Ad una guerra ne succede un’altra, e un’altra ancora. E ci si convince, ci si vuole convincere, che se la Tv non ne parla è perché quella guerra è finita, quel paese è in pace.
Baghdad come Ginevra. Non è così.

In Iraq la guerra non è mai finita e forse non finirà mai, perché non si intravede soluzione pacifica al conflitto tra gli sciiti che ai tempi di Saddam Hussein soffrirono pene indicibili e che ora, forti della maggioranza numerica, governano il paese, i sunniti che reclamano il potere perso con la caduta del regime, ed i curdi che vorrebbero l’autonomia ma che vivono su territori troppo ricchi di petrolio perché il governo centrale gliela conceda.
Sono queste le tre tessere giganti del puzzle iracheno che non hanno lati in comune che le facciano combaciare. Ed accanto ce ne sono altre, più piccole, ma anch’esse parte dell’immagine generale.
Sono le minoranze religiose non musulmane che rischiano di scomparire giorno dopo giorno, silenziosamente: sono Yazidi, Mandei e Cristiani.

CRISTIANI ANTICHI, NON DI IMPORTAZIONE
Il cristianesimo in Iraq non è arrivato al seguito delle truppe di questa o quell’armata che nei secoli lo hanno invaso perché fu proprio nell’antica Mesopotamia che san Tommaso Apostolo con i suoi discepoli Addai e Mari predicò la Parola di Cristo convertendo le genti.
Da allora i cristiani, se non per brevi periodi e malgrado abbiano contribuito allo sviluppo dell’Iraq soprattutto dal punto di vista culturale, hanno vissuto, pregato e sofferto in quel territorio difendendo la loro fede e chiamandosi martiri.
Mai come ora però la loro sopravvivenza nella terra ancestrale è stata a rischio. Malgrado manchino stime ufficiali si dice che del milione e mezzo di cristiani che vivevano in Iraq nel 2003 ne siano rimasti solo 300.000: il 20%.
Sono cattolici, ortodossi, anglicani o appartenenti a chiese autocefale locali che il mondo, al pari delle bombe anti-Saddam, ha dimenticato.
Cosa ricordiamo degli anni in cui in Iraq i cristiani, compresi sacerdoti e vescovi, venivano sequestrati ed uccisi? E delle famiglie costrette alla fuga verso l’estero o verso il Kurdistan autonomo dalle minacce di morte quotidiane? E della strage all’ora della
Messa nella cattedrale di Baghdad che ha causato nell’ottobre del 2010 decine di morti? Quasi nulla.
Le violenze che i cristiani hanno subito negli ultimi 10 anni non sono obbiettivamente peggiori di quelle subite dai musulmani, ma sono diverse. Se i musulmani lottano per il potere non è così per i cristiani cui non sarebbe mai concesso di detenerlo in terra islamica.
Perché, allora? Perché in uno stato senza controllo i cristiani sono l’anello debole della
catena: pochi, disarmati, privi di struttura tribale di protezione, percepiti come alleati naturali dei nemici occidentali cristiani e nei casi peggiori come infedeli da scacciare.
In questo clima in cui si sentono sempre più “stranieri in patria” gli iracheni cristiani hanno scelto la fuga, anelata, con poche eccezioni, anche da coloro che vivono nella relativa sicurezza nel nord curdo.

I CRISTIANI FUGGONO, LA CHIESA LI VUOLE FERMARE
Il Patriarca caldeo, Mar Louis Raphael I Sako, ha più volte dichiarato come in Iraq siano rimasti solo i cristiani poveri che non hanno avuto la possibilità di fuggire, ammettendo in questo modo una scomoda verità per la Chiesa: i fedeli, per quanto profondamente religiosi ed attaccati alle proprie radici non vedono più nell’Iraq un paese in cui far vivere i propri figli perché sanno che non solo subiranno discriminazioni ma saranno sempre a rischio.
Un contesto, questo, che oppone quindi i laici che vorrebbero fuggire in nome della sicurezza, e la Chiesa che vorrebbe trattenerli in nome della tradizione; chi pensa che il futuro val bene una diaspora, e chi ricorda loro la tradizione del martirio della chiesa mesopotamica.
C’è una soluzione? Se il tempo o una diversa situazione politica faranno dell’Iraq quel paese normale che noi pensiamo già sia, sì.
Gli iracheni cristiani che adesso qui risiedono vi rimarranno, qualcun altro vi tornerà, e le radici della nostra fede saranno salve laddove fiorirono molto, molto tempo fa.
Per adesso ciò che noi possiamo fare è non dimenticarli. Non consegnare all’oblio le loro sofferenze.
Sono vittime innocenti che noi, da cristiani, chiamiamo fratelli. Ed i fratelli, anche se lontani, si ricordano.
 
Luigia Storti
redazione.rivista@ausiliatrice.net