"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

31 ottobre 2018

31 Ottobre 2010, Baghdad, cattedrale siro-cattolica: "Non dimenticheremo."

By Baghdadhope*



George Ayub Tobia (51 anni)
Nabil Elias Sam'an (46 anni)
Sahem Adnan Sa'du (20 anni studente)
Samir Kamel Usai (con la moglie Nida' ed il figlio Omar)
Nida' Hamid Istivan
Omar Samir Kamel Usai
Aziz Al Mezi (padre di 4 figlie)
Yunan Kurkis Assaour (con il figlio Jean, la nuora Rita ed il nipotino Sandro)
Jean Yunan Kurkis Assaour
Rita Matti Kurkis Zaura
Sandro Jean Yunan Assaour (4 mesi)
Maha Nassif Banu (ed i due figli Wis
am e Salam)
Salam Adib
Wisam Adib
Faiz Abd-allah Ghazazi
Audai Zuhair Marsina Arab
Adam Audai Zuhaid Arab (3 anni)
Benham Mansour Boulos Momika (60 anni)
Ayub Adnan Ayub Bergu
Sabah Matti Hamami
Sa'ad Adur Assa'ati
Faris Najeeb Philip Hinnawi
Vivien Nasser Maru
Nadheer Abdul-Ahad Ana'i (67 anni)
Fadi Bahuda Mazen
Fadheel Elias Mahruk
Abd-Allah Haddad
Wamiq Haddad
Raghida Wafi Bishara
Nizar Jamil Matlub
Milad Nizar Jamil Matlub
Bassam Adnan Jamil Alkhouri
Adnan Jamil Alkhouri
Benham Mikhael Kafi (52 anni)
Salah Jerjis Abed Al- Ahad Qaqo
Kristin Nabil Tobia Katnawi
Raid Sad-alla Abd-al (fratello di Padre Thair)
Fadi Samir Habib Amso
Athel Najib Abodi
Nizar Hazim Abdel Rahim Assayegh
Suhaila Rufail Gani
Seham Saliwa Jajika (48 anni)
Hikmat Aziz Daqaq


Questi sono i nomi delle vittime del massacro avvenuto otto anni fa alla chiesa siro cattolica di Nostra Signora della Salvezza a Baghdad. Ad essi vanno aggiunti quelli dei due sacerdoti che al momento dell'irruzione dei terroristi stavano celebrando la santa messa e che sono stati freddati sull'altare, Padre Thair e Padre Waseem. Quelle che seguono sono invece le parole con le quali Mons. Warduni, vicario patriarcale caldeo, commentava l'accaduto mentre i  tragici fatti erano ancora in corso.

"E' una grande sciagura,una cosa ingiusta ed incosciente. Noi preghiamo perchè Dio illumini le menti ed i cuori dei terroristi che dovrebbero pensare al bene della gente, delle proprie famiglie e non seguire queste vie che non sono le vie di Dio ma quelle del demonio."

Con queste parole Mons. Warduni, vicario patriarcale caldeo di Baghdad, ha commentato a Baghdadhope l'attacco alla chiesa siro cattolica di Nostra Signora della Salvezza avvenuto oggi pomeriggio.
"L'attacco è avvenuto verso le 18.00 -18.30. Non posso essere più preciso perchè proprio a quell'ora stavo celebrando la santa messa."
Monsignore, si parla di vittime, lei cosa sa?
"Per ora so so che ci sono vittime tra le guardie all'esterno della chiesa e che è stata uccisa una bambina. Dato però che si tratta di kamikaze non posso escludere che ci siano altri feriti ed altre vittime."

29 ottobre 2018

San Giuda era lo sposo delle nozze di Cana?

By Aleteia
Ellen Mady

Sappiamo che Gesù si recò a uno sposalizio a Cana di Galilea e trasformò l’acqua in vino. Sappiamo che c’era anche sua Madre, così come i suoi “fratelli”. Giovanni non dice chi fosse lo sposo, ma la presenza sia di Gesù che di Maria rende probabile che si trattasse di un amico stretto o un parente.
Secondo Niceforo Callisto, uno studioso greco del XIV secolo della storia della Chiesa, lo sposo delle nozze di Cana potrebbe essere stato San Giuda apostolo. L’opera di Callisto si basava soprattutto su altre non più esistenti, e quindi è probabile che abbia tratto le informazioni da fonti e ragionamenti a noi non più disponibili per giungere a questa conclusione. Fondamentalmente significa che non lo sappiamo, ma è sicuramente un’ipotesi interessante.
Indipendentemente dal fatto che Giuda fosse o meno lo sposo di Cana, la Scrittura ci dice che era uno dei “fratelli” del Signore (cfr. Mt 13, 55) e un apostolo. Ed è un santo della Chiesa, che celebra la sua festa il 28 ottobre. Quest’anno non abbiamo sentito parlare di lui o dell’apostolo Simone, che si festeggia nello stesso giorno, durante la liturgia perché la festa è caduta di domenica, e le letture e le preghiere domenicali hanno la precedenza.
Il penultimo libro della Bibbia – la Lettera di Giuda – è attribuito a San Giuda. È anche uno degli apostoli direttamente citati nei Vangeli: “Gli disse Giuda, non l’Iscariota: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?». Gli rispose Gesù: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Giovanni 14, 22-23).
Dopo la morte di Gesù, San Giuda iniziò a predicare la buona novella nella Giudea, ma presto si diresse in terre straniere. Si dice che sia stato in Iraq già nell’anno 37, assistendo la comunità ecclesiale mesopotamica locale che San Tommaso apostolo aveva istituito di recente. Aiutò anche a fondare la Chiesa armena ed evangelizzò Libia, Turchia e Persia (l’attuale Iran). Si crede che San Simone si sia unito a Giuda in Iraq, abbia viaggiato con lui e sia stato martirizzato insieme a lui in Libano verso l’anno 65. I loro resti riposano insieme nella basilica di San Pietro.
San Giuda è noto nella Chiesa occidentale soprattutto come santo patrono delle cause perdute. Secondo una tradizione, è diventato noto come tale perché condivide il nome di Giuda Iscariota. La leggenda dice che la gente aborriva il fatto di pronunciare il nome “Giuda” per via della sua associazione all’Iscariota, e il risultato era che pochi invocavano San Giuda Taddeo, l’apostolo. Se qualcuno lo faceva, era segno che era proprio disperato, e San Giuda, che aveva “immagazzinato” molte grazie che non erano state richieste, era quindi molto generoso nell’intercedere nei casi più complicati. Un suggerimento alternativo è che interceda in questi casi perché egli stesso ha affrontato molte situazioni difficili, ed è quindi predisposto ad aiutare gli altri a fare lo stesso.
San Giuda potrebbe anche essere Giuda di Edessa, noto anche come Addai. Giuda di Edessa condivide più del nome con Giuda Taddeo: era chiamato “Addai” (un derivato aramico di Taddeo), ebbe un ruolo nella prima comunità ecclesiale in Iraq e ci si riferisce a lui come a “uno dei 72”. Queste similitudini rafforzano la probabilità che i due siano la stessa persona, anche se non è stato provato in modo definitivo. Addai, o Taddeo di Edessa, è fortemente associato con la Chiesa cattolica caldea la Chiesa assira d’Oriente, e si pensa che sia all’origine di una delle preghiere eucaristiche più antiche: l’anafora di Addai e Mari, una versione della quale è usata ancora oggi dai caldei.
San Giuda, prega per noi!

Was St. Jude the one getting married in Cana?

L’appello del Patriarca Sako: “Se l’Oriente è vuoto dei cristiani, il cristianesimo rimarrà senza radici


Foto Patriarcato Caldeo
Sua Beatitudine Louis Raphael Card. Sako, il Patriarca di Babilonia dei Caldei, in qualità di Presidente Delegato del Sinodo dei Vescovi ha rivolto la parola del saluto e del ringraziamento al Santo Padre Francesco, alla Chiusura dei lavori della XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (3-28 ottobre 2018) sul tema “I Giovani, la fede e il discernimento vocazionale”.
Pubblichiamo di seguito il testo integrale della Sua Beatitudine:

Santo Padre,
Cari Padri Sinodali,
Cari giovani e giovane,
Nel nome di tutti i partecipanti in questo sinodo, vorrei esprimere la nostra gratitudine a Sua Santità il Papa Francesco, per aver convocato questo Sinodo sul tema Giovani, Fede e discernimento della vocazione che è stato per ognuno di noi un tempo forte di preghiera, reflessione, e dialogo responsabile, coraggioso e con libertà. È stato un lavoro della sinodalità ecclesiale molto costruttiva. Noi Orientali siamo abituati al sinodo e alla sinodalità. Ma sperimentare la sinodalità con tutta Chiesa ha un gusto speciale, grazie allo Spirito Santo. Questo non si trova da nessuna parte, tranne che nella chiesa cattolica. Siamo stati uniti nonostante le differenze dei nostri paesi, della nostra lingua e della nostra cultura, perché Cristo ci unisce e ci manda per la stessa missione d ‘annunciare il vangelo e servire i nostri fratelli e sorelle con gioia, entusiasmo.
Tutta la Chiesa cattolica è stata presente nel Sinodo attraverso i suoi rappresentanti, ma in modo particolare alla presenza del Santo Padre, successore di Pietro, capo e padre della Chiesa. Attraverso la sua presenza quasi quotidiana e nel suo docile ascolto e paterno accompagnamento e le sue parole profetiche è risultato questo documento finale, che certamente sarà un punto di referimento per una nuova pastorale nelle nostre diverse diocesi. Cosi ritorniamo a casa con tante idee e progetti per il futuro.
 IL sinodo è stato un dono per noi e per tutta la Chiesa. Ciò che abbiamo pensato come linee di forza, lo abbiamo vissuto con una presa di coscienza, profonda, con fraternità, dinamismo e allegria. Siamo veramente toccati, edificati e trasformati. Abbiamo vissuto un cammino di ascolto, di discernimento e l’accompagnamento eccezionale per noi prima e per i nostri giovani e fedeli. Questo cammino lo abbiamo fatto con tanto amore e comunione sotto a Sua Leadership.
Santo Padre,
Lei non è solo, con tutti i nostri vescovi cattolici nel mondo, che rappresentiamo siamo con Lei, e siamo uniti a Lei in una integrale comunione. Siamo uniti a Lei nella preghiera e nella Speranza. Ricordi che milioni di fedeli pregano per Lei ogni giorno. E tanti uomini e donne di buona volontà ammirano le sue parole e gesti per un mondo di più fraternità universale, giustizia e pace. Dunque, c’è niente da temere. Un proverbio in arabo dice: L’albero fruttuoso viene colpito con pietre. Vada avanti con coraggio e fiducia. La barca di Pietro non è come le altre barche, la barca di Pietro nonostante le onde, rimane solida, perché c’è Gesù in essa e non la lascerà mai.
Con lui le sfide, e le sofferenze si superano colla fede, preghiera, misericordia, sincerità e fermezza, integrità e trasparenza. Tutto è chiaro, niente da nascondere. Dobbiamo ricordare la fedeltà e la dedizione di migliaia di vescovi e sacerdoti, religiosi e religiose, alla loro missione.
Oggi concludiamo questo Sinodo con rinnovare il nostro amore al Signore e alla sua Chiesa fino alla fine. E anche invito tutti i giovani del mondo di alzare la loro voce e mettere il loro carisma per costruire una società piu fraterna, piu giusta con piu pace,
 Vorrei finire le mie parole con un appello a Sua Santità, ai Padri sinodali e ai giovani di non dimenticare i cristiani d’Oriente. Se l’Oriente è vuoto dei cristiani, il cristianesimo rimarrà senza radici. Abbiamo bisogno del vostro sostegno umanitario e spirituale e della vostra solidarietà, amicizia e vicinanza fino che la tempesta passi (Cfr. Salmo 57/2).
Grazie mille per il segretario generale S.E. Il Cardinal Lorenzo Baldisseri, il sottosegretario e i loro collaboratori e tutti coloro che hanno lavorato per questo sinodo, tutto è stato ottimo.
Il Signore e Sua Madre vi benedica e benedica la Chiesa.

+ Louis Raphael Sako

Mosul residents: 'We were the masters of the world'

By Al Jazeera
Mariya Petkova

Amid the rubble and devastation of the old city in west Mosul, it was difficult to imagine that Bulgaria would be the one thing local people would want to talk about the most.
In the deserted Nineveh Street in al-Sa'aa (clock) neighbourhood, I met Adel Hassan, who had recently returned to his damaged home after having run out of money to pay rent for an apartment in the relatively less devastated east Mosul. He said he was the only one in his area to have come back.
I asked about his life now, but he was curt in his replies. "Zein" (good) was the answer to each of my questions.
When he found out I am from Bulgaria, he was eager to ask me one: "Is Bulgaria 'zein' now? Was it better before? Socialism was good?"
"We had more dictatorship than socialism," I answered.
He waved his hand, told me I had lost the plot, and departed with his young wife, Amira.
Communist Bulgaria seemed to be remembered fondly by the few people (all middle-aged Muslim men) I could find to talk to in the empty streets of al-Sa'aa neighbourhood.
"I went to Bulgaria in the 1980s. It was very beautiful and cheap," Faris Ibrahim told me. He had just re-opened his small shop, spending his own money to repair the damage that the fighting had caused last year.
"I spent just 150 dinars on my trip to Bulgaria. This was the standard of living we enjoyed back then. We were the masters of the world. And where are we now - us, the masters of the world?" he said. Today that sum of money can buy you half a kilo of potatoes in Mosul. 

Iraq and Bulgaria, then and now

The time my interlocutors were reminiscing about was indeed a time of prosperity for the Nineveh province and its capital city. Mosul was the birthplace of a number of high-ranking Baathist officials and army generals, which ensured that it was well-provided for by the state.
When oil prices shot up after the 1973 oil crisis, Saddam Hussein's regime used part of the revenue to build vast infrastructure projects and improve education. In the 1980s, while the war with Iran was devastating the southeast of the country, especially Basra, the northwest continued to prosper. Major infrastructural projects were still being built, including the Mosul Dam and the Fifth Bridge on the Tigris river.
Throughout this time, Baathist Iraq kept close relations with the Eastern bloc, especially Bulgaria, under the patronage of the Soviet Union. Cultural, educational, military and trade relations flourished.
The local economy was strong enough for many Muslawis (Mosul residents) like Ibrahim to afford the day-and-a-half car trip through Turkey to Bulgaria. Back then, the Iraqi passport used to open up many doors in the Eastern bloc and beyond and the Iraqi dinar was stronger than the US dollar.
Today, some of the Iraqis who do make it to Bulgaria are refugees seeking to reach Western Europe and unlike the communist regime, the current Bulgarian government has hardly made them feel welcome. Iraqi refugees like all others have endured the violent pushback policies of the Bulgarian state at its southern border with Turkey. For example, in January 2015, after 12 Iraqi Yezidi men were severely beaten and robbed during a pushback by the Bulgarian border police, two of them froze to death near the border.
Since the early 2000s, Iraqi-Bulgarian relations also have a new patron. In 2003, shortly after the US invasion, the Bulgarian government, which at that time was eager to earn favour with Washington and join NATO, sent hundreds of Bulgarian troops to back the war effort.
The justification the Bulgarian government gave for the deployment of Bulgarian troops for a mission the United Nations had not approved was that it was seeking to get back the $3.5bn in debt Iraq had accumulated buying Bulgarian weapons during the 1980s and secure reconstruction contracts for Bulgarian firms. It got neither.
In 2007, the Bulgarian government - under pressure from the Bush administration - cancelled 90 percent of the debt. The following year the mission of the Bulgarian troops ended; 13 of them died during the deployment.

The old city, where Muslim and Christian kids played till 3am

The nostalgia for the prosperity and security under the Baathist regime I saw in Iraq was not limited to Sunni Muslims alone. Older Christians I talked to in the nearby Christian-majority city of Bakhdida also shared similar views, and so did individual Baghdad-educated Kurds (albeit not so directly).
Reminiscing about the old days is perhaps one way to process the shocking devastation that stares at you at every corner of Mosul's old city. Intense air raids by the US-led coalition helped to destroy whatever historical heritage the Islamic State of Iraq and the Levant (ISIL, also known as ISIS) group had not, along with civilian homes, schools, hospitals, etc. Once a vibrant, diverse and prosperous area, the old city is now but a shadow of its old self.
"This used to be a busy shopping street. To the right and to the left, all these were shops," Joheir Halil told me. "Now, it's all destroyed."

The Annihilation of Iraq's Christian Minority

By The Gatestone Institute
Raymond Ibrahim

"Another wave of persecution will be the end of Christianity after 2,000 years"
in Iraq, an Iraqi Christian leader recently said. In an interview earlier this month, Chaldean Archbishop Habib Nafali of Basra discussed how more than a decade of violent persecution has virtually annihilated Iraq's Christian minority. Since the 2003 U.S.-led invasion, the Christian population has dropped from 1.5 million to about 250,000 -- a reduction of 85%. During those 15 years, Christians have been abducted, enslaved, raped and slaughtered, sometimes by crucifixion; a church or monastery has been destroyed about every 40 days on average, said the archbishop.
While it is often assumed that the Islamic State (ISIS) was the source of the persecution, since that terror group's retreat from Iraq, the situation for Christians has barely improved. As the archbishop said, Christians continue to suffer from "systematic violence" designed to "destroy their language, to break up their families and push them to leave Iraq."
According to the "World Watch List 2018" report, Christians in Iraq -- the eighth-worst nation in the world in which to be Christian -- are experiencing "extreme persecution," and not just from "extremists."
Although "Violent Religious Groups" (such as the Islamic State) are "Very Strongly" responsible, two other societal classes seldom associated with the persecution of Christians in Iraq are also "Very Strongly" responsible, the report states: 1) "Government officials at any level from local to national," and 2) "Non-Christian religious leaders at any level from local to national." Also, three other societal groups -- 1) "Ethnic group leaders," 2) "Normal citizens (people from the general public), including mobs," and 3) "Political parties at any level from local to national" -- are all "Strongly" responsible for the persecution of Christians in Iraq. In other words, virtually everyone is involved.
The report elaborates:

"Violent religious groups such as IS and other radical militants are known for targeting Christians and other religious minorities through kidnappings and killings. Another source of persecution are Islamic leaders at any level, mostly in the form of hate-speech in mosques. Government officials at all levels are reported to threaten Christians and 'encourage' them to emigrate. Also, normal citizens in the north have reportedly made remarks in public, questioning why Christians are still in Iraq."
Several regional Christian leaders confirm these findings. According to Syriac Orthodox bishop, George Saliba:

"What is happening in Iraq is a strange thing, but it is normal for Muslims, because they have never treated Christians well, and they have always held an offensive and defaming stand against Christians.... We used to live and coexist with Muslims, but then they revealed their canines [teeth].... [They do not] have the right to storm houses, steal and attack the honor of Christians. Most Muslims do this, the Ottomans killed us and after that the ruling nation-states understood the circumstances but always gave advantage to the Muslims. Islam has never changed."
Father Douglas al-Bazi -- an Iraqi Catholic parish priest from Erbil who still carries the scars from torture he received 9 years earlier -- made the same observation:

I'm proud to be an Iraqi, I love my country. But my country is not proud that I'm part of it. What is happening to my people [Christians] is nothing other than genocide. I beg you: do not call it a conflict. It's genocide... When Islam lives amidst you, the situation might appear acceptable. But when one lives amidst Muslims [as a minority], everything becomes impossible.... Wake up! The cancer is at your door. They will destroy you. We, the Christians of the Middle East are the only group that has seen the face of evil: Islam.

25 ottobre 2018

Sulle tracce dei dispersi dell’Is

By L'Osservatore Romano (Il Settimanale)
Laurence Desjoyaux

Dal 2012 mi reco regolarmente in Iraq per realizzare dei reportage sui cristiani e sulle altre minoranze del paese. Ho seguito con sgomento l’invasione del sedicente stato islamico (Is)nel giugno 2014 e la conseguente ondata di rapimenti. Quasi 6500 yazidi sono stati presi nella regione di Sinjar, poi, alcuni giorni dopo, circa 150 cristiani sono stati rapiti nella piana di Ninive, mentre altre decine di migliaia di loro, giustamente allertati dall’esp erienza dei concittadini, sono fuggiti dinanzi all’avanzata dell’Is. Nel corso dei mesi, le prime persone rapite, principalmente donne, sono riuscite a fuggire. Attraverso la loro testimonianza, hanno tracciato un quadro cupo dell’organizzazione jihadista. Nadia Murad, a cui è stato appena conferito il premio Nobel per la pace 2018, ha così raccontato la vendita delle donne nei mercati e la schiavitù sessuale a partire dal 2015. Io stessa ho ascoltato racconti analoghi da una decina di donne intervistate. A dicembre 2017, dopo una vasta offensiva della coalizione internazionale, l’Is è stato ufficialmente dichiara to sconfitto in Iraq. Molto lentamente la vita è ripresa a Mosul e in tutta la piana circostante. Ma per migliaia di famiglie yazide e cristiane è impossibile voltare pagina: aspettano ancora il ritorno dei loro parenti.
Ad Arbil, capitale del Kurdistan iracheno, Khairi Bozani, ministro degli affari religiosi del Kurdistan iracheno e direttore degli affari yazidi, tiene aggiornata un lista precisa di questi “dispersi” dell’Is. Al primo agosto 2018, comprendeva 3102 persone: 1440 donne e ragazze e 1662 uomini e ragazzi. Da parte sua, l’organizzazione irachena Shlomo, che si è posta come obiettivo di registrare e documentare i crimini commessi dall’Is, parla di 58 dispersi cristiani. La liberazione, a partire da ottobre 2016, delle città controllate dal sedicente stato islamico ha suscitato grande speranza nelle famiglie dei dispersi.
In effetti, man mano che le forze irachene avanzavano, sono stati ritrovati alcuni yazidi e una decina di cristiani. È il caso di Cristina, 6 anni, il cui rapimento era stato ampiamente mediatizzato. È stata scoperta al termine della battaglia di Mosul, città in cui era stata “adottata” da una famiglia musulmana. Maryam invece è ricomparsa il 28 agosto 2017. L’ho incontrata a Qaraqosh, a casa di un parente, dove ora vive, e mi ha raccontato i suoi mesi di calvario. Rapita insieme a suo marito in questa città cristiana della piana di Ninive nell’agosto 2014, ha trascorso qualche mese a Mosul prima di essere rivenduta per 1500 dollari a una famiglia di Tel Afar. «Guardavo tutto il giorno fuori dalla finestra e immaginavo che mio marito venisse a cercarmi...», racconta. Quando l’esercito iracheno entra a Tel Afar, tre anni dopo l’inizio della sua prigionia, un jihadista prende Maryam per portarla con sé verso la Siria. «Ma si è perso lungo il cammino e ci siamo ritrovati faccia a faccia con un checkpoint dei peshmerga curdi. Ero libera». Il suo ritorno è però offuscato dall’assenza del marito di cui non sa più nulla. Come lei, le fa miglie dei 58 cristiani ancora dati per dispersi si ritrovano oggi in un vicolo cieco. Non hanno nessuna notizia dei loro parenti. Ritrovarli, se non emergono nuovi elementi, sembra quasi impossibile. Sono come un minuscolo ago nel pagliaio del dopo Is.

24 ottobre 2018

Sui passi del vescovo martire Rahho

By Roma Sette

Un pellegrinaggio in ricordo dei martiri, un pellegrinaggio da una chiesa antica a una moderna, dal centro alla periferia, come direbbe Papa Francesco. Lunedì 22 ottobre diverse parrocchie di Roma, insieme al Centro missionario diocesano, all’associazione Finestra per il Medio Oriente, alla Comunità missionaria di Villaregia, all’associazione Archè e alla Fondazione Giovanni Paolo II, hanno voluto ricordare l’arcivescovo di Mosul dei Caldei Faraj Rahho, rapito nel marzo di dieci anni fa e ritrovato morto pochi giorni dopo. Dopo la morte del giovane sacerdote Ragheed Ganni, parroco della chiesa dello Spirito Santo, a Mosul, il vescovo aveva deciso di non mandare più sacerdoti in quella chiesa ma di celebrarvi lui stesso la Messa ogni domenica sera. Fu catturato proprio mentre andava a svolgere il suo servizio lì, mentre alcuni laici che con coraggio avevano deciso di accompagnarlo furono barbaramente uccisi.
«Ci siamo radunati nella basilica di Sant’Agnese fuori le Mura a via Nomentana – racconta don Massimiliano, uno degli organizzatori -, che ricorda il sacrificio di una martire di milleottocento anni fa, quando essere cristiani poteva costare la vita anche a Roma. Lì è stata proclamata la Parola e don Maurizio Modugno, parroco di San Valentino al Villaggio Olimpico, ci ha raccontato di avere avuto un nonno iracheno. Funzionario di ambasciata a Beirut, aiutò i profughi americani che fuggivano dalla Turchia all’inizio del Novecento, e per questo rischiò anche lui la condanna a morte».
Dalla basilica di Sant’Agnese si è sviluppata una processione di oltre ottanta persone, che ha percorso via Nomentana: anziani, adulti, bambini del catechismo. Recitando il Rosario a gruppetti. «Il corteo – riferisce ancora don Massimilianosi è fermato in uno slargo a via Chisimaio, in ricordo di quella Chisimaio, in Somlia, dove è vissuto un altro martire dei nostri tempi, sconosciuto come monsignor Rahho. Il suo nome è Pietro Turati, classe 1919, frate dal 1940, con un grande desiderio di andare in missione». Un sogno coronato nel 1948, quando ottiene di essere inviato a Mogadiscio. Comincia così a lavorare per i poveri, in varie città, fin quando scoppia la guerra civile, nel 1991, e tutti i religiosi abbandonano il territorio somalo, non più sicuro per nessuno. «Tutti, ma lui no, e infatti verrà ucciso da ignoti, dopo una vita spesa per il prossimo. Chi, nella sua Italia, si ricorda di lui e del suo sacrificio?». In quello slargo ventoso, prosegue il racconto del sacerdote, «ci viene detto, a commento della lettera di Pietro, che al martirio siamo chiamati tutti: al martirio quotidiano. Alla pazienza, che nel testo greco è chiamata “upomene”, cioè capacità di restar sotto, sotto botta, sotto pressione, nel matrimonio, coi figli, al lavoro, nel traffico: di accettarlo per amore».
La tappa successiva di questo singolare pellegrinaggio della memoria è Santa Maria Goretti, al quartiere africano, dove negli anni Settanta è vissuto il vescovo Rahho da giovane studente. «Lì abbiamo pregato con i vespri dell’ufficio dei martiri, officiati dal parroco don Santiago, e abbiamo proiettato un power point che raccontava di lui, di Ragheed Ganni, di una minoranza cristiana oppressa e terrorizzata. Lorenzo Rengo, catechista parrocchiale, ci ha raccontato di un monsignor Rahho giovane sacerdote, all’inizio un po’ impacciato con l’italiano ma sempre simpatico e disponibile. Era un futuro martire – conclude don Massimiliano -, ma loro non lo sapevano».

Baghdad on the border

By Curbed
Shaya Tayefe Mohajer*

On a warm night in August, a group of gray-haired men slapped dominoes onto a table as waiters sped back and forth inside a packed banquet hall on a Main Street situated about 20 miles east of San Diego. Along with hundreds of others seated under the glittering crystal light fixtures of the Palms Restaurant and Banquet Hall, they hushed their laughter and chitchat to murmurs as the clock struck 9:30 p.m. and the main event began: a game of bingo with a $900 jackpot.
The caller seated at a microphone in the middle of the room drew a ball.
“B-five,” the caller said before pausing to repeat the number in Arabic.
“B-khamsa.”
On any given Thursday night here in El Cajon, California, two or three generations sit side by side, eyeing each other’s bingo cards and joking. Waiters push carts loaded with a menu that often gets whitewashed as “Mediterranean,” but is in fact Arab: hummus, tabbouleh, warm olives, fattoush and Iraqi salads, and heaps of fava beans.
The carts weave past the well-dressed women in strappy high heels chasing children and the men greeting each other with back-slapping hugs and three quick kisses. Aside from arak, an anise-flavored liquor from the Middle East, the drink of choice tonight—and every night—is Johnny Walker. Bottles of the whiskey are carted to tables with buckets of ice.
Groans and giggles follow each number called, as they often do during bingo games all over America, but none are quite like bingo night in El Cajon, where the Iraqi community has recreated its Baghdad tradition—one that has become perilous in Iraq, a result of years of war and instability.
“G-50… G-khamsin,” the caller said. A man inching toward a win let out a gleeful shout of “yallah!”
In El Cajon, about 25 miles north of the U.S.-Mexico border, it’s not just the bingo: Main Street has been made over by immigrants and refugees creating new community institutions while maintaining homeland traditions. Along a central stretch through downtown El Cajon, signs are scrawled with Arabic script, adorning businesses that sell everything from baklava to legal services to jewelry.

23 ottobre 2018

La Croce nel fuoco: l’Ungheria e la difesa dei cristiani perseguitati

Andrea Gagliarducci

Foto: Ambasciata d'Ungheria presso la Santa Sede
Una mostra con materiali provenienti dall’Iraq colpito dall’ISIS: croci rimaneggiate, stole rovinate, quaderni di bambini che non andranno mai scuola. Una città che ora si fregia del titolo di “figlia di Ungheria”. E investimenti nella ricostruzione delle città, ma anche in borse di studio (20 quest’anno) a giovani studenti che vengono da zone martoriate e che poi possono tornare a casa, per riportare quelle zone alla prosperità: sono le iniziative dell’Ungheria, che ha fatto della difesa dei cristiani perseguitati la sua politica nazionale.
Lo spiega ad ACI Stampa Tristan Azbej, Segretario di Stato per l’Aiuto ai Cristiani Perseguitati, che è stato a Roma lo scorso 10 ottobre, per presentare il film “Theirs the Kingdom of Heaven”, il viaggio di un europarlamentare ungherese e di due religiosi in Siria. Mentre il 9 ottobre si è presentata “Cross in fire”, la mostra che ha fatto da corollario alla consegna di 20 borse di studio a giovani provenienti da zone in cui i cristiani vengono perseguitati.
Azbej rivendica il fatto che il governo ungherese è stato il primo ad avere avuto un dipartimento dedicato esplicitamente alla difesa dei cristiani perseguitati, e che il conferimento delle borse di studio governative (SCYP) è cominciato due anni fa.
Questa iniziativa è stata presentata a Papa Francesco l’11 ottobre. Accompagnato da Eduard Habsurg Lothringen, ambasciatore di Ungheria presso la Santa Sede, Azbej ha spiegato al Papa che gli obiettivi della Borsa di Studio sono di rendere possibile a dei giovani, scelti direttamente dalle comunità cristiane perseguitate, di compiere i propri studi in Ungheria per poi tornare in patria. Papa Francesco ha ascoltato le testimonianze e ha detto di essere profondamente toccato da questo tipo di iniziativa e che era molto contento che l’Ungheria aiutava in questo modo tali comunità
“Devo dire che fino ad ora, cercando di guidare con l’esempio l’aiuto alle tragiche situazioni perseguitate nel mondo, non abbiamo avuto successo. Ma ora la cooperazione comincia ad avere un peso, abbiamo stretto partnerships con il governo polacco e con gli Stati Uniti”, racconta Azbej,
Non a caso, poco dopo la visita di Azbej in Italia, Mark Green di US Aid è stato in Italia, e ha incontrato anche il Cardinale Rafael Sako, Patriarca di Babilonia dei Caldei. Il Cardinale Sako non aveva mancato di criticare il modo in cui gli Stati Uniti avessero portato gli aiuti e di lodare la politica ungherese, votata ad aiutare le persone a rimanere.
L’Ungheria lavora anche con Jan Figel, l’inviato speciale europeo per la Libertà Religiosa nel mondo, e l’obiettivo – dice Azbej – è “di far crescere consapevolezza e sollecitare misure in Occidente per affrontare il fenomeno della persecuzione dei cristiani”, perché “il fatto che il cristianesimo sia la religione più perseguitata al mondo è un fatto poco conosciuto, eppure avviene in più di 80 nazioni e colpisce più di 250 milioni di credenti”.
Eppure – aggiunge – “le grandi organizzazioni umanitarie, la cultura occidentale, i governi cristiani non sono ancora riusciti ad affrontare questo fenomeno”. Ovviamente, aggiunge, al governo ungherese “importa di tutte le persone che soffrono o hanno bisogno, senza discriminazione religiosa. Le nostre azioni umanitarie cercano di fornire beneficio a tutte le persone che soffrono, senza discriminazione di religione. Ad ogni modo, a causa della grandezza della persecuzione dei cristiani, abbiamo voluto dedicare un programma speciale a loro”.
L’Ungheria è in cerca ora di “alleanze internazionali, è importante convincere i governi ad andare avanti al di là dei progetti”, mentre con la Santa Sede c’è un impegno di “mutua comprensione”, e l’Ungheria sta cercando di co-supportare un programma in Siria.
Intanto, prosegue l’impegno sul campo. Nel 2014, la cittadina di Telsqof è stata distrutta dallo Stato Islamico, e gli aiuti dell’Ungheria, per 14 milioni di euro, hanno permesso una ricostruzione. Per gratitudine, la città è stata rinominata Bint Al-Majar, “Figlia di Ungheria”.

Solidarietà: a favore dei campi profughi in Iraq e Uganda il Concerto di Natale in Vaticano, il 15 dicembre

By AgenSIR

“Ricostruire il tessuto dell’Iraq”,
 dopo il crollo del regime di Saddam Hussein e la fine dell’Isis, e “dare speranza” ai rifugiati dell’Uganda. Così mons. Angelo Vincenzo Zani, segretario della Congregazione per l’educazione cattolica, ha sintetizzato il senso dei due progetti che quest’anno il Concerto di Natale in Vaticano – promosso dal citato Dicastero pontificio e organizzato dalla Prime Time Promotions – intende sostenere, a favore rispettivamente della Fondazione Pontificia Scholas Occurrentes e di Missioni Don Bosco Valdocco onlus. “Due alternative alla migrazione attraverso l’educazione”, le ha definite mons. Zani, durante la conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa, svoltasi oggi presso la Sala Marconi della Radio Vaticana. “Si tratta di due fenomeni molto diversi, ma il denominatore comune è il problema della migrazione, provocata da conflitti e tensioni”, ha spiegato Zani a proposito dei progetti sostenuti tramite il Concerto, che si svolgerà il 15 dicembre in Aula Paolo VI e verrà mandato in onda in tutto il mondo attraverso la piattaforma di Canale 5 il 24 dicembre, in prima serata. In quell’occasione  i telespettatori avranno un numero di “sms” solidale al quale inviare le loro donazioni per i destinatari dei progetti di solidarietà.
“Facciamo rete con l’educazione”: con questo slogan comune Scholas, la fondazione argentina voluta da Papa Francesco, e i Salesiani invitano a lavorare a favore di chi è costretto a fuggire dal suo Paese per guerre, povertà, catastrofi naturali. Nella città di Erbil, nel Kurdistan iracheno, Scholas Occurrentes ha attivato un progetto educativo in un campo profughi che, oltre alla scolarizzazione di base, prevede l’educazione informale attraverso attività sportive, culturali, artistiche e sociali, con il coinvolgimento formativo delle università irachene, italiane e di altre città europee. Missioni Don Bosco, dall’aprile 2017, ha aperto un campo profughi a Palabek che oggi ospita 40mila persone. I bisogni sono moltissimi e i Salesiani hanno scelto di concentrarsi sull’educazione scolastica e la formazione professionale dei giovani.
“L’educazione è un elemento di riscatto e di possibile soluzione e, soprattutto, un’occasione per andare oltre la gestione dell’emergenza, offrendo strumenti concreti per costruire un futuro”, ha spiegato Zani. Quanto alla concomitanza della presentazione del Concerto con il Sinodo in corso in Vaticano sui giovani, il segretario della Congregazione per l’educazione cattolica ha detto ai giornalisti: “Siamo in attesa di leggere la lettera ai giovani e la bozza del documento finale. Il dopo-Sinodo sarà una tappa molto impegnativa, perché la realtà dei giovani interessa tutti: la società, la Chiesa, le istituzioni. Anche le iniziative che presentiamo oggi – così come le domande poste ai giovani dalla nostra Congregazione nella fase pre-sinodale – saranno un tassello in questa direzione”.
Tra i partecipanti alla 26ª edizione del Concerto di Natale in Vaticano, figurano Dee Dee Bridgewater, Anastacia, Raphael Gualazzi, Edoardo Bennato, Alessandra Amoroso, Elisa, Ermal Meta, con la partecipazione straordinaria di Miguel Angel Zotto e Daiana Guspero. L’Orchestra Universale Sinfonica Italiana sarà diretta dal maestro Renato Serio, con la collaborazione del maestro Stefano Zavattoni. Il coro gospel statunitense sarà il New Direction Tennessee State Gospel Choir, il complesso vocale che accompagnerà i solisti sarà quello dell’Art Voic Academy, mentre le voci bianche saranno quelle del piccolo Coro Le Dolci Note, diretto dal maestro Alessandro Bellomaria.

Cristiani perseguitati: patriarca Ignace Youssif III Younan, “in Siria e Iraq da anni subiscono un incubo”. “Sfida è convincerli a rimanere, soprattutto i giovani”

By AgenSIR

“I cristiani in Siria e Iraq da anni subiscono quell’incubo di essere soggetti a discriminazione da parte dei fondamentalisti dell’Islam, che voi chiamate Isis”.
Loro “sono gente incredibilmente orrenda, dobbiamo dire la verità per come è. Sono fondamentalisti islamici, terroristi nel nome dell’Islam”. Così il patriarca di Antiochia dei Siri, Ignace Youssif III Younan, durante l’audizione nella Commissione Esteri della Camera dei deputati nell’ambito dell’indagine conoscitiva sull’impegno dell’Italia nella comunità internazionale per la promozione e tutela dei diritti umani e contro le discriminazioni.
Riguardo ai terroristi dell’Isis, “voi potete conoscere meglio di me chi li ha creati, chi li ha istigati, chi li ha incoraggiati perché io non sono in questa sfera geopolitica, sono un pastore di Chiesa”. “Sicuramente – ha proseguito – è stato davvero un incubo sui nostri cristiani e su tutte le altre minoranze sia nella Siria sia nell’Iraq”.
Youssif III Younan ha poi osservato che “siamo davanti ad una sfida molto seria: come poter convincere i nostri, particolarmente i giovani, a rimanere nella terra dei loro antenati”. Dai giovani è frequente sentirsi dire che “siamo ridotti a piccole minoranze e avete vissuto lo stato di discriminazione, almeno di cittadini di seconda classe e dovevate subire ingiustizie nel nome del Signore, come testimoni. Ma qual è stato il frutto? Purtroppo. Quindi la gioventù vuole andarsene e fa di tutto per farlo”.
Il patriarca ha accennato all’“eradicazione in Iraq, specialmente nella Piana di Ninive” mentre “la Siria ha subito molti danni, c’è un miglioramento ma non in tutte le parti. Specialmente i giovani non vogliono rimanere” per via del protrarsi del “conflitto orrendo”. In Siria, ha precisato, “i cristiani non sono alleati né con Bashar al-Assad né con il partito Baas né con un altro partito politico. I cristiani vogliono un Paese pacifico, dove possono vivere e rimanere”. “In Siria e in Iraq – ha aggiunto –, i cristiani non hanno né milizie né un numero così grande da far paura né nemmeno sono armati. Vogliono vivere nella pace, per migliorare la situazione del loro Paese”.
Youssif III Younan ha chiesto un impegno dell’Italia e dell’Unione europea “per cercare di pacificare questi Paesi e non lasciare né gli americani, né i russi, né i cinesi ad esportare tutto questo odio tra confessioni e tutte le violenze”. “Dobbiamo cercare di pacificare, incoraggiare il dialogo e, specialmente, esercitare la Carta dei diritti umani per tutti” con particolare riferimento alla parte relativa alla libertà religiosa. “L’Italia può avere un grande ruolo”, ha concluso. E, visto il “grande influsso”, anche per il futuro del Libano: “per favore – l’esortazione – aiutate il Libano ad avere un suo governo malgrado tutti gli ostacoli”.

Card Sako: a Baghdad per i giovani un centro per cristiani e musulmani

By Asia News
Dario Salvi

Realizzare a Baghdad “un centro giovanile” con un campo sportivo, una biblioteca, un luogo di cultura e di incontro; al contempo, coinvolgere sempre più i laici, anche giovani, soprattutto le donne nella gestione degli affari della Chiesa “sfruttandone al meglio il carisma”. Sono gli obiettivi tracciati ad AsiaNews dal patriarca caldeo card Louis Raphael Sako, nell’ultima settimana di lavori del Sinodo dei vescovi dedicato ai giovani in corso dal 3 al 28 ottobre in Vaticano. Il porporato vuole fare tesoro del lavoro, degli incontri, dialoghi e discussioni di “queste giornate intense” per rafforzare il compito missionario della Chiesa (anche) nel mondo arabo e musulmano, grazie “all’impegno e all’entusiasmo” di ragazzi e ragazze.
Commentando i lavori del Sinodo, il primate caldeo è soddisfatto per l’occasione di confronto con vescovi e sacerdoti di altre realtà, oltre all’incontro e allo studio della “situazione dei giovani a livello umano, sociale e nell’ambito della fede”. A differenza di altri incontri, egli parla di “un’atmosfera diversa, non c’è tensione ma tanta allegria e uno stile giovanile”, anche se - osserva - fra ragazzi e ragazze “non sono tanti, purtroppo solo 36 a fronte di 268 padri sinodali. Forse poteva essercene qualcuno in più”. 
Ogni realtà ha le proprie problematiche, l’esperienza varia a seconda dei continenti e delle nazioni e il lavoro che viene svolto dai partecipanti è “edificante”. “Penso di poter tornare - afferma il card Sako - con tante idee e prospettive diverse per i nostri giovani” in Iraq. La speranza, prosegue, “é quella di dare loro uno spirito nuovo. Molti hanno sperimentato in prima persona le persecuzioni o l’essere rifugiati. Io aprirò loro tutte le porte”, perché “il loro carisma oggi è cruciale”. 
Le nuove generazioni, spiega il porporato, “sono protagoniste della vita della Chiesa. In questa occasione papa Francesco e gli altri padri sinodali hanno attaccato con maggiore forza il clericalismo e l’abuso che ne viene fatto, il potere della Chiesa. Dei giovani dobbiamo valorizzarne “le risorse e le potenzialità”, perché hanno molte “idee per la vita della Chiesa, sono membra del corpo di Cristo e non cercano pietismo ma partecipazione”. 
Fra le priorità tracciate dal patriarca caldeo vi è quella di “valorizzare il ruolo della donna”, sfruttandone “il carisma” e facendolo diventare anche “un modello e un messaggio per i musulmani” perché anche fra i fedeli dell’islam l’universo rosa acquisti sempre più importanza. “Io ho già cominciato - sottolinea - nominando una donna nella gestione delle finanze del patriarcato e una ragazza per la catechesi. È importante responsabilizzarli sempre più nella vita della Chiesa”. 
Infine, il patriarca Sako racconta ad AsiaNews il suo “più grande desiderio: “Far sorgere un centro giovanile a Baghdad, che sia anche un luogo per fare sport, cultura, con una biblioteca aperta, internet. Una casa dei giovani e un luogo di ascolto, di discernimento, di accompagnamento e che sia gestito da un sacerdote o da ragazzi già formati in questo senso”. “Ritengo importante - conclude il porporato - impegnare sempre più i laici nell’amministrazione delle diocesi, soprattutto nella parte amministrativa, così il vescovo ha più tempo per la formazione, l’accompagnamento, la liturgia. Nella vita della Chiesa ci vuole tanta partecipazione”.

22 ottobre 2018

In un video il grazie dei giovani dell'Iraq a Papa Francesco

By Vatican News
Adriana Masotti



Il 13 ottobre scorso, a Casa Santa Marta in un clima particolarmente affettuoso, Papa Francesco aveva incontrato un ragazzo iracheno, Safa Al Abbia, uditore al Sinodo sui giovani. Subito dopo il giovane avrebbe dovuto rientrare nel suo Paese per stare vicino alla madre molto malata e aveva espresso il desiderio di poter salutare il Papa prima della partenza.
La benedizione del Papa a tutti i giovani dell'Iraq
Francesco aveva subito accettato e alla fine del colloquio, augurandogli buon viaggio, gli aveva consegnato un rosario da portare alla madre. Inoltre aveva anche rivolto parole di incoraggiamento a tutti i giovani dell'Iraq raccomandando loro di andare avanti senza scoraggiarsi, guardando con fiducia al futuro e confidando sempre nel Signore. Il Papa aveva infine assicurato le sue preghiere e la sua benedizione per tutte le ragazze e i ragazzi dell'Iraq.
La gratitudine dei ragazzi e delle ragazze
Un’attenzione e un affetto quelli di Papa Francesco che Safa Al Abbia ha immediatamente diffuso, al suo ritorno, tra i giovani vicini alla Chiesa in Iraq. Quindi l'idea di Safa di far arrivare subito le loro risposte, in diverse lingue, attraverso un video rivolto al Papa. I giovani insieme a mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad, ringraziano, s'impegnano a pregare a loro volta per Francesco e assicurano la loro unità con tutta la Chiesa.

19 ottobre 2018

Brisbane priest witnesses the Church and people of Iraq rebuilding after ISIS devastated their country

By The Catholic Leader
Peter Budgen

Brisbane priest Fr Gerry Hefferan has visited some of the towns devastated by ISIS in the Nineveh Plains of northern Iraq and been struck by the “incredible resilience” of families rebuilding their lives there.
“I remember the courage and perseverance of returning families and their hospitality,” Fr Hefferan told parishioners at the Parish of St Joseph and St Anthony, Bracken Ridge, in Brisbane’s northern outskirts, recently on the first weekend after his return from a 10-day solidarity visit to Kurdistan and the Nineveh Plains.
Fr Hefferan has a special interest in the people there because his parish is home to many Catholics from Iraq, as well as from Syria, who were forced to leave their homelands in the wake of ISIS’ brutal raids through the region.
He also visited the region in 2009 in the time of Al Qaida and in 2013, and he – with the Australian Catholic Bishops Conference, Brisbane archdiocese and Australian Catholic University and some religious orders – has been involved in projects supporting the people there throughout that time.
Archbishop Bashar Warda of Erbil, in Kurdistan, northern Iraq, invited Fr Hefferan to make the recent visit when Catholics there would be celebrating the Exaltation of the Cross, a special feast for them.
Fr Hefferan could see first-hand the progress of Church projects and programs in Kurdistan and meet the people organising them, and then visit people in some of the towns devastated by ISIS in the Nineveh Plains.
“They have rebuilt some of their houses in some towns of the Nineveh Plains. They were so welcoming,” Fr Hefferan told his parishioners.
“I joined in a few meals, as is their custom of hospitality. They shared some of their stories.
They want to know that people outside Iraq care about them and their efforts to rebuild their lives.
“They need to feel connected, as do we all.”
Painting a picture of what it was like for people returning to rebuild their lives post-ISIS, Fr Hefferan said ISIS had destroyed everything – houses, churches, banks, schools, shops, factories, businesses, pastoral industries, crops, playgrounds, water pipes and electricity.
“Their poultry and sheep and other animals were slaughtered – their food crops, fruit trees, vineyards devastated – (they were) homeless, jobless,” he said.
“I was taken on tours of three towns devastated by ISIS (– Telskof, Karemles and Qaraqosh).
“I remember the courage and perseverance of returning families and their hospitality.”
Fr Hefferan was struck by “the incredible challenges they’ve got – to build from scratch – and the sense of community that they have, doing it together”.
“One of the beautiful things (in the towns in the Nineveh Plains) was to be able to share a meal with them in their own house that they’ve renovated,” he said.
“They were just so proud to share hospitality and show what they had done. And they’d have photos showing what it used to be like.”