"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

30 settembre 2010

Mosul, la terra del martirio

By Avvenire, 30 settembre 2010

reportage di Luigi Geninazzi

Le mura con le pietre a sbalzo ed i fregi in stile assiro-babilonese, annerite e danneggiate dagli incendi provocati dalle bombe, conferiscono un’aria spettrale alla chiesa dello Spirito Santo, chiusa dopo i ripetuti attacchi di questi ultimi anni. La grande e moderna costruzione caldea che sorge in quel che un tempo era un quartiere misto di arabi sunniti e di cristiani è diventata il Colosseo del XXI secolo in terra irachena. Qui è caduto il giovane padre Ragheed Ganni, ucciso insieme a tre suddiaconi in pieno giorno da terroristi a viso scoperto. E su questo stesso piazzale venne rapito e poi assassinato l’arcivescovo Faraj Rahho.
Non si può sostare neppure un attimo per una preghiera, «questa è la zona più a rischio di tutta la città», mi dice Marcos Sabah, uno dei pochi cristiani rimasti a Mosul.
C’è da crederci, fino a due anni fa lui abitava proprio qui «ma la pressione sociale e la tensione psicologica erano arrivate ad un livello insostenibile», spiega, e così si è trasferito con tutta la famiglia in un quartiere residenziale della periferia, dove ci sono più garanzie di sicurezza. Negli ampi viali costeggiati da alte case incontriamo un check-point dell’esercito iracheno ogni duecento metri, in giro ci sono più militari che civili. Fermi in coda per i controlli, tutti sono nervosi e si guardano attorno con diffidenza perché a Mosul, come ricorda il mio amico con macabro umorismo, le auto-bombe sono più frequenti dei tamponamenti. Comunque, meglio qui che nella città vecchia, oltre il Tigri, un dedalo di viuzze che ad ogni angolo nascondono un’insidia.
Marcos e sua moglie Hanna si sentono dei superstiti. Mosul era la seconda città dell’Iraq per numero di cristiani, 50mila su una popolazione di oltre due milioni. Oggi è una comunità letteralmente decimata, ridotta a poco più di 4mila persone che vivono nel terrore d’essere aggredite, sequestrate e uccise dai gruppi fondamentalisti islamici che nessuno sembra poter o voler fermare. Chi può scappa, lasciando sul posto tutto quel che aveva. Ai cristiani che se ne vanno i gruppi fondamentalisti impongono di pagare la metà di quanto hanno ricavato dalla vendita della casa.
Marcos ha deciso di non vendere, ma teme che la sua vecchia abitazione finirà con l’essere occupata abusivamente, come spesso succede. Due suoi figli se ne sono andati in Svezia, la figlia con il neo-sposo non vede l’ora di seguirli. «Quando esco devo mettermi il velo, vengo insultata e minacciata continuamente. E voi scrivete che adesso in Iraq c’è la libertà», scuote il capo tristemente la giovane. Basil, il marito, lavora come autista per il vicino convento di San Giorgio, anche se ormai vi è rimasto un solo monaco. In quest’antica fortezza in cima alla collina si respira un clima di tranquillità e di pace, un’oasi nell’inferno di Mosul.
Per sfuggire alle intimidazioni e alle violenze migliaia di famiglie si sono rifugiate nella piana di Ninive, trovando ospitalità nei villaggi tradizionalmente abitati dai cristiani. Distano una manciata di chilometri da Mosul, cui fanno capo amministrativamente, ma di fatto stanno sotto l’ombrello protettivo del governo autonomo del Kurdistan le cui milizie, i famosi peshmerga già in guerra con Saddam Hussein, sono massicciamente presenti nelle cosiddette "disputed zones", le aree dell’Iraq settentrionale in attesa di uno status definitivo. Percorrendo la pianura arida e assolata di Ninive, balza immediatamente all’occhio un paesaggio fatto di cupole, croci e immagini della Madonna.
È qui che i cristiani in fuga dall’orrore affrontano la difficile sfida della sopravvivenza. Hanno costituito una guardia d’autodifesa che presidia i villaggi, gente armata in uniforme, riconosciuta sia dal governo centrale di Baghdad sia da quello regionale curdo. A Karamlis, 5mila abitanti, la guardia d’autodifesa può contare su 250 uomini. Nella chiesa di Mar Addai c’è la tomba di padre Ganni, già venerato dai fedeli come un martire. Anche la salma di monsignor Rahho venne sepolta qui prima di essere traslata nella chiesa di San Paolo a Mosul. «Nei nostri villaggi si vive in un clima di relativa sicurezza ma la gente non ha lavoro, e soprattutto non ha fiducia nel futuro», ci dice monsignor Georges Casmoussa, il vescovo siro-cattolico di Mosul il cui sequestro, fortunatamente concluso con la sua liberazione, segnò l’inizio dell’interminabile Via Crucis dei cristiani iracheni.
«Dobbiamo imparare ad alzare lo sguardo, a non perdere la speranza», sottolinea padre Gibrail Tooma, superiore degli Antoniani caldei nel convento di Nostra Signora delle Messi, che sorge ad Alqosh, all’estremità settentrionale della piana di Ninive. Ha studiato a Roma ed è tornato a Baghdad nel momento peggiore, alla fine della guerra del 2003. Ha visto la morte da vicino parecchie volte, tra bombe, sparatorie e attentati diretti alla sua persona. Un giorno venne a sapere dalla venditrice ambulante da cui si riforniva di sigarette («una brava musulmana») di essere nel mirino di una banda di sequestratori. «Così decisi di lasciare Baghdad. E poi dicono che il fumo fa male. A me ha salvato la vita», scherza adesso.
Dal 2007 padre Gibrail è priore del convento di Alqosh, un grande complesso di edifici ai piedi dell’antico monastero scavato nella roccia di Sant’Hormisda, uno dei patroni della Chiesa caldea. Nel convento sono ospitati decine di orfani i cui genitori sono morti in seguito alla guerra ed alla violenza terroristica. Ne hanno fatto esperienza loro stessi quando, viaggiando su un pulmino, hanno evitato per un soffio l’esplosione di un’auto-bomba. Lo scorso febbraio, dopo l’ennesima strage di cristiani a Mosul, nelle celle del convento avevano trovato riparo una cinquantina di famiglie, sfollate in seguito alle minacce di morte.
Una sistemazione provvisoria che hanno lasciato dopo qualche mese. Pochi però hanno avuto il coraggio di tornare nelle loro case, la maggior parte se n’è andata in Turchia, in Siria e in Giordania avendo come meta finale l’Europa. È una richiesta che mi sono sentito ripetere come un ritornello incontrando i profughi cristiani. Dopo un po’ l’intervista si capovolge e sono loro a fare le domande che spesso si concludono con un’implorazione: «Mi aiuti ad ottenere un visto per l’Italia».
Eppure, c’è qualcuno che ha deciso di compiere il cammino inverso. Come Youssif Dred, 35 anni, da venti rifugiato in Olanda dove, insieme con la moglie Sonia e i suoi tre bambini, ha ottenuto la cittadinanza.
È tornato al villaggio natale di Alqosh per stare vicino al padre malato, scegliendo poi di rimanere in Iraq. Al momento ha trovato lavoro in un bar, ma intende coltivare un terreno affidatogli in usufrutto dai monaci del convento. «È la fede che mi ha spinto a questa decisione – racconta – sono cristiano e sono iracheno, voglio che la mia Chiesa non scompaia dalla terra in cui sono nato. In Olanda, le chiese sono vuote di fedeli e vengono date agli immigrati musulmani: ma che razza di cristianesimo è il vostro?», chiede provocatoriamente.
Anche Hazim Harboli, 33 anni, è tornato. Con un’idea ben chiara in mente: diventare monaco. Era uscito dal Paese nel 1998, insieme con i genitori si era stabilito in Grecia, dove aveva pure una fidanzata. Nel 2008 ha deciso di rientrare in Iraq. La sua famiglia ha fatto di tutto per dissuaderlo: anche in Grecia si sono tanti monasteri... Ma Hazim, capelli rossi e testa dura, vuole essere monaco caldeo in patria. «Stavo male ogni volta che mi giungevano le notizie di uccisioni di vescovi e preti a Mosul. Ed ho pensato: anch’io sono nato in quella terra, devo prendere il loro posto», dice senza alcuna enfasi. A spingerlo alla decisione irrevocabile di tornare qui e di fare domanda di noviziato al monastero antoniano è stata la tragica vicenda di monsignor Rahho, trucidato barbaramente dai terroristi.
Anche in Iraq, terra d’antica fede, semen est sanguis christianorum.

Iraq: Mons. Nona. Io, vescovo, costretto a rimanere nascosto

By Avvenire, 30 settembre 2010

di Luigi Geninazzi

Ci si arriva dopo l’ennesimo posto di blocco dell’esercito iracheno che controlla l’ingresso di una strada dominata dalla croce in cima alla cupola di una chiesa. Di fronte c’è la residenza dell’arcivescovo caldeo, monsignor Emil Shimoun Nona, che ci accoglie con grande cordialità. «È la prima volta che vengono dei giornalisti fin qui, a casa mia», dice sorridendo. Non è stato poi così difficile, anche se tutti ci avevano sconsigliato un simile viaggio.
Mosul, cuore antico della Chiesa caldea fedele a Roma, è diventata il mattatoio dei cristiani, la città tristemente simbolo di una nuova stagione di persecuzioni che dura da sette anni e di cui non si vede ancora la fine. Un occidentale non passa inosservato, e se poi è anche un giornalista cattolico diventa un doppio bersaglio. E comunque vedrai, ti fermeranno al primo check-point, mi dicevano.
Invece, in auto insieme con un collega e con un prete che non ha mai smesso di venirci e sa evitare le zone più a rischio, tutto è filato liscio. Ci vuole ben più coraggio a vivere qui tutti i giorni. Come quello che ha monsignor Emil Nona – chiamato a succedere a monsignor Faraj Rahho, ucciso nel 2008 – giovane parroco di 42 anni consacrato vescovo di Mosul all’inizio del 2010. «Non potevo rifiutare l’incarico, questa comunità sempre più piccola e martoriata aveva bisogno di un pastore. È toccato a me», spiega con semplicità.
Eccellenza, come vivono i cristiani a Mosul?

Siamo rimasti in pochi, anzi pochissimi. Mosul era la seconda diocesi più grande della Chiesa caldea in Iraq, qui in città vivevano decine di migliaia di fedeli ma quasi tutti sono fuggiti. Sono rimaste circa 700 famiglie, quelle più povere che non hanno mezzi per trasferirsi altrove. Su dieci parrocchie sei non funzionano più, soltanto in quattro chiese si celebra regolarmente Messa la domenica. Non hanno più fedeli; inoltre, molti edifici di culto sono inagibili perché danneggiati dalle bombe.
Com’è la sua vita quotidiana? Come si muove?

Cerco di vivere normalmente, anche se con qualche precauzione. Quando esco cambio sempre itinerario, qualche volta anche l’auto. La mia attività pastorale è molto ridotta e nascosta, ogni settimana tengo un incontro sui Dieci Comandamenti nella vicina chiesa di San Paolo, che si trova in una zona relativamente tranquilla dove i fedeli possono riunirsi. Cerco di visitare le famiglie, ma senza dare nell’occhio. E quando mi reco nella città vecchia, dove ad ogni angolo posso incappare in qualche brutta sorpresa, non metto la talare e ci vado senza alcun preavviso. Devo dire però che negli ultimi tempi la situazione è un po’ migliorata.
Intende dire che c’è più sicurezza?

Dopo le elezioni che si sono tenute a marzo, il numero di omicidi, sequestri e attentati è diminuito. Credo sia dovuto a due motivi: i sunniti hanno stravinto qui a Mosul, controllano il governo locale e quindi anche le loro frange più estremiste. Inoltre, sia pure faticosamente, si sta avviando un dialogo tra arabi e curdi. Nonostante questo, Mosul resta sempre la città più pericolosa di tutto l’Iraq.
Come si spiega?

Storicamente Mosul è sempre stata una roccaforte dell’islam radicale. Episodi d’intolleranza nei riguardi dei cristiani c’erano anche ai tempi di Saddam Hussein. Poi, nel caos che è seguito alla guerra del 2003, è dilagata la violenza fondamentalista e Mosul è diventata il punto di raccolta di tutti i gruppi estremisti, sia locali che stranieri, a cominciare da al-Qaeda, cui si sono aggiunte altre sigle terroristiche.
In questa terribile situazione come intende la sua missione pastorale?

Io dico sempre una cosa: basta con la paura di morire, ritroviamo la voglia di vivere. È questo il mio messaggio ai fedeli che da sette anni continuano a soffrire: dobbiamo testimoniare un’umanità vera, quella che ci ha donato Cristo e che nessuno ci potrà mai togliere. Non possiamo vivere nella paura! Ma l’esodo della famiglie purtroppo continua, la mia gente ha perso la fiducia, non crede che a Mosul i cristiani potranno avere ancora un futuro.
Lei vede qualche segno di speranza?

Ho trovato persone che hanno rafforzato la loro fede dopo aver perso amici e familiari colpiti dalla violenza anti-cristiana. Non provano sentimenti di odio e di vendetta, e questo mi è di grande esempio. La speranza non muore: qualche settimana fa due ragazzi di Mosul sono venuti a dirmi che vogliono diventare sacerdoti di questa nostra Chiesa sofferente. Devo ammettere che mi sono commosso.
Che cosa s’aspettano dall’Occidente i cristiani iracheni?

Nulla. Il giudizio sugli americani resta molto negativo: sono intervenuti in Iraq sulla base dei propri interessi, senza tener conto delle conseguenze a livello generale e dei contraccolpi pesantemente negativi per la presenza dei cristiani. Difficile che adesso s’aspettino qualcosa di buono da chi ritengono essere il principale responsabile delle loro disgrazie.
Avete ricevuto solidarietà dalle Chiese d’Occidente?

Non posso parlare a nome di tutte le Chiese d’Iraq. Come vescovo di Mosul, devo dire che la mia diocesi ha ricevuto qualche aiuto materiale dai cattolici tedeschi. Ma abbiamo bisogno di non sentirci soli e abbandonati, è questo che conta.
Eccellenza, lei parteciperà al Sinodo sul Medio Oriente che si terrà a Roma fra pochi giorni. Quali sono le sue attese?

Dal Sinodo mi aspetto non solo parole d’incoraggiamento, bensì anche indicazioni concrete per vivere la fede in una terra dove il cristianesimo ha radici antiche ma la cui presenza oggi è minacciata dal fondamentalismo islamico. È un compito difficile, eppure dobbiamo affrontarlo come Chiesa universale. Mi va bene che si parli di dialogo con il mondo musulmano, ma bisogna uscire dal generico, definendo chiaramente con chi e su quali punti è possibile dialogare.
Lei ha preso la guida della diocesi di Mosul in seguito al brutale assassinio del suo predecessore. Si è fatta chiarezza sui mandanti e sugli esecutori dell’omicidio di monsignor Rahho?

Ancora oggi non sappiamo esattamente che cosa sia successo. C’è stata una commissione d’inchiesta governativa i cui lavori si sono conclusi con l’arresto e la condanna a morte di una persona ritenuta colpevole. Ma non conosciamo la sua identità e neppure i capi d’accusa. Siamo ancora lontani dalla verità, il che acuisce il nostro grande dolore.
Quando potremo tornare in una Mosul tranquilla e pacificata?

Solo Dio lo sa. Attendiamo con ansia la formazione del nuovo governo a Baghdad. L’aspettiamo da più di sei mesi. Spero in un esecutivo di concordia nazionale. Ma se i sunniti restassero fuori, il Paese potrebbe ripiombare nella guerra civile. E per noi cristiani, già duramente provati, sarebbe la fine.

Sinodo Medio Oriente: CCO, incontro dei sacerdoti di lingua araba

By SIR, 30 settembre 2010



Un incontro di tutti i sacerdoti di lingua araba di Roma per pregare per l’imminente Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi (10-24 ottobre). E’ l’iniziativa promossa dalla Congregazione per le Chiese orientali (Cco) per l’8 ottobre a Roma, chiesa san Nicola da Tolentino (ore 20.30), che vedrà presenti oltre al Prefetto, il
card. Leonardo Sandri, anche diversi padri sinodali. Al termine dell’incontro verrà provato l’inno, in lingua siriaca ed araba, che aprirà ufficialmente l’assise sinodale. Secondo quanto appreso dal Sir dalla Cco, a questa prima iniziativa, ne farà seguito una seconda, patrocinata dalla stessa Congregazione, ma organizzata, il 16 ottobre (ore 20.30), dalla parrocchia di san Pio V di Roma, alla quale saranno presenti l’arcivescovo segretario della Cco, mons. Cyril Vasil, l’arcivescovo di Mosul dei Siri (Iraq), mons. Georges Casmoussa e padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa.
“Con questo Sinodo – affermano dalla Cco - ci avviciniamo veramente al cuore degli inizi del Cristianesimo e al pensiero che i Pontefici hanno sempre ribadito che le Chiese orientali sono dei testimoni viventi di queste origini. Convocando il Medio Oriente a Roma, collocandolo quindi nel cuore di tutta la Chiesa, Benedetto XVI ha voluto ribadire che gli inizi della salvezza cristiana costituiscono il punto di riferimento per il presente ed il futuro di tutta la Chiesa. Il tesoro della spiritualità orientale, secondo le diverse tradizioni, è patrimonio comune dell’unica Chiesa cattolica”.
I padri sinodali che parteciperanno all’assise saranno poco più di 180, a questi vanno aggiunti i collaboratori, gli esperti, gli uditori. Sono previsti anche i delegati fraterni ecumenici e rappresentanti del mondo musulmano ed ebraico.

29 settembre 2010

Usa/ Florida, ragazzini si preparano a evangelizzare l'Iraq

By Virgilio Notizie

Roma, 29 settembre 2010 (Apcom) - Si chiama "Campo estivo del Signore" e ogni estate richiama in Florida centinaia di ragazzi, tra i 4 e i 18 anni, pronti a vivere senza acqua corrente ed elettricità, a tollerare le zanzare, a seguire corsi di sopravvivenza e imparare a evangelizzare. Una volta concluso il corso di addestramento, i ragazzi vengono inviati come missionari negli angoli più sperduti del mondo, per collaborare alla costruzione di scuole e di chiese e per cercare di conquistare nuovi proseliti alla chiesa evangelica americana.
I campi sono stati ideati circa 40 anni fa da Bob Bland, 82 anni, e da allora sono stati formati circa 40.000 ragazzi. Alla fine di questa settimana, le squadre formate in Florida raggiungeranno posti come la foresta amazzonica, il Belize, l'Uganda e il Malawi per avviare l'evangelizzazione, lavorare con bambini rimasti orfani a causa dell'Aids o ampliare missioni già esistenti.
Il programma del prossimo anno prevede invece la formazione di ragazzi da inviare in uno dei Paesi più ostili: l'Iraq. Stando a quanto scrive oggi il quotidiano britannico Daily Telegraph, che ha visitato il campo di Merritt Island, a est di Orlando, Bland volerà presto nel Kurdistan iracheno per preparare il viaggio missionario in programma per giugno. Due ragazzi hanno già offerto la propria disponibilità, ma Bland ha precisato che intende confermare il viaggio in Iraq solo una volta conclusa la sua ricognizione nel Paese.
Sono 80 milioni gli americani che si professano cristiani evangelici, che oggi rappresentano la comunità religiosa più grande degli Stati Uniti, precisa il quotidiano.

Teen evangelists: next stop Iraq

By Telegraph, September 28, 2010
by Alex Hannaford

It’s just after 6am and the sun is not yet up. Two hundred children stand in a clearing, surrounded by a dense jungle of palm trees on an island off the Florida coast. A girl of about 15 climbs a stepladder in the middle of the group and everyone bows their heads. 'We pray the Lord will keep us safe today,’ she says.

The children divide into smaller groups and disappear into the forest where, one at a time, they embark on an army-style obstacle course that involves crawling through painted steel tunnels, scrambling over a 20ft mountain of tyres, climbing over huge wooden walls emblazoned with the words 'doubt’, 'anxiety’ and 'confusion’, and then attempting to put large wooden boxes, painted with the books of the Bible, in chronological order.

Soon, Bland is flying to Iraqi Kurdistan to lay the foundations for a mission trip there next June. The person leading that expedition will be Margaret Watsa, a Canadian who use to each in England. She’ll be teaching phonetics. 'God has made it very clear to me there is a plan and that I’m part of that plan,’ Watsa tells me. 'I think if I’m supposed to be doing this, he’ll either protect me from harm or it’s his plan that something should happen… I believe my life is in God’s hands.’
Two children have already signed up for the Iraq trip, but Bland says he won’t decide whether it’ll go ahead until he gets back from his recce.
The final evening at boot camp, before the teams fly off to their respective countries to begin the Lord’s work, is known as Commissioning Night. During the day there has been hammering, the clunking of metal and the roar of tractor engines as the children and their team leaders help take down their tents and dismantle the camp.
Several weeks’ worth of dust and forest debris is blown and swept from paths, and teams march around the site carrying buckets, shovels and bags. 'One more day, one more day,’ they shout as they gather in the big top for the final ceremony.
Just outside the marquee, the forest is alive with the shrill hum of crickets. Standing by the obstacle course, kicking dirt up against the 30ft-high boards that, earlier in the week, hundreds of children had leapt over at an ungodly hour, are two boys: Peter Vance, 16, from Massachusetts, and his new friend Austin Carver, 15, from Pennsylvania, are flying to Madagascar in the morning.
Neither of them has enjoyed his time here. Peter says his parents gave him an ultimatum: stay at state school and come to Teen Missions for the summer, or go to a tiny Christian school in the autumn. Teen Missions was the lesser of two evils. 'I grew up as a missionary kid in Uzbekistan for 14 years,’ he says. 'This isn’t such a bad place but the worst thing is not having any technology. I miss my iPod, logging on to Facebook, my Xbox. I miss playing and watching sports.’
Austin is less diplomatic. 'They try to force Jesus on you in every physical way,’ he says. 'We go to church every single day but they only call it church on Sunday. I won’t come back. I want to form a band – I play bass. The music sucks here. My parents paid $5,000 for me to do this.'
'Dude, if Pete wasn’t here I don’t know what I’d have done – you’d have seen me hanging from the prayer tower.’

I cristiani iracheni rifugiati in Siria hanno bisogno di aiuto

By Zenit, 28 settembre 2010

Il Vescovo Antoine Audo S.I. di Aleppo (Siria) si incarica di coordinare una massiccia operazione di aiuto ai cristiani iracheni che fuggono in territorio siriano vista la difficile situazione del loro Paese.
Dopo lo scoppio della crisi dei rifugiati in seguito all'abbattimento del regime di Saddam Hussein nel 2003, il presule si è rivolto all'associazione caritativa internazionale Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), che da allora ha fornito consistenti aiuti.
Esausti dopo un viaggio lungo e a volte tortuoso, i rifugiati arrivano nella capitale siriana, Damasco, e ad Aleppo, dove ricevono i primi soccorsi e soprattutto, qualora sia necessario, vengono sottoposti a interventi chirurgici.
Coordinate dalle parrocchie cattoliche caldee di entrambe le città, le operazioni di soccorso includono anche la distribuzione mensile di beni di prima necessità, come tè, burro, zucchero e olio per cucinare.
In risposta alle urgenti richieste di aiuto da parte delle giovani famiglie, il Vescovo Audo ha aperto una scuola per i bambini rifugiati ad Aleppo, e sia qui che a Damasco i più piccoli ricevono sostegno educativo da parte dei volontari delle parrocchie.
“Quando i cristiani iracheni arrivano in Siria, c'è solo la Chiesa che li aiuta”, ha sottolineato il presule.
Entro un anno dall'arrivo in terra siriana, la maggior parte dei rifugiati riceve visti per recarsi in Paesi occidentali, tra cui Stati Uniti, Canada e Australia.
Anche se la Siria è il Paese confinante più scelto dagli emigrati iracheni, infatti, le autorità di Damasco concedono raramente visti permanenti, lavoro o permessi d'alloggio.
Il Vescovo non crede che la situazione dei cristiani iracheni stia migliorando, e denuncia come sia difficile soprattutto a Mosul, nel nord del Paese.
“A Baghdad varia molto. La vita può essere piuttosto normale e poi all'improvviso possono esserci attacchi alle chiese e atti di persecuzione contro le persone”.
Seguendo l'appello di Papa Benedetto XVI, che ha avvertito che “le Chiese in Medio Oriente sono minacciate nella loro stessa esistenza”, Aiuto alla Chiesa che Soffre si sta mobilitando per aiutare queste realtà.
Sostiene in particolare i rifugiati iracheni, in Siria ma anche in Turchia e Giordania.

Cristiani perseguitati: il 5 ottobre una conferenza al parlamento europeo

By SIR, 29 settembre 2010

Una conferenza sulla persecuzione contro i cristiani. Si terrà il 5 ottobre a Bruxelles, presso la sede del Parlamento europeo (stanza A5G-2, ore 9 – 12.30), per iniziativa della Comece (Commissione episcopati Unione europea), e dei Gruppi dei conservatori e riformisti europei e del partito popolare europeo (Epp) all’Europarlamento, in collaborazione con Kirche in Not e Open Doors International.
“La persecuzione per motivi religiosi o di credo è ancora presente in tutto il mondo. Il 75% delle morti legate a delitti per motivi di odio o di natura religiosa riguarda persone di fede cristiana” spiega una nota degli organizzatori dell’incontro, secondo i quali “ogni anno 170 mila cristiani soffrono a causa della loro fede”. Di fronte questo fenomeno “l’Europa non può restare passiva – si legge ancora nella nota -. L’Unione europea deve assumersi la corresponsabilità della protezione della libertà religiosa nel mondo”. Nel corso dei lavori la Comece presenterà un rapporto sulla libertà religiosa e alcune raccomandazioni alle istituzioni Ue.
Tra i relatori mons. Eduard Hiiboro Kussala, vescovo della diocesi cattolica di Tombura -Yambio nel sud Sudan; mons. Louis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk, in Iraq; e T.M. Joseph, rettore del Newman College a Thodupuzha, in India.

Persecuted Christians: October 5th, a conference at the EU parliament

By SIR, September 29, 2010

A conference about persecution of Christians. It will be held on October 5th in Brussels, in the premises of the European Parliament (room A5G-2, at 9 – 12.30 h), on the initiative of Comece (Commission of the EU Bishops Conferences), the European Conservative and Reformist Groups and the European People’s Party (Epp) at the European Parliament, with the support of Kirche in Not and Open Doors International.
“Persecution for religious reasons or beliefs still exists all over the world. 75% of deaths from crimes driven by hatred or religious reasons concern people of Christian faith”, explains a notice from the organisers of the conference, according to whom “every year, 170 thousand Christians suffer because of their faith”.
Faced with this phenomenon, “Europe cannot be passive – the notice goes on –. The European Union must take joint responsibility for protecting religious freedom in the world”.
During the conference, Comece will present a report on religious freedom and some recommendations to the EU Institutions.
Guest speakers will include mgr. Eduard Hiiboro Kussala, bishop of the Catholic diocese of Tombura-Yambio in southern Sudan; mgr. Louis Sako, Chldean archbishop of Kirkuk, Iraq; and T.M. Joseph, rector of Newman College in Thodupuzha, India.

Un futuro in bilico. Minoranze cristiane: un nodo per il Sinodo dei vescovi

By SIR, 27 settembre 2010

a cura di Daniele Rocchi
Il numero dei cristiani iracheni si è dimezzato dal 2003, anno dell'invasione americana, ad oggi, passando da più di un milione ai circa 500 mila attuali. Lo ha affermato il responsabile governativo degli affari religiosi dei non musulmani, Abdullah Alnaufali, nel corso di una recente visita alla città santa sciita di Najaf. Dichiarazioni che non lasciano dubbi sull'entità del dramma che stanno vivendo i cristiani iracheni, come anche quelli di altri Paesi, che in numero sempre maggiore decidono di lasciare le loro case in cerca di un futuro migliore, lontano dalle loro terre d'origine.

"Essere o non essere". Il futuro dei cristiani in Medio Oriente sarà uno degli argomenti cruciali che il prossimo Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente (Vaticano, 10-24 ottobre) sarà chiamato a discutere, come spiega al SIR l'arcivescovo di Kirkuk, mons. Louis Sako. "L'assemblea sarà un'opportunità per rivedere l'intera situazione dei cristiani della regione e, in particolare, il loro status politico". Sullo sfondo, infatti, si verificano fatti come la crescita dell'Islam radicale e politico, il mancato rispetto delle minoranze, la crisi socio-economica, una stabilizzazione dell'area che non arriva, fatti che non fanno ben sperare come conferma al sito Ankawa.com, Joe Obayada, membro dell'esecutivo di "Icin" ("Iraqi Christians in need"), "charity" inglese che si occupa di rifugiati cristiani. "La maggioranza dei cristiani - dice - ha lasciato il Paese a causa delle persecuzioni perpetrate nei loro confronti da estremisti. Ora che gli Usa hanno lasciato l'Iraq i cristiani sono diventati un bersaglio più di prima". "Essere o non essere o forse, saremo o non saremo?", recupera una citazione shakespeariana, mons. Sako, per descrivere lo stato d'animo dei cristiani mediorientali. "L'emigrazione dei cristiani da queste terre è causata non solo dall'estremismo musulmano o dall'Islam politico ma anche dalla divisione dei cristiani, da una debole coscienza della testimonianza cristiana, da un'immagine falsata dell'Occidente, dalla paura per i diritti umani, dalla preoccupazione per l'istruzione dei figli". "Sono tante ragioni che richiedono un lavoro serio e comune anche da parte delle Chiese se si vuole continuare a restare in queste terre", sottolinea l'arcivescovo caldeo pensando al Sinodo.

Una percezione sbagliata. Il futuro dei cristiani passa necessariamente attraverso il dialogo con l'Islam e con le altre denominazioni cristiane, come dimostrato chiaramente dalla vicenda del pastore americano Terry Jones e dalla sua intenzione, rientrata, di bruciare il Corano. Per mons. Sako, "è stata una provocazione che ha dimostrato quale percezione hanno le masse musulmane dei cristiani. Le folle islamiche non distinguono gli atti individuali, per loro dire una chiesa è come dire la Chiesa o tutte le Chiese. Ne deriva l'equazione secondo la quale 'i cristiani sono contro i musulmani', ma non è così. Da parte nostra abbiamo cercato di far capire che si trattava del gesto di un singolo e non delle Chiese e dei cristiani. Qualcuno ha capito ma molti ci definiscono infedeli. Per questo bisogna insistere nel dialogo e nella conoscenza reciproca". Stesso discorso per il divieto introdotto in Francia del burqa. "Questa legge è vista come un attacco all'Islam, una discriminazione, senza sapere che la Costituzione francese è di stampo laico e che il divieto di simboli religiosi in spazi pubblici riguarda anche i simboli cristiani. Credo che i musulmani debbano comprendere che il radicalismo è un pericolo pure per loro". Altro problema che le minoranze cristiane si trovano ad affrontare nella Regione "è la richiesta da parte di frange islamiche radicali di introdurre la legge islamica, la Sharia". Questa, ribadisce mons. Sako, "non può essere imposta agli altri cittadini. Noi cristiani rispettiamo la religione islamica ma vogliamo rispetto anche per la nostra. Non si possono imporre il Ramadan, o altri costumi come il velo, agli altri".

La risposta cristiana. Davanti ad una situazione simile la risposta dei cristiani e delle Chiese deve essere unitaria, quindi, per l'arcivescovo di Kirkuk, è fondamentale il dialogo ecumenico: "L'unità delle Chiese, altro tema centrale del Sinodo, è possibile ma non dobbiamo agire da soli. Serve fare riforme, riorganizzare le strutture ecclesiastiche, le diocesi, la liturgia, migliorare la formazione e la catechesi. Con l'Islam, poi, bisogna essere sinceri, parlare in maniera diretta, dialogare con loro anche su temi sensibili come il ruolo dell'autorità religiosa e politica". Un'idea condivisa anche dall'arcivescovo cattolico melchita di Haifa, mons. Elias Chacour, che dal Sinodo si attende "una migliore comprensione della presenza cristiana in questa area tribolata, una maggiore attenzione alla presenza umana e non solo a quella dei santuari, e una definizione del ruolo dei cristiani all'interno della maggioranza ebraica e musulmana".

Iraqi refugees in Jordan are 'guests' with few privileges

By Catholic News Service, September 28, 2010
by Mark Pattison

AMMAN, Jordan (CNS) -- Slwan Kehedeer Antoon was his own boss in Mosul, Iraq. He owned a liquor store and a car-rental agency.
Then, four years ago, Muslim hard-liners bombed his liquor store. Afterward, Antoon started driving his children to and from school because he felt he could not trust their safety to others.
Ultimately Antoon, 46, a Chaldean Catholic, and his family fled to the safety and security of Jordan. They are refugees in every sense of the word, except by Jordan's definition.
Jordan confers refugee status only upon Palestinians in their midst. It is now estimated that 60 percent of Jordan's residents have some Palestinian ethnic background.

As for the Chaldean Iraqis? Even though they number 500,000 -- more than 8 percent of Jordan's 6 million population -- it's more like a matter of don't ask, don't tell.
Jordan considers them guests. The Jordanian-Iraqi border is open. But Antoon cannot reopen his liquor store or car-rental business in Amman, because Jordan forbids Iraqis who have fled their homeland to work. If they are caught working, they are deported back to Iraq.
Iraqis in Jordan have six months to find another country to take them in. If they cannot, they have to pay the equivalent of a few dollars a day for each person in the family for the privilege of staying in Jordan. But without work, they have a hard time paying the fees.
Until this fall, Iraqi children were not allowed to attend Jordanian schools; Jordanian education officials believed that their lack of schooling in a topsy-turvy Iraq would place them far behind their Jordanian counterparts.
Because the Jordanian government does not recognize them as refugees, their hopes of leaving Jordan and joining kin in the United States, Australia, Germany, or some other nation are at the mercy of the United Nations' International Organization on Migration, which passes judgment on the emigration applications of Iraqis in Jordan.
For Antoon, his wife and their three children, the four years in Jordan have hurt.
"This is a testing from God. This is what I believe," Antoon said. Since he cannot work, he and his family go to church -- a lot. After talking with a Catholic News Service reporter, they were planning to attend a Saturday evening Mass at a Jesuit-run parish in Amman, then go to another church the next day.
"The IOM, which is here, refused me and my family, and I don't know what is the reason," Antoon told CNS in the chapel of Sacred Heart Church, founded in 2002 to provide pastoral care to Jordan's Chaldean Catholics.
"I make an appeal, and they refused again. They don't tell me why," Antoon added. Antoon's mother and brothers all successfully left Iraq and live in the Detroit suburbs; so do his wife's parents and siblings.
Because they cannot work in Jordan, they depend on gifts of money from Antoon's mother, sent every few months or so, to help them get by.
There are other forms of help available to them.
The Franciscan Missionaries of Mary operate a help center for Iraqi refugees in Amman from their convent. They depend on church donations and private donors to provide assistance for the 160 or so Iraqis they see each week.
The five sisters' help takes the form of food, counseling, schooling and religious instruction for the refugees' children. In a safe country, the convent is a safe harbor for Iraqis to ponder their future.
Virtually all Iraqis visiting the center have kin living outside the Arab world. Many mention Detroit. Father Raymond Moussalli, the Chaldean vicar in Jordan for the Baghdad-based Chaldean Patriarchate, said there may be more Chaldeans living in the Detroit area than in the Iraqi capital of Baghdad.

23 settembre 2010

Mons. Harbouli (vescovo caldeo di Zakho) ricoverato in ospedale cinque giorni fa

By Baghdadhope*

Mons. Petrus Harbouli, vescovo caldeo di Zakho (nord Iraq) versa in gravi condizioni nell'ospedale di Dohuk dove è stato ricoverato d'urgenza cinque giorni fa per un'emorragia cerebrale ma non è in pericolo di vita come hanno dichiarato ieri i medici del nosocomio.

"Triste e preoccupato" ha dichiarato essere Mons. Jacques Isaac, ausiliare caldeo di Baghdad, a Baghdadhope commentando la notizia.
"Possiamo solo pregare perchè si rimetta presto. Quest'anno è stato un anno tragico per la chiesa caldea che ha già perso due vescovi: Mons. Youssef Ibrahim Sarraf, il vescovo del Cairo che si è spento lo scorso 31 dicembre e Mons. Andraous Abouna che è mancato lo scorso luglio ad Erbil. Entrambi sono morti dopo lunga malattia ma ciò non è fonte di consolazione per noi che abbiamo perso due fratelli in Cristo. Sapere che Mons. Harbouli non sta bene è stato uno shok. Solo le preghiere possono aiutare lui e noi in questi momenti tristi."

"Sta un pò meglio" sono le parole di Mons. Shleimun Warduni, ausiliare caldeo di Baghdad che lo ha visitato ieri e che a Baghdadhope ha riferito che "lo hanno spostato dal reparto d'urgenza a quello di degenza, parla anche se a fatica e muove un poco la parte sinistra del corpo mentre quela destra ancora no. I medici però sono ottimisti e tutti speriamo e preghiamo per una sua rapida guarigione."

Mons. Petrus Hanna Harbouli è nato a Zakho nel 1946. Nel 1970 è stato ordinato sacerdote e nel 2002 vescovo della diocesi di Zakho.

Msgr. Harbouli (Chaldean bishop of Zakho) admitted to hospital five days ago

By Baghdadhope*

Msgr. Petrus Harbouli, the Chaldean bishop of Zakho (North Iraq) is in severe health conditions in the hospital of Dohuk where he was urgently admitted five days ago for a intracerebral hemorrhage but he is not more in danger of loosing his life as declared by the doctors.

"Sad and worried" has stated to be Msgr. Jacques Isaac, Chaldean Auxiliary bishop of Baghdad, to Baghdadhope speaking about the piece of news.
"We can only pray he can recover soon. This year has been tragic for the Chaldean church that already lost two bishops: Msgr. Youssef Ibrahim Sarraf, the bishop of Cairo who died on last December 31 and Msgr. Andraous Abouna who died on last July in Erbil. Both died after a long illness but this is not a consolation for us who lost two brothers in Christ. Knowing now that Msgr. Harbouli is not well is another shock. Only the prayers can help him and us in this sad moment."

"He is getting better". These are the words by Msgr. Shleimun Warduni, Chaldean auxiliary of Baghdad who visited Msgr. Harbouli yesterday and who referred to Baghdadhope that: "he has been moved from the intensive care unit to his room, he can speak and move the left part of his body with some difficulties but he cannot still move the right part. Doctors are optimistic and we hope and pray for his quick recovery".

Msgr. Petrus Hanna Harbouli is born in Zakho in 1946. In 1970 he was ordained priest and in 2002 bishop of Zakho diocese.

22 settembre 2010

Mideast Catholic leaders hope synod calls attention to their problems

By Catholic News Service, September 21, 2010

By Doreen Abi Raad

Catholic Church leaders, anticipating the Synod of Bishops for the Middle East, view it as an opportunity to call attention to the problems facing Christians in the region.
The synod, to be held at the Vatican Oct. 10-24, will focus on "communion and witness."
Chaldean Archbishop Louis Sako of Kirkuk, Iraq, who had asked the pope in January 2008 to convene such a synod, said the meeting "is an opportunity to revise the whole situation for Christians in the Middle East."
He said it is a pastoral and practical synod, and not a dogmatic one.
Archbishop Sako stressed that because there are so many crucial issues to tackle -- liturgical reform; formation of clergy and other religious; dialogue among the churches; and particularly the political status of Christians -- he hopes this synod will be highly productive.
Chaldean Auxiliary Bishop Shlemon Warduni of Baghdad said the synod represents "a big grace for the Middle East."
"We need it because our faithful are leaving their countries," he told Catholic News Service. "If we have peace and security, our people would not leave."
The Middle East has many Catholic rites, and there is some division among them, Bishop Warduni said, "but like the first Christians, we must have one spirit and one heart, as when the Holy Spirit descended upon them."
For those participating in the synod, he said, the Holy Spirit "will guide us to do what we must do for ecumenism and dialogue with other religions."
"We ask the Lord to give us the wisdom to guide each of us, so we can arrive at some solutions that will be good for the glory of the Lord, the good of the church and the good of the faithful," Bishop Warduni said.
In Israel, Melkite Catholic Archbishop Elias Chacour of Haifa said local church leaders would like the synod to articulate why Christians should remain in the Middle East.
He said he hopes the synod will "define the reason why we need to stay in this country, which is not very favorable to our presence. ... What reason is there for our presence here as Christians? To propagate and introduce the value of reconciliation, which is not on the political agenda in this country?"
"We expect better understanding of our mission in this country, our role in the Catholic Church and more attention to our human presence than to that of the presence of the holy shrines," he said.
"We are hoping for very simple things. We don't want miracles," he added.
Though Catholics' role in the Holy Land is recognized by the Holy See, Archbishop Chacour said they would like to see more consciousness of what they should do as a Christian minority within two large majorities "facing the challenge of meeting every day thousands of pilgrims who come not only to walk on the dirt and see artifacts but also to see what remains of Jesus Christ, the 'living stones.'"
Archbishop Chacour said he would like to see the Holy See "encourage the local Christians here so they can really be aware of their role."
"We need the Catholic communion to become more real," he said.
Msgr. Raphael Minassian, who administers the Armenian Catholic Exarchate of Jerusalem and Amman, Jordan, said Catholics "have many hopes for the synod: hope to strengthen the communion between the churches; to give knowledge to the (Western) churches about the existence of the (Eastern) churches; to define how the destiny of our land will be practiced; how to define our presence under the current conditions."
Msgr. Minassian identified the emigration of Christians from the region as a "major problem" and said the synod should work to "find a way to approach this problem and to solve it."
Syrian Catholic Patriarch Ignace Joseph III Younan of Antioch, who is co-president of the synod with Cardinal Leonardo Sandri, prefect of the Congregation for Eastern Churches, sees the synod as an opportunity for the world to look more carefully at the plight of Christians in the Middle East.
"I think we all, religious leaders of the churches in the Middle East, hope that something will come out of this synod, particularly that the Western world will understand the region -- its culture, its history -- and urge people, governments and nations in the Middle East region to not only generally live together, but to abide by the laws of respecting civil liberties for all," the patriarch told Catholic News Service.
"I think until now we spoke very little of this need. Unfortunately, the countries of the West, especially the governments, have been linked to mostly compromise and silence regarding the civil rights of all citizens (in this region), because they think that in urging those governments to respect the human dignity and the laws for all means that they would insult Islam and, therefore, they prefer to keep silent," he said.
"For us (Christians), it's a matter of survival," the patriarch said. "We can't just close our eyes and say we happen to be here and we have to continue. We have to ... try to convince the whole world, especially the developed world, that we can't accept just to endure or take our destiny so negatively, as in saying 'It's the will of God, and that's it.' We have to fight for our human rights," the patriarch said.
Melkite Bishop Elie Haddad of Sidon, Lebanon, said the synod "can send a message to the world to save the countries in this region."
Noting that a synod, by its very nature, orients the faithful toward the Gospel, Bishop Haddad said, "It is the church that can lead us again to the safe side."

Contributing to this story was Judith Sudilovsky in Jerusalem.

21 settembre 2010

Sinodo Medio Oriente: Lettera Mons. Padovese, "Il perdono contro l'odio e la vendetta"

By SIR, 21 settembre 2010

“La fecondità del perdono di fronte alla sterile alternativa dell’odio e della vendetta”
per portare pace al Medio Oriente. E’ l’auspicio di mons. Luigi Padovese, presidente dei vescovi turchi, ucciso il 3 giugno scorso a Iskenderun (Turchia), contenuto in una sua lettera, datata 3 aprile 2010, 2 mesi prima della morte, inviata a suor Chiara Laura Serboli, abbadessa del Monastero Santa Chiara di Camerino, in occasione della canonizzazione della beata Camilla Battista da Varano che avverrà domenica 17 ottobre, durante il Sinodo per il Medio Oriente. “Le Chiese del Medio Oriente – scrive mons. Padovese che ha lavorato alla stesura dell’Instrumentum laboris - vivono da anni situazioni di grande tribolazione spesso culminanti in atti di vera e propria persecuzione, come avviene purtroppo, con frequenza quotidiana, in Iraq e non solo. Non a caso il tema centrale del Sinodo sarà ‘La Chiesa cattolica in Medio Oriente: comunione e testimonianza’. Lo stesso Benedetto XVI, nello scegliere questo tema, ha voluto sottolineare il bisogno e la sete di pace che il Medio Oriente vive. L’indicazione del Papa ci invita a riflettere innanzitutto sulla comunione e sulla testimonianza che la Chiesa è chiamata a dare nel contesto di un territorio così tormentato come il nostro”.
Nella lettera mons. Padovese chiede alla comunità delle clarisse di Camerino di pregare perché “questa terra martoriata trasformi tanto dolore in invocazione di pace e annuncio di perdono. Le tragiche vicende politiche che travolsero la famiglia di Camilla Battista, fino ad arrivare allo sterminio dei suoi cari e all’esilio per lei, pur nella drammaticità non ebbero la meglio su questa donna. Ella ebbe la forza interiore di pregare per i suoi nemici fino a trasformare l’odio di cui era stata fatta oggetto in occasione di perdono e di amore eroico”. Per mons. Padovese, “queste stesse virtù, oggi, a distanza di 500 anni, ne fanno un modello per tutta la Chiesa e per tutti gli uomini. Per questo mi sento di dire che, anche per i cristiani delle nostre comunità vessate dalla persecuzione e dalla violenza, la beata Camilla Battista può diventare un esempio di riconciliazione e un’occasione per ritrovare speranza attingendo alla sorgente della Passione di Cristo”.
La lettera è stata pubblicata integralmente nella rivista delle Clarisse “Forma Sororum, Lo sguardo di Chiara d’Assisi oggi”.

20 settembre 2010

Iraq: povertà e disoccupazione tra i cristiani fuggiti al nord per motivi di sicurezza

By Radiovaticana, 20 settembre 2010

Resta drammatica la situazione delle comunità cristiane del nord dell’Iraq attanagliate da violenza e povertà. Nella zona si concentrano molti cristiani fuggiti da città come Baghdad o Mosul e del loro dramma parla un lungo reportage pubblicato dal sito Ankawa.com e citato da AsiaNews. Il documento mette a fuoco, in particolare, la condizione delle famiglie emigrate nei villaggi del distretto di Zakho, nel governatorato di Dohuk, provincia semi-autonoma del Kurdistan iracheno. Qui imperversano disoccupazione, povertà e carenza di servizi base, cibo, carburante e nessuna prospettiva per il futuro. Il problema principale è la mancanza di lavoro, che ha costretto numerosi capi famiglia a cercare occupazione a Baghdad o nella vicina Erbil. I bambini lasciano la scuola per la difficoltà di dover studiare in curdo, una lingua a loro sconosciuta. Quelli che, invece, proseguono gli studi spesso non riescono neppure a comprare il materiale scolastico, che è molto costoso rispetto ai guadagni di una famiglia media. In molti spiegano che la difficoltà nel trovare lavoro è dovuto al fatto che le opportunità maggiori sono legate al settore agricolo, in cui però nessuno degli emigrati dalle città ha sufficiente esperienza. Per sopravvivere, in pratica, si fa affidamento totale sugli aiuti offerti dalle organizzazioni umanitarie e dalla Chiesa. I responsabili della comunità cristiana locale riescono a distribuire circa 50 dollari al mese a famiglia, cifra non sufficiente a soddisfare le esigenze neppure dei nuclei più piccoli. I prezzi dei generi alimentari aumentano per l’assenza di un controllo da parte delle autorità. Molte famiglie possono usufruire delle razioni alimentari fornite dal governo solo nelle loro città di origine; ma andarsi a rifornire a Baghdad, Basrah o Mosul significa ogni volta una notevole spesa per il trasporto e soprattutto un grande rischio data l’insicurezza che caratterizza questi centri. La mancanza di cibo si somma a quella di carburante e servizi base. Dal canto suo, il governo curdo garantisce assistenza medico-sanitaria gratuita, fornisce acqua ed elettricità, ma i servizi pubblici sono scarsi: le strade sono dissestate, la scarsa pulizia nei villaggi e nelle città contribuisce al proliferare di malattie ed epidemie. Scarseggiano, inoltre, alloggi dignitosi per il gran numero di persone arrivate al nord in fuga dalle città negli ultimi sei anni. In molti sono costretti a vivere ammassati nei conventi o nelle parrocchie: due o tre famiglie a stanza. La povertà dilagante è legata anche al fatto che si sono spesi tutti i risparmi per permettere ai giovani di emigrare fuori dall’Iraq in modo più o meno legale. Per i ragazzi, ormai, nel Paese non vi è più futuro e data l’aggravarsi dell’instabilità, legata all’empasse politico, emigrare all’estero è vista come l’unica speranza. Frustrazione e depressione sono sentimenti diffusi e legati anche alla consapevolezza di aver perso tutto. Le famiglie arrivate dal quartiere di Dora, a Baghdad, raccontano di aver lasciato le loro case ai vicini perché ne garantissero la sicurezza, ma che gruppi armati le hanno confiscate con la forza costringendo gli abitanti della zona a indossare il velo o pagare la tassa per i non musulmani. (M.G.)

You can also read from Ankawa.com:


15 settembre 2010

Metà dei cristiani sono fuggiti dall'Iraq dal 2003

By Baghdadhope*

Fonte della notizia: Asharq Al-Awzat


Nel corso di una visita alla città di santa di Najaf il responsabile governativo degli affari religiosi dei non musulmani, Dott. Abdullah Alnaufali, ha dichiarato che il numero degli iracheni cristiani si è dimezzato dal 2003, che secondo alcune ricerche il 40% dei rifugiati iracheni in Siria sono di religione cristiana, e che l'augurio è che essi possano presto far ritorno nella propria terra.
Il governatore di Najaf, città a maggioranza sciita e luogo santo per i fedeli di questa corrente islamica, Adnan Al-Zerfi, ha da parte sua ricordato come i cristiani siano parte integrante della socità irachena, come il rapporto con l'ufficio governativo per gli affari dei non musulmani sia buono, e che coloro che approfittando del deterioramento della sicurezza hanno cercato, fallendo, di svuotare il paese dai cristiani sono stati gruppi estremistici religiosi o gruppi legati al Al-Qaeda.


Half of the Christians run away from Iraq since 2003

By Baghdadhope*

Source: Asharq Al-Awzat


During a visit to the holy city of Najaf, the government responsible for religious affairs of non-Muslims, Dr. Abdullah Alnaufali, said that the number of Iraqi Christians has halved since 2003, that according to some reports 40% of Iraqi refugees in Syria are of Christian religion, and that the hope is that they can soon return to their homeland.
The governor of Najaf, a city mostly inhabited by Shiites and a holy place for the faithful of this Islamic current, Adnan Al-Zerfi, for his part pointed out how Christians are an integral part of Iraqi society, how the relationship with the Government Office for religious affairs of non-Muslims is good, and that those who, taking advantage of the deteriorating security situation, tried, failing in it, to empty the country of Christians were extremists religious groups or groups linked to Al-Qaeda.