"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

13 ottobre 2008

La grande fuga dei cristiani

Fonte: Vita

di Daniele Biella

La denuncia del vescovo libanese Michel Kassarji in prima linea nell'accogliemento dei caldei
«Iracheni caldei, facile bersaglio dell’odio fra religioni». Non usa mezzi termini monsignor Michel Kassarji, dal 2001 vescovo cristiano caldeo dell’Eparchia di Beirut, nel definire la persecuzione in atto a Baghdad e in tutto l’Iraq nei confronti dei cristiani caldei: nella sola città di Mosul, 12 persone sono morte e migliaia sono dovute fuggire dalle loro case nelle ultime due settimane. Michel Kassarji, 52 anni, libanese, è da qualche anno in prima linea nell’accogliere in Libano i rifugiati iracheni che riescono a lasciare l’Iraq, in fuga dalle persecuzioni di gruppi integralisti di fede musulmana.
Qual’è la situazione attuale in Iraq?
"I numeri parlano chiaro. Dei 750mila cristiani caldei presenti in Iraq prima del 2004, anno di inizio delle violenze contro di loro (e della guerra scatenata dagli Stati uniti, ndr), oggi almeno 300 mila sono fuggiti all’estero, soprattutto nei paesi confinanti, Siria Giordania e Libano. Metà delle chiese cristiane di Baghdad sono state bruciate, e le strutture sociali ecclesiastiche subiscono continui attentati. Dei 12 sacerdoti rapiti in cambio di un riscatto, tre sono stati assassinati."
Quali sono i motivi della persecuzione?
"I caldei sono considerati “crociati”, amici della forza occupante, gli Stati Uniti, nazione a maggioranza cristiana. Vengono costretti a convertirsi all’Islam, e, se rifiutano, devono abbandonare la propria casa e il proprio Paese. Molti, soprattutto giovani, vengono tolti alle loro famiglie e uccisi. I caldei in Iraq, una delle comunità più antiche del Cristianesimo che ancora oggi parla aramaico, sono diventati una vera e propria minoranza bersaglio. Pagano la rabbia delle frange più intransigenti dei musulmani iracheni."
Come arrivano in Libano?
"Ogni giorno da tre anni una ventina di caldei iracheni supera il confine, in modo illegale per le autorità libanesi, che non li riconoscono come rifugiati (Beirut non ha mai firmato la Convenzione Onu del 1951 per i richiedenti asilo, ndr) ritenendoli quindi dei clandestini. Per questo vivono nell’ombra, cercando ospitalità in case altrui e chiedendo appoggio alla comunità cristiana, che in Libano, al contrario di altri Stati, è una minoranza ben organizzata. Attualmente sono presenti almeno 10mila profughi, ai quali cerchiamo di fornire più assistenza possibile. Ma è un’impresa piena di ostacoli da superare."
In che senso?
"Nonostante le autorità tollerino il nostro intervento nel rispondere all’emergenza umanitaria, non ci danno nessun aiuto e dobbiamo agire nel modo più rapido e silenzioso possibile. Spesso devo andare in prima persona a parlare con i ministri, con i poliziotti alla frontiera, nelle carceri dove sono detenuti i rifugiati, per ottenere qualche risultato ed evitare il peggio. Oggi quello che riusciamo a fare è trovare ai profughi un alloggio temporaneo e assicurare loro un minimo sostegno sanitario."
Quali sono i problemi più urgenti da risolvere?
"Due i più gravi: trovare un lavoro degno agli adulti, che per la loro condizione di clandestini spesso vengono sfruttati dagli stessi libanesi come manodopera a bassissimo costo, e garantire l’istruzione ai giovani. Oggi sono almeno un migliaio i bambini in età scolastica delle 800 famiglie che aiutiamo. Di loro, la maggior parte non va a scuola. Per questo stiamo cercando appoggio per costruire una scuola pubblica nella Diocesi, per la quale ho già in mano l’autorizzazione del governo libanese ma mancano i fondi."
E l’aiuto internazionale?
"È ancora poco. Anche per questo mi reco all’estero a spiegare la disperata situazione in cui versano i rifugiati iracheni. Tutti, cristiani e non, hanno l’obbligo morale di sapere quello che succede, e spero che a cuore aperto ognuno possa fare qualcosa. Come rappresentante della Chiesa caldea libanese, una delle 18 confessioni presenti nel Paese, oltre a tamponare l’emergenza sto cercando di smuovere dalla propria posizione intransigente il governo del Libano. Una strada però molto lunga e difficile."