"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

30 marzo 2007

Con acqua e aceto Settimana Santa e Pasqua in un paese martoriato

Fonte: SIR

Di Daniele Rocchi

"Nonostante l'esodo dei nostri fedeli all'estero o in zone più tranquille del Paese, che ci rattrista non poco, non perdiamo la speranza di pace, di stabilità e di sicurezza. Mai come in questo tempo la parola speranza fa rima con Resurrezione".
Nelle parole del vescovo caldeo, ausiliare di Baghdad, mons. Shlemon Wardun, c'è sì, tutta l'amarezza "di una situazione di cui non si vede la fine, le cui vittime sono gli strati più deboli della popolazione irachena, i malati, gli anziani, i bambini, molti resi orfani dalle violenze inenarrabili provocate da autobomba, kamikaze e criminali", ma anche "
la voglia di futuro. La Pasqua che andiamo celebrare rinsalderà la nostra certezza in un avvenire giusto e pacifico, fatto di tolleranza e di riconciliazione". Con questo spirito e nonostante tutte le difficoltà del momento i cristiani iracheni si apprestano a celebrare la Risurrezione.

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Mons. Warduni, in mezzo a tante difficoltà, come celebrerete la prossima Pasqua?
"Umanamente parlando diciamo che arriviamo alla solennità di Pasqua con un certo timore e, quindi, anche con prudenza nello stilare un programma. Non sappiamo cosa può succedere da un momento all'altro. Non possiamo prevedere dove saremo domani. Ogni giorno siamo sottoposti a bombardamenti, attacchi kamikaze, attentati di ogni genere. L'incolumità delle persone è messa continuamente a rischio dai rapimenti che incutono paura. La morte è dietro l'angolo".
Esiste un programma di massima per la Settimana Santa e il Triduo pasquale?
"Il programma sarebbe quello di ogni anno. Quindi, apertura il sabato precedente la Domenica delle Palme con una celebrazione riservata ai bambini, mentre la Domenica tutte le comunità si ritrovano nelle rispettive chiese per la messa delle Palme. Lunedì, Martedì e Mercoledì Santo sono riservati alle confessioni. Il Giovedì Santo invece è il giorno della messa crismale. Il Venerdì Santo la liturgia entra nel vivo con la lettura della Passione di Cristo, seguita da due o tre prediche cui fa seguito la sepoltura di Cristo e il bacio della Croce. All'uscita dalla chiesa i fedeli sono invitati a bere acqua mista ad aceto, memoriale della morte di Cristo, e con questo sapore in bocca tornano a casa. Il Sabato Santo si tiene una messa nel pomeriggio che sostituisce la veglia pasquale notturna, lasciata adesso perché troppo, troppo pericoloso uscire di notte. La Domenica di Pasqua la solenne messa. Ora, data l'incertezza della situazione non sappiamo se questo programma sarà effettivamente realizzato. Poniamo la nostra fiducia in Dio e speriamo che si possa celebrare degnamente la Risurrezione. Domenica 1 aprile, il programma delle celebrazioni verrà consegnato ai fedeli di tutte le chiese. Speriamo che la fede in Cristo dia loro il coraggio necessario per partecipare".
Ci sono zone della capitale Baghdad particolarmente calde e pericolose, come il quartiere di Dora, un tempo cristiano ma oggi praticamente abbandonato dai fedeli. Contate di celebrare anche qui?
"Si pensava di andare anche in questi posti, ma è difficile dirlo adesso. Ripeto, potremo dire di aver celebrato la Pasqua solo dopo che è passata, non prima..." La paura ha annientato, tra i cristiani, il clima della festa fatto anche di tradizioni popolari?
Ci sono tradizioni che i nostri fedeli amano e cui sono legati. Innanzitutto danno un senso alla festa indossando per Pasqua l'abito migliore, quello più bello. Vengono cotti dei piccoli dolci fatti farina, datteri e nocciole, simboli di gioia. Poi vi è l'usanza di dipingere le uova ma non quelle di cioccolata. Nessuno qui ti dona del cioccolato. Si tratta di uova naturali che vengono cucinate a lungo e poi decorate con colori naturali estratti da cipolle ed altri prodotti come il tè. È il regalo più apprezzato dai bambini. Le uova si portano in chiesa la sera della Veglia pasquale e nell'annuncio, Cristo è risorto, molti fedeli escono a mangiarle per poi rientrare. Uscire dalla chiesa significa uscire dal sepolcro. Una tradizione per il momento accantonata perché la Veglia di Pasqua è anticipata al pomeriggio a causa della mancanza di sicurezza. Facciamo quello che possiamo e chiediamo a Dio di accettare questo poco che abbiamo".
Si è mai chiesto se tutta questa sofferenza, se tutto questo "digiuno dalla vita" ha un significato?
"Per tutti la Settimana Santa è tempo di digiuno e astinenza. Non si mangia carne e si digiuna fino a mezzogiorno. Il Venerdì Santo il digiuno è anche da pesce, uova e formaggi, per chi li ha. Ma il nostro digiuno è la sofferenza in cui viviamo giornalmente. Offriamo questa sofferenza non solo per l'Iraq ma per tutto il mondo, nella certezza che dopo il Venerdì santo c'è la vittoria della vita sulla morte, c'è la Resurrezione. Questo è il significato".





“La pace non la si può costruire da soli”, afferma l’Arcivescovo di Baghdad

Fonte: Zenit Codice: ZI07032912

Intervista a monsignor Jean Benjamin Sleiman
BAGHDAD, giovedì, 29 marzo 2007

Nel quarto anniversario della presenza americana in Iraq, la situazione irachena sembra correre a passi da gigante verso una maggiore complessità, e all’ombra di questa situazione difficile sorgono molte domande sulla situazione e sul destino dei cristiani e sulle possibili vie d’uscita. ZENIT ha intervistato l’Arcivescovo di Baghdad, monsignor Jean Benjamin Sleiman, per cercare di intravedere insieme a lui una prospettiva di lettura e di speranza nel turbolento scenario iracheno.
Monsignor Sleiman, 57 anni, libanese di origine maronita, ha ottenuto la Licenza in Sociologia all'Università di Lione, ha conseguito il Magistero in Scienze Sociali all'Università di Beirut e il Dottorato in Antropologia sociale e culturale all'Università di Parigi V - Sorbonne. Definitore Generale dell'Ordine carmelitano dal 1991 al 1997, è stato rieletto per un altro sessennio fino al 2003. Ha insegnato Scienze Sociali all'Università St. Joseph dei Padri Gesuiti di Beirut e Antropologia sociale e culturale al "Teresianum" di Roma. Dal 2001 è Arcivescovo dei cattolici di rito latino a Baghdad. L’Arcidiocesi Latina di Baghdad abbraccia tutto il territorio iracheno.
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Alla vigilia dell’invasione americana dell’Iraq c’erano molte speranze che finalmente l’Iraq si sarebbe riscattato dalla dittatura e avrebbe vissuto una rinascita economica e sociale. Come mai tutte queste attese sono state deluse? Mons. Sleiman: Come premessa direi che, al momento dell’invasione, l'Iraq non era conosciuto per quello che è. Durante il regime di Saddam Hussein, si aveva l’impressione di una società che funzionava bene. Pochi sapevano che l'Iraq era poco omogeneo e che c'erano delle violenze saltuarie. L'Iraq, in fondo, è rimasto tribale dal punto di vista antropologico. Gli americani, accolti come salvatori, hanno progressivamente deluso la popolazione. Dopo la caduta di Baghdad, hanno lasciato stare i saccheggiatori che sono partiti dai saccheggi delle sedi del governo baathista, fino ad arrivare a saccheggiare e ad umiliare la gente. La gente era ferita nella sua dignità: i saccheggiatori entravano anche negli ospedali e umiliavano la gente. L'ammirazione di tanti per gli americani è mutata in odio e paura. Per tre mesi l'Iraq è stato vuoto di istituzioni: nessun governo, nessuna istituzione, nessuna sicurezza. Questi tre mesi sono stati molto negativi per il seguito, tanto che molti gruppi e milizie si sono formati e armati. Le infrastrutture andavano di male in peggio. Mancavano la benzina, il gasolio, il gas e l’elettricità. Sono cose che alla lunga stancano. C’è poi la sicurezza: la polizia difende se stessa, ma la popolazione civile non ha nessuno che la difenda. Alla vigilia dell’invasione americana ho affermato in un’intervista alla radio che stavo pregando intensamente per la pace, e il giornalista mi disse: “Ma la guerra sarà facile”, e la mia risposta è stata questa: “La guerra sarà facile, ma costruire la pace sarà difficile”. E questa non era una profezia ma una semplice constatazione. La guerra la si può fare da soli, ma la pace non la si può costruire da soli, c’è bisogno del contributo di tutti, e l'ultimo dei kamikaze può rovesciare un piano di pace. Difatti ora la ricostruzione non si fa, in quanto i fondi destinati alla ricostruzione vengono spesi per la difesa e per la sicurezza.
Lei ha scritto ultimamente un libro nel quale presenta la sua visione sulla questione irachena. Il titolo è già suggestivo: “Dans la Piège Irakien” [Nella trappola irachena]. Perché parla di “trappola”?
Mons. Sleiman: Parlo di trappola perché mi sono reso conto che tutti i protagonisti dell'Iraq si trovano ora davanti a una via senza uscita. Gli sciiti hanno stravinto, possiedono il potere, ma non possono andare avanti, sia per le resistenze interne che per le resistenze esterne e per le contraddizioni. Sono la maggioranza, ma non sono tutti d'accordo fra loro, la lotta per il potere fa dividere. I sunniti hanno causato tanta violenza, hanno resistito, ma non sono riusciti a rovesciare il corso delle cose. E si trovano davanti a una scelta da fare: o continuare con la violenza o fermarsi senza aver ottenuto ancora ciò a cui aspiravano. I curdi forse sono i grandi vincitori. Loro che erano emarginati, partecipano ora in maniera effettiva al governo dell'Iraq con un Presidente e un Ministro degli Affari esteri. Ma anche loro non sono arrivati a realizzare tutto ciò che sognavano. Perché il federalismo non ha il placet di tutte le fazioni. Le minoranze cristiane e non cristiane sono intrappolate nella loro paura, sono sequestrate e intrappolate nel loro Paese.
E in che situazione si trovano gli americani?
Mons. Sleiman: Gli americani sono sempre protagonisti, ma questo non vuol dire che possano tutto; anche loro danno l'impressione di essere divisi di fronte a una scelta difficile da fare: o uscire dall'Iraq e perdere tutto, o continuare per realizzare una vittoria affrontando una violenza che non dà ancora segni di stanchezza. Bisogna notare che c'è molta gioventù, e i ribelli fanno molte reclute. Gli americani mettono in prigione i ribelli, ma i ribelli continuano ad agire comunque. Queste cose fanno dire che il treno è andato troppo veloce, e che gli americani sono nella trappola irachena come tutti gli altri.
Che differenza riscontra tra la situazione dei cristiani in Iraq prima della caduta del regime di Saddam e dopo l’invasione americana? Mons. Sleiman: Sotto il regime non c'era libertà, ma c'era sicurezza. E come in tutti i Paesi islamici si rispettavano certe libertà delle minoranze come il culto, ma solo entro le mura dei luoghi di culto. C'era comunque la paura di esprimere il proprio parere. Come ogni regime nel mondo arabo, il regime di Saddam ha cercato una sua continuità, il trionfo e la sicurezza. Chi era contro il regime veniva minacciato, punito e ucciso. Questo dipendeva non dalla religione, ma dalla posizione politica. Tra gli sciiti ci sono stati i grandi ayatollah, che hanno rifiutato certe posizioni del regime e sono stati perseguitati. C'era una regola non scritta: non pensate alla politica, fate liberamente tutto il resto. Dopo la caduta di Saddam, i cristiani hanno la libertà, ma non la possono esprimere. C'è la libertà, ma ci sono le condizioni prive di libertà. L'ultimo armato con un fucile può toglierla. Il cristiano, in mancanza di uno Stato di diritto, è debole. È caduto lo Stato di diritto, e i cristiani si trovano eccessivamente vulnerabili. Non creano milizie e non fanno guerra per proteggersi perché non hanno la cultura della violenza come mezzo di potere. Se ci fosse uno Stato, i cristiani contribuirebbero molto, perché la loro esistenza è pacifica, aperta agli altri. Nelle ultime elezioni non erano uniti e non hanno avuto liste proprie, ci sono pochi cristiani eletti ma su liste sciite o curde, non possono esprimere quello che vogliono, ma quello che vuole la loro lista.
Negli ultimi due anni ben sette chiese evangeliche sono state aperte a Baghdad. Giunti sulla scia dei soldati americani, i predicatori riformati si sono inseriti in un contesto in cui cristiani e musulmani convivono con il tacito accordo di non tentare di convertirsi a vicenda. Come influiscono questi predicatori sulla situazione attuale dei cristiani in Iraq?
Mons. Sleiman: Bisogna dire che questo fenomeno dei predicatori è un fenomeno mondiale. In Iraq sono arrivati all’indomani del crollo del regime. Hanno un argomento: la libertà religiosa, ma secondo me non hanno rispetto per le chiese antiche che sono lì. E volendo convertire i musulmani creano molti sospetti. Il loro proselitismo non rispetta la mentalità dell'Iraq. I cristiani iracheni hanno radici e vissuti culturali simili a quelli dei musulmani. Non si può venire così in una maniera imperialista per impiantare il cristianesimo. Questo atteggiamento aumenta la dose di sospetto contro i cristiani e danneggia ingiustamente i cristiani dell’Iraq. La cristianità irachena è nella sua maggioranza apostolica del primo secolo, a parte le Chiesa latina, protestante o la Chiesa armena che è diventata importante durante la prima guerra. I cristiani in Iraq non sono un microbo nel corpo, ma sono il corpo, e come tali sono circondati da altre realtà. Basti ricordare l'apporto di civiltà ai tempi dei califfi: i grandi medici di allora erano cristiani ed ebrei. La traduzione dei classici greci l'hanno fatta i cristiani. Storicamente, il viaggio della filosofia dei greci per via degli arabi verso l’Europa è stato mediato dalle traduzioni dei monaci cristiani. I cristiani dell’Iraq non vengono da altrove, ma sono i figli più antichi di quella terra. Recentemente, il mensile iracheno “Al-Fikr Al-Masihi” (“Pensiero Cristiano”) ha vinto la prestigiosa Medaglia d’Oro 2007 attribuita dall’International Catholic Union of the Press (UCIP). Che significato ha questo premio la rivista e per i cristiani iracheni?
Mons. Sleiman: “Al-Fikr Al-Masihi” nasce in Iraq nel 1964 dalla Congregazione di Cristo Re, e poi viene affidata ai padri domenicani. Come rivista cristiana ha il suo impatto e quelli che vi lavorano, lavorano con coraggio. Perciò credo che nel premiare “Al-Fikr Al-Masihi” l’UCIP ha voluto certamente premiare la resistenza e la volontà di continuare dei cristiani in Iraq.
Da poco è ricorso il quarto anniversario dell’invasione americana dell’Iraq. La situazione sembra stagnante, anzi sembra peggiorare. Qual è il messaggio che le preme lanciare ai protagonisti del dilemma iracheno al fine di uscire da questa “trappola”?
Mons. Sleiman: Il mio auspicio più grande è che si giunga a una soluzione di questo dilemma umano. Bisogna capire che la questione irachena non è più soltanto irachena, è diventata una questione mediorientale; se non la si risolve, potrebbe diventare un incendio che si espanderà fino al mediterraneo, e forse anche fino all'Africa del nord. Bisogna accettare la collaborazione dei Paesi limitrofi, che hanno i loro interessi e le loro paure. Penso che non si possa ricostruire la pace da soli, un consenso delle Nazioni è sempre importante. Bisogna costruire la pace in Iraq, per proteggerla altrove. Se c'è una guerra tra sunniti e sciiti in Iraq, un incendio enorme infiammerà tutta la zona. Sicuramente si estenderà ad altri Paesi. L'America impedisce uno scontro generalizzato tra fazioni, ma essa potrebbe fare di più se favorisse la riconciliazione che vuole il governo attuale. Bisogna favorire l’incontro politico per giungere alla riconciliazione. Anche il generale delle forze americane in Iraq, David Petreus, afferma che la soluzione della crisi non può essere militare. Bisogna mettere ordine, ma perché l'ordine continui ci vogliono misure politiche.
Lei ha scritto un libro sulla santa carmelitana, Teresa Benedetta della Croce, dal titolo “Edith Stein: Testimone per oggi, profeta per domani”. La spiritualità cristiana ha una parola da dire in tutta questa sofferenza? Come può un cristiano essere profeta per il domani in Iraq?
Mons. Sleiman: Non si può resistere al male senza l'esperienza spirituale. Tanti vedono in Edith Stein la figura della martire, ma lei non è soltanto una martire ad Auschwitz. Edith Stein è una donna che porta una speranza, lei viveva il cristianesimo in maniera profetica. Un profeta, nell’accezione biblica e cristiana, diventa lo specchio di Dio; non è qualcuno che conosce necessariamente ciò che sarà. È uno che capisce e vive la parola di Dio e ne rivela le ricchezze. Edith si deve scoprire come maestra di vita spirituale e di vita di speranza. Come martire lei ci testimonia che il Signore è più grande di qualsiasi male, ci fa capire che il male non è l’ultima parola. Tutti siamo scandalizzati dal male e dalla potenza dei cattivi, ma chi approfondisce capisce che il male è un non essere, il male esiste perché il bene non ha fatto la sua parte. Nelle mie omelie cerco di aiutare la gente a vivere la speranza, che è il dono di Dio. La speranza è che malgrado tutto ciò che subiamo di male e di ingiustizia, non è questa l'ultima parola. La mia preghiera è semplice: "venga il tuo regno" e quando dico così ho davanti agli occhi persone che a nome di Dio stanno uccidendo, a nome di Dio vogliono fare la pulizia etnica. Per essi prego affinché il Regno di Dio si riveli in loro come regno di pace, di perdono e di amore.

29 marzo 2007

Anche la Chiesa Copta Ortodossa onora Sarkis Aghajan


Fonte: Ankawa.com


Sembra proprio che i cristiani in Iraq abbiano trovato in Sarkis Aghajan, Ministro delle Finanze del Governo Regionale Curdo ed anch'egli cristiano, il nuovo protettore. Nel 2006 ad esprimergli gratitudine erano state la Chiesa Cattolica Caldea, quella Siro Ortodossa e quella Assira dell'Est conferendogli le proprie onorificenze e
spendendo per lui parole di profondo apprezzamento.
A queste chiese si è aggiunta ora la Chiesa Copta Ortodossa che il 21 marzo, per mano del Vescovo Abraham, vescovo di Gerusalemme e del Medio Oriente, gli ha conferito, per volere di Papa Shenouda III, l'onorificenza di San Marco.
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A parte le ovvie e generiche parole di ringraziamento non ci sono ancora dichiarazioni sulle motivazioni del gesto. La chiesa copta in Iraq, ha avuto grande diffusione negli anni 80 quando fu necessario far arrivare dall'Egitto molti lavoratori per sostituire gli iracheni impegnati nella guerra contro l'Iran, ma non è certo una chiesa che conti su profonde radici nel paese o su un gran numero di fedeli considerando che in tutto l'Iraq fino a prima dell'ultima guerra c'era una sola chiesa copta ortodossa nel quartiere di Shorja affidata ad un sacerdote egiziano, ed un terreno concesso dal governo, sempre a Baghdad, su cui era iniziata la costruzione di un nuovo edificio di culto interrotta dalla guerra.
La chiesa di Shorja è ancora aperta, anche se affidata ad un diacono, ma certo ora è il Kurdistan, il "feudo" di Sarkis Aghajan, ad accogliere i lavoratori egiziani utili al boom economico che la regione sta vivendo, e forse è arrivato il momento che la chiesa copta abbia proprio lì un edificio di culto e nessuno, attualmente, più di Sarkis Aghajan può essere utile allo scopo.

By Baghdadhope

28 marzo 2007

Torino rinnova la sua amicizia con i cristiani iracheni

Fonte: Ufficio Pastorale Migranti Arcidiocesi di Torino Voce: Iraq

di Luigia Storti


La presenza di Padre Douglas Al Bazi a Torino quest’anno ha qualcosa di diverso. Se negli anni precedenti le sue visite sono state legate al suo ruolo di referente iracheno del progetto “Io ho un nuovo amico un sacerdote caldeo iracheno” curato dall’Ufficio Pastorale Migranti dell’Arcidiocesi di Torino, la sua permanenza nella nostra città in questi giorni è invece dovuta a ciò che è successo lo scorso anno a Baghdad.
Padre Douglas, infatti, è uno dei cinque sacerdoti caldei che lo scorso anno sono stati rapiti nella capitale irachena e rilasciati dopo il pagamento di un riscatto da parte della Chiesa Caldea. Nel suo caso, il rapimento, iniziato il 19 novembre e terminato dieci giorni dopo, ha avuto conseguenze profonde. Dal punto di vista fisico le percosse di cui è stato vittima hanno reso necessario un intervento chirurgico a Baghdad per la riduzione delle fratture del setto nasale, ed i controlli e le cure cui si sta sottoponendo proprio in questi giorni a Torino. Dal punto di vista psicologico le ferite saranno ancora più profonde da rimarginare e solo il tempo potrà aiutarlo perché, come ha detto una persona che lo conosce bene: “…ride e scherza ma si vede che è molto più fragile.”
Nonostante la situazione non sia delle più propizie però abbiamo avuto modo di chiacchierare a lungo con lui del progetto di sostegno della nostra Arcidiocesi in favore di dieci giovani sacerdoti attivo già dal 2004 e riconfermato anche per l’anno in corso, ed anche della situazione in Iraq.

Clicca su "leggi tutto" per l'intervista a cura dell'Ufficio Pastorale Migranti dell'Arcidiocesi di Torino
Padre Douglas, sappiamo anche dalle lettere che i sacerdoti coinvolti nel progetto ci inviano che il progetto di sostegno è stato loro utile per superare alcune difficoltà legate alla situazione che si vive in Iraq. Può aggiungere qualcosa?
"Questo progetto è stato ed è molto importante perché le necessità che i sacerdoti hanno sono le più diverse ed a volte inaspettate. A me, ad esempio, è capitato di dover sostituire con urgenza un generatore elettrico in chiesa perché è già difficile e pericoloso a Baghdad andare in chiesa, ma restarci senza condizionatori quando ci sono 50 gradi è impossibile.
Quello che però ha reso il progetto ancora più importante è che si tratta del primo ed unico progetto di sostegno diretto ai sacerdoti. Un sostegno “nominale” che permette ad ognuno di loro di gestire l’aiuto secondo le proprie necessità."
L’Arcidiocesi di Torino è quindi l’unico sostegno esterno per voi sacerdoti?
"Non direi così. Certamente la Chiesa, attraverso il Patriarcato e la Nunziatura Apostolica a Baghdad, riceve aiuti, ma questo progetto ha permesso di rendere il sostegno più personale perché l’aiuto non è solo un passaggio di fondi diretto tra chi dona e chi riceve, ma anche l’occasione per due realtà, quella di Baghdad e quella di Torino, di conoscersi, anche se a distanza."
Alcune comunità cristiane di Baghdad quindi ora sanno di avere degli amici a Torino…
"Si, esatto. Specialmente quelle che sono state coinvolte non solo in questo progetto, ma anche in quello dai disegni dei bambini…"
Vuol dire il progetto “Natale e Pasqua di Pace” che nel 2005 permise lo scambio di disegni, foto ed auguri tra i bambini di alcune scuole di Torino e provincia e quelli di tre chiese a Baghdad?
"Si. Quello scambio ha fatto felici i nostri bambini perchè hanno capito di avere dei nuovi amici. E’ difficile essere bambini a Baghdad. C’è un senso di solitudine diffuso, anche i piccoli capiscono ciò che stanno vivendo, soprattutto perché vivono per la maggior parte del tempo chiusi in casa per il troppo pericolo che c’è nelle strade. Le occasioni di incontro per loro sono attentamente pianificate e ricordano con piacere quella in cui hanno potuto giocare con i disegni dei loro amici italiani e hanno cercato di leggere i loro auguri. Ricordo che è stata un’occasione felice, di svago anche se, vorrei ricordare che il nostro svago, così come le nostre cerimonie sono sempre guastate dalla presenza di guardie armate e di check points davanti alle nostre chiese."
Sappiamo delle difficoltà che state incontrando come cristiani a Baghdad. Sono state proprio quelle difficoltà, infatti, a rendere necessario il trasferimento nel nord dell’Iraq del Babel College, la facoltà teologica cristiana ed il seminario maggiore caldeo…
"Molte chiese a Baghdad purtroppo sono chiuse, almeno quelle nelle zone più pericolose, dove magari la Santa Messa viene celebrata da un sacerdote che ne apre una in occasioni particolari, come sarà ad esempio per la prossima Pasqua. Anche gli orari delle funzioni, a volte, vengono cambiati per ragioni di sicurezza spostando la Santa Messa dalla domenica al sabato. Non è facile per nessuno vivere a Baghdad, non lo è per i sacerdoti ma neanche per i fedeli. L’insicurezza ed i pericoli che si corrono ogni giorno hanno determinato la fuga di una buona parte della nostra comunità che è passata da 1.000.000 a 600.000 persone nell’arco dei quattro anni successivi alla guerra del 2003. Chi ha avuto la possibilità è già fuggito all’estero, molti si sono trasferiti nel nord e solo chi non ha avuto l’opportunità vive ancora a Baghdad. "
Sta dicendo che a rimanere sono stati coloro che non hanno avuto la disponibilità economica di fuggire?
"In linea di massima sì, purtroppo."
Invece il clero è ancora presente in città…
"Si, ma anche molti sacerdoti hanno dovuto lasciare Baghdad per gli stessi motivi, ed ora molti di quelli che sono rimasti hanno la responsabilità di due chiese, di due comunità, raddoppiando così i pericoli per se stessi. "
Com’è la vita dei cristiani trasferitisi nel nord curdo?
"Le grosse ondate migratorie sono sempre difficili da assorbire, specialmente quando si concentrano in un breve lasso di tempo. Certamente la regione del Kurdistan offre un livello di sicurezza lontanissimo da quello di Baghdad, ma è anche vero che si tratta di un fenomeno di sradicamento. Molti cristiani sono originari delle zone settentrionali del paese ma da decenni ormai vivevano altrove, ed ora trovarsi in posti nuovi, magari in condizioni economiche sfavorevoli, non ne favorisce il radicamento veloce ed indolore. Molti di loro hanno dovuto fuggire in fretta, lasciando il lavoro, la casa, tutti i propri averi ed ora devono ricominciare da capo. D’altra parte anche per la popolazione che li ha accolti non è facile. E’ vero che la regione curda sta vivendo un periodo di boom economico, ma è anche vero che tanti nuovi arrivati hanno bisogno di trovare una collocazione ed un lavoro, e che il mercato non può assorbire tutti, vecchi e nuovi residenti. La sola cosa che tutti sperano è che la situazione si risolva e che i cristiani che hanno abbandonato Baghdad e le altre zone del paese possano farvi ritorno, per il loro bene e per quello di una comunità che non merita di scomparire dal paese che ne ha visto le origini."
La speranza quindi è in un graduale ritorno alla normalità?
"Certo, anche se probabilmente ci vorranno ancora anni. Se solo si pensa che tuttora, dopo quattro anni, a Baghdad l’erogazione continua dell’energia elettrica e dell’acqua, praticamente di ciò che tutti nel mondo danno per scontato, è ancora un sogno tranne che nella Green Zone controllata dagli americani, si capisce che se anche le tensioni politiche finissero domani la normalizzazione è ancora lontana."
Padre, sappiamo che ricordare è per lei doloroso, vorrei quindi ritornare a parlare del progetto. Vorrei sapere, ad esempio, se i sacerdoti che esso ha iniziato a sostenere dal 2004 sono sempre gli stessi…
"No. In massima parte in effetti sono uguali però, per fare un esempio, uno di loro, dopo essere stato rapito e liberato a Baghdad nel 2006 ora vive all’estero ed è stato sostituito con un altro. Un altro che ha ricevuto il sostegno del progetto per tre anni mi ha comunicato che, essendo stato trasferito nel nord, non ne ha più bisogno e lascerà quindi il posto a chi invece ne potrà trarre beneficio."
Quali sono i problemi che un sacerdote deve affrontare giornalmente?
"Tanti, e di diverso tipo. Dal punto di vista pratico, ad esempio, quelli della gestione della chiesa o delle chiese che gli sono affidate. Se dovessi fare un elenco metterei certamente al primo posto l’incubo di tutti gli iracheni: i generatori ed il gasolio per farli funzionare. L’Iraq è un paese caldo ed il generatore per far funzionare l’impianto di condizionamento dell’aria non è un capriccio ma una necessità. Ma i generatori spesso si rompono per sovraccarico di tensione o usura, ed il gasolio ha un costo elevato. In realtà la sua distribuzione dovrebbe avvenire ad opera del governo a prezzi normali, ma visto che non è continua tutti sono costretti a comprare il gasolio al mercato nero pagandolo molto di più. Malgrado, quindi, si cerchi di far funzionare i generatori solo quando necessario, i costi rimangono elevati e dato che non è sempre facile trovare la cifra necessaria a volte anche i fedeli contribuiscono come possono.
Questa spesa, ordinaria e straordinaria, sottrae fondi alle altre attività della chiesa che avrebbero invece bisogno di altrettanta attenzione. Per il catechismo, ad esempio, sarebbero necessari macchine fotocopiatrici, proiettori da computer, video camere e naturalmente computers."
Ci spiega l’importanza dei computers e dei telefoni cellulari? A qualcuno potrebbe sembrare che con tutti i problemi che ci sono questi siano capricci…
"Non lo sono. In realtà a Baghdad ed in tutto l’Iraq sono importantissimi, malgrado a volte sia difficile o addirittura impossibile usarli. Servono a tenerci in comunicazione in un paese dove spostarsi anche tra una casa ed un’altra è difficile e pericoloso. I computers ed il collegamento internet, quindi, servono a mantenere le relazioni sociali e familiari. Anche se può sembrare impossibile, a volte, a causa dell’impossibilità a spostarsi è come se gli amici e le famiglie vivessero in due continenti diversi. Così è anche per i telefoni cellulari. Oltre a ciò, ad esempio, il collegamento internet che alcune chiese cercano di garantire è importante perché è un sistema economico per i fedeli che vogliono comunicare con le famiglie o gli amici all’estero. Diciamo che una mail si può ricevere o spedire mentre il sistema postale non è certo tra le priorità del governo…. Gli iracheni inoltre sono sempre al telefono e questo se da una parte c’entra con il nostro piacere di comunicare, dall’altra in questi ultimi anni è diventata una necessità. Il telefono serve a sapere magari che una strada è stata improvvisamente bloccata per controlli o per un’esplosione, ma soprattutto serve a far sapere sempre a qualcuno dove ci si trova e se si è vivi. Quando sono stato rapito, ad esempio, mi hanno portato via i miei due telefoni cellulari. Perché ne avevo due? Uno non sarebbe stato sufficiente? No. In Iraq le compagnie telefoniche non coprono tutto il paese e nella stessa Baghdad ne funzionano due piuttosto bene ed una in modo molto più limitato. Il problema è che a volte il segnale dell’una o dell’altra scompare improvvisamente e se non si ha un altro telefono si rimane senza contatto alcuno.."
E cambiare solo la sim card immagino sia complicato..
"In teoria non lo è, in pratica però se ad esempio si sta guidando e se, come a volte accade, si ha la necessità di farlo in modo veloce per togliersi da una situazione di pericolo, diventa impossibile.
Il sacerdote si deve occupare inoltre di garantire la sicurezza alla chiesa, ai fedeli ed a se stesso. In questo senso le guardie armate sono indispensabili perché senza esse sarebbe difficile continuare le attività della chiesa. Per i fedeli è già difficile uscire per recarvisi, dobbiamo fare in modo che almeno al suo interno si sentano sicuri anche se il rumore dei colpi e delle esplosioni è ormai diventato un sottofondo usuale per chi vive a Baghdad.
Dal punto di vista morale, poi, il sacerdote deve aiutare i propri fedeli a vivere e superare questi momenti difficili. Già prima dell’ultima guerra erano molte le famiglie che venivano a chiederci i certificati di battesimo, il segno della volontà di emigrare verso l’estero o verso altre parti del paese, ora queste richieste sono aumentate. Dietro esse però c’è molto dolore, molta incertezza sul futuro, ed il compito del sacerdote è anche quello di infondere coraggio e speranza."
Padre, lei ora vive nel nord dell’Iraq. Perché ha lasciato Baghdad?
"Dopo essere stato rilasciato sono rimasto a Baghdad per essere sottoposto ad un intervento chirurgico al setto nasale e per i primi controlli, ma nel frattempo, il 4 dicembre, è stato rapito un altro sacerdote, Padre Sami Al Rays, Rettore del Seminario Maggiore Caldeo di Saint Peter e docente di Morale al Babel College. Il rapimento di Padre Sami ha accelerato il processo già avviato di trasferimento della facoltà e del seminario nel nord, che poi è avvenuto agli inizi di gennaio. Era impossibile per me rimanere a Baghdad, ed anche la mia famiglia si era trasferita nel nord, terrorizzata da ciò che mi era successo."
Ed ora qual è il suo sogno?
"Per ora, purtroppo, ho ancora più incubi che sogni. In ogni caso spero e prego di poter un giorno ritornare a Baghdad, la città dove sono nato, vissuto e che ancora amo."


Secondo i controlli fatti a Torino ed i medici che lo hanno visitato Padre Douglas sta bene. Solo il tempo però lo aiuterà a dimenticare quei terribili dieci giorni di questi terribili ultimi quattro anni. Il tempo e gli affetti: quelli di cui è circondato nel suo paese, ma anche nella nostra città che ancora una volta ha avuto la fortuna di ospitarlo.

Per informazioni sul progetto di sostegno ai sacerdoti caldei dell'Ufficio Pastorale Migranti dell'Arcidiocesi di Torino consulta il sito
www.migranti.torino.it alla voce Iraq o scrivi al Direttore dell'UPM:
Don Fredo Olivero f.olivero@diocesi.torino.it

27 marzo 2007

Vivere da cristiani a Bagdad

Fonte: Manfredonia.net

Toccante testimonianza in Cattedrale del Vescovo ausiliare di Bagdad, Shlemon Warduni

di Michele Illiceto

"Grazie per la vostra fratellanza cari fedeli della diocesi di Manfredonia-Vieste-S.Giovanni Rotondo. Conosco il vostro vescovo da più di tre anni il quale sempre si è mostrato attento ai problemi della nostra diocesi”.
Così ha esordito, con un perfetto italiano, il vescovo ausiliare di Bagdad, Shlemon Warduni, rivolgendosi ai fedeli accorsi in Cattedrale per il quaresimale del mercoledì alla presenza dell’Arcivescovo Mons. Domenico D’Ambrosio.

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"L’iraq - ha affermato il vescovo - è una terra di martiri, dove l’80% dei cristiani sono caldei cattolici. Abbiamo un patriarca e venti vescovi. I nostri fratelli però sono dispersi. Forse è giusto dire che stiamo assistendo ad un vero complotto contro i cristiani del Medioriente. E questo sta accadendo proprio laddove è stato fondato il cristianesimo. Infatti, in Iraq, i cristiani sono presenti dal I sec. d.c. la cui comunità è stata fondata da S. Tommaso Apostolo, che ha lasciato S.Efrem come suo successore e pastore. Quindi la chiesa caldea è una delle più antiche chiese cristiane, che per i primi secoli è stata avamposto da cui sono state poi intraprese alcune missioni in India. Con l’avvento dell’Islam poi le cose hanno iniziato a cambiare”. L’Iraq, terra dove si trovano Babilonia e Ninive la città del profeta Giona, è anche la patria delle tre religioni, ebraismo, cristianesimo e islamismo, perché Abramo il nostro comune patriarca era di Ur dei Caldei.
Analizzando la situazione di oggi, il vescovo di Bagdad ha ricordato il dramma degli ultimi avvenimenti. “Da trent’anni - ha continuato - siamo in guerra: prima la guerra con l’Iran, poi la guerra del Golfo, poi ancora la guerra delle sanzioni che ci ha lasciati senza medicine e senza tanti altri beni di prima necessità, e da ultimo la guerra che ha portato alla caduta di Saddam. L’hanno chiamata ‘guerra di liberazione’ ma non so di quale liberazione si tratti, visto che da quattro anni non si riesce a trovare una via di uscita che porti alla pace il nostro paese. Noi vescovi prima della guerra ci siamo opposti a questo intervento e abbiamo scritto uno opuscolo dal titolo ‘Dio non vuole la guerra”.Per quanto riguarda i cristiani, il vescovo ha asserito che vivono in una costante paura, “non si può nemmeno uscire di casa perché ci sono i rapitori e i kamikaze”. Ha raccontato alcuni episodi raccapriccianti come quello del rapimento di sei sacerdoti, picchiati, torturati e poi uccisi. Uno, addirittura l’hanno impiccato ad un albero. Per questo motivo, ora, molti sacerdoti hanno paura perché sanno di rischiare la vita. A Dora, vicino Bagdad c’era un Seminario che ora per motivi di sicurezza è stato spostato e tutti i sacerdoti sono scappati. “Mi chiedo - ha proseguito - se i sacerdoti si scoraggiano, come potranno i fedeli trovare la forza di testimoniare la loro fede? Molte volte rispondo ai miei fedeli che noi siamo nella fase della passione, che dobbiamo attraversare questo momento di croce per gustare e vedere il giorno della resurrezione. Un segnale di questo clima di paura è il fatto che alle messe la gente si è ridotta di 1/3. Ho celebrato la messa di Natale e Capodanno perché la gente mi aspettava, la Chiesa era piena. Ma all’Epifania non ho potuto celebrare perché siamo venuti a sapere che stavano organizzando un sequestro nei confronti della mia persona. Sono aumentati gli orfani e le vedove. Andare al mercato a fare la spesa, cosa per noi del tutto normale, in Iraq diventa rischioso. Si esce di casa senza essere tanto sicuri di poterci fare ritorno. Continuo a domandarmi perchè non si riesce a trovare una via di pace e di dialogo. Noi cristiani siamo per la pace e l’unità. Abbiamo chiesto ai musulmani di lasciarci vivere in pace. E questo perché prima di essere musulmani o cristiani noi siamo iracheni. Purtroppo, c’è da dire che le altre nazioni non ci aiutano perché pensano che sei un ‘cannibale’ per il semplice fatto che tu sei iracheno. Ed è per questo che molti fuggono via dal paese andandosi a consegnare il più delle volte nelle mani degli scafisti e con le barche vengono qui da voi”.Non ha mancato di fare delle denunce molto forti il vescovo ausiliare di Bagdad nel dichiarare che l’Iraq è una nazione ricchissima, tra le più ricche del mondo che può far vivere tutto il Medioriente, e ora invece costringe la sua gente a mendicare. Al nord le case costano moltissimo. “Per quanto riguarda il petrolio c’è da dire che prima della caduta del governo di Saddam, alcuni anni prima della guerra, andava a 25 dollari al barile, ora invece le quotazioni viaggiano tra i 60 e i 65 dollari. Chi ci ha guadagnato? Non certo il popolo iracheno. Inoltre, parlano di giustizia e seminano ingiustizia, parlano di diritti fondamentali dell’uomo e poi li calpestano. Perché una mamma deve avere paura di comprare il pane? Durante la giornata l’elettricità ci è data solo per pochissime ore. Lo sapete che in Iraq non c’è gasolio e si fanno tre ore di fila per fare benzina? Hanno mandato tutto il terrorismo in Iraq perché altri paesi ne fossero risparmiati. Che vengano i capi di Stato e camminino cinque minuti per le strade di Bagdad! Pensate che hanno addirittura lasciato aperti i confini dell’Iraq per quattro anni. Cosa accadrebbe in Italia se lasciassero aperti i confini per pochi giorni?”.Durante il racconto del prelato, i volti dei presenti in Chiesa si sono fatti più pensierosi perché spiazzati da questa incredibile testimonianza, parole, che, come pietre, venivano a scomodare le tranquille coscienze di chi come noi è abituato ad assistere come spettatore al bollettino di morti che ogni giorno i media ci offrono sul piatto delle nostre tavole. Parole che rattristano la nostra sensibilità, ma che tuttavia sono un monito e un appello a fare qualcosa per questa martoriata nazione. Tuttavia, a conclusione del suo racconto, il vescovo di Bagdad ha lanciato un messaggio di speranza “non voglio seminare la disperazione, ma la speranza e l’amore. Io penso che il mondo abbia bisogno di Dio, della santità perchè senza di essa non c'è nè perdono e nè giustizia e senza la giustizia non c'è vera pace. Ma la santità comincia da noi. Vi chiediamo perciò di pregare per l’Iraq perché venga la pace, quella vera che rende fratelli anche chi ha fedi e religioni diverse”.Nelle sue riflessioni conclusive Mons. D’Ambrosio ha ringraziato il gradito ospite per la sua testimonianza e ha annunciato che le offerte raccolte durante la quaresima saranno donate alla Chiesa di Bagdad nella speranza che un nostro piccolo gesto possa contribuire a far scoppiare la pace in Iraq.

I giovani cristiani iracheni si riuniscono ad Erbil in unità spirituale con il Santo Padre

In concomitanza con la preghiera del Santo Padre con i giovani romani in preparazione della prossima giornata mondiale della gioventù, giovedì 29 marzo, 80 giovani iracheni cristiani che vivono nel territorio della regione del Kurdistan, ma che provengono da tutte le diocesi del paese, si riuniranno presso il Santuario di Maria, ad Erbil.
Il ritiro spirituale, organizzato dal parroco della chiesa caldea del Sacro Cuore di Erbil, Padre Rayan P. Atto, avrà la durata di due giorni. Giovedì i giovani iracheni saranno spiritualmente uniti al Pontefice Benedetto XVI, ed a tutti i giovani cristiani del mondo che nel luglio del 2008 parteciperanno alla Giornata Mondiale della Gioventù a Sydney, ed ascolteranno in diretta la preghiera del Papa che sarà introdotta da Padre Atto e tradotta in arabo ed aramaico, due delle lingue parlate dalla comunità cristiana irachena. La giornata proseguirà con l’Adorazione notturna che terminerà il venerdì mattina con momenti di preghiera, silenzio e lavoro nel giardino del santuario. Alle 12.00 verrà celebrata la Santa Messa a cui seguirà, a conclusione delle giornate di ritiro spirituale, un incontro di festa e gioia per tutti i partecipanti. I momenti salienti di questa occasione di preghiera e festa saranno inoltre trasmessi in diretta da una TV cristiana del Kurdistan iracheno.
“Il sogno dei giovani cristiani iracheni” dice Padre Atto “sarebbe quello di partecipare alla prossimo GMG in Australia. Una partecipazione che avrebbe un alto valore simbolico sia per loro, membri di una comunità che sta soffrendo l’isolamento in cui l’Iraq tuttora vive, sia per i giovani cristiani del mondo che potrebbero così confrontarsi con i propri fratelli iracheni direttamente, e non solo attraverso ciò che i media riportano.”
“Lo scopo del ritiro spirituale”
continua il sacerdote “è quello di far proprie le parole del Santo Padre circa la necessità di leggere la Bibbia, ricercare il valore dell’Eucarestia, ed avvicinarsi, visitando i monasteri ed i santuari, alla spiritualità di quei luoghi facendone propri i valori di vita.

By Baghdadhope

21 marzo 2007

Un terzo dei bambini iracheni malnutriti, a quattro anni dall’invasione statunitense del Paese

Fonte: Zenit Codice: ZI07031911

“Caritas Internationalis” e Caritas Iraq affermano che i tassi di malnutrizione sono aumentati in Iraq dal 19% del periodo precedente l’invasione del Paese da parte delle forze guidate dagli Stati Uniti alla media nazionale del 28% di quattro anni dopo. La Caritas sostiene che la fame in aumento è provocata dagli alti livelli di insicurezza, dal collasso del sistema sanitario e di altre infrastrutture, dalla maggiore polarizzazione tra sette e tribù diverse e dall’aumento della povertà. Più dell’11% dei bambini nasce oggi sottopeso in Iraq, di fronte al 4% del 2003.

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Prima del marzo 2003, l’Iraq aveva già un tasso di mortalità infantile significativo dovuto alla malnutrizione a causa delle sanzioni internazionali imposte al regime dittatoriale di Baghdad. Caritas Iraq ha attivato una serie di cliniche per il benessere dei bambini nel Paese. Attualmente fornisce alimentazione supplementare a 8.000 bambini fino agli 8 anni di età e alle neomamme. Le cliniche della Caritas aiutano i più vulnerabili, e la crisi sanitaria che affrontano è ben peggiore della media nazionale. Il contesto di insicurezza in cui lavora è inoltre ad alto rischio. Secondo Claudette Habesch, Presidente di Caritas Medio Oriente-Nordafrica, “il conflitto settario e tribale infetta quotidianamente la vita in Iraq. Le scuole primarie e secondarie, gli ospedali, la polizia, il Governo sono tutti divisi. Non si può nemmeno andare al supermercato senza la paura di non tornare”. “Caritas Iraq sta lavorando contro questo difficile background fornendo cibo fondamentale per i bambini più vulnerabili e le neomamme. Lo staff affronta grandi rischi ma cerca di dare assistenza medica in un Paese in cui il sistema sanitario nazionale in alcune zone ha collassato”. “L’Iraq è il secondo Paese per riserve petrolifere al mondo, ma ha livelli di povertà, fame e sottosviluppo paragonabili a quelli dell’Africa subsahariana”. “Negli ultimi quattro anni, ma in particolare nel 2006, abbiamo visto che la vita più che migliorare è peggiorata per l’iracheno medio. La gente se ne sta andando. Ogni giorno 5.000 persone lasciano l’Iraq. Nel 2007, si pensa che un iracheno su dieci abbandoni il Paese”, ha denunciato. “Vediamo gruppi minoritari come i cristiani scomparire del tutto dal Paese o abbandonare le loro case in cerca di posti più sicuri. Spero per l’Iraq che le cose migliorino, ma è senz’altro perché le cose non possono andare peggio”, ha osservato. Caritas Internationalis è una confederazione di 162 organizzazioni cattoliche di sostegno, sviluppo e servizio sociale presente in più di 200 Paesi e territori.

Iraq: quasi 4 milioni in fuga dal conflitto.

Fonte: UNHCR

Il 17 e 18 aprile conferenza internazionale dell’UNHCR sulla situazione umanitaria di rifugiati e sfollati Sono finora 192 i governi, 65 le organizzazioni internazionali e 60 le organizzazioni non governative invitate alla conferenza internazionale sulla situazione umanitaria di rifugiati e sfollati in Iraq e nei paesi vicini che si terrà il 17 e 18 aprile presso il Palazzo delle Nazioni a Ginevra.
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Nel corso del meeting, di livello ministeriale, saranno esaminate le dimensioni umanitarie dell’esodo, l’entità dei bisogni e sarà promosso un impegno internazionale comune per soddisfare queste necessità, anche attraverso una condivisione degli oneri che attualmente sono sostenuti dagli stati vicini. Si cercherà inoltre di fornire risposte mirate a questioni umanitarie specifiche e urgenti, tra cui il perseguimento di soluzioni immediate per le persone particolarmente vulnerabili sia all’interno che all’esterno dell’Iraq. Attualmente nei paesi vicini all’interno della regione si trovano circa 2 milioni di iracheni, molti dei quali fuggiti prima del 2003. Mentre all’interno del loro stesso paese vi sono anche circa 1,9 milioni di iracheni sfollati, molti dei quali versano in condizioni sempre più difficili. Anche se molti erano già sfollati prima del 2003, l’UNHCR stima che dall’inizio dell’anno scorso – e in particolare dal bombardamento di Samara avvenuto nel febbraio del 2006 – quasi 730mila iracheni sono fuggiti in un’altra area del paese a causa della violenza settaria. Questi e milioni di altri iracheni stanno affrontando gravi difficoltà. L’UNAMI, la Missione di assistenza delle Nazioni Unite per l’Iraq, stima che al momento sono considerati estremamente vulnerabili oltre 15 milioni di iracheni – tra i quali rifugiati, sfollati, persone con scarsa disponibilità alimentare, vedove, persone disabili e altri. È sempre più problematico fuggire per ottenere altrove aiuto e sicurezza. Molti di coloro che sono fuggiti in altre parti dell’Iraq hanno esaurito le proprie risorse e per le comunità di accoglienza è sempre più difficile assorbire gli sfollati in continuo aumento. Circa 4 milioni di iracheni dipendono dall’assistenza alimentare, solo il 60 per cento della popolazione irachena ha accesso al sistema pubblico di distribuzione del cibo e il tasso di malnutrizione cronica nei bambini ha raggiunto il 23 per cento. Inoltre circa il 70 per cento della popolazione non ha un adeguato accesso alle risorse idriche, mentre l’80 per cento non dispone di adeguati servizi sanitari. Il tasso di disoccupazione supera il 50 per cento. Dei 60 milioni di dollari richiesti attraverso l’appello dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) per la regione – più della metà dei quali sono già stati raccolti – circa un terzo servirà a fornire assistenza a decine di migliaia tra gli sfollati interni in Iraq più vulnerabili. In confronto alle necessità complessive, si tratta di una goccia nell’oceano. Inoltre la distribuzione degli aiuti si dimostra molto difficile a causa della grave insicurezza in gran parte del paese. In Iraq il personale dell’UNCHR opera in sette località (Baghdad, Suleymaniyah, Dohuk, Erbil, Kirkuk, Nassiriyah e Basra) e collabora con una rete di almeno 17 partner, tra cui il Ministero iracheno per gli sfollati e i migranti. Gli operatori dell’Agenzia presenti in Iraq sono per la maggior parte di nazionalità irachena e lavorano coraggiosamente in quello che viene definito “remote management”, una struttura operativa praticamente unica in Iraq. Di recente l’UNHCR ha ospitato a Ginevra un incontro con altre agenzie umanitarie per confrontarsi sulle migliori modalità per fornire assistenza umanitaria in un contesto così difficile e pericoloso. Nonostante i molti limiti e le ingenti necessità, il lavoro realizzato dallo staff dell’UNHCR in Iraq ha permesso di raggiungere decine di migliaia di sfollati interni, oltre alle famiglie e alle comunità che li ospitano. L’UNHCR svolge una serie di attività, tra cui l’assistenza abitativa, la distribuzione di beni non alimentari e la gestione di 14 centri di assistenza legale in tutto il paese dove gli sfollati possono trovare sostegno, ad esempio attraverso il trasferimento e il rilascio di documenti. Questi documenti sono essenziali visto che senza di essi le razioni di cibo possono essere negate e le autorità del governatorato possono impedire agli sfollati l’accesso persino ai servizi più importanti. L’esodo continua a un ritmo stimato di circa 50mila persone al mese.

UNHCR inviting 192 nations to upcoming Iraq humanitarian conference

Source: UNHCR

GENEVA, March 20 (UNHCR) – The UN refugee agency has invited ministers from nearly 200 governments to a conference in Geneva next month aimed at forging an international approach toward meeting the enormous humanitarian needs of millions of people uprooted by the conflict in Iraq.

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UNHCR spokesman Ron Redmond told reporters in Geneva on Tuesday that invitations had gone out to 192 governments, 65 international organisations and some 60 non-governmental organisations for the April 17-18 international humanitarian conference on refugees and displaced in Iraq and neighbouring countries. The ministerial-level meeting will be held in Geneva's Palais des Nations, the European headquarters of the United Nations.
"It will examine the humanitarian dimensions of the displacement crisis, identify the enormous needs, and seek to forge a common international effort to address those needs, including through sharing the burden that's now being borne by neighbouring states," Redmond said. "It will also seek targeted responses to specific, urgent humanitarian problems, including immediate solutions for those who are particularly vulnerable both inside and outside Iraq."
Some 2 million Iraqis are now in neighbouring countries in the region, many of whom were uprooted prior to 2003, he said. Syria has more than 1 million Iraqis and Jordan an estimated 750,000. Both countries have carried an enormous burden and deserved more support from the international community, Redmond said.
Much more humanitarian help also had to be focused on the estimated 1.9 million Iraqis who remain displaced inside their own country, many of them in increasingly desperate conditions.
"While many were also displaced before 2003, we estimate that just since the beginning of last year – and particularly since the Samara bombing of February 2006 – nearly 730,000 Iraqis have become newly displaced by sectarian violence," Redmond said. "They and millions more Iraqis are facing severe hardship."
The UN Assistance Mission in Iraq estimates that more than 15 million Iraqis are now considered extremely vulnerable – including refugees, displaced people, those facing food insecurity, widows, disabled people and others. Reaching help and safety in neighbouring countries is becoming increasingly difficult, he said. Many of those who have fled to other parts of Iraq have run out of resources, and host communities are also struggling to absorb increasing numbers of displaced.
An estimated 4 million Iraqis are dependent on food assistance. Only 60 percent have access to the public food distribution system. The chronic child malnutrition rate is at 23 percent. Some 70 percent of the Iraqi population lack access to adequate water supplies, while 80 percent lack effective sanitation. The unemployment rate is over 50 percent.
"About a third of UNHCR's $60 million appeal for the region – more than half of which has so far been raised – is aimed at providing help to tens of thousands of the most vulnerable of these internally displaced people inside Iraq," Redmond said. "Compared to the overall needs, it's a drop in the ocean. And providing that help is extremely difficult because of the dire security situation in much of the country."
He said UNHCR's staff in seven locations in Iraq (Baghdad, Suleymaniyah, Dohuk, Erbil, Kirkuk, Nassiriyah, Basra) work with a network of at least 17 different partners, including the Iraqi Ministry of Displacement and Migration.
"Our UNHCR colleagues there are overwhelmingly Iraqi and they bravely work under what could best be termed remote management," he said. "This operating structure is pretty much unique to Iraq and UNHCR recently hosted a meeting here in Geneva with other humanitarian agencies to share ideas on how we can better provide humanitarian assistance in such a difficult and dangerous environment."
Despite the many limitations and in the face of enormous needs in Iraq, the work done by UNHCR and its partners inside Iraq has still managed to benefit tens of thousands of internally displaced people and the families and communities caring for them. The agency's programmes include the provision of shelter assistance and non-food aid items and the operation of 14 legal assistance centers throughout the country where the displaced can get various kinds of support, including the transfer and replacement of basic documents. Such documents are vital because without them, food rations can be withheld and governorate authorities can prevent access by internally displaced people to even the most basic of services.
"With displacement continuing at an estimated rate of up to 50,000 a month, the humanitarian needs are growing by the day and we need to do everything we can to try to get help to desperate people," Redmond said.

Papa: continuo a pregare per l'Iraq e la sua Chiesa

Fonte: Asia News

Mons. Rabban al-Qas
, vescovo del Kurdistan, porta al Papa i saluti dei fedeli iracheni e dei seminaristi di Ankawa e Benedetto XVI ricambia. Nonostante il dramma della guerra, “i cristiani in Iraq hanno ancora fede, speranza e amore”.
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Città del Vaticano (AsiaNews) – “L’amore del Papa per la Chiesa irachena è di grande sostegno e ci dà la forza di continuare a sperare”. Così ad AsiaNews mons. Rabban al-Qas, vescovo caldeo di Amadiyah ed Erbil (Kurdistan), riferisce del suo breve incontro oggi con Benedetto XVI al termine dell’udienza generale in piazza San Pietro. Il presule, in questi giorni a Roma, ha portato al Papa “i saluti di tutta la diocesi, degli studenti del Seminario maggiore caldeo di Saint Peter e del Babel College”, da poco trasferitisi ad Ankawa per la grave insicurezza che regna a Baghdad. Nel breve scambio di parole tra i due, Benedetto XVI “ha ricambiato i saluti e assicurato le sue preghiere per l’Iraq e tutti i seminaristi”.
Mons. Rabban ha presentato poi anche “i saluti delle autorità del Kurdistan, primo di tutti il presidente Massoud Barzani, impegnato nella ricostruzione di numerosi villaggi cristiani”. Il nord dell’Iraq è rifugio per molti cristiani costretti alla fuga dall’inferno della capitale o di Mosul. Il vescovo spiega che “la crescente insicurezza nel Paese ha costretto alla chiusura di numerose chiese e all’emigrazione di diversi sacerdoti all’estero, soprattutto in Canada e Germania. La riapertura in Kurdistan del Seminario maggiore e del Babel College – unica università teologica in Iraq – ha ridato speranza alla nostra comunità”.

“Questa Quaresima
– continua mon. al-Qas – vede una grande partecipazione dei fedeli: alla Via Cucis del venerdì come pure al catechismo e alle messe domenicali nei villaggi, sempre molto affollate. Il digiuno, poi, è rispettato per tutta la durata del periodo di preparazione alla Pasqua”. “Il Papa – conclude – dimostra di amare la nostra Chiesa e noi vogliamo essere testimoni di amore e coraggio per tutto il mondo. I cristiani dell’Iraq hanno ancora fede e speranza e sono convinti che Dio non li ha dimenticati, prima o poi vedremo la pace”.


Pope continuing to pray for Iraq and its Church

Source: Asia News

Mgr Rabban al-Qas, bishop of Kurdistan, brings greetings from Iraq’s faithful and seminarians in Ankawa. Benedict XVI does the same. Despite the war, “Christians in Iraq still have faith, hope and love.”

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Vatican City (AsiaNews) – “The Pope’s love for the Iraqi Church is of great help and gives us strength to continue hoping,” said Mgr Rabban al-Qas, Chaldean bishop of Amadiyah and Erbil (Kurdistan), as he spoke to AsiaNews about the brief meeting he had today with Benedict XVI following the Pope’s general audience in St Peter’s Square.
The prelate, who is currently in Rome, brought to the Pope “the greetings of his entire diocese, of the students attending Babel College and St Peter’s Major Chaldean Seminary who have recently moved to Ankawa to escape the great insecurity that reigns in Baghdad.”
In the brief tête-à-tête, Benedict XVI returned the greetings and “assured that Iraq and all its seminarians are in his prayers.”
Mgr Rabban also presented the “greetings of Kurdish authorities, first among them, President Massoud Barzani, who is involved in the reconstruction of many Christian villages.”
The bishop explained that many Christians have fled the capital’s hellish situation or Mosul. Because of “the growing insecurity, many churches have had to close and many priests have had to go abroad, especially in Canada and Germany.”
Reopening the Major Seminary and Babel College—the only school of theology in Iraq—in Kurdistan has given the community new hope.
“This Lent saw the faithful turn out in great numbers,” Mgr al-Qas said. “They came to the Via Crucis on Fridays as well as to catechism. Sunday mass in the villages always draws a crowd. Fasting is always respected throughout the period of preparation for Easter.”
“The Pope,” he noted, “shows that he loves our Church and we want to witness love and courage for the whole world. Iraq’s Christians still have faith and hope and are convinced that God has not forgotten them. Sooner or later we shall see peace.”

20 marzo 2007

Iraqi bishop: Four years of war brought increased spiral of cruelty


By John Thavis

VATICAN CITY (CNS) -- Four years of war have brought an increasing spiral of cruelty and killing to Iraq, and left the country in a state of chaos, said Chaldean Auxiliary Bishop Shlemon Warduni of Baghdad, Iraq.
The war also has prompted a massive flight of Catholics and others from the country, leaving behind a shrinking Catholic minority, he said.Bishop Warduni made the comments to Vatican Radio March 19, the fourth anniversary of the U.S.-led bombing and invasion of Iraq."Before the conflict broke out, I said that God does not want war in Iraq. Even then one could see that the consequences would be terrible," the bishop said."And in fact, the cruelty and the killing have increased from day to day. Children, youths, the old, the sick, we are all suffering, because the world is not thinking of what's good for the Iraqi people," he said."Everyone is thinking of their own interests and so the Iraqis have been forgotten. Terrorism is increasing, and with it the number of orphans and widows," he said.Asked about estimates that more than 60,000 people have died in the conflict, Bishop Warduni said the number could be much higher. No one knows the real number, he said."So often we go out of our homes uncertain whether we'll return safe and sound. The kidnappings, the kamikazes, the car bombs, the missiles: You cannot eat calmly, study calmly or pray calmly," he said."So many people are afraid to come to church, and so many children are afraid to go to school," he said.With Iraq's infrastructure nonexistent and electricity outages that last most of the day, everyone who can leave the country does so, he said.The church tries to encourage those who remain, asking them to pray."Only the Lord can do something for Iraq," the bishop said.

Vescovo di Kirkuk: il buono e il cattivo in Iraq dopo questi quattro anni

Fonte: Asia News

di Louis Sako
*

A quattro anni dallo scoppio della guerra nel Paese del Golfo, una riflessione di mons. Sako: c'è più libertà, ma la pace non si conquista con la guerra; servono riconciliazione e sviluppo dell’economia da una parte e ricostruzione del tessuto sociale dall’altra. Appello ai cristiani iracheni per un ruolo “più dinamico” nella società.

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Kirkuk (AsiaNews) - Sono passati quattro anni dall’inizio della guerra in Iraq. Le cose sono migliorate e peggiorate allo stesso tempo. Il frutto più positivo di questo conflitto è la libertà, che prima il Paese non conosceva: soprattutto intendo libertà di espressione e di partecipare ad elezioni politiche, locali e nazionali. Ma conseguenze positive sono anche: avere una nuova Costituzione, un’economia che cresce, un’amministrazione giudiziaria, salari più alti, lo sviluppo delle donne con il 25% di seggi in Parlamento, la nascita di nuovi partiti politici, l’apertura al mondo esterno attraverso internet, tv, telefoni cellulari. Forse però questa libertà non è ben compresa e vissuta, perché gli iracheni non ci sono abituati!

I risvolti negativi della guerra sono sotto gli occhi di tutti: il Paese è diventato campo di battaglia del terrorismo, non vi è sicurezza, niente lavoro, l’emigrazione cresce e al futuro ormai si guarda solo con paura…

Esiste una soluzione a tutto ciò? L’invio di più truppe non sarà di molto aiuto. La pace non si conquista con la guerra. La guerra è sempre qualcosa di brutto, costa vite, denaro e tempo. Gli uomini e le donne irachene hanno perso la pazienza, non hanno più fiducia. Hanno bisogno di sapere il prima possibile, se esiste un futuro per loro. Vogliono sperimentare concretamente che la vita quotidiana è migliore ora di prima.
Il piano di sicurezza non servirà molto se non sarà accompagnato da altre azioni efficaci per la ricostruzione del Paese, la riconquista della fiducia della popolazione e l’alleviamento della povertà. Pensiamo che pace e sicurezza possano raggiungersi solo nel quadro di un dialogo pacifico e civile: la Commissione Baker-Hamilton ha consigliato accordi di pace; il neo-comandante Usa in Iraq, il generale David Petraeus, ha dichiarato che non esiste una soluzione militare. Riteniamo che il futuro della pace nel Paese dipenda da un doppio impegno:

- Dare il via ad un’effettiva riconciliazione nazionale, che comprenda e integri tutti gli iracheni, anche i membri del passato regime, esclusi i criminali. Tutti gli iracheni devono avere la possibilità di prendere parte alla ricostruzione dello Stato. In questo senso anche i cristiani devono giocare un ruolo positivo e dinamico: invece di sentirsi spaventati e rimanere ai margini, dovunque si trovino, devono mostrare solidarietà e il loro storico senso dell’equilibrio, ricordando che apparteniamo tutti allo stesso Paese e alla stessa civiltà. Hanno il dovere di dimostrare che sono in Iraq da prima che arrivasse l’islam e che la cittadinanza non dipende dal fatto di appartenere ad una minoranza o ad una maggioranza.
- Si deve costruire un governo centrale forte a Baghdad che regga una federazione di province. Allo stesso tempo bisogna risollevare l’economia nazionale; l’Iraq ha molte risorse finanziarie, quello che manca sono buoni investimenti e coordinamento.
- È necessario infine promuovere la ricostruzione del tessuto civile e sociale in tutte le province. Tutti noi abbiamo sofferto per le violenze settarie che scuotono il Paese. I leader religiosi sono promotori di pace, quindi devono sostenere gli elementi pacifici della società e promuovere valori di dialogo attraverso omelie e gli interventi sui media. Altrimenti le tensioni tra i gruppi si intensificheranno e i militanti diventeranno più forti, il Paese verrà diviso in tre Stati e l’attuale Iraq cesserà di esistere.

Per questo chiediamo che si agisca in modo parallelo in queste due direzioni. La comunità e i Paesi della regione devono sostenere questa strategia e facilitare il ritorno di un Iraq stabile e unito.

*Arcivescovo caldeo di Kirkuk

Bishop of Kirkuk: Iraq four years on , the good and the bad

Source: Asia News

by Louis Sako*

Msgr Sako reflects on the situation of the Gulf State four years on from the outbreak of war; reconciliation and economic development is needed on the one hand, on the other the social fabric of Iraqi society needs to be rebuilt. An appeal to Iraq’s Christians to take on a more “dynamic role” in society.

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Kirkuk (AsiaNews) – Four years on from the outbreak of war in Iraq, the situation has changed for the better but also for the worse. The positive development is the new found Freedom that was lacking before. Freedom of expression, freedom to vote in elections, the birth of cities councils, a national parliament, our new constitution and a flourishing of economy: salaries are high, the status of women who now represent 25% of the members of parliament and many new political parties. Perhaps this freedom has not been well understood and as a result is not having a direct effect on peoples lives. In short Iraqi people were not accustomed to it! The world suddenly opened before them: Internet, satellite dishes, mobile, phones, travel and mobility, and most importantly a justice system (courts).

However there have also been negative consequence: the land became an open field of terrorism, there is no security, no jobs, mass immigration, and fears for the future…


Is there a solution to all of this? The call for more troops won't help a lot. Peace cannot be brought about by war. War is always something bad and costs money, lives and time. Iraqi men and women have lost patience. The conflict has broken their trust and relationships. The current security strategy won't help a lot. It has to come with other actions notably reconstruction, confidence - building and poverty alleviation. We think peace and security can only be won in a peaceful and civilized dialogue. The Baker- Hamilton Study group recommends peace deals. The new General of the Coalition forces: David Paetreus stated that there is no military solution. We personally think the future of peace in Iraq lies in a double engagement:


- To start an effective reconciliation between all Iraqis. This reconciliation should contain and integrate all of them even the members of the old regime (except the criminals). All Iraqis should have a chance to play a role in rebuilding the State. In this sense Christians should play a dynamic positive role in reconciliation; the local hierarchy has that responsibility. Christians wherever they are, should show their solidarity and the historical conviviality of equilibrium of belonging to same country and to the same society, instead of feeling afraid and marginalized. Thy have to show that they belong to this country, they have been part of Iraq since before its very foundation, before the coming of Islam and show that citizenship does not depend on majority or minority.
- A strong central government has to be constructed in Baghdad with processing for the federation in the provinces. At the same time the Iraqi economy needs to be reconstructed. Iraq has many financial resources. What is lacking is good investment and coordination.
- Finally we must promote a rapid civilian build-up in all provinces. We all have suffered from religious and sectarian war. Religious leaders are peacemakers; therefore they should support a peaceful and a coherent civilian side through their homilies and in the media. If we can't achieve that, tensions between groups will intensify and insurgents will get stronger, resulting the division of the land into three states, thus the present form of Iraq will cease to exist, this cannot come to pass.


In order that these actions happen in parallel, the International community and Iraq’s neighbours must support and facilitate this strategy to restore unity and stability of Iraq.

*Chaldean Archbishop of Kirkuk

19 marzo 2007

20 marzo 2003. Inferno in Iraq

Quattro anni fa non era per nulla facile telefonare in Iraq. Lo stato pietoso delle infrastrutture del paese rendeva difficile qualsiasi tipo di comunicazione e, nel caso si fosse stati tanto fortunati da prendere la linea, bisognava fare i conti con fruscii, eco, e la sua improvvisa scomparsa. Di telefoni cellulari e posta elettronica neanche a parlarne, a vietarli non era solo l’embargo economico in cui il paese viveva ormai da 13 anni, ma anche il regime che aveva tutto l’interesse a mantenere la propria popolazione senza alcun contatto con il mondo esterno e quindi in una situazione di “ignoranza indotta” delle dinamiche politiche che non fossero quelle che i media iracheni ripetevano ossessivamente da decenni.
Per questa ragione esattamente quattro anni fa a quest’ora mi chiedevo a che ora avrei dovuto iniziare a provare a chiamare Baghdad. All’una di notte ora italiana, le tre del mattino in Iraq, di quello che sarebbe stato il 20 marzo sarebbe scaduto l’ultimatum americano, e da allora in qualsiasi momento la guerra contro l’Iraq avrebbe potuto aver inizio. Calcolare i tempi quindi era di fondamentale importanza: volevo parlare ancora con Baghdad! Sapevo che non sarebbe servito a nulla, di essere solo una delle migliaia di persone che quella sera avrebbero fatto lo stesso tentativo, ma volevo farlo. Mi sembrava di poter in qualche modo far sentire ai miei amici la mia, seppur inutile, vicinanza in un momento così tragico. Perchè tragico il momento lo era. Proviamo ad immaginare. Come si può sentire una persona che sa che nel giro di un giorno, dieci ore, un’ora, un minuto solo, l’inferno diventerà il suo mondo? Cosa potevano provare quegli iracheni che avevano già vissuto altre guerre, che avevano provato sulla loro pelle il terrore del rumore delle bombe, dei razzi, delle urla e dei pianti? Che sensazione ha chi sa di poter morire da un momento all’altro o che in un attimo potrebbe perdere i suoi affetti più cari?
Che cosa avrei detto loro? Che parole avrei trovato? Per tutto il pomeriggio provai a pensarle componendo e scomponendo le frasi perchè troppo ottimiste, superficiali o, al contrario, troppo drammatiche e senza speranza. Non fu facile. Decisi così di affidarmi al senso del momento, mi convinsi che le parole mi sarebbero venute dal cuore e che certamente sarebbero state quelle giuste.
Così, una volta a casa, iniziai a provare.
Niente linea. Niente linea. Niente linea. Sì! Forse c’è. Ma no. Non ha agganciato l’internazionale. Un paio d’ore così e le mie speranze cominciarono a svanire. E cominciarono a venirmi in mente tutte le parole che avrei potuto - dovuto - dire nelle telefonate dei giorni precedenti. Il tempo passava e la mia ansia aumentava nella assurda convinzione che se non fossi riuscita a parlare con i miei amici avrebbero pensato che li avessi dimenticati, che mi fossi arresa all’inevitabile, che mentre loro erano lì terrorizzati ad attendere la morte io fossi stata occupata a guardare la TV, a chiacchierare con gli amici o addirittura a dormire.
A mezzanotte e mezza, le due e mezza del mattino a Baghdad, finalmente un rumore mi diede speranza. Trattenendo il fiato sentii l’aggancio della linea internazionale e poi, dopo qualche lunghissimo secondo di silenzio, il doppio tono che in Iraq segnalava la linea libera.
C’ero riuscita. Malgrado lontana una voce da Baghdad mi stava rispondendo. E le parole mi vennero dal cuore, così come ero sicura avrebbero fatto, e fu facile più di quanto mi aspettassi perchè, nonostante tutto, sapevo di aver fatto la cosa giusta. Lo sentii nelle parole e nella voce al di là del filo.
Nei giorni successivi riuscii ancora a telefonare, e poi ci fu lo straziante silenzio che durò fino all’inizio di maggio quando, per la prima volta, proprio la persona che avevo sentito quel 20 di marzo riuscì a chiamarmi ed a dirmi che erano tutti vivi.
Da quella notte sono passati quattro anni. I miei amici sono tutti vivi, qualcuno ha lasciato il paese, qualcun’altro da Baghdad è emigrato verso il più sicuro nord, ma grazie a Dio sono ancora tutti vivi.
E proprio in questi giorni uno di loro è venuto a trovarmi. La vita non è certo stata facile per lui. Per tre volte si è trovato vicinissimo a morire a causa delle bombe che a Baghdad esplodono ovunque e che fanno vittime soprattutto tra i civili innocenti. Porta ancora nel corpo una scheggia di metallo che ogni tanto gli crea problemi ed i segni del rapimento a fini di riscatto di cui è stato vittima. Segni tangibili per essere stato percosso a sangue e quelli intangibili ma più profondi di un’esperienza orribile.
Ma è vivo. Ed io sono felice per questo.
A lui ed a tutti i miei amici di Baghdad dedico la speranza che il ricordo di quella notte e di tutte le altre possa scomparire dalla loro memoria, e che il futuro sia migliore.

Baghdadhope

Gruppi islamici impongono una tassa sui “sudditi" cristiani

Fonte: Asia News

Milizie islamiche a Baghdad e Mosul ordinano di riscuotere dai cristiani la jizya, l’imposta dei tempi dell'Impero ottomano che garantiva il permesso ai non musulmani di praticare la loro fede e ne assicurava la protezione; tra le direttive anche quella di “non farsi scoprire” dalle autorità governative mentre si versa il tributo in moschea.

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Baghdad (AsiaNews) – “I sudditi non musulmani devono pagare il tributo al jihad se vogliono avere il permesso di continuare a vivere e professare la loro fede in Iraq”. Sono le direttive imposte dalle milizie islamiche ai cristiani di Baghdad e Mosul, che si vedono inoltre costretti a lasciare le loro case perché lettere minatorie ne assegnano già la proprietà a cittadini musulmani. L’iniziativa sembra rientrare nella più generale campagna di islamizzazione del paese, già avviata con l’obbligo di indossare il velo per tutte le donne. A darne notizia il sito in arabo Ankawa.com, che riporta le testimonianze di diversi iracheni fuggiti ad Erbil, nella regione semi autonoma del Kurdistan.

Il quarto anniversario dell’entrata delle forze americane a Baghdad, 20 marzo 2003, non vede miglioramenti nelle condizioni della sempre più esigua comunità cristiana. Attentati, rapimenti e minacce continuano a segnare la quotidianità di chi non è riuscito a fuggire. Ultimo segnale di una situazione sempre più preoccupante, la notizia dell’obbligo del pagamento della jizya, l'imposta di “compensazione” chiesta dal Corano ai sudditi non-musulmani “protetti” tuttavia dalla umma islamica. La tassa è stata riscossa dall’Impero ottomano fino al suo crollo nel 1918, ma ora dalle moschee di Baghdad e Mosul è partito l’ordine di introdurla di nuovo, “senza che le autorità ne siano a conoscenza”.
Come raccontano alcuni cristiani, si tratta di un tributo alla guerra santa, che - secondo i jihadisti - protegge anche loro da aggressioni esterne. Il denaro va consegnato alla moschea preposta, “con l’accortezza di non farsi scoprire dal governo”.
Altri racconti parlano poi di lettere lasciate nei giardini di casa o all’ingresso delle abitazioni di cristiani in cui si avvertono le famiglie di abbandonare le loro proprietà perché sono già state assegnate ad altri, di cui nella missiva si riportano nomi e cognomi.

Islamic groups impose tax on Christian “subjects”

Fonte: Asia News

Islamic militias in Baghdad and Mosul order Christians to pay the jizya, a poll tax which dates back to the period of the Ottoman Empire, which guaranteed non Muslims the right to practise their religion as well as Muslim protection; the groups are ordered “not to reveal their activities” to Iraqi authorities while all contributions are given in alms to the Mosques.

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Baghdad (AsiaNews) – “Non Muslim subjects must pay a contribution to the jihad if they wish to be allowed to live and practise their faith in Iraq”. These orders are being imposed on the Christians of Mosul and Baghdad by Islamic militias. Besides these threats of extortion, thousands of non Muslims are also being forced to leave their homes by letters assigning their house to Muslim citizens. The initiative is part of the general campaign to Islamify the entire country, which begun with the imposition of the veil on all women. The website of the Chaldean Patriarch in Baghdad was the first to carry news of this latest development, Ankawa.com which has eye witness accounts of Iraqi refugees in Erbil, in the semi autonomous region of Kurdistan.

The fourth anniversary of the US military’s arrival in Baghdad, March 20th 2003, brings with it little improvement in the conditions of the ever decreasing Christian community. Bomb attacks, kidnappings and threats continue to mark the daily existence of those few who so far have not been able to leave. The latest sign of the increasingly worrying situation is news that the community is now being forced to pay the jizya, a “poll tax” requested from non Muslims according to the Koran, guaranteeing “protection” form the Islamic umma. The tax was once extracted by the Ottoman Empire until its collapse in 1918, but now Baghdad and Mosul’s Mosques have ordered it be put in place again, “without revealing it to authorities”.
According to local Christians it really is a contribution to the holy war, which – the jihad maintains - will also protect their community from external aggression. The monies collected are then given over to Mosques, but “without the knowledge of authorities”.
Other accounts tell of letters being left in gardens or the entrance to Christian homes, notifying the families that they must leave their dwellings because they have been assigned to others, whose names and surnames are listed in black and white in the letters.

15 marzo 2007

Assiri: Un’antica comunità sotto assedio in Iraq


Di Mark Mackinnon

ANKAWA, IRAQ

Le sere della domenica in questa tranquilla cittadina cristiana nel nord dell’Iraq danno una sensazione di serenità. Al calar della sera i parrocchiani si riuniscono sui gradini della chiesa di Saint Eliya e si congratulano con il sacerdote per l’omelia, mentre i bambini giocano in un giardino adiacente sotto un gigantesco albero con una targhetta su cui si legge: “2007” Se non fosse per i due uomini di guardia armati di Kalashnikov la scena potrebbe essere quella di una chiesa in una qualsiasi parte del mondo.

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Eppure i cristiani iracheni rappresentano una comunità sotto assedio. Pochi di quelli che assistono alla Messa a Saint Eliya sono di Ankawa, che fa parte della regione autonoma curda. La maggior parte di loro è infatti rifugiata dal sud e dal centro del paese dove i cristiani sono presi in mezzo nella violenta guerra civile in corso tra musulmani sunniti e sciiti. “I sunniti e gli sciiti lottano fra loro e noi siamo intrappolati” dice Souad Lahad, una donna di 45 anni, madre di quattro figli, che due mesi fa ha dovuto fuggire ad Ankawa da Mosul. La sua famiglia ha abbandonato tutto dopo aver trovato una lettera attaccata alla porta in cui si accusavano i cristiani di essere spie degli USA, e si chiedeva una non specificata somma di denaro: “o vi taglieremo la testa e distruggeremo la vostra casa.” La lettera, che la signora Lahad ha portato con sé, è firmata da “l’ufficio segreto degli assassinii” del Khalid Bin Walid Movement, un gruppo mai sentito prima. La famiglia è partita immediatamente. “Eravamo convinti che se avessimo aspettato a farlo solo un’ora sarebbero entrati in casa” racconta la signora Lahad che ora divide con altri parenti un’affollata casa a due piani. La sua è una storia tristemente comune ad Ankawa. La messa della domenica pomeriggio a Saint Eliya celebrata in arabo è così frequentata che una parte dei fedeli è costretta ad ascoltarla dall’esterno dell’edificio, ed è stata istituita recentemente proprio per coloro arrivati dalle altre parti dell’Iraq. Ma anche le altre sei funzioni domenicali nelle due chiese della città, celebrate in aramaico antico, sono sempre affollatissime. "I cristiani nel sud sono terrorizzati. Non hanno pace a causa delle squadre della morte e delle bombe. Almeno l’hanno trovata qui in Kurdistan” dice Padre Tariq Choucha, secondo cui la popolazione della sua parrocchia di Ankawa, la chiesa di Saint George, è aumentata del 50% con l’arrivo di 1500 famiglie dal sud e dal centro dell’Iraq dal momento dell’invasione americana quattro anni fa. Molti ad Ankawa sono sgomenti dal fatto che la loro sorte sia stata ignorata in occidente. Quando i soldati americani arrivarono a Baghdad molti cristiani pensarono che le loro vite sarebbero migliorate rispetto al periodo di governo di Saddam Hussein. Invece, dice Padre Tariq, egli si sentì “imbarazzato" come sacerdote, di non poter dare cibo, rifugio e coperte a tutti i nuovi arrivati bisognosi, e chiese alle comunità cristiane del Canada e del mondo di fare di più per i cristiani in Iraq."Se la situazione fosse temporanea andrebbe bene" dice Padre Rayan Atto, sacerdote della vicina chiesa di Saint Joseph. “Abbiamo bisogno di maggior aiuto. C’è molta gente veramente povera, gente che non ha casa, non ha elettricità.” Secondo Padre Atto è necessario fare qualcosa affinché l’intera popolazione cristiana non lasci l’Iraq. Mentre prima della guerra vivevano nel paese 800.000 cristiani, che rappresentavano circa il 3% della popolazione totale, ora essi rappresentano il 20% di coloro che ne sono fuggiti.La maggior parte dei rifugiati arriva da Baghdad e Mosul dove i gruppi militanti sunniti e sciiti hanno reso chiaro il fatto che una delle più antiche popolazioni cristiane del mondo – la maggior parte della quale è caldea, cioè cattolica di rito orientale autonoma da Roma ma che riconosce l’autorità papale, ed assira – non è più gradita in Iraq. Nel 2004 quattro chiese nella capitale ed una a Mosul sono state fatte esplodere nello stesso giorno causando la morte di 11 persone, e la discriminazione nei confronti dei cristiani è aumentata con gli attacchi da parte dei gruppi militanti dei negozi di liquori e l’obbligo per le donne di indossare il velo islamico. La signora Lahad, ad esempio, ha iniziato ad usare il velo e le gonne lunghe, e suo figlio Rami, di 23 anni, ha smesso di indossare abiti di stile occidentale ed ha cambiato pettinatura. I barbieri, d’altronde, rifiutavano di tagliargli la barba: “se i militanti vedevano qualcuno non vestito come loro voleva dire che era un non musulmano e che lavorava per gli americani.”Nei mesi recenti anche i sacerdoti sono diventati bersagli. Cinque di loro sono stati rapiti a Baghdad e rilasciati solo dopo il pagamento di un riscatto. Tre di essi ora vivono in Europa, ma la cosa non è grave dato che anche le loro comunità hanno lasciato Baghdad. “I cristiani stanno lasciando Baghdad ed il centro del paese, le chiese sono vuote” dice Wissam Yousif, un ventiseienne fuggito dalla capitale ad Ankawa qualche mese fa. Padre Tariq dice che malgrado i cristiani abbiano sofferto a causa di Saddam Hussein e del regime baathista – vent’anni di guerre e sanzioni condivise con il resto della popolazione – quei giorni sembrano felici ora."Prima ci si doveva preoccupare solo dei baathisti, ora c’è Sadr, (religioso radicale sciita) Sistani (Grand Ayatollah) ed al-Qaeda e molti altri gruppi.”Padre Tariq si dice preoccupato che la comunità cristiana, in Iraq dall’inizio stesso della religione, possa completamente sparire dal paese."Abbiamo vissuto in questo paese da prima dei musulmani, ma ora siamo distrutti.”

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

Assyrians: An Ancient Community Under Siege in Iraq


By Mark Mackinnon

AINKAWA, IRAQ

Sunday evenings in this quiet Christian town in the north of Iraq have a serene feel about them. As the light fades, parishioners gather on the steps of St. Elias's church, congratulating the priest on that day's sermon. Their children play in the adjacent park beneath a giant artificial tree with the number "2007" on it.
If it weren't for the two men with Kalashnikov rifles standing guard over it all, it could be a scene outside a church anywhere in the world.

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Iraq's Christians, however, are a community under siege. Few of those who attend mass at St. Elias's are residents of Ainkawa, which is part of the country's Kurdish autonomous region. Most are internal refugees from the south and centre of the country, where Christians are caught in the middle of a raging civil war between Sunni and Shia Muslims. "The Sunnis and the Shiites have a dispute with each other, and we're trapped in the middle of it," said Souad Lahad, a 45-year-old mother of four who fled with her family to Ainkawa from the war-ravaged city of Mosul two months ago. They left their long-time home 30 minutes after discovering a letter taped to their door that accused Christians of being spies for the United States, and demanded an unspecified amount of money "or we will cut your head from your spine and demolish your house."
The letter, which Ms. Lahad took with her when she left Mosul, is signed by the "secret assassinations office" of the Khalid Bin Walid Movement, a previously unheard-of group. The family left immediately.
"We thought if we waited even another hour, they would enter our house," said Ms. Lahad, whose family now shares a crowded two-storey home with other relatives.
Her story is sadly common in Ainkawa. The Sunday evening Arabic-language mass at St. Elias, which is so popular that some worshippers are forced to listen from outside the overflowing church, was recently instituted especially for new arrivals from other parts of Iraq. The other six Sunday masses at the two main churches in town, which are conducted in ancient Aramaic, were filled to the bursting point.
"Christians are being terrorized in the south. They have no peace and no safety with the death squads and car bombs. At least they find peace here in Kurdistan," said Father Tariq Choucha, who estimated that his parish at St. George's church in Ainkawa has swelled 50 per cent with the arrival of 1,500 families from the south and centre of Iraq in the four years since the U.S. invasion.
To the dismay of many in Ainkawa, their plight has largely been ignored in the West. When U.S. soldiers arrived in Baghdad, many Christians assumed their lives would get better than they had been under Saddam Hussein. Instead, Father Tariq said he was "embarrassed" that as a priest he could not provide enough food, shelter and blankets to help all the newly arrived who are in need. He pleaded for Christian communities in Canada and elsewhere to do more for the Christians of Iraq.
"If this situation is only temporary, we'll be okay," said Father Rayan Atto, a priest at the nearby St. Joseph's church. "We need more help. We've got people who are very poor, people who have no place, people who have no electricity."
He said it was imperative that something be done to keep the Christian population from being entirely driven from Iraq. While 800,000 Christians once lived in the country, representing about 3 per cent of the total pre-war population, Christians are believed to make up about 20 per cent of all those who have fled the country since 2003.
Most of the refugees who arrive here come from Baghdad and Mosul, where Sunni and Shia militant groups have made it clear one of the world's oldest Christian populations -- most of whom are Chaldeans, Eastern-rite Catholics who are autonomous from Rome but recognize the Pope's authority, and Assyrians -- was no longer welcome in Iraq.
In 2004, four churches in the capital and another in Mosul were bombed on a single day, leaving 11 people dead. Discrimination against Christians spiked dramatically, as militant groups attacked liquor stores and warned Christian women to wear Islamic dress.
Ms. Lahad started wearing a headscarf and long skirts. Her 23-year-old son, Rami, said he stopped wearing Western clothing and changed his hairstyle. Barbers refused to shave his face, he said. "If [the militants] saw someone who was not dressed like them, it meant you were a non-Muslim and working for the Americans," Mr. Lahad said.
In recent months, even priests have become targets. Five Baghdad priests were kidnapped last year, each released only after a hefty ransom was paid. Three of those priests have now left for Europe. It hardly mattered, since their congregations had already fled Baghdad. "Christians are leaving Baghdad and the whole centre of the country. The churches are empty," said Wissam Yousif, a 26-year-old who fled Baghdad for Ainkawa several months ago.
Father Tariq said that while Christians hardly prospered under Mr. Hussein and his Baathist regime -- they suffered through two decades of sanctions and war with the rest of Iraq -- those days seem halcyon now. "Before, there were just the Baathists to worry about. Now there is [radical Shia cleric Muqtada al-] Sadr, [Ayatollah Ali] Sistani, al-Qaeda. So many groups," Father Tariq said. He said he was worried that the Christian community, which has existed in Iraq almost since the religion began, might soon be driven out of the country altogether.
"We have been in this country longer than the Muslims," he said. "But we are overwhelmed now."