"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

30 dicembre 2015

Le Patriarcat Chaldéen: Vœux du nouvel an 2016

Vœux du nouvel an 2016

Nous sommes au seuil d'une nouvelle année 2016, et la fin de 2015 nous apporte une belle nouvelle, celle de la ville de Ramadi, ce qui renforce notre espoir pour la libéralisation des villes de Mossoul, de la plaine de Ninive et toutes les autres terres irakiennes. Nos plus sincères félicitations vont à l'armée irakienne, à l’armée de la "foule populaire" et aux peshmergas.
L'Irak aujourd'hui a un grand besoin d'un projet politique pratique et clair, capable d'arrêter la détérioration, réunissant toutes les composantes dans un projet civil qui contribuerait à la stabilité du pays et qui soutiendrait l'unité nationale et rejetterait la division entre les Irakiens en leur faisant sentir qu'ils sont tous des citoyens égaux, et non pas de différents degrés.
Car ceux qui divisent la société contribuent à la démolition de l'Irak, c'est pourquoi nous insistons sur l'importance d'adopter une nouvelle culture et une vision politique claire qui se transformera dans la pratique comme  carte  de route pour rassurer les Irakiens d'un avenir meilleur et d'un pays plus prospère, où les services sont des disponibilités pour l'entraide mutuelle, et ainsi le pays deviendra un pays de gloire, d'abondances et de prospérité pour ses enfants et ses voisins. Nous soulignons également l'importance qui incombe aux hommes de la religion qui ont la responsabilité morale de former les citoyens avec une saine et ouverte, une culture qui surveille ses propos, et présente les vraies significations, et œuvre à la promotion des valeurs de la tolérance, l’acceptation et le respect d’autrui et la convivialité, étant certain que sans cette culture le pays ne retrouvera pas de repos ni la société ne pourra pas se relever.
Que cette nouvelle année soit prospère pour tous.

Le Patriarcat Chaldéen

26 dicembre 2015

Per una volta mi indigno anch’io a Natale. Ma per i cristiani perseguitati

By Tempi
Rodolfo Casadei  

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Foto Tempi
L’altro giorno in metropolitana ho visto un manifesto della campagna dell’Unicef per i bambini profughi e migranti iniziata in novembre sotto il titolo “Indigniamoci!”. Propone una petizione al governo italiano. Per Natale il titolo dell’appello è diventato: “Il 25 dicembre è un buon giorno per indignarsi”. Messi da parte biglietti d’auguri e pigotte, l’Unicef ha scelto un approccio militante e accigliato al Natale, un po’ come fanno i Radicali con le loro periodiche marce per l’amnistia e la giustizia la mattina del 25 dicembre (ma quest’anno niente). Siamo decisamente lontani dallo spirito natalizio, e non mi riferisco alla retorica dei buoni sentimenti: quella va benissimo toglierla di mezzo. Ma dimenticare che Natale è tempo dell’attesa di un bene che arriva da fuori di noi, che non è opera delle nostre mani, e che si scopre essere la nostra salvezza: ecco, questo è il senso del Natale che l’attivismo etico ed umanitario dell’Unicef ignora. Il fatto è, però, che anche il mio Natale coincide, in buona parte, con sentimenti di indignazione. Oltre che di tristezza e di nostalgia. La nostalgia si sposa bene con lo spirito natalizio (memoria di un bene passato e attesa di un bene che sta per prendere forma vanno d’accordo), ma indignazione e tristezza no. Allora perché mi sento tanto Unicef?
Un anno fa di questi tempi mi trovavo a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, per condividere il Natale degli sfollati cristiani e yazidi scacciati dalle loro case nella piana di Ninive dall’Isis nel corso di quella estate. Questo spiega bene la nostalgia: è intuitivo. Ho fatto una delle esperienze più commoventi della vita: essere accolto e ricevere benefici da persone materialmente più povere di me. Ho fruito della gratuità dei poveri. Sono stato ospite la notte di Natale in uno spartano monolocale prefabbricato identico a quelli che venivano riservati ai terremotati italiani degli anni Ottanta. Ho dormito spalla a spalla coi maschi della famiglia di Talal, un artigiano cristiano di Mosul fuggito nel mese di luglio con la moglie e i cinque figli quando la vita si è fatta troppo grama per loro. Trasformato il pavimento in un dormitorio collettivo di materassi incellofanati, io ero l’unico al quale era consentito pernottare in un letto sollevato da terra.
Notte fresca ma non gelida: le spesse coperte fecero il loro lavoro. La mattina dopo Eileen, la sposa di Talal, ci ha onorati di una delizia di colazione a base di tè, marmellate e formaggi, apparsi come per incanto sull’unico tavolo pieghevole a disposizione. Le capriole di Milad, il piccolo riccioluto della famiglia, la tredicenne Aideen che silenziosa pettinava ininterrottamente i lunghissimi capelli. Gli amici che si affacciavano sulla soglia a fare gli auguri. Fuori un cielo grigio ma senza pioggia, le donne che lanciavano secchiate d’acqua e sapone sulla gettata di cemento che reggeva le baracche e teneva lontano il fango ma non la polvere. Il tanfo delle latrine collettive, pulitissime ma spurgate troppo di rado. Talal che passava un braccio attorno alle spalle di Samir, un ragazzone obeso e triste, i piedi nudi infilati dentro a sandali incongrui per la stagione, e lo consolava sottovoce.
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Foto Tempi
Era Natale e lui non aveva ricevuto nemmeno un regalo, per questo si copriva il volto – che immaginavo rigato di lacrime – con la mano sinistra. Cosa gli diceva Talal per rincuorarlo? Forse che sarebbero venuti giorni migliori; senz’altro che il suo destino era identico a quello di tutti i bambini e ragazzi del campo. Io non ho visto neanche un giocattolo passare di mano quel mattino di Natale, i bambini ridevano facendosi trasportare di qua e di là su carrettini di legno dagli adulti, ma le loro mani erano tutte identicamente vuote come quelle grassocce di Samir. Solo qualche banconota da pochi dinari appariva quando tornavano alla loro baracca dopo aver visitato quella di uno zio. Il pranzo fu suntuoso nella sua semplicità: riso bollito, fagioli in salsa di pomodoro, uova sode e patate lesse, cetrioli bolliti in salsa rossa, verdure e pane arabo. E quella frase con cui Talal rispose alla mia domanda su dove sperava di celebrare il Natale del 2015, una di quelle che restano incise per sempre nell’anima: «Non lo so. So solo una cosa: io e la mia famiglia siamo nel cuore di Dio».
Cos’è allora che mi indigna, cos’è che rattrista il mio Natale? Il pensiero che un anno dopo Talal e la sua famiglia sono ancora lì, allo Sport Center di Erbil trasformato in campo profughi. E che quando infine giungerà la notizia che non vivono più nella baracca cinque metri per tre, sarà probabilmente perché sono emigrati all’estero come molti loro parenti. In America o in Australia, da dove non torneranno più. Come decine di migliaia di altri cristiani che, in un flusso non impetuoso ma costante e apparentemente inarrestabile, stanno abbandonando l’Iraq perché non sperano più di tornare padroni delle case che sono stati costretti a lasciare e di viverci con dignità e in condizioni di sicurezza. I loro vescovi e patriarchi hanno invocato, fin dall’agosto 2014, un intervento di polizia internazionale sotto egida Onu per far rispettare il loro buon diritto alla proprietà e alla sicurezza, che lo Stato iracheno si è dimostrato incapace di assicurare. Invano.
Nessuno li ha ascoltati e le Chiese occidentali non si sono fatte megafono del loro appello. Queste ultime hanno raccolto e inviato aiuti umanitari, promosso programmi di cooperazione, organizzato occasionalmente giornate di preghiera, ma sul fronte politico non hanno mosso un dito. Niente manifestazioni pubbliche a sostegno dei diritti umani dei cristiani iracheni e siriani, nessun incoraggiamento all’uso legittimo della forza su rigorose basi di diritto internazionale in Iraq, nessuna battaglia per l’abrogazione almeno parziale delle sanzioni imposte alla Siria dai paesi occidentali. Il risultato di questo approccio è che per un po’ i cristiani resistono, vivono ammucchiati in bilocali affittati a peso d’oro nelle città del Kurdistan o a Baghdad coi soldi degli aiuti delle Chiese, consumano cibo e medicine della stessa origine nei prefabbricati dei campi profughi e dentro ai supermercati in costruzione. Poi imboccano la strada senza ritorno dell’emigrazione. E la stessa cosa fanno i cristiani siriani, vittime di rapimenti e sequestri di massa e di bombardamenti mirati delle loro chiese, motivati da odio confessionale.
Mi rattrista e mi indigna, da parte delle nostre comunità cristiane, la rimozione di tutta questa sofferenza, l’ignoranza delle conseguenze umane e religiose della disgregazione e della diaspora delle comunità caldee, siriache, melkite, ecc., l’insensibilità e l’indifferenza verso il persistere di una grande ingiustizia alla quale nessuno pone rimedio. Sì, la Chiesa italiana nelle sue articolazioni – parrocchie, associazioni, movimenti – sta aiutando generosamente i fratelli nella fede sofferenti del Vicino Oriente e gli altri esseri umani vittime della violenza della guerra e del terrorismo. Ma a quando una riflessione e una presa di coscienza relativamente alle cause di quello che è accaduto e che continua ad accadere? A quando iniziative pubbliche di pressione e sollecitazione del potere politico, nazionale e internazionale? E che fine ha fatto la rivolta morale che al tempo dell’occupazione anglo-americana dell’Iraq aveva rivestito i seminari diocesani e gli edifici parrocchiali di bandiere coi colori della pace? Mi rattrista e mi indigna la facilità con cui le nostre comunità rimuovono il senso di colpa per le condizioni in cui si trovano a vivere i nostri fratelli nella fede e depotenziano la compassione.

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Foto Tempi
Ci commuoviamo di fronte ai filmati delle bambine cristiane irachene che perdonano gli aguzzini dell’Isis, o per i collegamenti in skype coi sacerdoti che resistono sotto i bombardamenti in Siria, ma senza provare dolore per i loro patimenti e per le innumerevoli tentazioni alle quali il disagio materiale e psicologico espongono le persone, senza che dentro ribolla la ribellione per l’ingiustizia che si squaderna sotto i nostri occhi. La testimonianza dei cristiani perseguitati (perdono dei nemici, solidarietà verso i bisognosi, sopportazione delle avversità, accettazione della volontà di Dio) ci rassicura e ci consola, il fatto di lodarla e propagandarla e di raccogliere per loro un po’ di aiuti ci fa sentire a posto e ci fa sentire buoni. Scusate se vi disturbo, ma vorrei farvi presente che la notte di Natale di un anno fa in un campo profughi cristiano di Ankawa (Erbil) certamente io sono stato accolto meglio di quanto sia stato accolto Gesù bambino a Betlemme; però quella notte sentivo anche i canti sguaiati degli ubriachi, giovanotti cristiani disperati che quella sera erano andati in città a bere grappa per attutire la disperazione; mi faceva compagnia un giovane professore di inglese che fumava compulsivamente e diceva: «Questo paese ti porta via tutto, prima le proprietà e poi la dignità, da qui voglio andarmene»; e due giorni dopo a Baqofa, sulla linea del fronte con l’Isis, ho videoripreso giovani e padri di famiglia cristiani armati fino ai denti auto-organizzati in una milizia chiamata Dwekh Nawsha, che avevano trascorso il Natale di pattuglia in un lembo della pianura anziché a casa con le famiglie. Perché quando lo Stato di diritto muore e le istituzioni si disgregano, hai soltanto tre possibilità: o ti sottometti all’aggressore, o emigri, o ti organizzi per difenderti da solo. Con tutte le conseguenze sociali, morali e psicologiche del caso.
Ma cosa pretendi, mi direte, noi non siamo nelle condizioni di andare a combattere l’Isis armi alla mano, giusto o sbagliato che sia, o di esercitare una pressione efficace e decisiva sulle scelte di politica estera nazionale e su quelle delle grandi potenze. Lo so, lo capisco. Capisco persino che il governo italiano che non ha mandato i nostri soldati a riconquistare la piana di Ninive rubata ai cristiani e agli yazidi dai razziatori jihadisti, adesso li mandi nella stessissima zona a morire per proteggere la diga i cui lavori sono stati appaltati a una ditta italiana (ma a voi nemmeno questo vi scandalizza?). Quel che chiedo, è semplicemente di non ridurre il dramma dei cristiani perseguitati a una narrazione rassicurante. Di non soffocare completamente il senso di colpa che io proverò più del solito durante la settimana di Natale, e che vorrei condividere con altri. Faccio a tutti gli auguri, ma li faccio con le parole del sacerdote di Desio: «Io auguro a me e a voi di non stare mai tranquilli, mai più tranquilli» (don Luigi Giussani, Rimini 1985).

25 dicembre 2015

Natale in Iraq. Patriarca Sako: "Natale di speranza, ma governo e religiosi moderino i toni"


By Baghdadhope*

Di seguito il testo integrale della omelia pronunciata dal Patriarca Caldeo, Louis Raphael I Sako durante la messa di Natale nella chiesa della Regina del Rosario  a Baghdad.
Alla cerimonia hanno partecipato, come ha dichiarato Mar Sako a Baghdadhope, anche alcune famiglie musulmane e mandee "per mostrarci la loro solidarietà e la loro vicinanza."  Rivolgendosi al governo iracheno il Patriarca Sako ha chiesto che sia esso sia i religiosi musulmani facciano attenzione al linguaggio usato ed ai riflessi che esso può avere nella vita quotidiana e ricorrano ad un linguaggio in grado di "diffondere i valori della tolleranza, dell'accettazione dell'altro e dell'unità nazionale in grado di rassicurare tutte le diverse componenti del paese." 
Traduzione di  Baghdadhope.


Natale 2015 è un natale di Speranza

Durante le quattro settimane di Avvento che precedono il Santo Natale abbiamo meditato su personaggi biblici che hanno vissuto la Speranza attraverso la profonda preghiera personale e comunitaria che ha fatto loro superare la propria incapacità e la disperazione nella quale vivevano; con la preghiera essi hanno superato e vinto la  disperazione, come Abramo e Sara, Zaccaria ed Elisabetta e Giuseppe e Maria.
La Speranza è un tema fondamentale nella vita di ciascuno di noi perché senza essa non c’è  vita, progresso e sviluppo.
Oggi viviamo in Iraq e nella regione mediorientale in condizioni difficili, l'alta frequenza di violenze e conflitti aggrava la tragedia della povertà, dell'ingiustizia e della migrazione, così come il crescente numero di morti, delle persone e dei migranti feriti e sfollati. Per noi cristiani l'anno trascorso è stato il peggiore, perchè abbiamo vissuto l'ingiustizia  a causa  del pensiero radicale sistematico a noi contrario, e soprattutto la coercizione della legge riguardante la carta nazionale unica, i tentativi di imporre il velo alle donne cristiane, l'occupazione da parte di alcune delle milizie delle case dei cristiani e la violazione delle  tombe del cimitero  cristiano  a Kirkuk.
Noi abbiamo espresso il nostro disappunto estremo riguardo queste violazioni, ed abbiamo rifiutato gli auguri ufficiali durante le feste di Natale perché siamo tristi, pur rimanando aggrappati alla speranza di poter vivere la nostra vita come individui e come comunità, speranza per la pace sulla terra che la celebrazione del Natale ci dà.
Questo è il giorno per sperare in un domani migliore ed aprire gli occhi su una nuova alba grazie alla presenza di colui che riempie  i nostri cuori con  la gioia della vita.
Quest'anno celebriamo il Santo Natale in concomitanza dell’apertura dell’Anno Santo della Misericordia e dell’apertura della Porta Santa, che è per noi un simbolo del passaggio verso il tempo del perdono, della misericordia e della  vera riconciliazione, e che ci fa vivere la pace e la gioia grazie al dono divino della Grazia.
Tutti siamo chiamati a vivere questa grazia della misericordia così come fece nostro Signore, con fiducia ed entusiasmo, e così come la vive Papa Francesco.
Il cristiano è uomo di Speranza perché nel suo cuore nasce Cristo, e la sua Speranza è certezza e forza perché non deriva da un’illusione, da un sogno o da ottimismo personale, ma dal suo credere nella parola e nella promessa di Dio: «pace sulla terra».
Una promessa che ha portato ed orientato il nostro padre nella fede, Abramo, verso una terra ed un domani sconosciuti che sarebbero diventati  storia vissuta e realizzata. Così la stessa promessa ha guidato Mosè ed il suo popolo nel deserto, e Gesù con i suoi discepoli, che nulla avevano se non proprio la Speranza assoluta nella parola del Signore.
La stessa Speranza guida anche noi che viviamo in una situazione di perplessità e confusione, dolore e paura. La Speranza illumina il buio che c’è nella nostra vita, e rivela a noi vie e prospettive nuove e modi ed approcci nuovi che ci rendono segno di luce nel buio: lievito, luce e seme di senape, come Gesù ci ha chiesto di essere. Dobbiamo servire come Gesù, perché solo in questo modo possiamo essere vicini agli altri che saranno veramente parte della nostra vita.
La cosa più importante, in questo tempo santo di Natale, tempo giusto per passare da una situazione ad un’altra, è saper trasformare i dolori e le sofferenze che stiamo vivendo in una forza che ci spinge a cambiare dal profondo del nostro cuore e fuori di noi.
Questa Speranza ci deve far aggrappare alla vita ed a rimanere nella nostra terra, perché siamo parte viva di essa; questa Speranza ci rinfranca e fa crescere in noi la voglia di lavorare e cooperare con i nostri fratelli e concittadini che abbiano la buona volontà di farlo.
Per quanto riguarda coloro che distruggono la società irachena dividendoci, il governo e le autorità religiose musulmane devono cambiare il linguaggio a favore di toni moderati che puntino a diffondere i valori della tolleranza, del rispetto dell'altro e dell'unità nazionale, trasformandoli in atti concreti capaci di rassicurare tutti i cittadini.
Non dimentichiamo di citare la situazione della città di Mosul, della Piana di Ninive e di tutte le città dell’Iraq. Siamo convinti che la liberazione della città di Mosul e della Piana di Ninive sia ormai vicina; ritorneremo nella città a noi così cara dove seppelliremo le nostre sofferenze e le nostre paure, e dove finirà anche la storia dei jihadisti terroristi e dei fondamentalisti islamici che vivono senza futuro.
Gesù nacque lontano dalla sua madre terra, come oggi tanti bambini iracheni, Gesù fu minacciato e perseguitato da Erode, come oggi i bambini iracheni; Gesù tornò a Nazareth, dove visse, crebbe, lavorò ed insegnò, e fu poi crocifisso per essere gloriosamente risuscitato dai morti da Dio, e la Sua resurrezione tocca ed influenza ancora oggi la nostra vita.
E' la Speranza nella parola e nella promessa di Dio che ci dà il coraggio di superare gli ostacoli, le difficoltà, e soprattutto le nostre paure. Questa speranza è per noi una promessa da Dio; Dio che è la parola, e la parola è luce, guida, nobiltà, gioia, responsabilità, verbo e riparazione. La parola è un progetto che si realizza in noi giorno dopo giorno e diventa la gloria di Dio nell'alto dei cieli e la pace in terra agli uomini di buona volontà.  

Natale in Iraq. Rassegna stampa

By Baghdadhope*




24 dicembre 2015





25 dicembre 2015


IL SUSSIDIARIO:
Natale a Baghdad: Mons. Warduni, l'Europa si è allontanata, ma il nostro sacrificio non è vano

 

23 dicembre 2015

By Baghdadhope*
 

 












BUON NATALE E BUON ANNO NUOVO 


Edo Bri'cho o Rish d'Shato Brich'to



عيد ميلاد سعيد وسنة ميلادية مباركة



Happy Christmas and Happy New Year



Feliz Navidad y Feliz Año Nuevo



Feliz Natal e Feliz Ano Novo



Joyeux Noël et Bonne Année



Fröhliche Weihnachten und Gutes Neues Jahr



God Jul och Gott Nytt År

Il reportage. Le feste senza luci dei fedeli minacciati da violenze e islamizzazione. L'angoscia del patriarca caldeo Sako: "Vogliono allontanarci qui il nostro futuro è oscuro"

By La Repubblica in Il Sismografo blogspot
Giampaolo Cadalanu


Il Natale di Bagdad "Noi cristiani tra le bandiere nere ma resisteremo". Dai muri delle strade attorno alla zona verde, gli occhi penetranti del profeta Ali seguono i passanti, le donne velate che camminano in fretta, i ragazzi che fumano sul marciapiede, i militari con kalashnikov che controllano gli incroci. I ritratti del genero di Maometto sono una dichiarazione di fede sciita. «Prima non era così. Bagdad era come una città occidentale, adesso le strade sono nere, ovunque è pieno di bandiere», si accora Louis Sako, patriarca caldeo della capitale.
Per i cristiani, il futuro dell'Iraq è oscuro. Appena pochi giorni fa Sako ha aperto la Porta Santa della cattedrale di Bagdad, sottolineando che «testimoniare può portare al martirio, e noi non abbiamo paura».
Ma davanti al presidente del Senato italiano Pietro Grasso, in visita in Iraq, il patriarca non nasconde le sue preoccupazioni: «Di questo passo i cristiani se ne andranno tutti. Da poco gli sciiti hanno lanciato volantini sulle case dei cristiani, dove si diceva: anche la Madonna portava il velo, dovete farlo pure voi. Hanno proposto di chiudere i negozi che vendono alcol. Ma se vogliono uno stato islamico, c' è già Daesh». Secondo il patriarca, «è indispensabile che la comunità internazionale faccia un' azione politica con i leader religiosi islamici, perché emettano una fatwa di condanna per ogni violenza, anche sui non musulmani».
A preoccupare i cristiani è soprattutto una norma proposta al Parlamento di Bagdad, che imporrebbe la fede musulmana anche ai figli di un solo genitore che si converta all' islam. Non è detto che sia approvata: il capo dello Stato l'ha rinviata al Parlamento e lo stesso presidente dell' Assemblea, Salim Al Jabouri, ha voluto garantire alla delegazione italiana «la massima tutela delle minoranze», curando di far trovare persino un albero di Natale nell' ingresso del Palazzo.
Ma se a Bagdad c' è preoccupazione per l' attivismo sciita, nel nord Iraq è il fanatismo sunnita di Daesh, il sedicente Stato Islamico, a spaventare. Lo sanno bene le famiglie di Karakosh, cittadina a prevalenza cristiana non lontana da Mosul.
Nella notte del 6 agosto 2014 hanno raccolto in fretta le proprie cose e sono partiti, dopo l' arrivo del primo razzo. «Ci ha salvato Gesù, perché la casa davanti a noi è crollata », racconta nonna Victoria, che ha 62 anni. Chi è rimasto a Karakosh è stato catturato dai fondamentalisti: le donne sono state vendute come schiave, gli uomini chissà.
La famiglia di Victoria vive di solidarietà internazionale in una sola stanza, a Erbil. Sulla parete, accanto al crocefisso, c' è l' adesivo di una organizzazione di solidarietà cristiana Usa. Ma la nonna confida in papa Francesco: «Preghi per noi, perché possiamo tornare a casa».
Nel piano di sopra, anche Salah Sarkis si accontenta di una stanza per sé, sua moglie e i quattro figli. E' un giornalista, e mostra con orgoglio il suo ultimo commento su un foglio che si chiama Suraya, "Cristiano". Racconta che a Karakosh i pochi islamici avevano da tempo cominciato ad "allargarsi", comprando terreni e minacciando i cristiani. «Poi, con l' arrivo di Daesh, per noi c' era la scelta: convertirci, o andare via, oppure restare quasi come ospiti, pagando 40 dollari a testa come tassa mensile per la nostra religione».
Padre Majid, scappato anche lui da Karakosh, racconta di aver camminato nell' oscurità per sei-sette ore, per poi finire sotto una tenda: «E' stato Gesù a dirci: lasciate tutto e seguitemi. E noi abbiamo lasciato tutto, per la nostra fede ». «La situazione degli sfollati è difficile, soltanto dalla provincia di Ninive sono fuggite almeno quattromila famiglie, molti sono in Giordania, in Libano, in Turchia. A Erbil sono almeno seimila le famiglie di cristiani sfollate», dice Petros Mouche, arcivescovo di rito siriaco per Mosul e Kirkuk.
Fra cattolici, caldei, ortodossi, la comunità cristiana in Kurdistan raggiunge i 150 mila fedeli. Ma sulla possibilità della convivenza futura con i musulmani, monsignore è scettico: «Se ci fosse la possibilità... Sarebbe difficile ma non impossibile, con l' aiuto di Dio».

Christmas comes with pain but hope for displaced families in Iraq

By Catholic News Service
Oscar Durand

Habiba Daud remembers Christmas in Qaraqosh as beautiful. The festivities would start days before with the preparation of traditional food and desserts. Families celebrated around a large Christmas tree.
On Christmas her family and friends gathered to enjoy the food and spend time together, chatting and playing with the children.
This year will be the second Christmas Daud will spend away from her home, against her wishes. In August 2014, Islamic State fighters seized Qaraqosh, a city less than 20 miles southeast of Mosul.
The Islamic State attacks in northern Iraq displaced more than 120,000 Christians, as well as minority Muslims and Yezidis. Today, many of those people live in Irbil, capital of Iraqi Kurdistan.
In the first weeks the displaced lived in tents and temporary shelters in parks and churches. Today in Ainkawa, a Christian neighborhood of Irbil, there are eight camps where refugees live in plastic trailers locals call "caravans." Many rent apartments or live with friends and family in others parts of Iraq.
Among the displaced was Sister Diana Momeka, a member of the Dominican Sisters of St. Catherine of Siena. Previously Sister Momeka called Mosul home. When ISIS overran Mosul in June 2014, Sister Momeka and 73 other sisters from the Ninevah Plain fled to Qaraqosh, only to be displaced again in August.
"When you leave your home you leave your own dignity," Sister Momeka said. "You leave your own tradition, you own customs, your own churches, your own community."
Today the violence in northern Iraq continues without a clear solution in sight. Many ask themselves if it is possible to celebrate the holidays after losing all their belongings and being forced from their homes and ancestral land.
"It will be like any other day, although we will celebrate it for our child," Nabela Salim said of Christmas, while holding her 2-year-old son, Marvin.
Salim also fled Islamic State, first from Mosul and later from Qaraqosh. She lives in Ashti 2, a camp for internally displaced Christians in Ainkawa.
The trailers seem designed for up to three people, but it is common to see families of five, seven or even more occupying them.
A 10-minute drive from the camp where Salim lives, about 220 families live on the grounds of a former sports-center-turned-refugee-camp. As a reminder of its former use, an empty pool remains in the middle. At the bottom of the pool discarded 25-liter plastic jugs litter the still water. Residents of the camp use shared bathrooms. The plumbing empties into an open area inside the camp.
Sister Momeka said she believes that while the conditions are difficult, it is possible to celebrate Christmas. While in other parts of the world people are busy with decorations and shopping, their displacement makes Iraqi Christians focus on something else.
"We don't neglect the fact that no matter what, despite ISIS, despite all the hardships, Jesus is saying I am coming to save you," Sister Momeka said. "For us, Christmas in the midst of our suffering is about the birth of Jesus in our hearts."
The church has had a fundamental role in keeping hope among those displaced. After thousands of people arrived in Kurdistan, it was the church that mobilized people and resources to aid those in need. That was when Sister Momeka helped found a medical center for the displaced. It was the first of many projects that included two other medical centers and three schools.
Sister Momeka said the mission of these projects is to offer hope and show Iraqi Christians that although they are displaced, they have not been abandoned, especially during the holidays.
The week before Christmas, Majida Sabali of Qaraqosh sat in a trailer with her children Dima, Fadi and Nafa, next to an artificial three-foot Christmas tree. The tree was loaded with red, blue, gold and silver stars. It also had pieces of cotton over its branches reminiscent of snow. In preparation for Christmas she has made some sweets and bought new clothes for the children.
"I have a strong faith and also a strong faith that I will go back to my hometown, Qaraqosh," Sabali said.

Italy opens Consulate General in Erbil

By NRT

Italy will open a Consulate General in the Kurdistan Region capital of Erbil on Tuesday (Dec. 22), following the country’s Parliament Speaker’s arrival to Erbil, a senior official confirmed Tuesday.
Member of the Kurdistan Regional Government’s (KRG) Department of Foreign Relations, Abdulkhaliq Mohammed, told NRT that the Italian representative will arrive in Erbil Tuesday for the Consulate opening.
Italy already has an Embassy Consular Office in Erbil to carry out basic functions in the region and to improve the country’s relations within the Kurdistan Region but the Consulate with full functions is a step forward.
Mohammad said “Italy Parliament Speaker will change the office to Consulate General, which is the highest representative office after Embassy.”
Up to 33 countries have representation offices in Erbil, including the five permanent members of the United Nations Security Council.
A KRG delegation headed by Prime Minister Nechirvan Barzani visited Italy in March to discuss bilateral relations between both sides and the latest developments in the war against Islamic State (IS).
During the meetings with Italian officials, Foreign Minister Paolo Gentiloni told the KRG delegation that his country had planned to upgrade Italy’s diplomatic representation to Consulate General.
According to the Erbil Governorate website, Gentiloni said the decision was the evidence of the importance that Italy placed in its relationship with the Kurdistan Region.

700,000 Iraqi Christians have left the country over 30 years

By NRT

The president of the Rafeedain group in Iraqi Parliament, The president of the Rafeedain group in Iraqi Parliament, Yonadam Kanna, reported in a Parliament session that over 700 thousand Iraqi Christians have left the country due to the conflict. 
Statements from Kanna come after British members of Parliament sent a letter to Prime Minister David Cameron urging the recognition of the Islamic State (IS) targeting of minorities as genocide.
Kanna, who is also the Secretary General of the Assyrian Democratic Movement, expressed concern about the situation of Christians in a meeting of the Iraqi Parliament providing an overview of the last three decades in Iraq.
Migration and departure from Iraq began en mass during the Saddam Hussein regime. According to Kanna, the lack of church bells ringing for New Years is symbolic of the situation for the Christian minority. Traditionally, church bells are rung for New Years but this year there was silence.
After the formation of the Islamic State (IS) in Iraq, many people were forced from their homes, including Christians. Many Iraqi Christians sought refuge in the Kurdistan Region after displacement and others left the country to seek asylum. Following the arrival of IS, Iraqi Christians have experienced harassment and churches vandalized, creating a sense of fear among the minority group. 
Christians in Iraq are considered one of the oldest, continuous Christian communities in the world. The majority are indigenous Eastern Aramaic-speaking ethnic Assyrians. In Iraq, Christians numbered about 1.5 million in 2003, representing just over 6% of the population of the country. The number continues to decrease from the 12% estimated in 1947.

Lo Stato islamico contro il Natale, festa “eretica”. A Kirkuk profanati due cimiteri cristiani

By Asia News
di Joseph Mahmoud


Nuovi attacchi contro i cristiani e le feste del Natale nel nord dell’Iraq per mano di Daesh [acronimo arabo dello Stato islamico, SI] e altri gruppi estremisti.
Fonti di AsiaNews nel nord del Paese riferiscono che i miliziani dell’Isis a Mosul hanno affisso dei cartelli in città, in cui ordinano ai musulmani “di non festeggiare” in alcun modo il Natale con i cristiani, perché “sono eretici”. A Kirkuk, invece, gruppi di estremisti islamici hanno fatto irruzione all’interno di due cimiteri cristiani, profanando e distruggendo diverse tombe. 
I cristiani irakeni rispediscono al mittente gli attacchi di queste ultime ore e affermano di voler celebrare la festa, senza curarsi di minacce e intimidazioni. 
Il patriarcato caldeo condanna i nuovi episodi di violenza e intimidazione ai danni della comunità cristiana irakena, e lo fa utilizzando le stesse parole contenute nel Corano e in cui si afferma che i cristiani non sono eretici e la Trinità è una espressione teologica della rivelazione dell’unico Dio. 
Il libro sacro dei musulmani, spiegano i vertici della Chiesa caldea, descrive il Cristo come “portavoce della parola di Dio”. I cristiani non sono politeisti, né degli infedeli ed è per questo che il Corano afferma che “sono i più vicini a coloro che credono”. 
Alcuni fedeli della capitale, interpellati da AsiaNews, invitano i musulmani a “occuparsi della loro fede” e “di lasciarci vivere e celebrare liberamente la nostra” come dice il Corano stesso che vieta “costruzioni” in tema di fede e afferma: “Io ho la mia religione e voi la vostra”. 
Intanto il parlamentare cristiano Yonadam Kanna, presidente del gruppo Rafeedain, ha mostrato all’Assemblea un documento in cui emerge che oltre 700mila cristiani hanno lasciato il Paese a causa del conflitto e delle violenze negli ultimi 30 anni. Le migrazioni sono iniziate già negli ultimi anni del regime di Saddam Hussein ed è precipitato negli ultimi anni.
La comparsa dello Stato islamico e l’esodo di centinaia di migliaia di persone da Mosul e dalla piana di Ninive nell’estate del 2014 sono l’ultimo di una serie di attacchi, con profanazione di chiese e luoghi di culto, violenze a singoli e gruppi, sradicamento e spossessamento di beni e proprietà. Dagli oltre 1,5 milioni del 2003 si è passati oggi a meno di 500mila. 

22 dicembre 2015

Il Patriarca caldeo: non accettiamo gli auguri di Natale da chi ci ha abbandonato

By Fides

Nel ritiro spirituale pre-natalizio dei sacerdoti e dei diaconi dell'Arcieparchia caldea di Baghdad, tenutosi lunedì 21 dicembre nella capitale irachena alla presenza del Patriarca caldeo Louis Raphael I, il Primate della Chiesa caldea ha invitato i presenti a favorire una celebrazione del Natale sobria e concentrata sui tratti essenziali della solennità cristiana, senza farsi distrarre da momenti conviviali e mondani. Quest'anno - riferiscono le fonti ufficiali del Patriarcato, consultate dall'Agenzia Fides – la situazione drammatica vissuta dalle comunità cristiane irachene, anche a causa del disinteresse e delle inadempienze delle istituzioni pubbliche, suggerisce ai Pastori della Chiesa caldea di rifiutare a ogni livello anche i tradizionali incontri conviviali con i rappresentanti politici e religiosi per lo scambio di auguri, che in passato connotavano il periodo delle feste natalizie. Una sobrietà motivata in particolare dal momento carico di sofferenze e incertezze sul futuro che stanno vivendo le comunità cristiane irachene. Tra i motivi, perduranti e nuovi, di sofferenza e di disagio, il Patriarca ha richiamato la situazione di abbandono dei profughi cristiani fuggiti dalla Piana di Ninive sotto l'offensiva dei jihadisti dello Stato islamico (Daesh), la mancata modifica della legge che impone ai figli di diventare musulmani nel caso di conversione di un genitore all'islam, e anche i manifesti apparsi di recente sui muri di Baghdad, in cui si chiede alle donne cristiane di indossare il velo.
Quello del 2015 – ha suggerito il Patriarca caldeo – sarà per tutti un Natale di preghiera e raccoglimento, per trovare ls consolazione che può venire solo dall'annuncio salvifico della nascita di Gesù, all'inizio dell'Anno della Misericordia.
Per la Messa di Natale, il Primate della Chiesa caldea aprirà la Porta nella Misericordia nella tenda che funziona da cappella per i circa mille cristiani rifugiati in un campo profughi di Baghdad. Altre due porte sante sono state già aperte dal Patriarca presso la chiesa dedicata all'Addolorata e presso la Cattedrale caldea di San Giuseppe.

Patriarca di Baghdad: preoccupazione per i cristiani in Iraq


Il patriarca di Baghdad, Mons. Louis Sako, manifesta "grave preoccupazione" per i cristiani in Iraq. Proprio Sako oggi ha incontrato nella capitale irachena il presidente del Senato Pietro Grasso con cui ha parlato dei suoi timori per la crescente islamizzazione in senso fondamentalista del Paese alle porte dell'Isis. "Noi temiamo per il futuro politico del Paese. Dove va il governo? I profughi prima o poi torneranno alle loro case, ma non si capisce che cosa succederà, con il Daesh che vuole lo Stato islamico e i musulmani che occupano le posizioni di potere nel Paese", ha detto il presule che ha denunciato tanti gesti di intolleranza nei confronti dei cristiani, ed in particolare una legge in base alla quale i figli di chi si converte all'islam sono considerati musulmani in automatico.
La legge è stata rinviata al Parlamento dal presidente della Repubblica Fouad Masum, il quale oggi ha assicurato al presidente Grasso, che sul punto ha avanzato perplessità, che quella legge non andrà avanti. Il presidente del Senato ha sollevato il tema anche nell'incontro con il presidente del parlamento iracheno, Salim al Jabouri, il quale non solo ha confermato che la legge tornerà in discussione in Aula per essere rivista, ma che vari deputati hanno esposto perplessità e la volonta' di eliminare l'articolo sulla conversione automatica dei figli. Ma il patriarca ha paura.
"È una violazione della Costituzione ed una lesione dei diritti umani. Ma qui la religione pesa moltissimo in politica. Per cui non sono ottimista". E ha ricordato i volantini con cui si invita a indossare il velo come faceva la Madonna. "Ma quello accadeva duemila anni fa. Noi abbiamo fatto appello alle giovani donne ad andare in giro libere. Baghdad era una città occidentalizzata e colorata, oggi è abbrunata dal nero dei veli e delle bandiere islamiche".
Ha aggiunto: "I cristiani sono in Iraq da duemila anni, ben prima che ci fossero i musulmani. Ma ora ci considerano come cittadini di seconda categoria. Se si va avanti così non resteranno più cristiani qui. E questo la comunità internazionale non può accettarlo" 

21 dicembre 2015

Medio Oriente senza cristiani sotto i colpi dell'islamismo

Andrea Riccardi

A Bagdad, ieri, il patriarca Sako ha aperto la Porta Santa nella cattedrale caldea, parlando di cristiani «tribolati, ma non schiacciati».
Ha ricordato un dramma nella tragedia mediorientale: quello dei cristiani.
Soffrono come il resto della popolazione.
Ma sono colpiti in modo particolare: da quelli uccisi negli attentati a Bagdad fino ai cristiani assiri utilizzati come scudi umani nella capitale del Califfato, Rakka.
Il Medio Oriente, tra breve, sarà senza cristiani.
Erano circa il 10% dei siriani e il 3,5% degli iracheni.
Nel 1948, gli ebrei furono scacciati dagli Stati arabi, mentre i cristiani restarono fedeli al nazionalismo arabo. Nella loro storia bimillenaria, questi hanno resistito a invasioni e violenze per convertirli: dagli arabi ai mongoli e agli ottomani.
Nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014, di fronte a Daesh incalzante in Iraq, ben 120.000 cristiani sono fuggiti dalla piana di Ninive: nessuno si è convertito all' Islam per restare.
Ora la guerra, l' islamismo e il vuoto di prospettive spingono i cristiani a andare in Occidente. I vescovi, a lungo critici
sull'abbandono delle terre storiche, sono oggi possibilisti verso l'emigrazione. Il loro grido d'allarme per un intervento dell'Occidente (non molto realizzabile) non ha dato risultati.
Qualche patriarca si è spinto a chiedere l'intervento armato. Per decenni, le minoranze cristiane hanno vissuto sotto la protezione dei regimi baathisti, siriano e iracheno, che garantivano un po' di laicità e un freno all' islamismo. Del resto il Baath fu fondato nel 1947 da un cristiano (ortodosso), Michel Aflaq, morto nel 1989 (Saddam lo onorò, parlandone come di un convertito all' Islam, fatto poco certo).
Quel mondo è stato travolto dalla guerra occidentale all' Iraq (osteggiata dai cristiani) e dalla crisi del regime di Assad (difeso dai patriarchi).
I cristiani hanno creduto alla causa araba, lavorando perché l' arabità non s' identificasse con l'Islam, preoccupati di uno Stato religioso.
Alcuni hanno avuto posti di rilievo, come il ministro degli Esteri di Saddam, Tareq Aziz. Giulio Andreotti, ben noto nel mondo arabo, aveva tra i suoi interlocutori alcuni cristiani come il patriarca melkita, Maximos Hakim. Le élite cristiane hanno tanto lavorato per la convivenza, certo fragile. Tutto poi è crollato. I leader ecclesiastici non hanno elaborato un disegno alternativo. Hanno rifiutato dal 2006 l'idea di una zona protetta per i cristiani nella piana di Ninive, sostenuta dagli americani, considerandola un ghetto.
La vita però era impossibile a Bagdad. Oggi le aree di rifugio sono Kurdistan, Giordania e Libano. Quest'ultimo resiste, ma è a rischio: Daesh vuole portarvi lo scontro come si è visto con gli attentati contro gli sciiti. Il Libano, ultimo ridotto dei cristiani (almeno il 35% dei libanesi), non può accoglierne stabilmente altri.
Il Kurdistan ha ricevuto i cristiani in fuga e ne ospita più di 100.000. Il governo locale si presenta aperto al pluralismo: ha fatto memoria persino dell'espulsione degli ebrei dal Paese. Ha costruito un edificio per il patriarca assiro, che abiterà qui. I curdi siriani, nelle zone da loro controllate, proteggono i residui cristiani. Ma i cristiani sono in genere perplessi verso i curdi, memori delle stragi di cent' anni fa e degli scontri successivi.
I cristiani, senza prospettive, vogliono lasciare il Medio Oriente. Ambienti neoprotestanti li favoriscono con operazioni come «New Ninive», per portarli soprattutto negli Stati Uniti, che stanno diventando la nuova patria delle Chiese d'Oriente. Gli ambienti cattolici, che seguono la vicenda con tanti interventi di solidarietà, non hanno avuto la possibilità o la capacità di elaborare una visione del futuro né di suggerirla agli orientali.
Il nuovo Oriente finirà per essere l'Occidente americano? Si sta spegnendo drammaticamente, sotto i colpi dell'islamismo, quel mondo cristiano orientale che ha avuto una funzione originale nell' incontro tra Islam e modernità e nell'orizzonte del cristianesimo. Si prepara uno sconvolgimento nell' ecologia umana del Mediterraneo: la fine di un' antichissima presenza. È ancora tempo di fare qualcosa? Forse solo la pace in Siria potrebbe mutare questo destino.

Patriarca Sako: Porta Santa a Baghdad, simbolo di riconciliazione


“La Misericordia è il cammino del cristiano”. Questa la lettera pastorale del patriarca caldeo di Baghdad, Louis Sako, con cui ha invitato i cristiani d’Iraq, ormai meno di 500mila rispetto al milione e mezzo dei primi anni Duemila, a celebrare il Giubileo. Oggi a Baghdad, l’apertura della Porta Santa nella prima cattedrale del Paese, intitolata alla Madonna Addolorata: con il patriarca Sako, tutti i vescovi e i sacerdoti locali, in un momento particolarmente difficile per la minoranza cristiana che vive, da sfollata all’interno del proprio Paese, questo Anno Santo e il prossimo Natale, a causa delle continue violenze del sedicente Stato islamico (Is).
Giada Aquilino ha raggiunto telefonicamente a Baghdad sua beatitudine Sako:


Per noi è un cammino molto doloroso, la nostra notte è lunga e oscura purtroppo ma abbiamo anche tanta speranza basata sulla parola del Signore Gesù. Questo Anno della Misericordia è all’inizio del Natale, in un momento di preparazione. È dunque una chiamata per noi, malgrado tutto, ad entrare nei valori e nel senso del Natale. Aprire una Porta Santa è una cosa simbolica: vuol dire uscire o passare da ciò che noi viviamo qui e andare verso la misericordia, la riconciliazione, ma anche la gioia della grazia del perdono, che il Signore ci dà. Come sta facendo Papa Francesco con tanto entusiasmo, dobbiamo comprendere la nostra situazione e il senso di questi eventi con fede, fiducia e speranza. Ma dobbiamo anche avere coraggio e pazienza.
Cosa significa varcare la Porta Santa per la minoranza cristiana d’Iraq?
È un passaggio, dunque è quasi una Pasqua: una realtà terribile, ma non la fine del mondo. Anche davanti a questa sofferenza, che è molto forte, noi leggiamo la mano di Dio che ci salverà, perché non ci lascerà mai. Ci sono difficoltà, ma Dio è più forte anche della morte.
Lei ha chiesto di vivere la misericordia per avere pace, per servire tutti, cristiani e musulmani. Come è possibile farlo di fronte alla violenza del sedicente Stato Islamico, di Daesh?
Avevo così tanto desiderato che anche le autorità musulmane facessero una dichiarazione affinché questo fosse un Anno della Misericordia per tutti, perché anche per loro Dio è misericordioso. Senza misericordia e riconciliazione non c’è futuro! Alcuni hanno capito questo messaggio. Ma mi aspettavo tanto da parte delle autorità sciite e sunnite: che, come ha fatto il Papa, anche loro facessero un anno di misericordia e riconciliazione, davanti a questo cancro del fondamentalismo e del terrorismo, in Iraq, in Afghanistan, in Siria, in Pakistan, in Mali, in Nigeria… Dappertutto c’è violenza.
Non ci sono state queste dichiarazioni?
Purtroppo no… C’è una mentalità terribile di vendetta e questo fa male.
Oggi la Porta Santa a Baghdad, domenica scorsa a Erbil. I cristiani che stanno varcando le Porte Sante d’Iraq con quale spirito lo fanno? Molti sono lontani dalle loro case…
Sì, è vero. La cattedrale della Madonna Addolorata, molto antica, è anche un simbolo: è bellissima e quest’anno l’abbiamo restaurata, anche per mostrare che è un patrimonio cristiano da salvaguardare. È la prima Chiesa cattolica a Baghdad che, proprio come simbolo, darà ai cristiani tanta speranza. Diciamo sempre: “non abbiate paura”. I cristiani iracheni sono coraggiosi ed entusiasti per la loro fede. Veramente siamo orgogliosi di ciò che il nostro popolo ha vissuto. In una sola notte, 120mila persone hanno lasciato tutto per la loro fede (di fronte all’avanzata dell’Is): potevano essere forzatamente convertiti all’islam e rimanere lì e invece neanche uno è rimasto, neanche uno si è convertito. È un miracolo!
Molti di questi cristiani vivono nelle tende, nella zona di Erbil…
A Erbil, ma anche qui. Questa settimana andrò a celebrare la Messa in un campo profughi. Ci sono 1000 famiglie di rifugiati a Baghdad. C’è una tenda che è anche una cappella: io aprirò pure per loro la Porta Santa e offrirò un pranzo con tutti anche per incoraggiarli. Non abbiamo più niente, siamo tribolati, ma non schiacciati.