"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

22 luglio 2020

Buone vacanze!

By Baghdadhope*


Foto by Ryan McGuire

Il vescovo di Latina dona la sua croce pettorale al nuovo vescovo della chiesa caldea Mons. Felix Shabi

By Baghdadhope*

Questa mattina nella sede vescovile della diocesi di Latina - Terracina - Sezze - Priverno il vescovo, Mons. Mariano Crociata, ha ricevuto in visita il neo eletto vescovo della chiesa caldea per la diocesi di Zakho (Iraq) Mons. Felix Shabi. Ad accompagnare il neo-porporato Don Saaed Aysar E. Saaed, anche lui iracheno ma appartenente alla chiesa siro-cattolica e collaboratore della diocesi laziale. 
Durante l'incontro in cui si è discusso della situazione in Iraq e nella diocesi che Mons. Shabi guiderà Mons. Crociata ha regalato al neo vescovo di Zakho la sua croce pettorale in segno di solidarietà verso la comunità cristiana irachena.

"Questa croce è semplice"
ha detto il vescovo di Latina "e priva di valore materiale ma ha tuttavia un significato profondo perchè ci ricorda della chiesa delle origini e delle radici cristiani dei tempi delle catacombe e delle prime persecuzioni, quando il simbolo dell'Eucarestia erano il pane ed il pesce perchè quello della Croce era vietato."
Inviando i suoi saluti al patriarca della chiesa caldea,
Cardinale Louis Raphael Sako, da lui incontrato lo scorso febbraio a Bari nel corso del meeting "Mediterraneo frontiera di pace" organizzato dalla Conferenza Episcopale Italiana, Mons. Crociata ha affermato che: "Questa croce è espressione della mia presenza spirituale e della mia unione nella preghiera nel corso dell'ordinazione episcopale." *
Da parte sua
Mons. Felix Shabi ha accolto il dono della croce pettorale ricordando le parole di San Paolo: Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo. (Galati 6:14) 

*Nominato vescovo della diocesi caldea di Zakho (Iraq) lo scorso 27 giugno Mons. Felix Shabi non ha ancora potuto celebrare la sua ordinazione episcopale a causa della situazione relativa alla pandemia di Coronavirus in Iraq.   


21 luglio 2020

Patriarcato caldeo: “Disumana e immorale” l’espulsione di iracheni messa in atto dagli USA

By Fides

Il Patriarcato caldeo, guidato dal Patriarca Louis Raphael Sako, segue con preoccupazione la vicenda degli iracheni residenti da lungo tempo negli Stati Uniti d'America che vengono rispediti nel loro Paese natale perché non hanno ancora ottenuto i documenti necessari per ottenere la cittadinanza USA, o perché accusati di aver commesso reati.
In un comunicato diffuso lunedì 20 luglio, il Patriarcato caldeo ha definito tale misura disposta dall’Amministrazione USA come una forma di deportazione “disumana e immorale”, perché colpisce persone residenti in USA da molti anni, costrette a volte a separarsi dalla propria famiglia o a portare con sé in Iraq figli nati in America che non parlano arabo, esponendo così tutto il nucleo familiare al rischio dell’isolamento sociale e della mancanza di lavoro e di mezzi di sostentamento. Il pronunciamento patriarcale, diffuso attraverso i canali ufficiali del Patriarcato caldeo, auspica un ripensamento da parte dell’Amministrazione Usa, che tuteli i diritti e la tranquillità familiare agli iracheni potenziali vittime dei dispositivi di espulsione.
Giovedì 2 luglio, la Corte Suprema degli Stati Uniti non ha accolto la richiesta avanzata da un consistente gruppo di iracheni per sollecitare il blocco delle disposizioni di espulsione e rimpatrio forzato in Iraq emesse a loro carico dagli apparati giudiziari statunitensi.
La vicenda coinvolge circa 1.400 iracheni residenti negli Stati Uniti, alcuni dei quali colpiti da lungo tempo da misure di espulsione, comminate dopo che erano stati processati per aver commesso reati. Molti di loro, nelle petizioni presentate per sottrarsi ai decreti di espulsione, sostenevano che il rimpatrio forzato in Iraq li esponeva al rischio di subire “torture e persecuzioni”. Fino ad alcuni anni fa, erano gli stessi governi iracheni a opporsi ai rimpatri coatti di propri concittadini residenti in USA e colpiti da misure di espulsione. La situazione è cambiata a partire dal giugno 2017, in virtù delle nuove regole in materia di immigrazione poste in atto dall'Amministrazione Trump.
Tali regole portarono nel giugno 2017 anche all’arresto di 114 iracheni su disposizione dell'Immigration and Custom Enforcement (ICE, l'agenzia federale statunitense responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell'immigrazione). Nelle settimane successive, come riferito dall’Agenzia Fides, il giudice Mark Goldsmith di Detroit riuscì temporaneamente a bloccare la potenziale deportazione di cristiani caldei e di altri immigrati iracheni, mostrando che anche i casi penali e giudiziari tirati in ballo dalle forze di polizia come motivazione dei provvedimenti di espulsione contro gli iracheni fossero in realtà casi “dormienti”, rispolverati all'occorrenza, in maniera evidentemente pretestuosa.
In realtà, già prima dei tentativi di resistenza legale messi in atto dal giudice Doldsmith, l'operazione di rimpatrio forzato di cittadini iracheni residenti in USA faceva leva sull’accordo già sancito tra l’Amministrazione Trump e il governo di Baghdad, che aveva accettato di accogliere un certo numero di cittadini iracheni sottoposti all’ordine di espulsione dagli USA, pur di cancellare l’Iraq dalla lista nera delle nazioni colpite dal cosiddetto “Muslim Ban”, il bando voluto del Presidente Donald Trump per impedire l'accesso negli USA ai cittadini provenienti da sei Paesi a maggioranza musulmana considerati come potenziali “esportatori” di terroristi.
 

Iraq: card. Sako (patriarca), incontro con il clero caldeo per parlare della pandemia. 1.000 dollari a ogni parrocchia per i bisogni dei fedeli

By AgenSIR
20 luglio 2020

Foto Patriarcato Caldeo

Incontro oggi a Baghdad dei sacerdoti caldei con il patriarca, card. Louis Raphael Sako, e i vescovi ausiliari.

 All’ordine del giorno la situazione generale nel Paese, la pandemia di Coronavirus e l’assistenza delle persone bisognose. Il patriarca, nel suo intervento, ha sottolineato “l’importanza di servire con amore e dolcezza le persone in questa emergenza” e ha ribadito “la necessità di predisporre programmi speciali di accompagnamento spirituale e umano con l’uso dei social media considerando la pandemia in corso”. Tra le decisioni assunte nell’incontro anche quella di dotare ogni parrocchia di un fondo di 1.000 dollari per venire incontro ai bisogni dei fedeli.

Bishop-Elect: This May Be Our Last Chance to Stop the Exodus of Christians in Iraq

By National Catholic Register 
Solène Tadié
Friday 17, 2020


For the first time in a decade, the city of Zakho, in Iraqi Kurdistan, will have a bishop again. By decision of Cardinal Louis Raphaël Sako, the patriarch of Babylon of the Chaldeans, this eparchy will be separated from that of Amadyiah-Duhok, to which it was united in 2013.
The eparchy had initially been entrusted to the Diocese of Erbil after the death of Bishop Petros Hanna Issa Al-Harboli in 2010.

The new eparchy will be run by Chorbishop Felix Dawood Al Shabi, appointed with Pope Francis’ consent on June 27. 

Born in Karemlash, in the Nineveh Governorate of northern Iraq, on Jan. 19, 1975, he was ordained a priest on June 29, 1998, in Baghdad. He left Iraq in 1999 and settled in the U.S. where he served in several parishes until 2018.
Located between the Syrian and Turkish borders along Little Khabur River, Zakho is a strategic region. The surroundings of the city — which is essentially populated by Kurds and Chaldean Christians — have recently been the scene of Turkish airstrikes targeting bases of the PKK (the Kurdistan Workers Party), arousing terror among local populations. The Turkish government regards the PKK, a political and military organization that is active in both Turkey and Iraq, as a terrorist organization.
While discussing the sensitive context of his new mission with the Register in Rome following the announcement of his appointment, Bishop-elect Dawood Al Shabi called on Western Christians to maintain and strengthen their support of their Iraqi Christian brothers, under pain of seeing them reduced to a mere historic symbol.

You’re going to take office in a very delicate moment for the city of Zakho and its surroundings, which have been undergoing Turkish bombing over the past weeks. How is the situation now?
The situation right now is a little bit better than two weeks ago. Because these bombings are not constant, the Turkish troops attack and then they withdraw because Iraq is a sovereign country. It already happened in the time of Saddam Hussein. But a lot of people suffer on the ground because the troops don’t distinguish between those who are militants and the innocent people that are on the street just to go to work. Many civilians are suffering, innocent people are being killed.
One of the cemeteries of our diocese was also hit by a bomb or very near to it from what I heard.
The situation between Kurds and Christian faithful in Northern Syria is reportedly complicated. How is the situation in Iraqi Kurdistan?
I’ve never lived in Zakho yet but from what I am told by my Christian brothers there, the situation is better with the Kurds than with Islamist groups. The fact that Iraqi Kurdistan is a mountainous area prevents this kind of general terror to settle. It is easier to handle for Christians.
The current leaders of Iraqi Kurdistan have a certain openness to the Western and Christian world, so I am expecting a more constructive collaboration with our Church, at least with regards to religious freedom for Christians there. We must maintain our rights.
In Iraq, the Kurdish government has been stable since the Kuwait war in the 1990s. It is almost a real government and they are more flexible. They have diplomatic channels and they want to maintain good relations with the rest of the world.
It is more complicated at a national level as the Constitution is now based on the Quran. I remember that, when I was young, before leaving Iraq, the former constitution was closer to the French Constitution, based on Human Rights.

How do you explain such a shift in the country?
The Gulf War in the 1990s changed a lot of things and favored the rise of terror groups. It was like a turning point and it has continued this way until recent years with ISIS.
The fact that the Quran is now the foundation of our Constitution makes the situation very complicated for minorities. We are second-class citizens.
But even before the advent of terror groups in recent years, Christians have been suffering bad treatments from Muslim groups for so many decades, it was already like that in the 1950s, it is a rooted mentality. Coexistence is not easy. As long as we have a weak government, the situation will remain the same and Christians will continue to flee.

What about the Christian presence in Zakho?
Even after the disaster caused by ISIS in 2014, people have continued to arrive from the south, from Nineveh Plains and Baghdad. But there is still the desire to flee Iraq, and many people go to Zakho with the aim of crossing the border to Turkey, hoping that through the United Nations, they can ask asylum in Europe and find a country where they can live in peace.
This is the major risk we are facing in the whole country: the disappearance of the Christian community would make them become symbols only, without any significant presence.

CRISTIANI IN IRAQ/ Card. Sako: così resistiamo alla fame, al Covid e agli estremisti

By Il Sussidiario
Paolo Vites
17 luglio 2020


Iraq 17 anni dopo la fine del regime di Assad e tre dopo la fine dello Stato islamico. Un paese nel caos, dove la disoccupazione e la povertà hanno raggiunto picchi altissimi, minacciato dall’Iran e abbandonato dagli Stati Uniti. Come sempre in queste situazioni sono le minoranze a soffrire di più, e in Iraq questa minoranza sono i cristiani. 

“Cristiani a rischio estinzione in Iraq” è quanto dice il Rapporto Life after Isis: New challenges to Christianity in Iraq, diffuso alla Fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre.
Si tratta però di una rilevazione di carattere sondaggistico, come ci ha spiegato in questa intervista il cardinale Louis Raphaël I Sako, Patriarca di Babilonia dei Caldei, la più numerosa comunità cristiana irachena.
“È vero che i cristiani soffrono molto, ma come tutti gli iracheni. La disoccupazione oggi tocca il 70% della popolazione, è in corso la pandemia e ci sono molte vittime perché i nostri ospedali non sono in grado di curare come si deve dopo che l’Isis ha portato via tutto”.A proposito di Isis, dice che non è vero che si stia rafforzando di nuovo: “Dopo tutta la sofferenza che hanno imposto la gente non ne vuole sapere di loro, anche se rimangono gruppi di fondamentalisti che coltivano la loro ideologia sanguinaria”. Insomma, un paese che ha bisogno di aiuto in tutti i sensi.

 Monsignore, è vero che i cristiani in Iraq sono sempre di meno? 
No, non è così. Quelli che sono voluti andare via se ne sono andati, ma un numero di cristiani non da poco è rimasto. Fanno di tutto per rimanere. Certo, ci sono grossi problemi, ma è così per tutti gli iracheni, non solo i cristiani. Bisogna sopportare con pazienza e collaborare con tutti. L’Iraq oggi è un paese in grave difficoltà, ma i cristiani restano nella Piana di Ninive, a Baghdad, a Bassora. Abbiamo otto diocesi. Certo, come iracheni abbiamo bisogno di aiuto.

Qual è il problema maggiore?

La disoccupazione. Tutto il popolo iracheno ne è colpito. Alcune famiglie cristiane hanno la fortuna di essere aiutate da loro parenti all’estero e la Chiesa si dà da fare per tutti. Purtroppo il nuovo governo da poco in carica non ha soldi, ma ha promesso di fare qualcosa.

Ci sono ancora manifestazioni nelle strade?

No, molto di meno da quando siamo riusciti a cambiare primo ministro. Abbiamo fiducia in lui. Il problema dell’Iraq è che da 17 anni non esiste uno Stato forte, unito, sicuro. Siamo stati devastati dalla corruzione prima, dalle milizie fondamentaliste poi. Aspettiamo di vedere cosa il nuovo governo riuscirà a fare.

Si dice che l’Isis si stia riorganizzando e possa tornare.

No, è assolutamente impossibile. La gente ha sofferto troppo sotto di loro, specialmente in posti come Mosul. Non ne vogliono sentir parlare. Non ci sono bande militari ma è vero che ci sono gruppi fondamentalisti che predicano ancora l’ideologia dell’Isis. C’è da fare una grosso lavoro per cambiare la mentalità di questi gruppi, insegnare al popolo ad aprirsi, alle diversità, c’è un cammino da fare.

Tra cristiani e musulmani come sono i rapporti?

Buoni. Abbiamo creato un Comitato de dialogo tra cristiani, sciiti e sunniti dove abbiamo fatto grandi progressi. Purtroppo ci sono ancora alcune leggi e alcuni personaggi molto estremisti che non vogliono il dialogo.

C’è ancora la pandemia da voi?

Purtroppo sì, è tutto chiuso, chiese, scuole, moschee. Abbiamo molti morti. Ho chiesto ai miei preti di proteggere tutte le attività perché siamo molto spaventati, una cosa così nessuno l’aveva mai vista. La messa la facciamo tramite i social. Soffriamo molto questo evento perché i nostri ospedali non sono in grado di curare queste persone, l’Isis si era portato via e distrutto tutto e ancora non abbiamo un sistema sociale. È tutto da ricostruire.

Il Patriarca Sako al governo: serve una legge sullo statuto personale che rispetti l’identità dei cristiani

By Fides
17 luglio 2020

I cristiani in Iraq non sono ospiti stranieri giunti da lontano. Le comunità autoctone di battezzati sono radicate da millenni nelle terre della Mesopotamia, e i cristiani assiri e caldei sono discendenti delle popolazioni artefici delle antiche civiltà mesopotamiche. Anche per questo, i governi dell’Iraq moderno devono rispettare e tutelare l’identità dei cristiani iracheni, garantendo loro di poter regolare le questioni relative allo statuto personale – eredità, diritto matrimoniale e di famiglia, libertà di coscienza – seguendo leggi conformi alla propria esperienza di fede. 
Con questa premessa il Cardinale Louis Raphael Sako, Patriarca della Chiesa caldea, sollecita le autorità politiche irachene ad affrontare e risolvere in maniera appropriata la delicata questione dello statuto personale giuridico dei cristiani e degli appartenenti a tutte le minoranze religiose del paese. Nella situazione corrente – sottolinea il Patriarca in un lungo intervento, diffuso dai canali ufficiali del Patriarcato e presentato come un vero e proprio “progetto” da sottoporre al governo nazionale – le questioni giuridiche che afferiscono allo statuto della persona (come ad esempio il diritto matrimoniale, o le successioni ereditarie, o la custodia dei minori) vengono regolate per tutti i cittadini iracheni da leggi che attingono alla tradizione giuridica islamica, e fanno riferimento, diretto o indiretto alla Sharia. Tale situazione, a giudizio del Patriarca, costringe anche i cristiani a regolare questioni giuridiche relative allo statuto personale secondo criteri non conformi alla propria identità e esperienza di fede.
Nel suo lungo contributo, il Primate della Chiesa caldea espone una serie di casi concreti regolati dall’attuale legislazione irachena con criteri che risultano in contrasto con la dinamica dei rapporti familiari e sociali suggerita del cristianesimo. Molte degli aspetti messi in luce dal Patriarca riguardano il diritto matrimoniale. Il matrimonio cristiano - rimarca il Cardinale Sako - è un contratto sacro fondato sull’amore vicendevole tra due adulti, un uomo e una donna, che lo scelgono senza costrizione né coercizione, in piena libertà, con l’impegno di rispettarlo per tutta la vita. Per questo l’appartenenza alla comunità cristiana è incompatibile con la poligamia, con il divorzio e anche la cosiddetta “dote”, che non è un requisito indispensabile dell’unione coniugale, visto che la fede cristiana “considera la donna uguale all’uomo, e quindi il contratto matrimoniale avviene tra due soggetti uguali nei diritti e nell’onore”. Per questo anche l’uomo non acquisisce nessun diritto di avere una sposa pagando una somma alla famiglia di lei.
Il Patriarca Sako si sofferma anche sulle incongruenze tuttora esistenti in materia ereditaria, visto che la legislazione di matrice islamica garantisce alle figlie femmine solo la metà della quota di eredità riservata ai figli maschi.Per risolvere tutte le contraddizioni e i disagi sperimentati dai cristiani in materia di diritto personale, il Patriarca suggerisce al governo di emanare leggi sul modello del Libano, con leggi civili valide per tutti e non ispirate da scuole giuridiche di matrice religiosa, lasciando poi ai tribunali ecclesiastici o religiosi la possibilità di emettere sentenze in materia di matrimonio, di nullità matrimoniale, di custodia dei minori e di successione ereditaria che abbiano valore vincolante per le rispettive comunità di fede.Nel suo contributo, il Patriarca tocca anche il tema delle leggi contro l’apostasia, che secondo la giurisdizione di matrice islamica può essere punita con la pena di morte: “Crediamo che sia giunto il momento – scrive il Cardinale iracheno - di emanare una legge che rispetti la libertà di coscienza, ovvero il diritto di cambiare dottrina e religione senza esercitare alcuna pressione, seguendo gli esempi del Libano, della Tunisia, del Marocco e del Sudan, che ha abrogato la legge dell’apostasia”. 

13 luglio 2020

Aumentano i casi di contagiati dal Coronavirus tra i membri della comunità cristiana in Iraq.

By Baghdadhope*

Il Patriarcato caldeo ha pubblicato gli aggiornamenti per quanto riguarda gli appartenenti alla comunità cristiana irachena che sono stati colpiti dal Coronavirus.
Sono riportati già 10 decessi (quasi tutti di Baghdad) ed una trentina di contagi tra i fedeli così come tra i prelati.
Ai due sacerdoti di cui si era già avuta notizia, Padre Martin BanniPadre Addai (Bahiyat) Sliwa, si sono aggiunti Padre Mina Al-Ureshalimi della chiesa copta ortodossa e Padre Maher Fouad, di quella battista, entrambi già guariti dal virus, e Sorella Alice delle Piccole Sorelle del Gesù e Mons. Shleimun Warduni, vicario patriarcale caldeo emerito, entrambi in quarantena.
Le condizioni di Mons. Warduni secondo una fonte caldea consultata da
Baghdadhope non sarebbero gravi. 


Patriarca caldeo: Santa Sofia moschea, decisione ‘triste e dolorosa’ di Erdogan

By Asia News

La decisione della Corte suprema turca, avallata dal presidente Recep Tayyip Erdogan, di cambiare lo status di Santa Sofia a Istanbul da museo a moschea “è triste e dolorosa” per “tutti noi e per il mondo intero”. Come papa Francesco, anche il patriarca caldeo, card. Louis Raphael Sako, attacca la decisione delle autorità turche di modificare lo status dell’antica basilica cristiana: 
“In questi tempi di coronavirus - sottolinea ad AsiaNews il porporato - il mondo ha bisogno di solidarietà umana per affrontare la pandemia, non di ulteriori conflitti e tensioni in una regione dove ogni giorno muoiono tante persone”. Con un messaggio alla nazione nel fine settimana, il presidente turco ha annunciato che il 24 luglio si terrà la prima preghiera islamica nella moschea di Santa Sofia, che segnerà la conversione a luogo di culto musulmano di quella che, in origine, era una basilica dell’epoca di Costantino.
Poche ore prima, i giudici avevano annullato l’atto del 1934 con cui Kemal Ataturk, il fondatore della Turchia moderna e laica sconfessata dal “sultano Erdogan”, aveva trasformato la moschea in museo.
Lo stesso Erdogan ha precisato che Santa Sofia (Aya Sofia, in turco) manterrà il suo nome storico e potrà essere visitata anche da tutti i cristiani, senza pagare un biglietto d’ingresso.
“La decisione di Ataturk, all’epoca era stata coraggiosa” commenta il patriarca Sako, perché “dopo il genocidio armeno era stato un segnale forte in un’ottica di convivenza e di salvaguardia del patrimonio comune” di cristiani e musulmani.
“È grave - prosegue il primate caldeo - che il presidente turco non abbia considerato il rispetto dei sentimenti di due miliardi di cristiani nel mondo, dimenticando ciò che essi hanno fatto per i musulmani. Concedere quella che era una chiesa alla sola preghiera islamica è un atto grave”. Santa Sofia, aggiunge il porporato, è “un simbolo di convivenza islamo-cristiana. È la storia di una chiesa diventata moschea e poi, fino ad oggi, un museo per tutti. Questa decisione va contro la tolleranza fra le religioni, mentre è imperativo ricercare il dialogo per diffondere tolleranza e convivenza fra fedi diverse”.
 Il primate caldeo non risparmia critiche a un Occidente “politico e cristiano” che si è mostrato “debole e non ha fatto sentire la sua voce”. Un atteggiamento timido che favorisce conflitti e violenze “in Iraq, in Siria, in Libano e nello Yemen”, dove si fanno sempre più lontani gli ideali di pace e giustizia. Questo significa “che siamo deboli”. Inoltre è “grave e disdicevole politicizzare la religione per i propri fini”, considerando che lo stesso Maometto nel patto con i cristiani aveva sancito che “non bisogna trasformare una chiesa in moschea”.
 La decisione di Erdogan ha sollevato reazioni critiche anche “nel mondo musulmano irakeno”, dove diverse personalità “religiose e laiche” hanno mostrato “la loro posizione contraria”, come riferisce il card. Sako: “Dicono che non è il momento. Poi la scelta di renderlo un museo, diventato nel tempo patrimonio Unesco, aveva permesso di salvaguardare gli elementi cristiani e musulmani, valorizzando quello che deve essere un bene comune”. Quello lanciato ieri da papa Francesco “è un appello morale forte” per il patriarca caldeo, che “la televisione irakena ha ripreso e rilanciato a più riprese”.
Non dobbiamo annullare la storia di un bene prezioso, conclude il primate caldeo, sconfessando quanto di importante “aveva fatto Ataturk mostrando una apertura e una lungimiranza ben maggiori, in un’ottica di conservazione e valorizzazione di entrambi i patrimoni”.

Patriarca caldeo al clero: oltre il Covid-19, uniti a Dio e vicini alla gente

11 luglio 2020

 Nelle “circostanze difficili” determinate dalla pandemia di Covid-19, il sacerdote è chiamato a trovare modi nuovi per mostrare “vicinanza alle persone”, sostenendole sul piano morale e aiutandole a restare “unite a Dio” e “solidali con gli altri”.
È quanto chiede al clero caldeo il primate card. Louis Raphael Sako, il quale invita i sacerdoti a cogliere l’opportunità del dramma che stiamo vivendo per riscoprire “i doni e ciò che possediamo”.
Essi sono funzionali per un “migliore servizio alle persone”, secondo l’esempio di Cristo e altri religiosi del passato. Nel messaggio, inviato per conoscenza ad AsiaNews, il porporato invita a “mostrare ai nostri credenti” il significato “della paternità e della cura umana e spirituale” con delicatezza e tenerezza, lontani da “ruvidità e critiche” a beneficio “di coloro che sono vicini a noi”.
Questo tempo, aggiunge, va sfruttato come insegna Sant’Efrem per una crescita spirituale attraverso la lettura, la meditazione e la preghiera. Già nelle scorse settimane, il primate caldeo aveva ricordato che la pandemia di coronavirus può essere occasione per una fede più profonda e una società solidale, in un contesto che resta critico in molte parti del Paese, soprattutto nella capitale.
L’emergenza sanitaria ha imposto per quest’anno la cancellazione del ritiro annuale e della festa comunitaria, che prevedeva anche momenti di sport e convivialità. In Iraq è ancora attuale la lotta al Covid-19 che prevede isolamento sanitario, distanziamento sociale, limiti alle attività e sospensione delle preghiere, delle messe e delle funzioni.
Tuttavia, secondo il card. Sako “la maggior parte dei nostri sacerdoti resta fedele” ed è “impegnata” nella propria missione. Di questo “ne siamo orgogliosi e li ringraziamo per lo sforzo” profuso nel servizio alla Chiesa e alle persone, anche se non risparmia una stoccata a quei pochi che hanno abbandonato la loro parrocchia e la loro diocesi, oggi come in passato. Il patriarca sottolinea infine l’importanza di una collaborazione fra sacerdoti, la cui vita comune deve essere considerata come “opportunità” di crescita e una “benedizione”.
“Ho vissuto - scrive il porporato - la maggior parte dei miei anni sacerdotali con i preti e ho imparato molto da loro”, in uno scambio reciproco che resta vivo nella memoria. Egli esorta a risolvere problemi e difficoltà “con speranza, pazienza e coraggio”, adottando il linguaggio “del dialogo calmo e responsabile”.

10 luglio 2020

Farewell to the fearless Good Samaritan

Fionn Shiner

Father Andrzej Halemba Photo by Aid to the Church in Need
A priest, who is retiring from a leading Catholic charity after 14 years risking his life to bring aid to the Church in need, has been named a modern-day Good Samaritan by Iraq’s most senior Christian leader.
 Monsignor Andrzej Halemba served as Aid to the Church in Need (ACN) projects coordinator for Asia-Africa, covering hot spots including Syria, Iraq and Eritrea – countries across the Middle East and parts of South Asia.
 Chaldean Catholic Patriarch Louis Cardinal Raphael I Sako of Baghdad honoured the 65-year-old Pole with the title Chorbishop, equivalent to monsignor in the Western (Latin) Church. Describing the monsignor as “the Good Samaritan of today”, Patriarch Sako said Mgr Halemba “was always present with us, building housing caravans for the displaced, polyclinics and schools and everything.”  Dr Thomas Heine-Geldern, Executive President of ACN (International), said that he “has repeatedly put his life on the line, going to places of acute danger in the service of the suffering Church. 

 “His faith, his courage, his organisational ability, his good humour, his language skills and his professionalism – these qualities and many more he has harnessed for the good of persecuted faithful. When they needed somebody for them, he came to their aid.”  Mgr Halemba’s ministry had been largely confined to Europe and Africa until 2010 when ACN appointed him to lead the charity’s project outreach to the Middle East at a time of unprecedented upheaval in the run-up to the Arab Spring.
 Travelling repeatedly into Syria and Iraq during the height of the Daesh (ISIS) invasion, the monsignor significantly up-scaled the charity’s work, providing emergency relief as well as pastoral aid for hundreds of thousands of people, especially Christians.

 His task was to enable persecuted Christians to find refuge and in due course enable – where possible – their return home once occupying Islamist forces had been forced into retreat.
 The monsignor’s aid programmes are credited with slowing the exodus of faithful, in a region where Christianity has been threatened with extinction.

 Mgr Halemba worked to bring closer cooperation between the many different Catholic and Orthodox Church communities and was frequently commended for his emphasis on ecumenism. ACN (UK) Head of Press and Information John Pontifex, who travelled with him extensively in the Middle East and Pakistan, said: “In every respect, Mgr Halemba has made a huge impact – his capacity for work is matched only by his unfailing compassion for those he serves.”
Mgr Halemba
, who stressed that he was always inspired by Father Werenfried van Straaten, the founder of ACN, said: “What always needs to be stressed is the spiritual character of ACN as we can never become a secular, humanitarian agency. 
 “Instead, we are a Catholic charity, helping people to live the life of Christ – we enable people to respond to the needs and suffering of humanity and above all we are there to dress the wounds of the bleeding Church and dry the tears of the God who weeps.”
  Last year, the President of Poland awarded the Polish priest with the golden cross of merit. For his work helping refugee Christians fleeing from Syria to Lebanon, in 2015 Melkite Greek Catholic Archbishop Issam John Darwish of Zahle and Furzol in eastern Lebanon, named Mgr Halemba an Archimandrite, an honorific title.
 In his first four years with ACN, starting in 2006, Mgr Halemba was projects coordinator for English and Portuguese-speaking countries in Africa, drawing on more than 12 years as a missionary in Zambia.

9 luglio 2020

Assyrians caught in crossfire between Turkey, PKK fighting

By Al Monitor
Joe Snell


The sounds of Turkish bombs rattled the Assyrian community of Bersiveh in northern Iraq in the early hours of June 20. Although the village is accustomed to the booms and roars of airstrikes and nearby artillery fire, residents never know when or where to expect the attacks.
June’s aggression is just the latest in a string of Turkish bombings that have exhausted Assyrian communities in the country for years, said Athra Kado, an Assyrian teacher in Alqosh, and they are slowly contributing to the erasure of the ancient population.
“This is not today’s incident or event, this has been happening for decades,” Kado told Al-Monitor.
Assyrians are an ethnic group indigenous to parts of Iraq, Turkey, Syria and Iran. Northern Iraq was host to many dozens of Assyrian communities, but a string of wars, terrorist attacks by the Islamic State and subsequent pressure from remaining militia groups have either emptied or destroyed many of these villages. Before 2000, more than a million Assyrians considered Iraq home. Today, that number is around 150,000.
Turkey has waged a recurring war against the Kurdistan Workers Party, or PKK, in Iraq and Syria since 1984. Peace talks between the two sides collapsed in mid-2015. Today, the PKK is a designated terrorist organization by Turkey, the United States and the European Union.
Tension between Turkey and the PKK escalated on June 14 when Turkey launched Operation Claw-Tiger in retaliation for what the Turkish Defense Ministry said was increased militant attacks on Turkish army bases and police stations near the Iraqi border.
In a statement 36 hours after the operation began, the ministry said that more than 500 PKK targets were already destroyed. And on Twitter, the ministry shared images of helicopters targeting the PKK in the Haftanin area of the Kurdistan region.
Often during these attacks, marginalized communities such as the Assyrians are left without consideration and little to no protection. On the evening of June 14, the Assyrian village of Sharanish in Dahuk province was hit by several Turkish airstrikes, destroying the village’s electric and water distributors as well as a meeting hall. Fears of future attacks forced the more than 200 villagers to flee.
The US Commission on International Religious Freedom condemned Operation Claw-Tiger and called on Turkish President Recep Tayyip Erdogan to end the assault.
“Once again, Turkey is showing their disregard for vulnerable religious and ethnic minorities who live in, or have been displaced to, those same areas,” the commission wrote in June.
But a spokesperson for Turkey’s Foreign Ministry said the commission and other such organizations ignore the fact that the PKK oppresses marginalized groups such as the Assyrians and Yazidis. Turkish bombs hit near Assyrian communities because that is where they believe many PKK members are hiding.
But Assyrian communities are not in a position to kick out PKK members who demand food and shelter near these villages, Kado said, because when towns say no to PKK fighters, they are often attacked.
Dozens of Assyrian communities in northern Iraq have been emptied or destroyed by attacks like the one last month, Kado said. Since June’s airstrikes, nine of the 11 Christian villages in the Zakho district have been evacuated, according to the International Christian Concern.
“All of these geographic areas, that [include part of] Iraq, part of Turkey, part of Iran, part of Syria, was Assyrian land. Today, it’s completely emptied of Assyrians,” Kado said. “We are barely surviving. We want to survive in our land. We want to stay in our land. If the situation continues as it is, maybe not by leaving but in other ways, we won’t survive for more than decades.”

Due sacerdoti caldei di Baghdad affetti da Coronavirus.

By Baghdadhope*

Mentre si ha notizia della quarta vittima del coronovirus di fede cristiana sepolta nel nuovo cimitero dedicato alle vittime della pandemia nella città santa sciita di Najaf, da Baghdad arriva un'altra triste notizia legata al virus: il contagio che ha colpito due giovani sacerdoti, Padre Addai (Bahiyat) Sliwa  e Padre Martin Banni. **


Tra i prelati caldei prima dei due sacerdoti era stato colpito il Visitatore Apostolico in Europa Mons. Sa'ad Sirop, poi rimessosi.


Per i cristiani sepolti nella città santa sciita di Najaf leggi: 

La morte per Covid 19 azzera le differenze religiose in Iraq. Patriarca Sako: "La morte unisce tutti."
16 giugno 2020



** AGGIORNAMENTO: Secondo una fonte caldea di Baghdad i due sacerdoti stanno molto meglio ed uno dei due può già considerarsi guarito. 

8 luglio 2020

‘Life after ISIS’: Christians are leaving Iraq due to ongoing security concerns

By Catholic News Agency
Courtney Mares

More Christian families left the Nineveh Plains than returned to their hometowns last year amid ongoing security concerns in northern Iraq, according to a recently published report by Aid to the Church in Need. 
The report, “Life after ISIS: New challenges to Christianity in Iraq,” documents how Iraqi Christians’ worries over Iran-backed militias operating in their region drive emigration and economic insecurity. “Christians who have returned to their homes still feel unsafe, and substantially more insecure than other groups in the region mostly because of the violent activity of local militias,” Fr. Andrzej Halemba, the leader of ACN’s Nineveh Reconstruction Committee, wrote in the report’s foreword.“Although economic concerns, especially employment, are paramount in some areas, it is impossible to decouple these from security considerations. These key factors need to be addressed to tackle the physical and economic insecurity that forces populations to move. If the tendency to emigrate is not stemmed, it will place, in turn, even greater pressure on Christians remaining in Iraq by reducing their critical mass and thus creating a less hospitable environment,” he said.The ACN report found that 57% of Iraqi Christians surveyed said that they had considered emigration. Among them, 55% responded that they expect to leave Iraq by 2024.The number of Christians living in areas formerly occupied by the Islamic State has already declined from 102,000 to 36,000 people since 2014. The report stated that some displaced Christians who returned to the Nineveh Plains as their homes were rebuilt are now choosing to leave. “In the summer of 2019, the Christian population of this region reached an inflection point, with more families leaving their hometown than returning. In Baghdeda alone, 3,000 Syriac Catholics left over the course of just three months in 2019 – a drop of 12% in the number of Syriac Catholics in the town,” it said.With continued migration, the future of the Western Neo-Aramaic language known as Surith, and sometimes called “Syriac,” is also threatened if the children of immigrants do not retain the language.
One Christian in Bartella told ACN: “Learning Syriac is important because it’s the language of Jesus.”
The report named Australia as one of the primary locations where Iraqi Christians emigrate, with at least 139,000 moving there since 2007.This is in part made possible by Iraqi Christians’ family connections abroad. The study found that most Christians had at least one family member living abroad, which provides an added incentive and knowledge of how to leave Iraq. However, the majority of the Iraqi respondents to the ACN survey cited security concerns over family reasons as the primary reason for wanting to emigrate. In particular, living under an Iran-backed militia was directly correlated with feelings of insecurity. These Shia militia groups operate with the permission of the Iraqi government, but they have previously refused to comply with the prime minister's instructions to integrate into the Iraqi army. The ACN report detailed Christians’ complaints of theft, threats of violence, and injury perpetrated by these militia groups, which have been sanctioned by the U.S. government for human rights abuses.Additionally, many Iraqi Christians live with the fear that the Islamic State or a similar group will return. The survey conducted by ACN found that 87% of these Christians felt unsafe or absolutely unsafe, and 67% believed that “it is likely or very likely that ISIS or a similar group will return in the next five years.”“Disputes between the central government in Baghdad and the Kurdistan Regional Government over certain Christian-majority areas have also hindered infrastructure reconstruction provoking further insecurity,” Halemba said.The priest underlined that reconstruction efforts in the Nineveh Plains needed to continue, adding that the number of families in the immediate region that would still like to return is estimated to be more than 2,000. The report, published in June, is based on a stratified sampling survey conducted between August and November 2019 of 793 Christians living in areas formerly occupied by the Islamic State in the Nineveh Plains. The report was written by Halemba and Xavier Bisits, a management consultant for Bain & Company and ACN project support officer.The authors said that the survey’s results indicated that NGOs, churches, and governments should focus on the causes that drive Iraqi Christians to emigrate and advocate for the restoration of security in the Nineveh Plains in partnership with local Church leaders.“The findings of ‘Life after ISIS’ make clear that restoring the stability of the Christian community in this post-conflict region is only possible with a concerted effort focusing on security, education, long-term economic opportunities, and reconstruction,” Halemba said.

Iraq, don Karam: le comunità cristiane chiedono sicurezza e stabilità

By Vatican News
Marco Guerra


In Iraq, senza un intervento tempestivo della comunità internazionale, l’emigrazione forzata dei cristiani potrebbe ridurne la presenza dell’80%. E’ quanto emerge nel rapporto di Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs) dal titolo “La vita dopo l’Isis, le nuove sfide per i cristiani in Iraq”, che esamina le minacce che incombono sui cristiani tornati nelle loro case della Piana di Ninive.

Il difficile ritorno ai villaggi cristiani
Dopo l’allontanamento forzato avvenuto nel 2014, per fuggire dalle persecuzioni del sedicente Stato Islamico, i cristiani hanno fatto ritorno nei villaggi del nord dell’Iraq, dove la loro presenza è attestata fin dai primi secoli del Cristianesimo. Gli aiuti di Acs, di tutte le Chiese del mondo e di altri donatori internazionali hanno consentito la ricostruzione di numerose infrastrutture – chiese, case, scuole, strade – ma le comunità cristiane presenti nell’area avvertono ancora la mancanza di sicurezza. Una condizione aggravata dalle piaghe della disoccupazione (70%), della corruzione finanziaria e amministrativa (51%) e della discriminazione religiosa.
Insicurezza primo problema

Il problema dell’insicurezza e delle violenze anticristiane, emerge anche dalla testimonianza rilasciata a Vatican News dal sacerdote iracheno
don Karam Shamasha, originario della piana di Ninive:Una prima grande minaccia è quella delle milizie, che purtroppo non pensano a mantenere la sicurezza dell’area. Ci sono infatti sempre intimidazioni e richieste di denaro. Le milizie non forniscono quella protezione che invece le truppe governative possono dare. Poi abbiamo ancora la minaccia dell’Isis. I miliziani del Califfato ogni tanto appaiono in qualche zona, uccidendo sia soldati, sia civili.

C'è anche la questione economica e della discriminazione religiosa che rende più debole la comunità cristiana…
Molti non ricevono il loro stipendio o lo ricevono in ritardo, perché il costo del petrolio è sceso e il 90% degli incassi dell’Iraq dipende dal petrolio, ma questo è un problema presente per tutti gli iracheni. Invece la discriminazione si avverte a tutti i livelli: tanti, ad esempio, che sono nelle università vengono discriminati. Per un cristiano non è facile avere ruoli apicali, perché al cristiano non danno l’autorità di comandare sugli altri. E poi ancora posso raccontare che nella mia diocesi nel Nord dell’Iraq non puoi spostarti da una parrocchia all’altra, perché metà diocesi sta sotto il controllo della milizie sciite, che operano con il permesso del governo centrale, mentre l’altra metà della diocesi ricade sotto il controllo della milizie curde, che fanno riferimento al governo del Kurdistan iracheno, sono i cosiddetti peshmerga. Non possiamo spostarci liberamente, perché non c’è accordo tra queste due realtà.
Quindi lei sta raccontando la situazione nella Piana di Ninive?
Esattamente, io vengo da Tellesqof, nella diocesi di Alqosh. La Chiesa e tanti benefattori, come anche si diceva in questo rapporto di Acs, stanno ricostruendo i villaggi, ma con il coronavirus quasi tutto è sì fermato. Le famiglie hanno molta difficoltà a ristabilirsi in questi luoghi per tutti i motivi che abbiamo elencato.
Che cosa le raccontano i parenti e gli amici che sono rimasti nella Piana di Ninive? Ci sono altri problemi importanti che impediscono il ritorno alla normalità?

Il nostro patriarca e tutti i vescovi della Chiesa hanno sempre detto che per noi l’unità dell’Iraq è la cosa più importante, perciò hanno sempre esortato i giovani ad arruolarsi nella polizia e nell’esercito. Perciò non abbiamo milizie che ci difendono, l’unico nostro difensore è Gesù Cristo, che ci ha sempre protetto e aiutato. Però da parte del governo non abbiamo visto interventi pratici. Tutti parlano, vengono a farsi le foto, ma poi siamo quasi sempre da soli. Noi non vogliamo essere difesi in quanto cristiani, noi vogliamo vivere come tutti gli altri iracheni, non devono esserci cittadini di prima e seconda classe. Questa situazione impedisce ai cristiani di vivere in quelle terre che sono la nostra patria, perché tutti sanno che siamo lì fin dal primo secolo dopo Cristo.

6 luglio 2020

Due nuovi sacerdoti caldei negli Stati Uniti: Padre Kevin Yono e Padre Marcus Shammami

By Baghdadhope*

Foto Patriarcato caldeo


Sabato 4 luglio nella cattedrale caldea della Madre di Dio a Southfield, nel Michigan, sono stati ordinati al sacerdozio dal vescovo caldeo degli Stati Uniti orientali Mons. Francis Kalabat (Diocesi di San Tommaso Apostolo ) Kevin Yono e Marcus Shammani, ordinati diaconi lo scorso 7 aprile. 

Padre Kevin Yono, 33 anni, è stato assegnato alla chiesa di San Giorgio a Shelby Town, in Michigan, Padre Marcus Shammami, 26 anni, è stato assegnato a quella dei Santi Martiri a Sterling Heights, sempre in Michigan.     

Rapporto di ACS sull’Iraq: i cristiani sono ancora a rischio estinzione

By Aiuto alla Chiesa che Soffre

6 luglio 2020
La fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre ha pubblicato il rapporto “Life after ISIS: New challenges to Christianity in Iraq” (consultabile cliccando qui). 
Lo studio esamina le minacce che incombono attualmente sui cristiani iracheni tornati nelle loro case della Piana di Ninive dopo la drammatica persecuzione del 2014, riconosciuta internazionalmente come genocidio.
Secondo il rapporto se la comunità internazionale non interverrà tempestivamente l’emigrazione forzata, nell’arco di 4 anni, potrebbe ridurre la popolazione cristiana dell’80% rispetto a quella precedente l’aggressione dell’ISIS. Ciò farebbe passare la comunità cristiana locale dalla categoria “vulnerabile” a quella critica di “a rischio estinzione”.
Il 100% dei cristiani presenti nell’area avverte la mancanza di sicurezza e l’87% di loro aggiunge di percepire tale mancanza “moltissimo” o “notevolmente”. Le ricerche indicano la violenta attività delle milizie locali e la possibilità di un ritorno del sedicente Stato Islamico quali maggiori cause di timore. Secondo il 69% degli intervistati questa è la causa principale di una possibile migrazione forzata. La Shabak Militia e la Babylon Brigade, le due principali milizie attive nella Piana di Ninive con il supporto iraniano, suscitano le maggiori preoccupazioni.
Tali milizie operano con il permesso del governo iracheno perché hanno contribuito alla vittoria sull’ISIS, tuttavia il 24% degli intervistati afferma che «le famiglie hanno subito gli effetti negativi dell’attività di una milizia o di altri gruppi ostili». «Molestie e intimidazioni, spesso legate alla richiesta di denaro», rappresentano le più comuni forme di ostilità riferite.
Oltre alla mancanza di sicurezza i cristiani indicano disoccupazione (70%), corruzione finanziaria e amministrativa (51%) e discriminazione religiosa (39%) a livello sociale quali altrettante minacce che inducono alla migrazione. I contrasti fra il governo centrale di Baghdad e quello regionale del Kurdistan, aventi ad oggetto determinate aree a maggioranza cristiana, aumentano il senso di insicurezza.Non ci sono solo ombre, ma anche luci confortanti. Secondo dati aggiornati ad aprile 2020 il 45% delle famiglie cristiane ha fatto ritorno nella Piana di Ninive, anche se in molti casi è tornata solo parte dei componenti, e nonostante un diffuso stato di segregazione dei nuclei familiari.
Questa evoluzione complessivamente positiva è frutto del piano di recupero di lungo termine curato da Aiuto alla Chiesa che Soffre insieme ad altre Organizzazioni al fine di gestire la ricostruzione dei centri cristiani aggrediti dalla furia jihadista. La fondazione pontificia è attualmente impegnata in una nuova fase di tale piano, e cioè la ricostruzione delle strutture gestite dalla Chiesa nei centri cristiani della Piana. Delle 363 strutture interessate (34 totalmente distrutte, 132 incendiate e 197 parzialmente danneggiate), l’87% hanno anche funzioni sanitaria, di sostegno sociale ed educativa.
 

3 luglio 2020

Rafforzare identità cristiana e cultura caldea: le sfide del neo-vescovo di Zakho

By Asia News
Dario Salvi



Foto Patriarcato Caldeo
 Valorizzare “l’identità e le radici” cristiane e rafforzare l’appartenenza culturale alla Chiesa e alla comunità caldea: sono questi gli obiettivi che si è prefissato p. Felix (Saeed) Dawood al-Shabi, da poco nominato vescovo dell’eparchia di Zakho, che nel futuro sarà distinta dal quella di Amadiyah cui era finora legata. “La mia speranza - sottolinea ad AsiaNews - è di poter andare fra un mese, quando i voli riprenderanno [dopo mesi di blocchi e chiusure per la pandemia di Covid-19] e incontrare un popolo, una comunità che attende con fiducia e affetto, per lavorare col nuovo vescovo”. 
Zakho, racconta il sacerdote, “si trova nel Kurdistan, nel triangolo che unisce l'Iraq con Siria e Turchia. È una zona molto importante per i commerci, per il traffico: una porta per tutto l’Iraq. Come neo vescovo - prosegue - sento di andare nel cuore del mondo caldeo: Zakho, infatti, è unica al mondo perché vi si parla aramaico e caldeo in modo diffuso, e non hai bisogno di usare un’altra lingua. Ti senti subito a casa, per questo avverto una profonda nostalgia e una grande voglia di iniziare la mia missione. Spero di poter mettere e rafforzare le radici, a fronte di una comunità caldea che è dispersa nel mondo”.
Il primate caldeo card. Louis Raphael Sako, con il consenso del Sinodo dei vescovi della Chiesa patriarcale, ha separato l’eparchia di Zakho da quella di Amadiyah, alla quale era stata unita nel giugno del 2013. Una decisione maturata nell’ultimo incontro dell’agosto 2019, e che ha portato alla nomina, confermata da papa Francesco, di p. Felix. Il 27 giugno il futuro vescovo ha ricevuto la berretta viola per mano del card. Leonardo Sandri (nella foto), Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali. Il patriarcato deve ancora comunicare la data della consacrazione, in sospeso per la pandemia di coronavirus.
“La nuova diocesi - spiega p. Felix - è frutto di una decisione ecclesiastica, sebbene si tratti di una realtà creata per la prima volta a metà del 1800 e abbia una grande storia alle spalle. Una diocesi vecchia, ma anche nuova formata da tre parrocchie in città e almeno 14 villaggi, di dimensioni variabili, nell’area circostante. Qualche centro abitato è composto da 30 famiglie, altri ne hanno fino a 300. Il totale è di oltre 8mila cristiani caldei nell’area, cui si sommano armeni e siro-cattolici”.
Il futuro vescovo è nato a Karemlesh, nella piana di Ninive (Iraq del nord), il 19 gennaio 1975. Egli ha conseguito il baccellierato in Teologia presso il Babel College di Baghdad e, in un secondo momento, la licenza in diritto canonico al Pontificio istituto orientale a Roma nel 2002. Ora sta preparando una tesi di dottorato sempre in diritto canonico alla Pontificia Università Lateranense.
L’ordinazione a diacono risale al 18 gennaio 1998; il 29 giugno dello stesso anno diventa sacerdote a Baghdad dall’allora patriarca Raphaël Bidawid. Dal 1998 al 1999 ha servito a Mosul come sacerdote nella chiesa di san Giuseppe, per poi trasferirsi negli Stati Uniti dove ha operato in diverse parrocchie dell’Eparchia di Saint Peter Apostle a San Diego. Nel 2007 è stato nominato corepiscopo, poi vicario del vescovo per lo stato dell’Arizona dal 2009 al 2018.
A Zakho vi sono tre preti celibi e altri sette sposati. “Servirà grande impegno - racconta p. Felix - perché i cristiani nella zona restano pur sempre una minoranza e non hanno molte opportunità a livello di lavoro, di diritti. Cercherò di infondere loro coraggio, di essere fratello con i miei fratelli. Sarà poi essenziale riprendere una evangelizzazione attiva e sotto questo profilo è importante evidenziare che, uno dei primi atti, sarà l’ordinazione sacerdotale di un seminarista. Il patriarca ha chiesto proprio di aspettare che arrivi il nuovo vescovo per effettuarla, e tutti hanno accolto la decisione con gioia. Questo nuovo sacerdote sarà importante per rafforzare l’opera pastorale”. 
A questo si unisce il contributo delle suore caldee, che vivono in un centro nei pressi della cattedrale e gestiscono un istituto educativo che accoglie studenti e studentesse dalla materna fino alle superiori. “È fondamentale - afferma futuro vescovo - la presenza di scuole cattoliche” che rappresentano una delle basi per il rafforzamento della fede. Ma anche “valorizzare e rafforzare la fede cattolica rispetto ai movimenti protestanti che stanno prendendo sempre più piede nella zona, secondo l’esempio di illustri personalità della Chiesa caldea che hanno donato la vita per la missione come mons. Paul Faraj Rahho o p. Ragheed Ganni, che era mio cugino”. 
Infine, p. Felix vuole lanciare due appelli ai fedeli di Zakho e ai cristiani dell’Occidente: “Ai primi, che aspettano il loro vescovo, dico di avere coraggio e speranza, mentre ai secondi chiedo di avere coraggio e di sostenere i fratelli sofferenti nelle zone più calde del mondo. Come cristiani, siamo un unico corpo… pregate per noi”.

2 luglio 2020

Quando la cultura vince l’estremismo

By Mondo e Missione 
Chiara Zappa

Il monastero di Mar Behnam, gioiello della tradizione siriaca adagiato da 1.700 anni nella piana di Ninive, nel Nord dell’Iraq, è uno dei simboli del martirio subito dalla comunità cristiana sotto il dominio dell’autoproclamato Stato islamico. 
Nell’estate del 2014 i tagliagole del Califfato nero si impadronirono di questo luogo venerato, che custodiva le tombe di san Behnam e della sorella santa Sarah ed era meta di pellegrinaggio anche per tanti fedeli musulmani, e lo vandalizzarono senza ritegno per poi distruggerlo il 19 marzo 2015. 

Eppure, non riuscirono a cancellarne tutti i tesori. Cinquecento manoscritti antichi che, di fronte al pericolo imminente, i frati avevano spostato dalla biblioteca, chiuso in barili di ferro e nascosto in una nicchia nei sotterranei dell’edificio, superarono indenni più di due anni di occupazione. 

Oggi questi testi in siriaco – la variante di aramaico parlata da Gesù -, di natura spirituale ma anche di astronomia, matematica e altre scienze, continuano a raccontare la ricchissima storia cristiana e plurale della regione. La conservazione del patrimonio culturale di una comunità minacciata dalla violenza rappresenta una delle forme più efficaci di resistenza all’estremismo e uno strumento fondamentale per chi, a prescindere dalla propria appartenenza etnica o religiosa, voglia rivendicare un modello di società basato sulla convivenza e la pluralità. 

In Iraq, il caso di Mar Behnam non è un’eccezione: il frate domenicano padre
Najib Mikhael, oggi arcivescovo caldeo di Mosul, stipò la propria auto con manoscritti rari e volumi preziosi, alcuni risalenti al XVI secolo, per portarli in salvo dalla cittadina di Qaraqosh prima dell’invasione dei jihadisti, e attualmente collabora con il Centro per la digitalizzazione dei manoscritti della tradizione orientale (Omdc) di Erbil per salvaguardare e rendere disponibili alla consultazione migliaia di testi della tradizione caldea, sira, armena e nestoriana. 
Al Centro lavorano anche cittadini di fede islamica, così come musulmani sono i due fratelli di Mosul che, durante gli anni bui dell’occupazione dell’Isis, rischiarono la vita nascondendo in casa propria quattro antichi volumi che avevano trovato tra le macerie di una chiesa distrutta. 

«Erano libri preziosi per i cristiani, ma lo erano anche per noi musulmani, perché in quei testi, che risalgono a 1.400 anni fa, c’è anche la nostra storia, quella che lo Stato islamico ha cercato in ogni modo di cancellare»
, hanno raccontato. 
Nel mirino di chi, tra Siria e Iraq, voleva creare una “nazione” fondata sull’oscurantismo – e la cui ideologia non è purtroppo ancora morta – non c’era certo solo il patrimonio cristiano ma qualunque espressione culturale o artistica che non si rifacesse all’islam sunnita: basti pensare alla devastazione del sito archeologico di Palmyra (difeso al prezzo della vita dallo studioso siriano
Khaled Al Assad) o all’accanimento sui luoghi santi sciiti e sui templi degli yazidi, marchiati come “adoratori del diavolo”. 
La particolare crudeltà usata contro l’antico e pacifico popolo yazida, con molte migliaia di persone uccise e almeno cinquemila ragazze sottoposte ad abusi sistematici, rende oggi ancora più significativo il tentativo di ridare voce e dignità a questa minoranza, a cominciare proprio dalla sua cultura. 

Di cui la musica, in un contesto in cui la tradizione si tramanda ancora soprattutto oralmente, rappresenta uno degli elementi più importanti, pilastro della vita comunitaria e cuore pulsante della fede. 

Un antichissimo credo monoteista, che gli yazidi fanno risalire alla creazione stessa di Adamo e che fu strutturato novecento anni fa dal santo sufi Sheykh Adi bin Musafir. Quando gli uomini di
Al Baghdadi si avventarono sui villaggi del monte Sinjar per massacrare il piccolo popolo devoto all’angelo pavone, messaggero di Dio – in un’azione che le Nazioni Unite avrebbero poi dichiarato “genocidio” – non mancarono di distruggere i tamburi sacri daf e i flauti šebab al suono dei quali i membri della casta sacerdotale dei qawwal da secoli recitano gli inni religiosi. 
E proprio da questi strumenti cerca di ripartire oggi la rinascita della comunità, grazie a un progetto della fondazione britannica Amar che punta a salvare il ricco patrimonio musicale yazida, gravemente a rischio, per tramandarlo alle nuove generazioni che si trovano esuli lontano dalla madrepatria o sopravvivono nei campi profughi della regione.

In alcuni di questi campi, dunque, i pochi qawwal superstiti, che conoscono a memoria centinaia di pezzi, stanno insegnando a gruppi di ragazzi come suonare e cantare gli inni sacri e le melodie popolari, spesso legate alle usanze agricole stagionali, tramandati dagli antenati. 

Oltre cento delle loro performance, nel frattempo, sono già state registrate in diverse località significative per la cultura yazida, tra cui il veneratissimo tempio di Lalish, e archiviate nelle biblioteche di Mosul e Dohuk, oltre che alla Bodleian Library di Oxford, in modo che possano essere ascoltate anche fuori dall’Iraq e conservate per il futuro. 

Un progetto che ha anche un valore terapeutico per i giovani, a cui è offerta la possibilità di cancellare il pensiero delle brutalità subite, uscire dall’isolamento delle tende e ricreare un senso di comunità e solidarietà. 

E che ha un significato particolare per numerose ragazze sopravvissute alla schiavitù dei fondamentalisti, come
Rainas Elias, oggi 19enne, che pochi mesi fa si è esibita a Londra davanti al principe Carlo insieme a un coro di yazide. 
«Questa esperienza mi sta aiutando molto psicologicamente
– ha raccontato -. Grazie alla musica, la nostra gente non ha perso la speranza».