Di seguito il testo del discorso di Monsignor Philip Najim all'incontro ecumenico "La speranza alla prova"
La chiesa d'Oriente è una delle chiese più antiche, risale al I° sec d.C. e sin dall’inizio è stata una chiesa devota alla missione e al martirio.
Come ha detto il Patriarca Cardinale Delly, siamo figli dei martiri, e il sangue dei nostri padri e dei nostri nonni, versato per la fede, ancora oggi grida a Dio e chiede aiuto, e noi speriamo che ci protegga da ogni male per conservare la nostra fede che è la nostra ricchezza. La chiesa Caldea si chiama anche Chiesa d’Oriente perché nasce ad oriente dell’Eufrate, ad oriente cioè del confine dell’impero romano.
Fu fondata dai primi apostoli quali S. Tommaso, i suoi discepoli Mar Addai e Mar Mari e dai discepoli di questi che patirono il martirio in Mesopotamia ove hanno portato la buona notizia ai loro fratelli nel regno Partho-Sassanide.
Il loro sangue è diventato un seme per i cristiani il cui numero è aumentato giorno dopo giorno.
I cristiani, per la loro fedeltà e rettitudine, ebbero incarichi importanti nel regno sassanide finché non cominciarono ad essere odiati dai responsabili e dai governanti che li allontanarono e perseguitarono per la loro fede.
Con il re Shabor II iniziò infatti un periodo di 40 anni di persecuzioni tali da far chiamare la chiesa d’oriente, sin dagli anni 339-379, la chiesa dei martiri. Ma potremmo dire anche dei pazienti, visto che i problemi per i cristiani non finirono con la caduta dell’impero sassanide.
Quando, alla metà del settimo secolo, gli arabi musulmani batterono i persiani i cristiani videro nei vincitori chi li avrebbe liberati dal giogo sassanide, ed ancora una volta offrirono il loro prezioso contributo culturale allo sviluppo dell’impero.
Ma anche sotto i musulmani ci furono alti e bassi, e le crociate non contribuirono al bene comune in oriente.
Ci fu quindi un altalenarsi che in qualche modo caratterizzò 14 secoli di convivenza durante i quali la chiesa d’oriente si organizzò e si sviluppò integrandosi nella vita del paese di cui fu ed è una delle forze motrici, assieme alle altre etnie e presenze religiose.
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Dell’Iraq di un tempo tutti ricordano gli splendori, che era un’isola felice dal punto di vista economico e sociale, dove non si parlava di differenze di religione e tutti vivevano insieme in armonia.
Nonostante ciò però con il passare degli anni andava insinuandosi l’associazione di pensiero secondo la quale l’occidente in quanto cristiano fosse cattivo, un collegamento automatico che si rafforzò anche con l’imposizione dell’embargo e che faceva percepire il cristiano come cattivo perché complice di chi lo imponeva. E questo anche se a patirlo siamo stati tutti, cristiani e musulmani innocenti, la gente semplice. Quando, infatti, Giovanni Paolo II inviò il Cardinale Etchegaray in visita in Iraq il suo messaggio denunciò come ingiusto che la gente semplice e innocente pagasse per le colpe di pochi.
Dopo l’embargo arrivò la liberazione che in realtà liberò le forze ostili alla pace e allo sviluppo del paese.
Fu come se, in un turbine di violenza, tutta la forza e la rabbia inespresse per tanti anni fossero venute violentemente alla luce per spazzare via tutto senza distinzioni di sorta. Fazioni contro fazioni, fu il momento delle vendette e delle eliminazioni di chi era malvisto o mal tollerato.
Una buona parte dell’islam si è levata contro il cristianesimo. Nelle prime fasi dell’occupazione abbiamo subito molte violenze, molte perdite, tantissime sono state le chiese che sono state fatte esplodere. La bella Baghdad, la città dalle 50 chiese che oggi sono 51, è diventata un campo di battaglia, neanche la zona verde è sicura, e la pratica del culto rimane a rischio e pericolo dei fedeli e dei sacerdoti.
L’latra pagina dolorosa di questa amara tragedia è quella scritta con il sangue dei nostri ministri. Fin’ora abbiamo avuto ben 16 religiosi rapiti che sono stati rilasciati solo dietro pagamento di ingenti riscatti. Questi sacerdoti o altri hanno subito minacce, percosse, estorsioni, ed è stato chiesto loro di abbandonare la propria fede.
E che dire della triste storia di padre Ragheed a Mosul. Un giovane sacerdote rientrato da poco da Roma, molto coraggioso, che era stato minacciato ripetutamente, ma che teneva aperta la sua chiesa dello Spirito Santo e che doveva essere messo a tacere. “Non posso chiudere la casa di Dio” diceva Padre Ragheed, e così il 3 giugno di due anni fa, all’uscita della chiesa dopo la messa, alcuni uomini da una macchina letteralmente crivellarono di colpi lui e i suoi diaconi. Fu un assassinio a sangue freddo, avvenuto davanti gli occhi increduli di tutti e chi lo uccise, per evitare che fosse soccorso, e senza la carità che si deve ad un corpo a cui è stata appena tolta la vita ingiustamente e barbaramente, circondò i corpi con dell’esplosivo.
Come Cristo in croce deriso ed a cui già morto per sicurezza spezzarono le gambe, così lasciarono Padre Ragheed ed i suoi diaconi. Fu uno chock per tutta la chiesa, per l’Iraq, per i suoi amici e non.
Dopo Padre Ragheed le uccisioni non si sono fermate, e di recente, come sapete, hanno rapito e ucciso anche l’Arcivescovo caldeo di Mosul, Monsignor Raho.
Le modalità di queste barbare uccisioni sono varie e richiamano quelle delle persecuzioni di un tempo.
Siamo nel terzo millennio tanto atteso. Si sperava nel futuro, in un futuro migliore ed invece ecco cosa abbiamo: una situazione sempre peggiore .
Peggiore perché per i non cristiani questi martiri possono non significare nulla, solo barbare uccisioni contro le quali nessuno si leva, nessuno istruisce processi e persegue gli assassini, ma per noi cristiani queste sono un’ennesima sfida, sono una grazia: abbiamo la rinnovata possibilità di spiegare al mondo intero perché Cristo è morto e quale è la bontà di questa morte, quali sono i suoi frutti, perché se non ne ha, come si vorrebbe dimostrare, allora come dice S. Paolo, abbiamo perso tutto. E ciò è contrario alla nostra fede, ed ecco perché in molti non lasciano l’Iraq e non cedono alle minacce affollando chiese e custodendo la millenaria tradizione spirituale dell’oriente cristiano che caratterizza e benedice parte di quella terra e che agli inizi aveva benedetto tutta la Persia, la Mesopotamia, Ninive.
Le case sono state attaccate, i mercati fatti saltare in aria, strade, stazioni, tutto quello che poteva essere distrutto di corredo alla vita umana, è stato distrutto.
Ancora oggi vivono fuori di casa le centinaia, (si parlava di circa 2000, solo nei giorni scorsi!) di famiglie scappate in cerca di sicurezza da Mosul verso i piccoli centri abitati sparsi nelle campagne a nord, e presso i conventi e le chiese.
È stato un acuirsi della violenza a cui eravamo e siamo abituati che si è scatenata nuovamente contro i cristiani le cui case, proprio per non farli tornare, sono state fatte saltare in aria. Pensate un po’.
Per cui come non parlare di martirio della chiesa caldea, di più, della chiesa intera presente sul territorio iracheno. Non solo i caldei soffrono, ma tutti i cristiani e tutte le minoranze. Ma i cristiani non perdono la fede e la speranza tanto che in occasione dell’Anno Paolino 5 chiese di diversi riti saranno visitate dai fedeli per la pratica dell’indulgenza e saranno teatro di diverse attività dedicate ad esso.
Certo, io sono preposto alla chiesa Caldea e come procuratore patriarcale devo parlare a nome della mia chiesa, che è un tutt’uno con la chiesa universale, solo che nel suo particolare, e che attualmente versa in condizioni non favorevoli alla sua stabilità e crescita.
Non solo in Iraq, ma anche in tutto il mondo ove è presente come diaspora. Come avrete sentito dire, e saprete, io sono il visitatore apostolico per la diaspora in Europa, e vi assicuro che anche fuori dall’Iraq i Caldei vivono il martirio, non versano sangue il più delle volte, ma già arrivano spogliati delle loro personalità, e vivono con queste cicatrici per tutto il tempo, nell’attesa di potersi rifare una vita, se venisse data loro la possibilità.
La cosa che forse li tiene in vita è la loro identità etnica prima di tutto e religiosa poi. Si perché noi siamo iracheni prima di tutto, e tutti gli iracheni vivono questo martirio, e poi siamo anche Caldei, cattolici orientali, ma anche i non cattolici, i nostri fratelli assiri e giacobiti, armeni, e le altre confessioni che vivono sul territorio condividono il martirio per la loro fede.
Ma sapete, la fede in Oriente è qualcosa di viscerale, un cristiano orientale vive la sua fede in modo diverso da un cristiano occidentale, non per nulla esiste l’oriente cristiano e l’occidente cristiano: il mondo latino e quello orientale.
E il martirio di questi orientali in diaspora è il non poter avere, anche qui in occidente, nel libero occidente, la possibilità di vivere e praticare la propria fede.
In Iraq, seppur dicono ci sia la libertà di culto, c’è il pericolo che durante le funzioni la chiesa venga fatta saltare in aria. In Europa, se una domenica il fedele è a messa, alla sua divina liturgia, non sa se la domenica successiva avrà la medesima possibilità perché non ci sono sacerdoti sufficienti per la diaspora, e non riescono a soddisfare tutti.
Le gerarchie del luogo non sempre sono pronte o preparate a venirci incontro, anche se è un obbligo grave per loro, come recita il nostro codice, mentre il loro non dice nulla in proposito (can.. 193 CCEO).
Per quella gente che per arrivare ha lasciato tutto, poter partecipare al Qurbana, l’Eucarestia, è un pezzo di paradiso, è risentirsi nella propria pelle, essere a casa, non sapete quanta forza dia loro, e quanto bene faccia loro.
Noi non possiamo saperlo, tutto qui è a portata di mano, tutto è dovuto, quella è gente invece che vive ogni giorno cercando di avere quanto dovrebbe essere il minimo garantito quando invece non è così, né in Iraq, né nei paesi della diaspora.
Ad ogni modo, perché noi siamo iracheni prima di tutto e l’iracheno non si piega facilmente, prova ve ne è data dal Padre Abramo, da Mosè, che sono sempre andati avanti, anche tutti gli iracheni vanno avanti ugualmente, anche se nessuno vendica questo paese dilaniato da un demone assetato di sangue e di ingiustizia.
La forza ci viene dal di dentro, dalla fede, dalla fierezza, non so, dal nostro essere iracheni. Altrimenti mi parrebbe che Padre Ragheed, Monsignor Raho, e tutti gli altri siano morti invano, e non posso crederlo perché chi perde la sua vita per Cristo, in verità la ritrova. Ed allora ritroviamo Padre Ragheed, Monsignor Raho e tutti i martiri cristiani nella vita delle chiese dell’Iraq, aperte e piene nonostante quel che accade.
Un tratto obbligato della storia del cristianesimo è passare per il venerdì santo.
Ma poi c’è la domenica, e questa è la nostra forza e la nostra speranza.
Monsignor Philip Najim