"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

28 agosto 2009

Chiesa caldea: notizie di agosto

By Baghdadhope


Il 21 di agosto, nella chiesa di St. Youseph a Karrada (Baghdad) si è svolta, celebrata dal patriarca della chiesa cattolica caldea, Mar Emmanuel III Delly, la cerimonia per l'ordinazione di un nuovo sacerdote: Padre Asel Saalem, arrivato per l'occasione per poi fare ritorno a Roma dove attualmente studia.
Presenti erano anche i due vicari patriarcali Mons. Shleimun Warduni e
Mons. Jacques Isaac.


Il 14 di agosto, nella chiesa caldea di St. George nel quartiere di Ghadeer a Baghdad, una delle chiese colpite nel corso degli attacchi concertati a Baghdad e Mosul di metà luglio, si è svolto un incontro tra diversi gruppi giovanili delle chiese cattoliche della città (caldea, sira, latina, armena). I giovani, circa 400, divisi per gruppi secondo le parrocchie di appartenenza e recanti un cartello con la scritta "La mia giovinezza per il Signore"
hanno assitito alla Santa Messa ed alla omelia il cui tema è stato come affrontare le sfide del momento. Alla cerimonia ha presenziato il patriarca Mar Emmanuel III Delly che ha dichiarato "di sentirsi giovane perchè in mezzo ai giovani". Questo tipo di incontro, ha spiegato a Baghdadhope Padre Douglas Al Bazi, della chiesa caldea di Mar Eliya, non è il primo, ed ha sostituito quello programmato nello scorso luglio ed annullato a causa dell'ondata di attentati. Un altro incontro dedicato all'anno sacerdotale si terrà a settembre.

Nei prossimi giorni Mar Emmanuel III Delly, accompagnato dal vicario patriarcale Mons. Shleimun Warduni si recherà in visita pastorale nelle diocesi di Zakho (Mons. Petrous Harbouli) ed Amadhiya (Mons. Rabban Alqas)

150 iracheni cristiani rischiano di essere deportati dalla Svezia

Fonte: Ankawa.com tradotto dall'arabo da Christians of Iraq e dall'inglese da Baghdadhope

27 August 2009
150 Iracheni cristiani hanno cercato rifugio nella cattedrale di St. Enechubeng per chiedere alle autorità per l'immigrazione di riconsiderare la decisione di rifiutare loro la richiesta d'asilo in Svezia. I cristiani si sono recentemente organizzati iniziando a perorare la loro causa e più di 150 si sono riuniti ieri nella cattedrale di Linköping per chiedere alla chiesa svedese di aiutarli a fare arrivare il loro messaggio ai politici ed evitare la loro deportazione.
Uno di loro, Schumer Bazi, ha dichiarato: Ci siamo organizzati ed abbiamo chiesto alla chiesa di Linköping di aiutarci ad organizzare degli incontri con i politici, vogliamo spiegare loro la nostra difficile situazione in Iraq e qui in Svezia. Siamo più di 150 tra donne, bambini, anziani ed uomini iracheni cristiani la cui richiesta di asilo è stata rifiutata. Tutti sono venuti alla cattedrale di Linköping con la speranza che la chiesa possa aiutarli, qualcuno pensa che la chiesa possa fare in modo che non siano deportati.
Gli iracheni cristiani hanno raccontato delle uccisioni, delle torture e dei rapimenti che hanno subito nella loro madre patria e che hanno causato la loro fuga. Alcuni raccontano di come siano arrivati alla cattedrale con i bambini senza timore di essere arrestati prima di poter contattare i politici per far loro sapere come le autorità per l'immigrazione non abbiano seriamente considerato la situazione delle minoranze in Iraq, sebbene il numero dei loro componenti si sia dimezzato dal 2003.
Munir Daniel Youkhana, uno dei 10.000 iracheni minacciati di essere deportati dalla Svezia ha dichiarato: Dove sono oggi le minoranze? Dove sono gli iracheni cristiani, mandei, shabak, yazidi? Nessuno di loro vuole tornare in Iraq, la situazione peggiora di giorno in giorno, l'Iraq è diviso tra i gruppi maggioritari: curdi, musulmani sciiti e sunniti, non è più un posto per le minoranze. Il ministero della giustizia iracheno ha riferito di più di 500 attacchi alle chiese e di altri episodi di violenza contro i cristiani ma non c'è punizione per i colpevoli, dov'è la giustizia in Iraq?
Karen Allison Granbhum Membro del Parlamento per lo Swedish People's Party, ha incontrato gli iracheni nella cattedrale di Enechubeng ed ha riferito di voler chiedere alle autorità per l'immigrazione di interessarsi della situazione dei paesi di coloro che stanno per essere reinviati in patria. La Granbhum si è detta in disaccordo con il rapporto stilato da Anna Odqvist (SPD) sulla attuale situazone dei cristiani in Iraq. Le autorità irachene non possono dare protezione agli iracheni cristiani che hanno chiesto asilo in Svezia.

150 christians of Iraq face deportation in Sweden

Source: ankawa.com

August 27, 2009 translated from Arabic by Christians of Iraq

150 Iraqi Christians have sought refuge in the Cathedral of St. Enechubeng to ask the immigration authorities to reconsider the decisions to refuse their asylum applications in Sweden. They recently organized themselves and began to campaign for review of decisions by the immigration authorities against them. More than 150 of them who are threatened with deportation from Sweden gathered yesterday at the Cathedral of Linköping, to ask the Church of Sweden to help deliver their message to the politicians and stave off their being deported.
Schumer Bazi says: We organized ourselves and we have asked the church in Linköping for assistance in organizing our meetings with politicians, we want to explain the difficult conditions in Iraq and here in Sweden. We are More than 150 women and children, elders and men Iraqi Christians whose application for asylum has been rejected. They had and arrived at the Cathedral of Linköping in the hope that the church will help them in their plight, some hoped that it would shield them from deportation.
They told about threats of killing, torture, and kidnapping against them in their homeland which resulted in their fleeing. Some say they came to the cathedral accompanied with their children without fear of arrest from the police before contacting Swedish politicians, to let them know that Swedish immigration authorities did not seriously consider the situation of minorities in Iraq. although the numbers of the minorities has shrunk by half since the year two thousand and three .
Munir Daniel Youkhana one of the ten thousand Iraqis are threatened with deportation from Sweden says: Where are the minorities today, where are Iraq's Christians, Mandaeans, Shabak, yazdians? None of them want to return to Iraq. Youkhana adds, the situation is deteriorating day after day, Iraq is divided between the major groups: Kurds, Shiite Muslims and Sunni Muslims, is no longer a place for minorities. The Ministry of Justice in Iraq has reported more than 500 attacks against the churches, and other acts of violence against Christians, but there has been no liability for the criminals, where is the justice in Iraq?
Karen Allison Granbhum Member of Parliament for the Swedish People's Party, who met the protesters at the Cathedral of Enechubeng said she wants to ask the immigration authorities to address the situation of the deportees in the countries they are being sent back to. He also disagreed with Anna Odqvist SPD report about the situation of Christians in Iraq at the present time. Iraqi authorities can not provide protection to the returning Iraqi Christians who have asked for asylum in Sweden.

Iraq: la risposta dei piccoli disabili iracheni alle bombe ed alla violenza

Fonte: SIR

“La risposta cristiana all’odio, alla violenza e alle bombe è l’amore e il servizio al prossimo. Con questo spirito celebriamo il nostro raduno nel quale i piccoli disabili iracheni rinnovano l’offerta della loro sofferenza per il bene del Paese”. Con queste parole il vicario patriarcale di Baghdad, mons. Shlemon Warduni spiega al Sir il “significato profondo” dell’incontro, che si tiene ogni due anni, della fraternità “Gioia e amore”, voluta dal vescovo di Mosul, mons. Faraj Rahho, rapito e ucciso nel 2008. “Ci troviamo a Shaqlawa, vicono a Erbil, siamo oltre 250 a meditare sulle parole dell’apostolo Paolo, per il quale l’amore non viene mai meno. Ci sono tante persone disabili che condividono con noi questo cammino di fede. Stasera come segno di unità faremo una fiaccolata per offrire le nostre sofferenze per l’Iraq. E’ la nostra risposta alla recente ondata di morte, odio e violenza che ha di nuovo messo in ginocchio l’Iraq. Il nostro Paese ha bisogno di riconciliazione e sicurezza per tutti”.
Nei giorni scorsi Baghdad è stata teatro di un gravissimo attentato costato la vita a 95 persone e che ha provocato oltre 400 feriti: “è stato l’inferno sulla terra. Non ci sono parole davanti a tutto questo orrore”, conclude mons. Warduni.

Amid violence, Iraqi archbishop ‘more pessimistic than ever’ about Christians’ future


Kirkuk, Iraq, Aug 27, 2009
Louis Sako, Chaldean Archbishop of Kirkuk, has said that Iraqi Christians are facing “bad days” as “ineffective” security cannot prevent criminality and violence targeting Christian minorities. Many of the Christians who remain are in such fear that they too want to leave Iraq, he said.
The future of Christianity in Iraq, even in the short term, now “hangs in the balance,” Archbishop Sako said in a phone interview with the international Catholic charity Aid to the Church in Need (ACN).
Christians lack the protection of militia and have become “easy targets” for criminals, he reported.
Violence and the lack of jobs and services have encouraged many Christians to leave. There are now only 300 Christian families in southern Iraq and less than 400,000 Christians in Iraq as a whole. Within the past decade, their numbers have declined by 750,000.
In the northern city of Mosul, a former Christian heartland, many Christian families are “too afraid to come back.”
At one point in the interview, Archbishop Sako warned of rising extremism.
“Iraq is going to a narrow form of Islam,” he commented.
“I feel more pessimistic now than ever before. We do not have the same hope that we had before,” he told ACN. “In fact I am not seeing any signs of hope for the future. Our whole future hangs in the balance.
“We are experiencing bad days. Every group involved in criminal activity seems to be active.”
Archbishop Sako called Iraq’s security system “ineffective” and “unprofessional.”
“The government and the police are doing their best but they are incapable of controlling the situation,” he
reported, saying that Christians are generally being attacked not because they are Christian but because they are seen to be defenseless.
Even one crime, abduction or killing makes the whole community want to move, he reported.
The archbishop spoke from Kirkuk, ten days after a Christian father of three was shot dead and a doctor was abducted on his way home in the city.
The turmoil is not localized to one part of Iraq.
“Every day, there are explosionsin Baghdad, Mosul, so many different places,” he added.
In July, militants attacked seven churches in Baghdad, killing and injuring dozens. Last week nearly 100 were killed in a series of attacks.
“Living in this climate, the Christian people are afraid. They are really worried. Despite what we tell them, encouraging them to stay, they want to leave,” Archbishop Sako said.
He reported that the people have lost patience with the country’s politicians. The prelate also called on Western countries to pressure Iraqi political groups to reconcile and try to reduce conflict and restore law and order.
“There can be no proper security without a real reconciliation. The only people who seem to be benefiting from the situation at the moment are the criminals. This has got to change,” he explained.
Archbishop Sako noted the crucial importance of interfaith work for coexistence between Christians and Muslims. While the archbishop is involved in initiatives in Kirkuk, such as hosting a Ramadan dinner this weekend, they are generally not replicated elsewhere in the country.
The work is small scale and involves individuals rather than the large groups crucial for attitude changes.
Church leaders and Christian politicians are also not doing enough to cooperate to confront common problems, Archbishop Sako told ACN.

Kassab: io, perseguitato, chiedo ai cristiani di non lasciare l’Iraq


venerdì 28 agosto 2009

Joseph Kassab è un imprenditore d’origine irachena emigrato nel 1979 negli Stati Uniti ma rimasto in contatto con la propria comunità d’origine. Interverrà oggi al Meeting di Rimini all’incontro dedicato ai cristiani perseguitati. Kassab ha raccontato a Ilsussidiario.net i momenti più sofferti della recente storia dei cristiani in Iraq, sino a parlare della drammatica situazione creatasi dopo la guerra del 2003.
Signor Kassab, può raccontarci perché lasciò il suo Paese, l’Iraq?
Ho lasciato l’Iraq nel 1979 per non aderire alle pressioni perché mi iscrivessi al Baath, il partito al potere. Come molti cristiani in Iraq, non ero interessato a coinvolgermi in politica, cosa che per una minoranza come la nostra poteva essere pericolosa. Ma Saddam voleva legare a sé gli iracheni, obbligandoli ad iscriversi al suo partito, e chi rifiutava era trattato come un cittadino di serie B la cui vita diventava molto difficile. Per questo me ne andai, come avevano già fatto due miei fratelli, e raggiunsi a Roma dove rimanemmo alcuni mesi.
Perché proprio Roma?
A Ostia vi è un convento di suore caldee e un mio fratello era arcivescovo,* quindi la scelta di Roma fu naturale, anche perché era una specie di centro di smistamento dell’emigrazione irachena verso gli Stati Uniti. Io stesso lavorai all’ambasciata americana come interprete e così riuscii a raggiungere gli Stati Uniti, dove attualmente vivono circa 500.000 iracheni cristiani.
Quali sono le ragioni di questa emigrazione?
L’immigrazione irachena negli Stati Uniti risale alla fine del 1800, inizio del 1900, causata a quel tempo da ragioni economiche, come per voi italiani, o per gli irlandesi. Questa prima immigrazione si concentrò nella zona di Detroit, dove sorgevano gli stabilimenti della Ford che offrivano lavoro ben retribuito per gli standard iracheni. Inoltre, vi erano già immigrati in precedenza libanesi cristiani che favorirono l’integrazione di noi iracheni. A questa prima fase dell’emigrazione prese parte anche mio nonno, che arrivò qui nel 1889. Molti andarono anche in Messico, dove c’è tuttora una forte comunità caldea.
Se a quel tempo le ragioni erano economiche, per le successive immigrazioni i motivi diventarono più politici. Gli inglesi nel concedere l’indipendenza nel 1932 fecero dell’Iraq un regno, fin dall’inizio molto debole. I cristiani vivevano in una situazione non troppo difficile, purché rimanessero nell’ombra. Le cose peggiorarono con la sanguinosa caduta della monarchia e i successivi vari colpi di Stato, fino a Saddam. In questa situazione di pericolosa instabilità, molti altri cristiani fuggirono dall’Iraq.
Secondo alcuni, pur essendo un feroce dittatore, Saddam non se la prese particolarmente con i cristiani. È così?
No. Ci sono molte prove delle misure prese da Saddam contro i cristiani. Ha nazionalizzato le chiese e le istituzioni religiose, ha fatto combattere i nostri seminaristi nelle varie guerre e ha proibito ai genitori di dare nomi di origine biblica ai propri figli. Così, dopo l’inutile guerra contro l’Iran, che causò un milione di morti, e quella successiva con l’invasione del Kuwait, molti decisero di andarsene.
Come si è evoluta la situazione dopo la caduta di Saddam?
La guerra del 2003, quella che gli americani chiamano di liberazione, ha peggiorato enormemente le cose. Ed è tragico, visto il tributo di sangue soprattutto di tanti americani e inglesi, e non solo. Subito dopo la fine della guerra andai in Iraq e trovai la popolazione molto contenta della caduta di Saddam e grata ai liberatori.
La situazione si è rapidamente deteriorata per una serie di errori commessi dall’amministrazione americana, mal consigliata da fuoriusciti iracheni. Si cominciarono ad epurare non solo i vertici responsabili delle politiche del partito, ma anche i semplici iscritti al Baath, dimenticando che la stragrande maggioranza di costoro era stata costretta ad unirsi al partito, e si sciolse l’esercito. Si creò così un’altissima disoccupazione, aggravata dalla quasi completa distruzione delle infrastrutture.
Tutto ciò ha fornito mano d’opera ai fondamentalisti e al terrorismo, e la situazione si è radicalizzata, anche per l’intervento di potenze esterne in favore di una o l’altra parte, degli sciiti o dei sunniti, e via dicendo. Soprattutto i professionisti, la classe dirigente è sotto il tiro dei fondamentalisti e delle varie milizie, e secondo l’Unesco più di 20.000 sono già fuggiti dall’Iraq per questa ragione. Nel mirino ci sono tutti, musulmani e cristiani, ma tra questi ultimi vi sono in proporzione più appartenenti alla classe dirigente, perché i cristiani hanno da sempre usato l’istruzione, così come l’intraprendenza imprenditoriale, come armi di difesa nella loro situazione di minoranza mal tollerata o apertamente perseguitata.
Come vivono i cristiani in questa situazione?
Come sempre sono i più deboli dei deboli, schiacciati tra le parti che si combattono. E il ricordo dei massacri subiti dai cristiani nella prima parte dello scorso secolo, fa temere che quei tempi drammatici possano ritornare, se dovesse saltare il fragilissimo equilibrio che esiste tra curdi, arabi dei due gruppi e potere centrale.
Per questo, molti cristiani iracheni ritengono essenziale che ottenere uno statuto particolare che consenta loro di governarsi, senza che ciò li costringa peraltro a concentrarsi tutti in una sola zona. Partecipare al governo centrale non ci dà nessuna garanzia, visto che i cristiani hanno solo alcuni rappresentanti in Parlamento e, in sostanza, rimangono discriminati rispetto agli altri iracheni.
Ma la cosa più importante è che i cristiani non se ne vadano, che rimangano in Iraq: sono loro i veri autoctoni del Paese, gli eredi delle civiltà che si sono susseguite in quella vera e propria culla della civiltà che è la Mesopotamia. La permanenza dei cristiani può svolgere un ruolo importantissimo di moderazione rispetto alle radicalizzazioni e al fondamentalismo che si stanno impadronendo del Paese, anche al di là dei fatti di più esplicito terrorismo. I cristiani possono veramente costituire un ponte tra le varie realtà che si fronteggiano in Iraq, se solo venissero posti nelle condizioni di vivere liberamente e pienamente.

Come possono la comunità internazionale e i cristiani dell’Occidente aiutare i cristiani iracheni?
In primo luogo aiutando quel processo già descritto di ottenimento di una qualche forma di autogoverno. L’aiuto dell’Unione Europea e delle comunità americane e in genere dei cristiani può essere determinante. Ma deve essere condotto con cautela e intelligenza, per evitare reazioni ostili all’interno del Paese. E occorre una buona, solida politica internazionale nei confronti delle minoranze in Iraq, che ora manca.
Tuttavia, una cosa buona per fortuna c’è ed è l’interesse che il Vaticano e il Papa dimostrano per la situazione dei cristiani in Iraq e, soprattutto, non vogliono che la presenza cristiana sparisca dal Paese, non solo per difendere i cristiani in sé, ma per riaffermare la presenza lì di Cristo.

*
Il riferimento è a Mons. Jibrail Kassab, attuale arcivescovo caldeo dell'eparchia dell'Oceania e della Nuova Zelanda che dal 1995 al 2006 resse la diocesi di Bassora (Iraq). Nel 1979 (data riportata nell'intervista) Mons. Kassab non era ancora stato nominato vescovo. Nota di Baghdadhope

Iraq, per i cristiani una vita di confine

Fonte: Avvenire

di Claudio Monici

Anche Amir è partito. Il suo posto è vuoto, nell’antica sala del caffè in al-Mutanabbi street, la via dei librai ambulanti. Il cuore di una Baghdad dove lo sguardo, ovunque si soffermi, riesce ancora a gettare un tuffo all’indietro nel tempo. Si accomodava laggiù, Amir. Sulla panca di legno, accanto ai narghilè che profumano di tabacco aromatizzato al miele. Sorseggiava il tradizionale bicchiere di tè iracheno, forte di zucchero, e, intanto, dalla tasca della vecchia giacca, estraeva un taccuino da riempire di parole. Gli amici che lo andavano a trovare, li intratteneva parlando di letteratura americana e di cinema italiano. Pietro Germi, Rossellini, Fellini. Ma lui non si era mai mosso da qui. Poi c’era la partita di backgammon, accompagnata dai racconti sui cristiani in Iraq: «Una delle più antiche comunità d’Oriente». Sembrava diventare triste, quando ricordava della «mancata visita di papa Giovanni Paolo II, nel 2000 a Ur». Sulle tracce del cammino di Abramo. Come molti iracheni, anche lui non ce l’ha fatta. La promessa, quella di non ascoltare la tentazione dell’“hajra”, dell’esodo, «non andare mai via dal mio Iraq che nella storia ha goduto fama di città della pace e della prosperità», forse si è definitivamente spezzata anche quando il caffè più antico di Baghdad, lo Shahbandar cafè, una delle meraviglie che ancora sopravvivono agli anni del disastro iracheno, un giorno è stato sventrato dalla vigliaccheria di un attentatore suicida esploso con la sua auto bomba e una trentina di vittime innocenti. Quel luogo, era un rifugio, non solo per Amir. Un posto dove tenere lontano i pensieri e gli incubi della violenza. Le paure restavano fuori dallo Shahbandar e da Mutanabbi street. Ritrovo attorno al quale si raccoglievano, e dopo la ricostruzione dall’attentato ancora lo fanno, studenti universitari, intellettuali, religiosi, scrittori e poeti iracheni. Proprio li e solo li, così come era negli anni del duro embargo internazionale, che colpiva anche la cultura irachena, la gente di Baghdad, può trovare un testo universitario, una rivista, un romanzo con qualche pagina perduta, una Bibbia o il Corano. Libri usati. Ancora adesso, l’Iraq che studia o che cerca un saggio, non ha alternative alla via dei librai ambulanti di Mutanabbi. Cristiano caldeo, Amir Nasef Toma, che appena arrivate le truppe americane, sognava un giorno di organizzare un laboratorio per giovani artigiani iracheni da dedicare allo scrittore americano Sydney Sheldon, oggi, di lui, nessuno ci sa dire nulla più di: «Se ne è andato in Canada, per riunirsi alla moglie e ai figli». Un’altra ferita: la delusione. Amir Toma, non si stancava di ripetere che «quello di cui gli iracheni del dopo Saddam hanno bisogno è di essere rieducati: non i bambini, che cresceranno. Ma gli adulti che sono stati privati del tempo». Aveva fiducia, ma come sempre accade, di fronte alla paura che giorno dopo giorno si insinua nelle pieghe più resistenti della vita, alla fine ha ceduto.Non è facile essere cristiani a Baghdad, come nel resto dell’Iraq, a Kirkuk, Erbil, e la dolente Mosul, l’antica Ninive. Un presenza piccola, ma una fede antica, fatta risalire direttamente all’apostolo Tommaso, ritenuto il fondatore del cristianesimo in Iraq. E il suo nome in iracheno è appunto Toma. Quella di Amir è la storia di tanti iracheni cristiani, che un giorno della loro vita, come un incubo che hanno creduto di potere tenere lontano, drammaticamente, hanno invece preso coscienza che era troppo vicino quel soffio di morte che ha già mietuto tanti lutti. Cristiani rapiti o uccisi mentre sorseggiano il tè seduti al Shahbandar, oppure spazzati via mentre salgono la scalinata di una chiesa, per raccogliersi nel silenzio della meditazione; della preghiera, nella ricerca della pace. Falciati a tradimento dalle schegge di una autobomba che mano assassina ha “sapientemente” parcheggiato sul piazzale. La strategia del terrore. Accanto al cratere che ha squarciato l’asfalto, è rimasta una pozza nera d’acqua mista ad olio. I due cadaveri dei ragazzi li hanno trovati li vicino, attorno a una corona di una trentina di feriti che si lamentavano nell’inferno di dolore, sangue e fuoco: «Purtroppo c’è gente che non crede nella pace. Che non ha Dio nel cuore. Ma solo odio, forse il potere, di sicuro la guerra», dice un uomo mentre passa e se ne va dal luogo dove a metà luglio, davanti alla chiesa caldea della Madonna del sacro cuore, in Palestine street, è stato fatto esplodere l’ennesimo ordigno contro una chiesa cristiana. Monsignor Slamon Warduni, vescovo caldeo di Baghdad, è nel suo ufficio. Quel giorno è scampato alla morte: «Non chiedete a noi perché l’uomo è così furioso contro l’uomo. Domandatelo al mondo là fuori. Che forse ha perso la propria coscienza umana, prima della fede».Da lui i cristiani ci vanno per dirgli: «Padre, noi partiamo». Un viaggio disperato per l’Europa, il Canada, l’Australia, ma che spesso si arresta in Siria o Giordania. Senza più soldi o la garanzia di un visto straniero. Fermi, arenati nel mare della diaspora irachena. Parcheggiati su una linea di confine. C’è solo una cosa che il vescovo può fare, cercare di diassuaderli: «La too hajron», non andate via. «Se invito i miei fedeli a non emigrare, a non prosciugare questa terra della loro presenza millenaria, della loro ricchezza umana, del loro sale; se cerco di rassicurarli che le cose cambieranno – spiega monsignor Warduni, allargando le braccia –, mi rispondono: “Padre, garantisci tu per la mia vita? Il lavoro ai miei figli? Il mio futuro?” E quando insisto, e ripeto che la situazione un giorno migliorerà, rispondono così: "Padre, mi vuoi fare uccidere dalle bombe?". Dopo gli ultimi attacchi mortali contro i cristiani, chi solo vagamente pensava di lasciare l’Iraq, oggi ha deciso di farlo definitivamente. Resto ancora sorpreso dell’afflusso dei fedeli nelle chiese, ma molte altre famiglie mi hanno già comunicato: “Padre, è troppo pericoloso per noi e i nostri bambini: a messa non ci veniamo più”. C’è una malattia peggiore del terrorismo?».«Siamo una minoranza, anche se in Iraq per numero di cristiani abbiamo più chiese che a Roma», osserva uno dei guardiani che vigilano il perimetro della parrocchia. Una presenza disarmata che poco o nulla può fare, di fronte alla minaccia terroristica. Qualche metro più in là, oltre la solita jeep della polizia ci sono uno o al massimo due poliziotti armati di mitra. Davanti a un’auto bomba o a una improvvisa minaccia di colpi di mortaio che cadono dal cielo, non rimane che il fuggi-fuggi.
«Noi cristiani iracheni siamo prevalentemente una classe sociale formata da dottori, ingegneri, professori, commercianti. In questi ultimi sei anni c’è stato un notevole mutamento della nostra società, con una forte radicalizzazione islamica della maggioranza sciita che in passato ha subito la repressione – racconta un docente universitario che chiede di restare anonimo –. Se al tempo del sunnita Saddam Hussein, il suo vice primo ministro era il caldeo Tarek Aziz, così come c’erano anche ministri sciiti o curdi, allora eravamo solo e comunque tutti iracheni. Oggi non è più così, ci siamo dimenticati dei matrimoni misti e ci troviamo di fronte al fenomeno del settarismo, dell’emigrazione e delle bombe contro le chiese e le moschee. Dobbiamo anche ricordare che in Iraq c’è più d’una generazione che ha vissuto tre guerre contro l’Iran, tra il 1980 e il 1988; poi quella del Golfo del 1991 e l’ultima del 2003. Senza dimenticare che nel mezzo ci sono stati 13 anni di pesante embargo internazionale. Adesso le conseguenze le paghiamo tutti».«C’è una cosa di cui mi meraviglio ogni giorno: i nostri cristiani restano pacifici – osserva monsignor Warduni –. Non c’è fanatismo, né rancore. Continuano a vivere aiutando quelli che hanno bisogno. Ma ci sono anche tanti musulmani che entrano nel mio cortile per chiedere aiuto, meditando davanti alla grotta dedicata alla Madonna di Lourdes: musulmani che mi confidano di essere stati esauditi nelle loro suppliche». Sei anni fa il problema di cosa fare di Saddam Hussein, si risolveva con le sue statue che venivano abbattute; sei anni dopo sono in molti a chiedersi che cosa fare della vita degli iracheni sciiti, sunniti, curdi e cristiani.

21 agosto 2009

Mons. Warduni: i mercanti di armi dietro l'inferno a Baghdad


Ennesimo attentato a Baghdad dopo la strage dell'altro ieri costata la vita a 95 persone e che ha fatto oltre 400 feriti. Due persone sono morte e altre otto sono in gravi condizioni per l'esplosione di una bicicletta-bomba nel centro della capitale irachena. Per la serie di attentati di ieri che ha colpito palazzi governativi nella cosiddetta “zona Verde”, è giunta unanime la condanna da parte della comunità internazionale. Nell’intervista di Fausta Speranza ci parla della disperazione della gente mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliare del Patriarcato di Babilonia dei Caldei:
Forse l’inferno vuol cambiare posto e venire in terra, perché è la gente che fa l’inferno. Non sappiamo cosa dire. Noi restiamo a bocca aperta, rivolti verso il cielo. La gente è attonita per l’orrore di tutti questi atti.
C’è la sensazione di essere tornati in guerra…
E’ così, perché ci sono stati sei bombardamenti, sei autobombe e missili in un giorno, tanto che sono morte decine di persone e ne sono rimaste ferite più di 400 o 500. Quanta distruzione! Quante macchine esplose … Come vive la gente? Chi voleva andare a lavorare non va più, perché ha paura. Per chi vuole andare a scuola sarà difficile, così come per chi vuole andare in chiesa. Bisognerà pensarci cinque volte, prima di fare un passo, prima di fare qualcosa.
Purtroppo certe violenze seminano sempre morte e terrore. E’ quello l’obiettivo principale…
Purtroppo, l’odio semina questo. Questo è il risultato dell’odio. E noi che siamo al di fuori di tutto questo e non ne conosciamo le cause, diciamo che accade per nulla. Tanti innocenti… tutti gli innocenti se ne vanno così, per niente. Quanti bambini poveri, quante donne, quanti giovani, che vogliono costruire il loro futuro, ma come possono costruirlo? C’è una grande tristezza in tutto il popolo.
Mons. Warduni, questa violenza è cieca e distruttiva in ogni direzione, però in particolare c’è anche una persecuzione delle minoranze, anche dei cristiani. Tutto ciò procede in parallelo? Si è riacutizzata anche questo tipo di violenza? Guardi, si trova di tutto qui. Alcune settimane fa c’era la questione di queste minoranze sia a Mosul, sia a Baghdad, sia al nord, ma adesso è cambiata la direzione: in mezzo a Baghdad, nei ministeri, vicino al Parlamento. Chi fa questi attentati fa le cose in maniera studiata e organizzata. Poi se una persona rimane coinvolta in qualche modo perde la vita.
Mons. Warduni, in tutto ciò, come avere fiducia nelle autorità, nella polizia?
Quale fiducia nei responsabili, quando c’è il terrorismo che cammina per le strade! Quale fiducia nel mondo! Ed io parlo di tutto il mondo. Cosa stanno facendo, per proibire questi atti terroristici? Le nazioni che fabbricano le armi cosa stanno facendo per la pace? Non ci sono loro dietro a tutti questi atti terroristici? Perché le armi da dove vengono? Queste autobombe da dove vengono? C’è qualcuno che le fabbrica e le vende.

Iraqi bishops express concern for people after blasts target


By Doreen Abi Raad

Two Catholic bishops in Baghdad, Iraq, expressed shock and concern for their people following a series of targeted blasts that killed 95 people and wounded more than 500."With these acts of violence, we are losing everything," Chaldean Auxiliary Bishop Shlemon Warduni told
Catholic News Service by phone Aug. 20, the day after the attacks.
"When there's no peace, we can't study, we can't pray, we can't work; we can't even walk," he said. The Christians of Baghdad, he said, are "very upset and very sad" and condemn the violence. "We are in a terrible situation, so we pray to almighty God to open the minds of everyone, to give them wisdom to do what is best for the rebuilding of Iraq, for its peace and security, for its progress and for the good of everyone living in Iraq," Bishop Warduni said.
He appealed to "everyone, all over the world -- big nations, small nations, big organizations, small organizations and the Iraqi people as well -- to do what is best for Iraq, for the good of Iraq and its people, not their own interests." He also called for reconciliation among all the people of Iraq and for nations to look out for the welfare of all the people and "not the interest of (political) parties.""The peace depends on love; to love one another and to do the best for each other, not out of selfishness," Bishop Warduni said. "Please, we ask the world to pray for Iraq."
Latin-rite Archbishop Jean Sleiman of Baghdad told CNS: "We are shocked by this violence. The fear of violence is everywhere."Archbishop Sleiman said that Our Lady of Fatima Church in Baghdad was badly damaged in the Aug. 19 blasts. While he said he did not believe the church was specifically targeted, its roof was destroyed as a result of the nearby explosions. There were no casualties, he added."Violence is hitting everyone," the archbishop said. One of the most important challenges, he added, is to encourage the Christians of Iraq."We have to begin again," he said. The violence Aug. 19, the bloodiest day so far in 2009, consisted of more than six blasts near government ministries and other targets at the heart of Iraq's Shiite-led administration. In June, U.S. combat troops withdrew from urban centers, placing Iraq's security forces in the lead role. Iraqi Prime Minister Nouri al-Maliki said in a statement that the attacks were aimed at "raising doubts about our armed forces, which have proven themselves very capable of confronting terrorists."

14 agosto 2009

Tradotto in francese il libro dell'arcivescovo Filoni sulla Chiesa in Iraq


Martedì 11 Agosto 2009

di Jean-Michel Coulet
Anni così intensi e un legame divenuto profondo al punto che l'allora nunzio a Baghdad ha finito per sentirsi un po' iracheno con gli iracheni. A sottolinearlo è il sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato, arcivescovo Fernando Filoni, in un'intervista con l'incaricato dell'edizione in lingua francese e con il direttore del nostro giornale in occasione della traduzione francese del libro - pubblicato in italiano nel 2006 e poi riedito (La Chiesa nella terra di Abramo, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2008, pagine 234, euro 9,50) - che monsignor Filoni ha dedicato alle vicende della Chiesa in Iraq (L'Eglise dans la terre d'Abraham. Du diocèse de Babylone des Latins à la nonciature apostolique en Iraq, Paris, Les Éditions du Cerf, 2009, pagine 240, euro 22).
Il volume, documentato e nello stesso tempo di facile lettura, è fondato sui documenti dell'archivio della nunziatura di Baghdad, dove l'attuale sostituto è stato nunzio dal 2001 al 2006. Previsto per il quarantesimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra Iraq e Santa Sede (1966-2006), il libro ricostruisce una storia plurisecolare di rapporti, che risalgono alla prima metà del Seicento, sullo sfondo di vicende storiche e religiose millenarie, e aiuta a capire la realtà contemporanea, tragica e difficile, di una minoranza cristiana piccola ma di tradizioni antichissime.
Non è frequente che un nunzio scriva sulla storia della rappresentanza pontificia che ha guidato, ma anche sulla sua missione e sul Paese dove ha vissuto.
Come è nato questo libro?
Sì, è raro che un nunzio scriva sul Paese dove ha svolto il suo servizio, ma credo che in qualche occasione scrivere possa testimoniare come si è condivisa la storia di quel Paese, almeno per un certo periodo. Per me è stato così in Iraq. Il nunzio non è uno spettatore, ma uno che si coinvolge ed è coinvolto dalla realtà, cosicché quel Paese gli entra dentro e un po' gli appartiene. In quella realtà egli vive, con essa gioisce e soffre. E questo lo porta a entrare nella vita, oltre che del Paese, soprattutto della Chiesa. E, se non si scrive pubblicamente, lo si fa per ragioni di comprensibile riservatezza. I rappresentanti pontifici, infatti, scrivono, per riferire a Roma e per manifestare la sollecitudine del Papa. Tutto è naturalmente raccolto e con il passare degli anni quei documenti diventano fonti storiche. Come in questo caso: il lettore viene portato, quasi per mano, a conoscere la Chiesa in Mesopotamia e le vicende del tempo attraverso i documenti del passato. E le carte d'archivio diventano una straordinaria sorgente di informazioni preziose.
Cosa l'ha spinta a pubblicare questo libro?
Si avvicinava il quarantesimo della creazione della nunziatura in Iraq e cominciai a leggere i documenti in quest'ottica. Accostandomi alle fonti a disposizione negli archivi della nunziatura di Baghdad mi appassionai, perché vidi subito che si conosceva ben poco di quella storia. Tra l'altro, avevo trovato succinte note di due delegati apostolici che però, a un certo punto, s'interrompevano; così mi dissi che bisognava approfondirle e continuare. Mi sono coinvolto anche affettivamente, a motivo dell'interesse che mi suscitavano. Poi, durante la guerra, nei momenti in cui il lavoro era alquanto rallentato e non si poteva uscire molto, ho iniziato a prendere appunti. Dunque, una serie di coincidenze mi portò a scoprire una storia da raccontare. Non farlo sarebbe stato un peccato.
Lei fu l'unico capo di una missione diplomatica rimasto a Baghdad durante tutta la guerra e nei tre anni successivi: è stata una decisione difficile?
È stata una scelta sacerdotale, perché se il pastore fugge nei momenti di difficoltà, si disperde anche il gregge. Credo che questo sia stato anche un modo per incoraggiare la Chiesa irachena; infatti, tutti i vescovi durante la guerra rimasero al loro posto; nessun sacerdote andò via, nessuno abbandonò la propria parrocchia o il proprio convento. Abbiamo condiviso tutto ciò che avevamo. Per esempio il seminario, rimasto aperto, era diventato un luogo dove la notte tanti andavano a dormire, cristiani e musulmani; lo stesso fu per tante chiese, le cui sale erano diventate dormitori. La gente aveva paura di stare nelle proprie case, particolarmente se collocate in prossimità di probabili obiettivi militari. Al mattino lasciava coperte e materassi e tornava a casa. Non di rado, famigliole musulmane chiedevano ai cristiani di cantare i propri canti religiosi, che trovavano belli. Al di là della guerra, si vivevano momenti di incontro, di solidarietà e di stima. Una condivisione che avrebbe avuto un seguito, perché chi vive insieme momenti difficili, mantiene relazioni e amicizie. Certo, la guerra aveva sconvolto la vita di tutti i quartieri di Baghdad e dell'intero Iraq, e avrebbe gettato fino a ora il Paese nel caos e nella violenza.
Come si spiega il flusso migratorio dei cristiani? C'è una volontà di sradicamento del cristianesimo dall'Iraq?
Il flusso migratorio non è solo di oggi. Nel mio libro accenno a tre grandi crisi attraversate dai cristiani. La prima ebbe luogo con il crollo dell'impero ottomano, dopo la prima guerra mondiale, con le persecuzioni e l'uccisione di migliaia e migliaia di cristiani armeni, caldei, siro-cattolici, ortodossi e assiri. La seconda fu generata dalla crisi politica tra il Governo centrale e la rivolta dei curdi degli anni Sessanta, quando i cristiani del nord dell'Iraq emigrarono nella capitale il cui sviluppo economico offriva lavoro e prosperità. Ciò portò la comunità cristiana di Baghdad a divenire la più grande del Paese. La terza migrazione ha avuto due fasi: la prima si è sviluppata con le tendenze belliciste del regime ba'atista (guerre con l'Iran e il Kuwait) e per le sanzioni economiche imposte all'Iraq; la seconda è stata generata dalle conseguenze della guerra anglo-americana, allorché molti cristiani, attratti dal desiderio di pace, dal benessere dell'occidente e spinti dal clima di insicurezza, hanno deciso di cambiare vita una volta per tutte.
Com'è la situazione oggi?
Continua a essere assai difficile e dura; ai ripetuti attentati si aggiunge spesso la penuria d'acqua o della corrente elettrica, mentre le temperature d'estate arrivano anche a cinquanta gradi. Non tutti hanno il generatore e la possibilità di comprare il gasolio, il cui prezzo è cresciuto enormemente. Poi c'è la difficoltà di trovare lavoro, l'inadeguatezza della scuola, la difficile convivenza tra etnie, gruppi politici e religiosi e soprattutto manca la sicurezza. Si esce di casa e non si sa se si ritorna. C'è sempre il rischio di esplosioni. Chi ha figli si domanda: quale prospettiva posso dare ai miei figli? L'interrogativo è comprensibile. Ma è giusto pensare solo in questi termini? Un cristiano non deve anche interrogarsi sul valore della propria origine e se veramente desideri che scompaia la presenza cristiana in Iraq? I cristiani hanno dato in passato un preziosissimo contributo allo sviluppo del Paese. Non è ora il caso di cominciare ad avere un po' più di fiducia e di ottimismo, non lasciando che prevalga soltanto la paura? Penso che sia il momento di dare più spazio alla speranza. Se fosse persa, non c'è dubbio che la presenza cristiana in breve si estinguerebbe. E questo non giova a nessuno. Noi abbiamo il dovere di aiutare i cristiani iracheni a ritrovare ottimismo e offrire loro una speranza. Se si perdesse il senso della propria origine sfumerebbe anche un sano e coraggioso ottimismo; vincerebbero timore e paura. Se la comunità cristiana irachena migrasse, nel giro di poco tempo essa perderebbe lingua, cultura e identità, e sarebbero perse per sempre. Un danno culturale e religioso incalcolabile. Il mio libro sottolinea il coraggio che tante generazioni hanno avuto nel vivere in Mesopotamia pur tra persecuzioni e difficoltà. Questo non va né dimenticato, né minimizzato. I cristiani, comunità originaria di quella terra, hanno il diritto a vivere e di vivere rispettati nella loro dignità. Bisogna che le autorità facciano di tutto, affinché essi siano parte integrante rispettata e coinvolta nella vita del Paese, anche se minoranza.
Che cosa sta facendo la Santa Sede perché ciò avvenga?
Ci sono segnali di disponibilità da parte delle autorità pubbliche? La Santa Sede, ovviamente, dà il proprio contributo, che è rivolto soprattutto alla prospettiva nella quale i cristiani sono chiamati a vivere. E i vescovi operano bene in questo stesso senso. So che il Patriarca caldeo, il cardinale Emmanuel Delly, e i vescovi hanno incontri e stimolano le autorità governative e religiose affinché la presenza cristiana continui a essere uno degli aspetti fondamentali della politica del Paese. Non dubito che, in linea di principio, le autorità manifestino buona volontà e abbiano l'intenzione di rispettare i cristiani, ma questo si deve tradurre anche in fatti concreti. È proprio di questi giorni una notizia positiva: la restituzione di alcune scuole, già appartenenti e gestite da istituzioni cristiane prima della nazionalizzazione (fine degli anni Sessanta). Ancora oggi non pochi musulmani conservano gratitudine per l'educazione che ricevettero nelle scuole cristiane. Mi pare un bel segnale che fa sperare e che parla di un apprezzamento verso il contributo che i cristiani possono dare al futuro della nazione irachena.
Lei scrive spesso nel libro che il passato serve a comprendere il presente e colpisce la menzione di tanti uomini di Chiesa che, in maggioranza francesi, hanno aiutato l'evangelizzazione.
La diocesi di Babilonia dei Latini nasce nel 1632 nel contesto delle relazioni tra scià Abbas i e Papa Clemente viii; trattandosi di una sede nuova da dotare anche economicamente, il Pontefice accettò l'offerta di una ricca signora della Francia di Richelieu. Così con la bolla Super universas (1638), Urbano viii legava la sede di Baghdad alla Francia, lasciando che in futuro tutti i suoi vescovi fossero di nazionalità francese. Nelle intenzioni del Pontefice era preminente il desiderio di sostenere quella Chiesa creata da poco, anche se il Richelieu valutava la questione in termini di influenza politica. Con la presenza inoltre di missionari e vescovi, la Francia estendeva anche il proprio protettorato sui cristiani della regione spesso alla mercè di autorità senza scrupoli. Ma essi ricevevano anche aiuti economici, soprattutto nell'Ottocento, allorché la Francia sostenne la scolarizzazione nei villaggi cristiani. Una presenza dunque che aiuta a capire i contrasti con la Gran Bretagna, allorché nel 1920 l'Iraq divenne un protettorato britannico, nonché l'atteggiamento francese anche durante l'ultima guerra.
Cosa ricorda maggiormente della sua permanenza a Baghdad?
Come ho già detto, quando si vive in un Paese dove si sono condivise esperienze e situazioni drammatiche, di esso se ne diventa parte. Al punto che ho finito per sentirmi quasi iracheno con gli iracheni, membro di quelle comunità, dove ho anche conosciuto affetto e stima. Ricordo ad esempio il pomeriggio di domenica 29 gennaio 2006, allorché un'autobomba fu fatta esplodere accanto alla nunziatura. Fu proprio un musulmano il primo a venire e ad assicurarmi che l'indomani avrebbe riparato tutti i danni: "Lo faccio - mi disse - perché lei ha condiviso e condivide con noi tutte queste sofferenze e dunque voglio mostrarle un segno di stima per la sua presenza in mezzo a noi". Il giorno dopo arrivò con trenta operai e riparò i numerosi danni. così che uno sente di essere diventato parte di quella comunità e ne condivide le preoccupazioni e le speranze. Ogni giorno prego per il popolo iracheno e per la sua Chiesa.
Lei, dunque, si sente un po' iracheno...
Senz'altro, e anche per altri motivi. Quando si conoscono un po' le culture mesopotamiche, babilonese, assira, akkadica, per citarne qualcuna ben nota, si scoprono che sono di una bellezza incomparabile. Noi non avremmo avuto il diritto se non ci fosse stato Hammurabi.
Qual è l'atteggiamento verso queste antichissime culture nell'Iraq musulmano?
La cultura islamica è predominante. Ma non manca il desiderio di valorizzare le culture preesistenti e oggi di tutelarle, anche se molto resta da fare, particolarmente per quel che riguarda i tanti siti archeologici. Già i nuovi Governi iracheni hanno cominciato a rendersene conto e ottengono il sostegno di grandi organizzazioni internazionali e di numerosi Paesi. Penso che quando il sistema educativo iracheno potrà funzionare a pieno ritmo, l'Iraq potrà fare molto anche con le proprie forze. Il futuro è nelle mani degli iracheni.
A Baghdad ci sono una quindicina di Chiese cristiane. Come sono i loro rapporti?
I cristiani iracheni fondamentalmente sono cattolici e ortodossi. I loro rapporti sono buoni. La famiglia cattolica è composta di caldei, siri, armeni, latini e melkiti; quella ortodossa da siri, greci e armeni. Quanto agli assiri, sono divisi in due comunità, che fanno capo rispettivamente al patriarca Mar Addai, che vive a Baghdad, e a Mar Dinkha iv, che vive negli Stati Uniti. Ma ci sono anche piccole comunità di protestanti e alcune sette.
E le altre religioni?
Ci sono comunità di mandei, che si richiamano a Giovanni Battista e di yazidi, che professano un sincretismo religioso. Una realtà estinta dagli anni Sessanta, è quella degli ebrei, espulsi al tempo delle guerre arabo-israeliane. Vivevano per lo più nella Mesopotamia settentrionale e hanno lasciato luoghi di grande venerazione anche per cristiani e musulmani: la tomba del profeta Ezechiele, nella regione di Babilonia, del profeta Nahum, ad Alqosh, e del profeta Giona a Ninive. Infine penso a Ur, patria di Abramo, luogo dove la rivelazione del Dio unico e la chiamata a seguirlo ebbero inizio; un luogo caro a tutti: musulmani, ebrei e cristiani.
(©L'Osservatore Romano - 12 agosto)

Iraq: restituite alla Chiesa caldea tre scuole cattoliche


12/08/2009

Il governo iracheno ha restituito tre scuole cattoliche alla Chiesa caldea: si tratta di un episodio che segna un passo importante nelle relazioni tra Chiesa e istituzioni statali. Era, infatti, dagli anni Settanta, dopo la confisca operata dal regime di Saddam Hussein, che questi edifici erano stati sottratti ai legittimi proprietari. Solo adesso, a distanza di quasi quarant'anni, grazie all'intervento del cardinale Emmanuel III Delly, Patriarca di Babilonia dei Caldei, e della buona volontà del primo ministro Nouri Al Maliki, si è giunti a una soluzione della vicenda. "Sono tre scuole nazionalizzate negli anni Settanta dal regime di Saddam Hussein - ricorda il cardinale Delly spiegando a "L'Osservatore Romano" com'è andata - Due si trovano a Baghdad e una a Kerkûk. Sono state restituite alle suore caldee che le gestivano antecedentemente. La restituzione è avvenuta con il vincolo che questi edifici vengano usati per lo stesso scopo che avevano in precedenza e che siano diretti dalle suore o dal patriarcato". "Abbiamo già la disponibilità di queste tre scuole - continua - ma rimane ancora da perfezionare la registrazione a nome delle legittime proprietarie, le suore caldee. Attendiamo questo passaggio burocratico che sancirà la definitiva restituzione". "Molti altri edifici di proprietà della Chiesa caldea sono stati requisiti negli anni di Saddam, ma a tutt'oggi devono esserci resi - conclude il cardinale - per questo stiamo facendo il possibile, affinché ciò avvenga quanto prima". (V.V.)

Mons. Filoni: i cristiani iracheni hanno il diritto di essere rispettati


12/08/2009

In Iraq bisogna dare maggiore spazio alla speranza. “Se fosse persa, non c’è dubbio che la presenza cristiana in breve si estinguerebbe”. E’ quanto afferma l’arcivescovo Fernando Filoni, sostituto della Segreteria di Stato e nunzio apostolico in Iraq dal 2001 al 2006, in un’intervista rilasciata all’Osservatore Romano in occasione della traduzione in francese del libro “La Chiesa nella terra di Abramo”, pubblicato in italiano nel 2006.
Il servizio di Amedeo Lomonaco:
"Il nunzio non è uno spettatore ma è coinvolto dalla realtà ed il Paese in cui si trova un po’ gli appartiene." Sono parole di mons. Fernando Filoni che, ricordando gli anni trascorsi in Iraq, afferma di essersi sentito un iracheno tra gli iracheni. Anche in una terra deturpata dalla guerra e dalle violenze non mancano solidarietà e stima. L’arcivescovo ricorda in particolare un episodio: nel 2006, quando un’autobomba è esplosa accanto alla nunziatura, un musulmano è arrivato con 30 operai per riparare i danni. Il suo contributo – racconta – è stato un tangibile segno di affetto. La decisione di rimanere a Baghdad durante la guerra - spiega poi il presule - è stata una scelta sacerdotale: “Se il pastore fugge nei momenti di difficoltà – afferma mons. Fernando Filoni – si disperde anche il gregge”. Rimanere in Iraq è stato anche un modo “per incoraggiare la Chiesa irachena”. Mons. Filoni si sofferma quindi su vicende storiche millenarie per focalizzare poi la propria attenzione sulla complessità della realtà contemporanea. La popolazione irachena - osserva l’arcivescovo - continua ad essere purtroppo sconvolta da esplosioni e gravi disagi: agli attentati si aggiunge spesso “la penuria d’acqua o della corrente elettrica”. C’è la “difficoltà di trovare lavoro”, “l’inadeguatezza della scuola” e soprattutto “manca la sicurezza”. Ma il futuro – aggiunge - è nelle mani degli iracheni e quando il sistema educativo potrà funzionare a pieno ritmo, “l’Iraq potrà fare molto anche con le proprie forze”. Mons. Fernando Filoni afferma infine che i cristiani, comunità originaria dell’Iraq, hanno “il diritto a vivere e di vivere rispettati nella loro dignità”. Se la comunità cristiana migrasse, il danno culturale e religioso sarebbe “incalcolabile”. "Per questo – conclude l’arcivescovo – "abbiamo il dovere di aiutare i cristiani iracheni” e di “offrire loro una speranza”.

Vatican official: Iraq's Christian community at risk of disappearing


By John Thavis

VATICAN CITY (CNS) -- A leading Vatican official called for greater protection of Iraq's beleaguered Christian minority, saying the disappearance of Christianity from the country would be an enormous religious and cultural loss for everyone. Archbishop Fernando Filoni, who served as the Vatican's nuncio to Iraq from 2001 to 2006, said it was important that Iraqi Christians stem the widespread emigration of their community. That can only happen if they are given a sound basis for hope in the future, he said.
"The authorities must do everything they can so that Christians are a respected and integral part of the life of the country, even if they are a minority," Archbishop Filoni said in an interview Aug. 11 with the Vatican newspaper, L'Osservatore Romano. The Iraqi government meets regularly with church leaders and in theory is committed to protecting Christians, but "this also has to be translated into concrete facts," he said. The archbishop pointed to the recent restitution of three church-run schools as an important step in the right direction. The schools, two in Baghdad and one in Kirkuk, will be run by Chaldean Catholic nuns, who managed them before they were nationalized under Saddam Hussein.
"This seems to be an important signal that offers hope and indicates appreciation for the contribution Christians can give to the future of the Iraqi nation," he said. "Even today, many Muslims remain grateful for the education they received in the Christian schools," he said.Archbishop Filoni said that despite continuing hardships Christians in Iraq should seize on these opportunities and make the most of them. "Isn't this the moment to begin to have a little more trust and optimism, and not allow fear alone to prevail? I think it's time to give more space to hope. If that is lost, there's no doubt the Christian presence would quickly disappear, and that wouldn't help anyone," he said.
If Iraqi Christians continue to emigrate, it won't take long before they'll lose their language, culture and identity -- and it will be lost forever, he said.
The archbishop was realistic about the challenging day-to-day situation in Iraq today. He pointed to repeated bombings and other attacks, water and electrical shortages, high unemployment and a struggling educational system. "One leaves the house and doesn't know if he'll come back. There is always the risk of explosions," he said.
Under these circumstances, it's normal for Christian parents to wonder what kind of life Iraq will offer their children, he said. At the same time, he added, Christians also need to ask themselves whether they want their religious community to survive in Iraq. Archbishop Filoni, who now serves as assistant secretary of state at the Vatican, was the only head of a diplomatic mission to remain in Baghdad throughout the U.S.-led military invasion and for several years afterward. He said he came to feel "almost as an Iraqi" during his mission there.He said Iraq's Islamic community was appreciative of the Vatican's presence during the war. He recalled that when a car bomb exploded near the apostolic nunciature in 2006 about 30 Muslim volunteer workers showed up the next day to help repair the damage. The archbishop, who wrote a book about the history of the church in Iraq, also noted that Christian emigration from Iraq has occurred several times over the last century, provoked by three great crises. The first wave of emigration came with the fall of the Ottoman Empire and the persecution of many thousands of Christians; the second was during the Kurdish uprising of the 1960s, which disrupted life in northern Iraq; and the third was the series of events that included the Iraqi invasion of Kuwait in 1990, Western sanctions against Iraq, and the U.S.-led invasion of Iraq in 2003.

Iraqi Bishop Holds Catholic Mass on COB Basra

Source: Multi-National Division-South

Story by Spc. Darryl L. Montgomery

Date: 08.11.2009

CONTINGENCY OPERATING BASE BASRA, Iraq
A Catholic Mass was celebrated in the Chaldean Rite by the acting bishop of Basra Aug. 8 in honor of the Soldiers serving here. Unlike regular services held for Soldiers here, Bishop Imad Al Banna, a priest and native of Basra, spoke Aramaic, an ancient language spoken in Palestine in the time of Jesus, and still spoken in parts of Iraq. Al Banna, who visited with Multi-National Division – South leaders in early July, led the Catholic service, hosting nearly 50 people in the small room. This was a chance for service members to have fellowship with the leader of the local church here and for the bishop to minister to them, said Capt. Kevin Peek, chaplain, 2nd Battalion, 8th Infantry Brigade, 4th Infantry Division.
"It was a great opportunity to expose our men and women to the local Christian population of Basra Province," Peek added. Peek, an Atlanta native, said the conflicts in Iraq have taken a heavy toll on the Christian population here. Before the war began in 2003, there were a total of 1.2 million Christians in Iraq, now, six years later, that number is down to about 600,000. Christianity has come under persecution throughout these years of violence due to extremist groups targeting them. The Christian population is trying to help make peace throughout the country by helping everyone they can, he said. "I work for all people in Basra, not only Christians," said Al Banna. "Our goal is to create a peaceful coexistence among all religions."
Lt. Col. John Morris, MND–S chaplain, said he commends Al Banna for working through the hardships his religion has faced during the years of Operation Iraqi Freedom. "He is a great example of a good shepherd."
As the service concluded, Al Banna opened himself to the crowd by offering to help with anything he could, just as he does for the people of Basra. For more than an hour after the liturgy, he sat with Soldiers sharing food and posing for pictures. He also said he was grateful to be able to be with the American Soldiers for the Mass and thanked them for what they are doing for his country. "We Catholics believe that the Last Supper was the first Mass and that every Mass that has followed is a reenactment of that first one," said Sgt. Neil McCabe, field historian, 311th Military History Detachment, MND-S. "Tonight, we heard a Mass celebrated in the same language that Jesus used in that first Mass. How cool is that?"
"I will never forget this day," said Sgt. 1st Class Jeff Ulmen, mortuary affairs non-commissioned officer, 34th Infantry Division, and resident of Madelia, Minn. "It was an incredible experience to attend a Mass conducted by an Iraqi bishop, definitely a once in a lifetime opportunity."