"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

29 settembre 2012

400 giovani a Baghdad per l'incontro di preparazione all'Anno della Fede

By Baghdadhope*


Come previsto la partecipazione dei giovani di Baghdad all’incontro di preghiera, conoscenza e preparazione all’Anno della Fede, è stata numerosa. Circa 400 infatti sono stati i partecipanti a quest’incontro svoltosi venerdì 28 settembre nella chiesa caldea del Sacro Cuore.
L’incontro si è concluso con la conferenza tenuta da Padre Albert Hisham intitolata “La porta della Fede, vocazione e missione.”
Presenti in chiesa anche Mons. Shleimun Warduni, vicario patriarcale caldeo, Mons. Ephrem Yousef Abba, vescovo di Baghdad della chiesa siro cattolica e presidente della commissione della gioventù di Baghdad, Don Giorgio, Segretario della Nunziatura Apostolica, Padre Saad Sirop e Padre Nawzat Boutrous.   

400 young in Baghdad for the preparation meeting of the "Year of Faith"

By Baghdadhope*


As expected, the participation of young people of Baghdad to meeting of prayer and preparation for the Year of Faith, has been large. About 400 young faithful gathered for the meeting held on Friday, September 28, in the Chaldean Church of the Sacred Heart.
The meeting was closed by a lecture by Father Albert Hisham entitled "The door of the Faith, vocation and mission."
Present to the meeting were also Bishop Shleimun Warduni, Chaldean Patriarchal Vicar, Bishop Ephrem Yousef Abba, Baghdad bishop of the Syriac Catholic Church and chairman of the youth of Baghdad, Father George, secretary of the Apostolic Nunciature, Father Saad Sirop and Father Nawzat Boutrous.

25 settembre 2012

Libertà religiosa: l'ora di una svolta vera

By Avvenire
by Riccardo Redaelli

L'attentatore suicida che si è fatto esplodere domenica in una chiesa in Nigeria è solo l’anello più recente di una lunga catena di stragi, attentati, intimidazioni, violenze, pressioni. Una catena lorda di sangue ma soprattutto pesante da portare. Come un giogo imposto alle minoranze cristiane in Africa e Asia per indurle a piegarsi alla violenza, a ridurre la loro visibilità, a rinunciare a professare la loro fede a viso aperto. Eppure, per quanto pesante, questo giogo umilia non tanto chi è costretto a portarlo, ma chi cerca di imporlo professando la violenza contro le minoranze religiose nel mondo islamico. O anche solo chi, da quelle violenze, distoglie lo sguardo rimanendo afono – come troppi fanno in Medio Oriente e in Occidente – o si rifugia nelle condanne formali.
Derubricando a fatti locali, vendette private, tensioni tribali, reazioni scomposte a provocazioni quella che invece emerge come una delle emergenze maggiori della politica internazionale contemporanea: la violenza religiosa che tende a cancellare la molteplicità identitaria e che considera la mescolanza di comunità e fedi come un pericolo e non già una ricchezza per gli Stati.
Eppure la storia recente ci ha mostrato come le società del Medio Oriente si isteriliscono in un dogmatismo violento quando rinunciano – o sono costrette a farlo – alla compresenza di più comunità. Basti pensare alle sofferenze vissute per anni dall’Iraq, ove lo scontro senza quartiere fra sciiti e sunniti ha travolto tutte le altre minoranze religiose, dai sabei agli yazidi ai cristiani. Il Paese oggi è più povero culturalmente e socialmente: è come se molti iracheni avessero disimparato a vivere assieme. Quando invece, la base di una società plurale sta proprio nel «desiderio di conoscere l’altro», come ha ribadito efficacemente Benedetto XVI durante il suo viaggio in Libano.
Chi semina l’odio all’interno del mondo islamico non solo non ha questo desiderio, ma addirittura ha l’orrore della diversità, illudendosi che la forza di una società stia nella forzata uniformità, nel dogmatismo che rifiuta l’altro. Una via sbagliata che va contrastata con più decisione dalla comunità internazionale.
Ben venga allora l’ottima iniziativa che si apre il 27 settembre a New York, a margine della riunione plenaria delle Nazioni Unite, su diritti umani e libertà religiosa. Un evento voluto con determinazione dall’Italia e dal nostro ministro degli Esteri, Giulio Terzi, che presiederà, assieme al suo omologo giordano, i lavori, con oltre cento rappresentanti da tutto il mondo.

Non possono esistere diritti umani reali senza libertà religiosa. Ma questa libertà non deve essere solo scritta nelle costituzioni o nelle leggi, si deve tradurre in sicurezza concreta per le comunità religiose minoritarie. In un mondo sempre più interdipendente e osmotico, non devono essere più tollerate non solo la violenza esplicita, ma anche le omesse protezioni, le pressioni indirette contro le minoranze. Di quale libertà si può parlare se non vi è sicurezza? Se il solo fatto di abbracciare una fede minoritaria  – e non pensiamo certo solo ai cristiani – ti espone al pericolo? È questo l’orizzonte a cui deve guardare l’azione politica internazionale: lavorare per isolare chi semina le violenze e rafforzare concretamente le garanzie di tutti i credenti. In ogni parte del mondo e da parte di tutti.
Anche delle comunità musulmane che in Europa rivendicano – giustamente – i loro diritti a vivere pienamente la loro fede. Tuttavia, sembra che le loro voci si sentano con maggior forza quando rivendicano diritti o condannano offese e insulti contro l’islam, mentre risultano molto più flebili – con qualche lodevole eccezione – quando si tratta di condannare le violenze contro le minoranze nei Paesi islamici, o di denunciare le vessazioni di chi viene accusato di apostasia o di aver voluto abbracciare una nuova fede.

From Baghdad, a website in Arabic dedicated to the Year of Faith

By Baghdadhope*

There is less than a month left to 11 October 2012, the day that will mark the beginning of the Year of Faith which will end on November 24, 2013. From the Vatican website dedicated to the event we learn that the starting day was chosen by Pope Benedict XVI to commemorate two important anniversaries: 50 years since the opening of the Second Vatican Council and 20 since the promulgation of the Catechism of the Catholic Church.
In the site there is everything the faithful need to attend the event, spiritually and materially, from Benedict XVI’s apostolic letter of promulgation of the Year of Faith, to documents and a list of the related events. All in Italian, English and Spanish.
The Iraqi faithful and in general the Arabic speaking one can then know everything about this important event but will also improve their knowledge by reading another web site created, as explained on its home page, by the Catholic clergy in Baghdad.
The site, called "بغداد الإيمان" Baghdad Al Īmān, which literally means "Baghdad of the Faith" is led by a committee, commissioned by the Council of Catholic Bishops, and is chaired by the Syriac Catholic bishop of Baghdad, Ephrem Yousef Abba, and managed by nuns, priests and lay people who also have the task of organizing the various events associated with the Year of Faith.
On September 10 the Committee gathered to fix some of the most important dates to spiritually unite the Iraqi Christian community to that of the whole world: the opening of the Year of Faith will be celebrated on October 12 with a Mass in the Chaldean Cathedral of Saint Joseph while the closing Mass will be held on November 22, 2013, in the Armenian Catholic Cathedral of Our Lady of the Flowers. In this same church on December 14 there will be a concert that will be repeated on April 19, 2013, in the Syriac Catholic Church of Mar Benham. On the occasion of the Week of Prayer for Christian Unity on January 18, 2013 there will be an ecumenical meeting in the Syriac Catholic Church of Our Lady of Salvation, the church that in 2010 was the scene of the most horrendous massacre of Christians in Iraq. A prayer meeting will be held on March 21 in the Latin Church of St. Joseph while, this time in the Chaldean church dedicated to the same saint, from 26 to 28 September 2013 there will be a conference dedicated to the catechists that will have as its central subject the “Year of Faith” and will be organized by the Commission of the Catechism of Baghdad.

Already on September 28, however, the Iraqi faithful will begin a path of preparation for the event and they will do it by addressing to the young, hope of the future. That day, in the Chaldean Church of the Sacred Heart there will be a prayer meeting that will end with a conference held by the Chaldean parish priest of St. Paul's Church, Father Albert Hisham, entitled: "The Door of Faith: vocation and mission".


Baghdadhope asked to Father Hisham about the subject of his report and whether he thinks if and how the stated aim of the Year of Faith as expressed by the President of the Pontifical Council for Promoting the New Evangelization, Mgr. Rino Fisichella, “to support the faith of believers who, in their daily trials, never cease to entrust their lives to the Lord Jesus, with courage and conviction" will touch the Iraqi Christian community.
"The difficulty in believing in Iraq and throughout the Middle East is different from that felt in Europe,"
said Father Hisham, "we have to deal mainly with the challenge of emigration as a result of political and social changes; the emigration that threatens to empty the region of its Christians.
Therein lies the importance of the Year of Faith in Iraq: to try to strengthen the faith of its Christian keeping it alive so that it can light up the Iraqi society. In a country that has changed so fast like Iraq we must go back to seek the help of faith, the source of our life, and try to live it in spite of the many difficulties that we face every day. We hope and we are confident that the Year of Faith will help us in this return to that source."

Da Baghdad un sito in arabo dedicato all'Anno della Fede

By Baghdadhope *

Neanche un mese manca all’11 ottobre del 2012, il giorno che segnerà l’inizio dell’Anno della Fede che si concluderà il 24 novembre del 2013. Dal sito che il Vaticano ha dedicato all’evento si apprende che il giorno di inizio è stato scelto da Papa Benedetto XVI per ricordare due importanti anniversari: i 50 anni trascorsi dall’apertura del Concilio Vaticano II ed i 20 dalla promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica.
Il sito raccoglie tutto ciò che serve al fedele per partecipare all’evento, spiritualmente e materialmente: dalla lettera apostolica “Porta Fidei” con la quale Benedetto XVI ha indetto l’Anno della Fede, a documenti e lista degli eventi correlati.  Il tutto in italiano, inglese e spagnolo.
I fedeli iracheni, e quelli in generale di lingua araba, potranno quindi sapere tutto di questo importante evento, ma potranno approfondire le loro conoscenze anche con la lettura di un altro sito curato, come è spiegato nella home page, dal clero cattolico di Baghdad.
Il sito, che  si chiama "بغداد الإيمان" Baghdad al Īmān, che letteralmente significa “Baghdad della Fede” è guidato da una commissione, voluta dal Consiglio dei Vescovi cattolici, che ha a capo il vescovo siro cattolico di Baghdad, Mons. Ephrem Yousef Abba, ed alla quale partecipano suore, sacerdoti e laici che hanno anche il compito di organizzare i diversi eventi legati all’Anno della Fede.
Il 10 settembre la commissione riunita ha ad esempio fissato alcune delle date più importanti per unire spiritualmente la comunità irachena cristiana a quella del mondo intero: l’apertura dell’Anno della Fede sarà celebrata il 12 ottobre con una santa messa nella cattedrale caldea di San Giuseppe mentre la sua chiusura sarà celebrata il 22 novembre 2013 con la santa messa nella cattedrale armeno cattolica di Nostra Signora dei Fiori. In questa stessa chiesa si svolgerà, il 14 dicembre, un concerto che sarà  replicato il 19 aprile 2013 nella chiesa siro cattolica di Mar Benham. In occasione della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani il 18 gennaio 2013 si terrà un incontro ecumenico nella chiesa siro cattolica di Nostra Signora della Salvezza, la chiesa che nel 2010 fu teatro della più orrenda strage di cristiani in Iraq. Un incontro di preghiera si svolgerà il 21 marzo nella chiesa latina di San Giuseppe mentre, questa volta nella chiesa caldea dedicata allo stesso santo si terrà, dal 26 al 28 settembre 2013, una conferenza dedicata in particolare ai catechisti che avrà come tema centrale proprio l’anno della fede e che sarà organizzata dalla Commissione del Catechismo di Bagdad.  

Già il 28 settembre però i fedeli iracheni inizieranno un cammino di preparazione all’evento e lo faranno rivolgendosi ai giovani, speranza del futuro. Quel giorno, nella chiesa caldea del Sacro Cuore si terrà infatti un incontro di preghiera e conoscenza che si concluderà con una conferenza tenuta dal parroco caldeo della chiesa di San Paolo, Padre Albert Hisham, dal titolo: “La porta della fede: vocazione e missione”.Baghdadhope ha chiesto a Padre Hisham del contenuto del suo intervento e se pensa se e in che modo l’obiettivo dichiarato dell’Anno della Fede,  così come ricordato dal presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, mons. Rino Fisichella, cioè quello di sostenere la fede di tanti credenti che nella fatica quotidiana non cessano di affidare con convinzione e coraggio la propria esistenza al Signore Gesù” possa raggiungere la comunità irachena cristiana.

“La difficoltà nel credere in Iraq ed in tutto il Medio Oriente è differente da quella avvertita in Europa" ha risposto Padre Hisham, "noi dobbiamo confrontarci soprattutto con la sfida dell’emigrazione come conseguenza dei cambiamenti politici e sociali; emigrazione che rischia di svuotare la regione dei suoi cristiani.
In ciò sta l’importanza dell’Anno della Fede in Iraq: cercare di rinsaldare la fede dei suoi cristiani mantenendola viva in modo che possa illuminare la società irachena. In un paese che ha subito cambiamenti così veloci come l’Iraq bisogna tornare a chiedere l’aiuto della fede, fonte della nostra vita, e cercare di viverla nonostante le tante difficoltà che affrontiamo ogni giorno. Speriamo e siamo fiduciosi che l’Anno della Fede ci aiuti in questo ritorno alla fonte.
 

Al Teatro Nazionale di Bagdad si suona per la pace

By Father Albert Hisham
for Baghdadhope

Il Ministero della Cultura iracheno in collaborazione con il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) ha organizzato al Teatro Nazionale di Baghdad, venerdì 21 settembre, un concerto musicale del famoso musicista iracheno Naseer Shamma che ha suonato il liuto accompagnato da musicisti iracheni ed egiziani e dal coro "Ritmi della Vita". 
Il concerto, che ha celebrato la Giornata Mondiale della Pace, ha voluto richiamare l’attenzione sulla necessità della pace per la città di Bagdad e per tutto l'Iraq.
All'inizio del concerto, il ministro della cultura iracheno, Dr. Sadoon Al-Dulaimi, è intervenuto ricordando come Bagdad abbia perso la pace da trent’anni a questa parte: la pace spirituale e la pace sociale. Egli ha quindi incoraggiato i presenti, soprattutto i giovani, a portare il bene e non il male nella società perché Baghdad torni ad essere, come è sempre stata in passato, la città della pace.
La presenza al concerto di un pubblico numerosissimo ha testimoniato in modo chiaro la sete di pace della gente ed il desiderio di ritrovarla attraverso l’autentica musica irachena che ha riportato alla mente di tutti antichi ricordi di Baghdad.

Naseer Shamma, è un liutista iracheno molto famoso non solo in Iraq ma in tutto il mondo. Nato a Kut (sud dell'Iraq) nel 1963, ha studiato musica in Iraq e ha terminato gli studi nel 1987. Da 13 anni vive in Egitto.

24 settembre 2012

Parla il Vescovo di Aleppo: "Apro la mia casa a chi scappa dalla guerra"

By Tracce.it
di Gian Micalessin

24/09/2012 - La rinuncia a vedere il Papa, la paura dell'ignoto e la "lontananza" dell'Europa.
Antoine Audo non viaggia da mesi per restare con il suo popolo. Qui racconta la Siria dei cristiani, dove la fede è davvero «questione di vita o di morte»

I ragazzini inseguono il pallone. Le famiglie riunite intorno ai tavoli del porticato dividono i dolci fatti in casa, discutono di politica e guerra, condividono le proprie paure. Lui legge seduto ad un tavolo di fronte all’ingresso. A tratti sfoglia un libro di filosofia religiosa, a tratti ascolta i fedeli che gli si stringono attorno per chiedergli consigli e pareri.
Dall’inizio della guerra Antoine Audo, sessantasette anni, vescovo cristiano caldeo di Aleppo, passa così le sue serate. «Cerco di stare vicino ai miei fedeli, di tenere insieme la comunità. Ogni sera, alle sei, apro la porta del vescovado e accolgo tutte le famiglie. Voglio ricreare l’idea di una comunità in grado di lottare e rafforzarsi nelle avversità. Io e molti altri vescovi cristiani», spiega in questa intervista esclusiva a Tracce.it, «non siamo andati in Libano ad incontrare il Papa. Gli abbiamo scritto una lettera, gli abbiamo spiegato quanto avremmo voluto esserci, ma anche quanto importante è stare vicino ai fedeli in questo momento per dare loro un segnale di solidarietà. Il Papa ha capito ed apprezzato».
Quali sono i problemi più gravi per i cristiani?
In questo momento, quelli pratici. Siamo prigionieri di questa città. L’unico modo per uscire è prendere l’aereo. Le strade sono pericolose, battute da gruppi fuori controllo che attaccano, rapiscono e impongono riscatti. Io da tre mesi non viaggio più, sto al fianco del mio popolo.
Quali sono le paure?
Qui nel quartiere di Azizia non c’è paura. Viviamo tutti assieme, ma le voci giunte dalle zone dove sono presenti i ribelli armati sono assai preoccupanti. Hanno distrutto palazzi, commesso violenze di ogni tipo, lasciato cadaveri nelle strade. Ce lo raccontano gli sfollati, quelli che abbandonano le proprie case per cercar rifugio qui da noi. Noi cristiani siamo in prima linea nell’aiutarli e il centro della Caritas coordinato da questo vescovado distribuisce aiuti a tutti.
Voi cristiani siete accusati di esser vicini al governo…
Non penso sia vero. Molti cristiani militano nell’opposizione, abbiamo studenti ed intellettuali che chiedono il cambiamento. In generale, tutti noi vogliamo una maggior partecipazione politica.
Ma vi fidate dei ribelli?
Temiamo l’ignoto. Vorremo conoscere i programmi di questi gruppi armati, le loro intenzioni, i loro capi. Non badiamo alle ideologie, siamo molto pratici anche perché da 2000 anni lottiamo per sopravvivere e convivere con i musulmani. Non puntiamo al potere e non cerchiamo la ricchezza. Per questo tutti ci rispettano. Vogliamo solo il bene comune della Siria.
Il fondamentalismo, però, vi fa paura…
Certo che ci fa paura, però cerchiamo di non sottolinearla, di non dimostrarla. Qui in Medio Oriente bisogna affrontare i problemi parlandone con molta cautela. È una questione di rispetto nei confronti dei musulmani.
L’Europa chiede la deposizione di Assad e appoggia apertamente i ribelli. Vi sentite compresi?
L’Europa sembra aver scordato o non voler più prendere in considerazione il problema della presenza storica cristiana in Siria e Medioriente. Sembra poco interessata alla nostra cultura e al dialogo con noi. I suoi interessi sembrano focalizzati soltanto sui problemi dell’economia e della sicurezza. Non vi sentiamo vicini, non percepiamo in voi europei la dimensione di una fede comune.
Pensate che abbiamo perduto il senso delle nostre radici?
Abbiamo quest’impressione. Non vorrei generalizzare, ma chi vi governa sembra pensare solo ad interessi materiali. Da voi la religione sembra condannata a restare in secondo piano. Parlate solo dei vostri interessi. Noi nonostante siano passati 2000 anni, continuiamo ad esser fedeli al Vangelo e a combattere per Cristo. La nostra fede non si può comprare o lasciare. Qui la fede è questione di vita e morte.
La visita del Papa è servita a qualcosa? E riuscito a risvegliare l’Europa?
Il Papa è stato il primo a sottolineare questi aspetti e ad esprimere la necessità per i cristiani di continuare a vivere assieme.
I cristiani di Siria rischiano di finire perseguitati e minacciati come quelli d’Iraq?
La Siria non è ancora l’Iraq. Non c’è ancora il rischio della fuga e dell’emigrazione. La mancanza di stabilità, le minacce, le violenze rendono però molto difficile la presenza cristiana. Già ora molti fuggono in Libano. Da vescovo caldeo che ha accolto migliaia di fedeli iracheni perseguitati, mi auguro veramente non finisca nella stessa maniera. Prego perché non succeda anche qui.
La soluzione è un cambio drastico di regime come chiesto dall’Occidente?

No. C‘è bisogno di gradualità, di un cambiamento basato sul dialogo e non sulle armi. Solo così potremo conquistarci un po’ di libertà.

22 settembre 2012

Kirkuk, giovani cristiani lanciano una giornata di digiuno per la pace, dopo una bomba davanti alla cattedrale

by Joseph Mahmoud

Almeno 150 giovani, più altri fedeli, hanno speso la giornata di oggi in preghiera e digiuno per sconfiggere la violenza, dopo che una bomba è esplosa davanti alla cattedrale caldea.
Domenica scorsa, 16 settembre , un ordigno nascosto in una busta è esploso alle 20.45  davanti alla porta della cattedrale di Kirkuk,  mentre Benedetto XVI concludeva la sua visita in Libano.  L'arcivescovo caldeo, mons. Louis Sako, era a Beirut per ricevere dalle mani del papa l'esortazione apostolica Ecclesia in Medio Oriente. La visita del pontefice in Libano è avvenuta in concomitanza con diverse tensioni nel mondo islamico, causate dalla diffusione di un film anti-islam, ritenuto blasfemo nei confronti di Maometto.
L'esplosione davanti alla cattedrale caldea  ha causato solo danni materiali.  Siccome il 21 settembre è la Giornata internazionale della pace, un gruppo di giovani ha lanciato l'iniziativa di un digiuno tutta la giornata di oggi, giorno di vacanza in Iraq, per chiedere pace nella città  di Kirkuk e in tutto il Paese. La giornata ha avuto anche momenti di preghiera. Parlando ai giovani, l'arcivescovo ha sottolineato che la Chiesa in Iraq vive quanto afferma san Paolo: "Siamo tribolati, ma non schiacciati" (2 Cor 4,8). E ha apprezzato l'idea di unire preghiere e digiuno, secondo l'insegnamento del Vangelo, in cui Gesù dice che certi demoni "non si scacciano se non con la preghiera e il digiuno" ( cfr Matteo 17.20).  I 150 giovani, insieme ad altri fedeli hanno concluso la giornata partecipando tutti insieme all'eucaristia.

Kirkuk, young Christians hold day of fasting for peace after a bomb attack on cathedral

by Joseph Mahmoud

At least 150 young people, joined by other faithful, spent today in prayer and fasting to overcome violence, after a bomb exploded in front of the Chaldean cathedral.
On Sunday, September 16, a bomb hidden in a bag exploded at 20.45 at the door of the Cathedral of Kirkuk, while Benedict XVI concluded his visit to Lebanon. The Chaldean archbishop, Msgr. Louis Sako, was in Beirut to receive from the pope's hands the apostolic exhortation Ecclesia in Medio Oriente. The Pope's visit to Lebanon coincided with widespread tension in the Islamic world, resulting from an anti-Islam film, deemed blasphemous against Muhammad.
The explosion in front of the Chaldean cathedral caused only material damage. Since September 21 was appointed an International Day of Peace, a group of young people launched day of fasting on Saturday, a holiday in Iraq, asking for peace in the city of Kirkuk and across the country. The day also had moments of prayer. Speaking to young people, the archbishop said the Church in Iraq, is according to the word's of St Paul: "... afflicted, but not crushed" (2 Cor 4:8). And he praised the idea of combining prayer and fasting, according to the teaching of the Gospel, in which Jesus says that some demons "can not be driven out except by prayer and fasting" (cf. Matthew 17:20). The 150 young people, together with other believers ended the day by participating in the Eucharist together.

20 settembre 2012

Sunsets and the printer of Amman

by Paolo Martino

Amman is the capital of a Country hovering between remaining faithful to a pro-Western monarchy and the shock wave of the Arab Spring. A community of three thousand Armenians, a small star in the firmament of the diaspora, lives and survives the contradictions of the Middle-East. The eleventh episode of our report “From the Caucasus to Beirut”
‘There is a moment, just before sunset, when the sky of Baghdad turns so red, you just have to look at it. Every day, it’s the same thing. I was born and raised in Baghdad, but I never got used to that light”. Sevag is dozing with his elbow on the less dusty mimeograph in his typography. An Armenian flag is hanging still over his head, greasy and tired. Just like him. ‘Ten years have passed, since I ran away’. For a second, the printer’s eyes are crossed by a vital energy. ‘I would go back just to fill my eyes with one of those sunsets. But then…’ he dozes off again ‘I would leave again. There is no future for us Armenians in Iraq ’.

Jordan, a month before Christmas. The steep paths of Jabal Ashrafieh, the ‘Panoramic Hill’, are dotted with paper wreaths and colored lights. Door to the Southern Arabic deserts, root of the Bedouin dynasties, Amman is the capital of a Country hovering between remaining faithful to a pro-Western monarchy and the shock wave of the Arab Spring. A community of three thousand Armenians, a small star in the firmament of the diaspora, lives concentrated in the neighborhoods where the majority of people are Christian, way up high, where the echo of the demonstrations that fill the streets of the center every Friday is muffled.
‘Before the Americans came, Iraq was a quiet Country’. Sevag’s typography is open, but to get in, one needs to crouch under the rusty shutter. ‘The early bombings were a nightmare. But we Armenians stayed, we didn’t want to leave our homes’. Until the Second Gulf War, Iraq hosted a community of 25.000 Armenians, descendants of the genocide survivors. ‘The civil war, though, did not leave us a way out. Car bombs, attacks, abductions. When I got to Jordan, I continued doing the only thing I knew how to do, the printer. But business is not going well. My only hope is to get a visa for Canada’. Out of the 2 million of Iraqi refugees to Syria and Jordan after 2003, 5.000 are Armenians. ‘It’s always like that, you see’, Sevag strokes his stubble, ‘in war, it is the minorities who pay the highest price’.


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The sky is a blinding blue. On the horizon, beyond the stretch of houses assaulting the seven hills of Amman, the desert impends like a sense of foreboding. A clear ocher universe, where only the Bedouins remain standing. On the top of Jabal Ashrafieh, in the shadow of the wall surrounding the intimacy of an Armenian church, a Christmas open market where people keep coming and going. Hagop, former president of the Armenian Club of Amman, welcomes a foreign reporter with respect. ‘The arrival of the Armenian refugees, almost a hundred years ago, was a blessing for the Jordanian monarchy. Our fathers brought new trades, technology, culture. As of today, the majority of the goldsmiths, photographers and craftsmen in Amman are indeed Armenian’. The pledged loyalty of the newcomers to the royal family was sealed when they were granted citizenship, which elevated the status of a group of refugees to that of fully-fledged members of the community.
‘During the years, the community has had highs and lows. In the ‘50s, many crossed Syria to settle in Lebanon, a Country that offered great opportunities. At the time, it was called the Switzerland of the Middle-East’. Twenty years later, those same families were forced by the Lebanese civil war to return to Jordan, refugees for the second time in two generations.
‘I remember it as if it were yesterday. Puzzled faces getting off huge American cars with the Beirut plate, filled with suitcases. Many left soon, for the United States, Africa or South America’. Another migration, another brick in the multi-faceted identity of the children of the Armenian diaspora.
The market is about to shut. While holding a cup of tea and watching the sun getting ready to fall beyond the desert, the atmosphere in the church courtyard becomes more intimate. ‘Syria will be a carnage, trust me. Worse than Lebanon, worse than Iraq. There is something bigger at stake’. As if everything that has been said up till now were only an introduction, a formality prolog, the conversation violently veers to the subject that hovers over this land and these people with the weight of a bolder. ‘This time, the United States have found a truly brilliant way to destabilize the Middle-East, they didn’t even have to drop a single bullet. They directly armed the Syrians against their own government. And the government is compelled to respond to the fire’.
The theory that behind the Syrian Spring lies an external interference is common, especially among those who perceive change as a leap in the dark, who feel vulnerable outside of the existing balance.
‘But civilians are being massacred. A government should protect their citizens’. Hagop responds coldly. ‘Why?’, he asks without even waiting for an answer, ‘Did the Ottoman government defend its Armenian citizens in 1915?’

I tramonti e il tipografo d'Amman

by Paolo martino

Amman è la capitale di un paese in bilico tra la fedeltà a una monarchia filo occidentale e l'onda d'urto della Primavera araba. Una comunità di tremila armeni, piccolo astro nel firmamento della diaspora, vive e sopravvive alle contraddizioni del Medioriente. L'undicesima puntata del reportage "Dal Caucaso a Beirut"
“C'è un momento, poco prima del tramonto, in cui il cielo di Baghdad diventa così rosso che devi guardarlo per forza. Ogni giorno la stessa storia. Io ci sono nato e cresciuto, eppure non mi sono mai abituato a quella luce”. Sevag sonnecchia col gomito appoggiato al ciclostilo meno impolverato della sua tipografia. Una bandierina armena pende immobile sulla sua testa, unta e stanca come lui. “Sono passati dieci anni da quando sono scappato”. Per un istante lo sguardo del tipografo è attraversato da un'energia vitale. “Tornerei laggiù solo per riempirmi di nuovo gli occhi con uno di quei tramonti. Ma poi”, torna a sonnecchiare, “andrei via di nuovo. Per noi armeni non c'è futuro in Iraq”.

Giordania, un mese prima di Natale. I viottoli ripidi di Jabal Ashrafieh, la “Collina del Panorama” sono punteggiati da ghirlande di carta e luci colorate. Porta dei deserti arabici del sud, radice delle dinastie beduine, Amman è la capitale di un paese in bilico tra la fedeltà a una monarchia filo occidentale e l'onda d'urto della Primavera araba. Una comunità di tremila armeni, piccolo astro nel firmamento della diaspora, vive concentrata nei quartieri a maggioranza cristiana della città, in alto, dove l'eco delle manifestazioni che ogni venerdì riempiono le strade del centro arriva smorzato.
“Prima che arrivassero gli americani, l'Iraq era un paese tranquillo”. La tipografia di Sevag è aperta, ma per entrare bisogna chinarsi sotto la saracinesca arrugginita. “I bombardamenti delle prime settimane furono un incubo. Noi armeni però siamo rimasti, non volevamo abbandonare casa nostra”. Fino alla seconda guerra del Golfo, l'Iraq ospitava una comunità di venticinquemila armeni, discendenti dei sopravvissuti al genocidio. “La guerra civile però non ci ha lasciato scampo. Autobombe, attentati, rapimenti. Arrivato in Giordania ho continuato a fare l'unica cosa che so fare, il tipografo. Ma gli affari non vanno, ormai spero solo nel visto per il Canada”. Tra i due milioni di rifugiati iracheni arrivati in Siria e Giordania dopo il 2003, circa cinquemila sono armeni. “E' sempre così,” Sevag si passa la mano sulla barba ispida, “in guerra sono le minoranze a pagare il conto più salato”.

L'intero reportage 

Il blu del cielo è accecante. All'orizzonte, oltre la distesa di case che aggredisce i sette colli di Amman, incombe come un presentimento il deserto, l'universo ocra e limpido dove solo i beduini sanno stare in piedi. Sulla sommità del Jabal Ashrafieh, all'ombra di un muro che cinge l'intimità di una chiesa armena, un mercatino natalizio richiama un viavai di persone. Hagop, ex presidente del Club armeno di Amman, accoglie con rispetto la visita di un giornalista straniero. “L'arrivo dei profughi armeni, quasi cento anni fa, fu una benedizione per la monarchia giordana. I nostri padri portarono mestieri nuovi, tecnologia, cultura. Ancora oggi la maggior parte degli orafi, dei fotografi, degli artigiani di Amman sono armeni”. La fedeltà eterna dei nuovi arrivati alla famiglia reale fu sigillata dall'assegnazione della cittadinanza, che innalzò lo status di un gruppo di profughi a quello di membri a pieno titolo della comunità.
“Nel tempo la comunità ha avuto alti e bassi. Negli anni '50 molti attraversarono la Siria per stabilirsi in Libano, un paese che offriva grandi opportunità. All'epoca lo chiamavano la Svizzera del Medio Oriente”. Vent'anni dopo quelle stesse famiglie furono costrette dalla guerra civile libanese a rientrare in Giordania, profughi per la seconda volta in due generazioni.
“Lo ricordo come fosse ieri. Enormi macchine americane con la targa di Beirut, piene di bagagli, da cui scendevano facce disorientate. Molti ripartirono subito, per gli Stati Uniti, per l'Africa o per il sud America”. Ancora una migrazione, ancora un tassello nella poliedrica identità dei figli della diaspora armena.
Intanto il mercatino sta per chiudere. Davanti a un tè, mentre il sole si prepara a cadere oltre il deserto, l'atmosfera nel cortile della chiesa si fa più intima. “La Siria sarà una carneficina, credimi. Peggio del Libano, peggio dell'Iraq. In ballo c'è qualcosa di ancora più grande”. Come se quanto detto finora fosse stato solo una premessa, un prologo di formalità, il discorso vira violentemente sull'argomento che aleggia su questa terra e queste persone col peso di un macigno. “Gli Stati Uniti stavolta hanno trovato un sistema geniale per destabilizzare il Medio Oriente, non hanno dovuto sparare neanche un colpo. Hanno armato direttamente i cittadini siriani contro il loro governo. E il governo è costretto a rispondere al fuoco”.
La teoria che dietro alla Primavera siriana ci sia una ingerenza esterna è comune, soprattutto tra chi percepisce il cambiamento come un salto nel vuoto, chi si sente indifeso al di fuori degli equilibri esistenti. “Ma ci sono in atto massacri di civili. I governi dovrebbero proteggere i loro cittadini.”
La reazione di Hagop alla mia frase è gelida. “Perché”, chiede senza neanche aspettare la risposta, “il governo ottomano nel 1915 difese i suoi cittadini armeni?”.

18 settembre 2012

Il mondo ha dimenticato l'Iraq?

by Roberto Catalano

Incontro monsignor Shlemon Warduni, ausiliare dei caldei a Baghdad, al Cairo in occasione di un convegno ecumenico di vescovi di 22 Chiese *. L’ho visto in molte altre occasioni e mi ha sempre colpito il suo tratto gentile e delicato. In questi giorni, spesso, l’ho visto accompagnare un confratello vescovo che ha difficoltà a spostarsi. Lo fa con discrezione, ma è sempre attento all’incedere affaticato dell’altro: un segno reale e concreto del servizio che il vescovo è chiamato a vivere come suo ministero. Chiaccherando con lui, mi sorprende il pensiero che il mondo abbia abbandonato l’Iraq e gli giro la domanda, quasi a bruciapelo. Iniziamo un’intervista che lui accoglie con piacere.
L’Iraq non fa più notizia….

«È vero! Pare proprio che il mondo abbia dimenticato l’Iraq. Ma questa è l’abitudine degli uomini, che cercano sempre avvenimenti clamorosi. Si sente parlare dell’Iraq o se ne legge solo quando ci sono esplosioni con centinaia di morti o, almeno, con qualche decina di vittime oppure, ancora, quando ci sono grandi sciagure. Nessuno si interessa delle cose piccole, quelle di tutti i giorni. In Iraq le ostilità sono diminuite, ma non sono cessate del tutto. Anzi, non passa giorno senza un atto terroristico dove qualcuno resta ucciso o, perlomeno, senza assistere all’esplosione di un ordigno».
 
Com’è attualmente la vita quotidiana?

«Non è tranquilla. Non c’è ancora una pace sicura e nemmeno una sicurezza stabile. Certamente la situazione è migliorata e continua a migliorare, ma la gente aspetta che cessino del tutto le ostilità. Ciò che tutti desiderano è una vera riconciliazione nazionale. E questo è un punto di arrivo ancora lontano. Infatti, non abbiamo ancora un governo stabile e continuano le discordie fra diversi gruppi. La gente, tutti noi, ci aspetteremmo una concordia che dia stabilità e che possa essere duratura senza interessi personali o del proprio gruppo religioso o politico».
 
Quando parla di tensioni, si riferisce a contenziosi politici, sociali, religiosi?

«Oggi, le tensioni in Iraq sono di tutti i tipi. Ci sono tendenze diverse sia a causa dell’appartenenza religiosa che dell’affiliazione politica. Tutti vorrebbero controllare i vari gruppi politici. Ciascuno vorrebbe avere tutta la torta per sé, anche se questo significa lasciare morire di fame gli altri. Prendiamo la questione del lavoro. I posti che sono disponibili vengono distribuiti a quelli del proprio schieramento politico, della propria comunità religiosa o del gruppo sociale di appartenenza».
 
Oggi c’è da mangiare in Iraq?

«C’è da mangiare, certamente. D’altra parte, c’è anche una diversa possibilità di acquisto degli alimenti. Intere sezioni della popolazione, per esempio, non possono permettersi di avere tutto ciò che desidererebbero: costa troppo caro».
 
La classe politica si sta ricostituendo dopo anni di dittatura e di guerra?

«È molto difficile dirlo, perché, come accennavo, manca la stabilità politica che permetta di vederci chiaro. Inoltre, la situazione è molto fluida e molti cambiano costantemente direzione o affiliazione politica».
 
I cristiani come si collocano in questo panorama?

«In genere, i cristiani non sono mai intervenuti nella vita politica del Paese e, quindi, non erano preparati a questa fase. Inoltre, non esisteva la libertà politica o di pensiero, ma solo la linea politica del partito Ba‘th. In tempi recenti alcuni cristiani, incoraggiati anche dalla Chiesa, hanno cominciato a fare qualcosa in ambito politico. D’altra parte, si tratta di persone inesperte, anche se  la Chiesa favorisce questo loro impegno come laici. A questo bisogna aggiungere che la maggioranza degli altri partiti è religiosa e l’atteggiamento di base non è quello della concordia, ma dello scontro dei vari gruppi, l’uno contro gli altri. Questo è causa di preoccupazione perché esiste il pericolo reale di perdere tutto. La Chiesa attualmente è impegnata a incoraggiare l’impegno dei cristiani a unire le varie forze per poter ottenere e realizzare qualcosa di concreto e di positivo per la comunità cristiana».
 
In generale, la comunità cristiana come si sente oggi nel Paese?

«Ho detto della situazione generale che è tutt'altro che sicura. Questo spinge ad andare altrove per trovare un posto adatto alla propria famiglia, al futuro dei figli e, soprattutto, dove si possano vivere ed esprimere le proprie convinzioni religiose. L’emigrazione è ormai diventata una malattia e si tratta di qualcosa di contagioso e pericoloso, perché non fa pensare alle proprie tradizioni e alla ricchezza della nostra storia passata. Direi che oggi anche il feto nel grembo materno pensa già ad emigrare».
 
Monsignor Warduni, cosa direbbe ancora dal profondo del cuore?

«Desidero rivolgermi al mondo, per dire: "Unite le forze per incoraggiare la pace!". Desidererei vedere i diritti umani realizzati per tutti e senza discriminazione di alcun tipo. Mi rivolgo anche ai cristiani nelle varie parti del globo. Seminate la cultura dell’amore e del dialogo per percorrere la strada che porta alla pace. E poi sono convinto che il mondo dovrebbe condannare le fabbriche di armi, soprattutto quelle nucleari».

17 settembre 2012

Cristiani iracheni controcorrente

By Zenit, 15 settembre 2012
di Rodolfo Casadei


Negli ultimi anni i cristiani iracheni che non sono fuggiti all’estero si sono trasferiti in massa da Baghdad, Bassora e Mosul ai villaggi della Piana di Ninive o in Kurdistan, dove la sicurezza è garantita dai soldati curdi (formalmente una componente dell'esercito iracheno, di fatto al servizio del governo regionale del Kurdistan dominato da due partiti, Pdk e Puk).
Ora a ritmo più cadenzato anche quelli reinsediati nel nord attraversano il confine con la Turchia, e da lì nel giro di qualche anno emigrano in Europa o in America. Ma ci sono tanti che resistono e c’è anche chi percorre il cammino all’incontrario. Come abbiamo ricordato all'inizio in tutto l’Iraq restano circa 350 mila cristiani, e di questi nella sola capitale 150 mila; del tracollo di Mosul s’è detto. Invece sono lievitate le diocesi del Kurdistan e le cittadine della Piana di Ninive, che complessivamente hanno raddoppiato la popolazione cristiana da 40 mila a 80 mila unità, mentre la diocesi di Dohuk-Zakho è diventata la seconda del paese sfondando probabilmente quota 100 mila.
Anche Erbil, dove sono stati trasferiti il seminario interdiocesano e la facoltà teologica, ha visto un boom di immigrazione cristiana: il quartiere a maggioranza cristiana di Ankawa ha visto raddoppiare il numero delle famiglie da 2 mila a 4 mila. Nella piana di Ninive i cristiani hanno rafforzato le maggioranze, a volte schiaccianti, che avevano in tutte le cittadine con l’eccezione di Tel Qaif, la località di cui è nativo il patriarca Emmanuele Delly III: qui i cristiani da maggioritari che erano sono scesi al 30 per cento, e i loro sacerdoti sono emigrati tutti negli Usa tranne uno.
Ma è proprio qui che incontriamo Samira, un’anziana signora che è tornata dopo cinque anni trascorsi a Detroit per assistere le tre nipoti, rimaste orfane dopo la morte di sua figlia. Vive nella casa del genero, che non si è risposato: «Per me», dice, «qui o in America è la stessa cosa: non uscivo di casa là e non esco nemmeno qua».
«Vivere un solo giorno in Iraq vale più che vivere tutta la vita in America»,
sentenzia Yohannes, il genero rimasto vedovo. Un massiccio cinquantenne che sussulta di orgoglio. Lui non si è accodato alla colonna dei richiedenti asilo, né ha sfruttato la sua posizione di parente di una famiglia che era già stata accolta negli Usa. Avrà avuto le sue ragioni personali per farlo, ma non sottovalutate mai il senso dell'onore della gente di queste parti. Mostrarsi coraggiosi e comportarsi di conseguenza è fondamentale per essere rispettati dalla comunità in cui si vive.  Ci si arrende agli abusi dei prepotenti solo se non è possibile fare diversamente, si va via solo se la sussistenza materiale diventa impossibile.
All'estremità settentrionale della Piana di Ninive, dove la pianura incontra i monti Bayhidhra, si distende Alqosh, che qualcuno soprannomina “il Vaticano dell'Iraq”.
Qui infatti sorge il monastero di Sant'Ormisda, dove a metà del Cinquecento la maggioranza dei cristiani assiri decise di ricongiungersi con la Chiesa di Roma, e sempre qui hanno avuto la loro sede sia patriarchi in comunione con Roma che patriarchi della Chiesa assira orientale, quella rimasta staccata dal cattolicesimo. Non lontano dal vecchio monastero, disabitato e in disuso, è sorta la sede del monastero antoniano di Nostra Signora delle Messi. Che dopo essersi quasi svuotato nella seconda metà del XX secolo, si è improvvisamente ripopolato nel 2007: si sono trasferiti qui per ragioni di sicurezza quasi tutti i monaci del monastero antoniano di Baghdad.
Ad Alqosh può capitare di incontrare persone come Yussef Dured, profugo dopo la prima guerra del Golfo, che ha vissuto 17 anni in Olanda facendo il pizzaiolo e il cuoco ma da tre mesi si è ristabilito in Iraq. Padre di tre figlie di due, cinque e sette anni, e marito di Sonia (anche lei una profuga cristiana irachena con la cittadinanza olandese), ha deciso con la moglie di tornare alla natìa Alqosh quando suo padre si è ammalato. «In Europa stavo bene, ma ho sempre portato nel cuore la terra dove sono nato. Qui nel nord la situazione è abbastanza tranquilla, e ho pensato che sarebbe stato bello riunificare le nostre famiglie: ho voluto che le mie figlie conoscessero i loro nonni e potessero trascorrere con loro una parte della loro vita. La situazione potrebbe peggiorare? Condivideremo il destino degli altri cristiani che vivono qui. Quello che succederà a loro succederà anche a noi».
In Olanda la famiglia frequentava le chiese cattoliche latine, ma quando si tocca l’argomento Dured si rabbuia un po’: «I cristiani iracheni sono migliori di quelli olandesi. In Olanda cedono le chiese ai musulmani che le trasformano in moschee, noi qua non faremmo mai una cosa del genere. In Olanda i musulmani chiedono e ottengono tutto nel nome dei diritti umani, e gli olandesi non capiscono che ai musulmani non interessa la realizzazione dei diritti umani, ma vogliono far trionfare la loro religione. Qui in Iraq chi rispetta i diritti umani dei cristiani?».       
Al monastero di Nostra Signora delle Messi spicca il saio grigio di un novizio.
È Hasim Harboli, 33 anni. Da due anni sta al monastero antoniano di Alqosh e presto andrà a studiare alla Facoltà teologica a Erbil. I precedenti dieci anni li ha vissuti all’estero con genitori e fratelli, gli ultimi cinque in Grecia. Lì ha sentito la chiamata alla vita religiosa. Nonostante ciò comportasse la rottura del suo fidanzamento con una ragazza irachena proveniente da un'altra famiglia rifugiata in Grecia, la famiglia di Hasim, imparentata con l'allora vescovo di Zakho mons. Petros Hanna Issa Al-Harboli (che è deceduto nel 2010), si è molto rallegrata della sua vocazione. Ma solo fino al momento in cui il figlio ha confessato loro che non avrebbe risposto alla chiamata entrando in qualche monastero greco o in un convento del Canada, dove la famiglia stava per trasferirsi, ma tornando in Iraq.
«L’amore per Cristo e il desiderio di donargli la mia vita mi è nato leggendo le vite dei santi e ammirando la dedizione con cui i sacerdoti assistevano la comunità dei profughi caldei iracheni in Grecia. Avrei preso i voti volentieri in Europa, ma poi è successo il fatto di mons. Rahho. Il suo sacrificio mi ha colpito profondamente. Ho meditato su di lui e sulle sofferenze del popolo iracheno a cui rimangono sempre meno sacerdoti. Ho preso contatto con padre Gabriel e sono venuto qui». I genitori si sono rassegnati senza gioia alla sua scelta, i fratelli gli sono apertamente ostili. Quando è partito per l'Iraq, la madre era a letto ammalata, consumata dal dispiacere. Ma lui non si è girato, perfetta incarnazione della parole tremende del Vangelo: “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me”. 
Non ha nessun dubbio sulla decisione che ha preso: «Voglio offrire la mia vita così come l’ha offerta Cristo». Parole di un ragazzo semplice, che è andato a lavorare come inserviente e come callista in una farmacia appena finite le scuole elementari, e che quando è arrivato ad Alqosh faceva fatica a leggere la liturgia in aramaico classico. Ma che possiede la tremenda fede dei semplici.
* Per ogni approfondimento: “Tribolati ma non schiacciati – storie di persecuzione, fede e speranza” edito da Lindau     

Pope urges Christian unity at Syriac Catholic monastery

By The Daily Star (Lebanon) September 16, 2012

Beirut: Pope Benedict XVI called for the unity of Christians in the Middle East during a visit Sunday to the summer residence of the Syriac Catholic Patriarch.
The Syriac Catholic monastery in Charfet, north of Beirut, was the pope’s last stop prior to his departure, ending a three-day visit to Lebanon amid regional turmoil particularly in neighboring Syria.
During a 30-minute meeting with Syriac Catholic Patriarch Ignatius Joseph III Younan as well as patriarchs and bishops of non-Catholic denominations, the pope stressed the importance of Christian unity in the Middle East, urging Christians not to abandon their land.
Patriarch Younan, who resides at the Syriac Catholic Patriarchate in Beirut for most of the year, received the pope upon arrival and accompanied him to the Hall of Honor, where the Holy See signed the monastery’s guest book.
The pontiff, who was welcomed by Lebanese of different faiths during his stay, will deliver farewell speech before boarding a Middle East Airlines Airbus 320 at Beirut’s Rafik Hariri International Airport at 7 p.m.
During his three-day visit, which comes 15 years after the landmark visit of the late Pope John Paul II, the head of the Roman Catholic Church called for interfaith dialogue as a means to bring peace to the region.
In a Sunday morning Mass attended by some 350,000 people at the Beirut Water Front City, the pope urged the Arab countries and the world to propose solutions to end the conflict in Syria.
“We pray to the Virgin Mary to help all the peoples of the region, especially the Syrian people,” the pope said at the end of the Mass, which for many people was the highlight of his three-day historic visit to Lebanon.
“You know the problems that beset the region. There is a tremendous amount of pain ... Why so much death? I call on the international community and Arab countries to propose solutions which respect human rights," he added.
President Michel Sleiman, Parliament Speaker Nabih Berri, Prime Minister Najib Mikati as well as MPs and Cabinet ministers attended the Mass. Other politicians in attendance included Future Movement MP Bahia Hariri and several Hezbollah deputies.
During his visit, the Holy See met with various Christian and Muslim figures including Lebanon’s Grand Mufti Sheikh Mohammad Rashid Qabbani who delivered a letter to the pope and said Saturday that “any attack on Christians is in an attack on Muslims.”
The pope made several remarks during his “pilgrim of peace,” urging Christians in Lebanon and the Middle East not to abandon their land and not to be afraid but to brave the difficulties they face.
In a gathering Saturday with Arab and Lebanese youth at Bkirki, the seat of the Maronite Patriarchate, the pope said he was moved by the courage of Syrian youth and said he was saddened by the hardships of the people there.
He reiterated his praise of Lebanon’s “beautiful coexistence” and urged Muslim youths to work with their fellow Christians.
During the ceremony, Benedict urged Christians not to abandon their land because of an “uncertain future.”
“Unemployment and dangers should not force you to migrate for an uncertain future. Act as the makers of your country's future and play your role in society and the Church,” he said.
The Holy See signed the post-Synodal Apostolic Exhortation of the Special Assembly for the Middle East Friday in a ceremony at Saint Paul Basilica in Harissa, north of Beirut, where he urged Christians not to be afraid but brave difficulties facing them in the region.

Una bomba esplode davanti alla cattedrale di Kirkuk mentre in Libano si parla di pace e collaborazione.

By Baghdadhope*

A ritirare dalle mani del Santo Padre l’esortazione apostolica “Ecclesia in Medio Oriente” c’era, ieri a Beirut, Mons. Louis Sako, Arcivescovo di Kirkuk che a Roma nel gennaio 2009 per la visita ad limina al Pontefice fu il promotore di quello che sarebbe stato il Sinodo dei Vescovi del Medio Oriente tenutosi in Vaticano nell’ottobre dell’anno successivo.
Tra i patriarchi e gli altri vescovi che ordinatamente si avvicinavano  a Benedetto XVI per ritirare il documento Mons.Sako è apparso sorridente ed a suo agio tanto da scambiare qualche parola con il Santo Padre. Nulla è trapelato su ciò che è stato detto in quel momento e chissà se Mons. Sako ha riferito la notizia pubblicata solo nella serata di ieri, cioè che la sera di ieri un ordigno è esploso davanti alla porta esterna della cattedrale caldea del Sacro Cuore di Kirkuk, proprio la città di cui Mons. Sako è arcivescovo.

Foto Ankawa.com

L’ordigno, secondo quanto riferisce il sito Ankawa.com era nascosto in una busta di plastica scura ed è esploso alle nove meno un quarto della sera causando ingenti danni materiali ma nessun ferito. Secondo fonti della polizia assegnate alla protezione della cattedrale tre persone armate di armi con silenziatore hanno lasciato la busta davanti alla porta della cattedrale e sono poi sfuggite alla reazione armata delle forze di sicurezza. Non un errore quindi, ma un deliberato atto di violenza che annulla con la sua sinistra minaccia le belle parole che Mons. Sako aveva rilasciato nelle interviste concesse proprio dal Libano e che vogliamo ricordare:
 
Cristiani e musulmani devono lavorare insieme. Abbiamo lo stesso avvenire, lo stesso futuro. Loro sono il 95 per cento e noi il 5 per cento. Che cosa possiamo fare? Promuovere la cultura del dialogo, della pace: questa è la nostra missione come cristiani. Forse questo potrà aiutare a cambiare anche la loro mentalità, il loro modo di reagire con violenza. (Radiovaticana)

«I musulmani
– ha detto il presule ai giornalisti - non sono violenti e molti hanno condannato le violenze che vi sono state in questi giorni. Il Papa ha esortato a pregare per i musulmani e mi è parsa una cosa bellissima. (Terrasanta.net)

Che peccato!


Errata Corrige: Ad un'attenta rilettura degli articoli pubblicati da Ankawa.com e da  un altro sito iracheno cristiano, Ishtar TV, la bomba sarebbe esplosa nella serata di domenica 16 settembre, successivamente quindi all'incontro di Mons. Sako con il Santo Padre. 
Baghdadhope si scusa dell'errore con i suoi lettori. Purtroppo però la correzione della data, se utile a precisare che Mons. Sako non sapeva ancora dell'evento al momento della cerimonia a Beirut, non cambia la portata dell'evento stesso.