"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

29 settembre 2007

I cristiani a Baghdad vivono sotto minaccia

Fonte: San Francisco Chronicle
By James Palmer
Giovedì 27 sttembre 2007

La famiglia di Nabil Comanny ha sopportato i cadaveri lasciati a decomporsi lungo la strada del loro quartiere di Dora. Ha accettato le bande criminali che si aggirano nella zona alla ricerca di vittime da rapire. E nè la mancanza di servizi, nè le montagne di rifiuti li avrebbero fatti andar via.
Come cristiani i Comanny hanno imparato a tenere un basso profilo. Sono rimasti nella loro casa anche dopo che molti musulmani sono sfuggiti al caos quotidiano dei massacri settari scoppiati tra i militanti sunniti e sciiti nel 2006 che hanno trasformato Dora in uno dei distretti più violenti. Ma il biglietto scarabocchiato sulla loro porta è stata l'ultima goccia. Il messaggio ordinava alla famiglia di scegliere tra tre opzioni: convertirsi all'Islam, pagare una tassa "di protezione" di 300$ al mese o andare via, pena la morte.

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"Non abbiamo armi ed il governo non ci protegge. Cosa possiamo fare? dice Commanny, un giornalista di 37 anni la cui famiglia ha abbandonato in aprile la propria, modesta, abitazione costruita 11 anni fa.
I militanti islamici stanno sempre più bersagliando i cristiani in Iraq, specialmente nella capitale, secondo quanto riferiscono i residenti, gli ecclesiastici ed i gruppi di assitenza. Come risultato, la comunità cristiana - una esigua minoranza nel paese islamico - continua a diminuire.
Sebbene sia difficile ottenere dati statisticamente significativi - l'ultimo censimento in Iraq risale al 1987 e riporta un milione di cristiani - molti di loro sono fuggiti dopo l'imposizione delle sanzioni economiche da parte delle Nazioni Unite negli anni 90. Oggi i gruppi di assistenza stimano che i cristiani rimasti in Iraq siano dai 300.000 ai 600.000 su 25 milioni di abitanti.
Secondo Comanny i primi problemi sono iniziati la scorsa primavera dopo che i militanti islamici imposero la legge islamica a Dora con un proclama di 18 punti affisso nei negozi e sui muri che stabiliva le regole di comportamento per i residenti, compreso l'obbligo per le donne di indossare un mantello che le coprisse interamente.
"Non è nella nostra tradizione" dice Comanny. "Come ci si può aspettare che una donna cristiana lo faccia?" Alla fine molte famiglie cristiane decisero di pagare la pesante tangente ai militanti islamici per poter rimanere nel quartiere, "per avere il tempo di prepararsi a partire" spiega Comanny, "ma molte non riuscirono a continuare a pagare."
Anche Comanny, che viveva con sua madre, tre fratelli e quattro sorelle in una piccola casa di Dora, alla fine lasciò il quartiere dietro consiglio di un vecchio conoscente che lui definisce un insorto comprensivo. Dato che i militanti a Dora spesso attaccano le famiglie che tornano a casa a raccogliere la propria roba Comanny ha pagato 800$ al suo contatto per uscire indenne dal quartiere.
Oggi i Comanny vivono nel quartiere di New Baghdad, nella parte sud-est della capitale, con altre centinaia di famiglie cristiane sfollate, e si aggirano con prudenza nel quartiere a maggioranza sciita che affida la sua protezione all'Esercito del Mahdi guidato dal religioso radicale Muqtada Al Sadr.
I cristiani che vivono a Dora raccontano come una volta la convivenza con i musulmani fosse facile, che a Natale si offrivano loro i dolci e che si mangiava con loro durante l'Iftar, la cena che rompe il digiuno durante il sacro mese di Ramadan.
Amer Awadish, un tassista di 47 anni, racconta di come queste relazioni lo hanno salvato. Dopo che a dicembre lui e la moglie Samia ricevettero un biglietto che ordinava di andare via entro due giorni un vicino andò a trovarli e consigliò loro di farlo subito.
"Quell'uomo baciava mia madre sulla fronte in pubblico" racconta Awadish riferendosi ad un comune gesto di rispetto verso le donne anziane, " per questo non poteva uccidermi."
Oltre alle minacce dirette i cristiani iracheni devono anche affrontare ostacoli più sottili. Willliam Warda, il fondatore di Hamorabi, un gruppo cristiano per i diritti umani che opera in Iraq, afferma che la maggior parte dei cristiani a Baghdad non si sente più sicura di vivere come prima: "Non possono bere alcolici o vestire come erano abituati, forse potranno resistere per un anno o due, ma non per sempre."
La maggior parte dei cristiani in Iraq appartiene alla Chiesa Cattolica Caldea che riconosce l'autorità papale ma ha un proprio ordinamento. Altre denominazioni sono i Siro Cattolici, gli Armeni Ortodossi e Cattolici. Ci sono piccoli gruppi di Greci, Cattolici ed Ortodossi, di Anglicani e di Evangelici.
Un sentire comune tra tutti questi gruppi è però che i capi delle chiese non stiano difendendo i loro diritti.
Le chiese "non ci difendono e questo è parte del problema" dice Bashar Jamil John, 24 anni, studente di ingegneria al Baghdad Technical Institute.
Il Patriarca cattolico caldeo, Emmanuel Delly, che è anche il rappresentante vaticano in Iraq, * non ha accettato di farsi intervistare, ma il Reverendo Mokhlous Shasha, 32 anni, da un anno sacerdote della chiesa siro cattolica di Nostra Signora della Salvezza in centro a Baghdad, ha riferito che i sacerdoti sono minacciati così come i laici. Dal 2006 i militanti hanno ucciso due sacerdoti - un cattolico ed un greco ortodosso *- ed un ministro protestante, e ne hanno rapiti almeno altri dieci
"I sacerdoti vivono come i loro parrocchiani" dice Shasha, che quando cammina per le strade di Baghdad non indossa mai il collare.
Sono molti i cristiani che pensano che il loro futuro a Baghdad sia tetro.
Almeno 12 chiese sono state chiuse, molti seminari e conventi sono stati trasferiti nella più sicura area curda nel nord, e secondo alcuni sacerdoti in quelli ancora aperti i fedeli sono meno della metà.
Il risultato, secondo William Warda, sarà un esodo di massa dall'Iraq nel momento in cui i paesi occidentali dovessero adottare politiche immigratorie meno restrittive.
"Se l'America e l'Europa apriranno le porte non rimarranno cristiani in Iraq" dice Warda, "se ne andranno tutti."

Traduzione, adattamento e note di Baghdadhope

* In realtà il rappresentante vaticano in Iraq non è Mar Emmanuel III Delly, Patriarca di Babilonia dei Caldei, ma colui che ha il titolo di Nunzio Apostolico in Giordania ed Iraq - praticamente l'Ambasciatore vaticano, Monsignor Francis Assisi Chullikat

* Il riferimento al ministro protestante ucciso è al
Rev. Monther Saqa, quello al sacerdote cattolico è a Padre Ragheed Ghanni, mentre Padre Paul Iskandar, ucciso a Mosul nell'ottobre del 2006, era sacerdote della chiesa siro-ortodossa e non della chiesa greco-ortodossa come citato nell'articolo.

Christians in Baghdad neighborhoods are living under the gun

Source: San Francisco Chronicle
By James Palmer, Chronicle Foreign Service
Thursday, September 27, 2007

Nabil Comanny and his family endured the dead bodies left to decompose along the road to their southern Dora neighborhood. They accepted the criminal gangs that roamed the area, searching for kidnap victims. And neither the utility failures nor the mountains of trash in the street could drive them away.
As Christians, the Comannys had learned to keep a low profile. They even stayed in their home after many Muslim neighbors fled the daily chaos when sectarian bloodshed broke out between Shiite and Sunni militants in 2006, turning Dora into one of Baghdad's most embattled districts.
But the hand-scrawled note at their door was the last straw. The message commanded the family to select one of three options: Convert to Islam; pay a fee of nearly $300 monthly for "protection" or leave. Failure to comply would result in death.

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"We don't have weapons, and the government doesn't protect us. What else can we do?" said Comanny, a 37-year-old journalist whose family abandoned their modest home of 11 years in April.
Islamic militants are increasingly targeting Christians in Iraq, especially in the nation's capital, according to interviews with residents, church officials and aid groups. As a result, the Christian community - long a minority in a Muslim country - continues to dwindle.
While meaningful numbers are difficult to come by - the last Iraqi census in 1987, counted 1 million Christians - many Christians fled Iraq after the United Nations imposed economic sanctions in the 1990s. Today, aid groups estimate between 300,000 and 600,000 Christians remain out of an estimated 25 million inhabitants.
Comanny said the first sign of trouble began last spring after Muslim militants imposed Islamic law in Dora. The proclamation came via an 18-point document posted along shops and blast walls. The decree listed stringent rules for all residents, including requiring women to wear the head-to-toe burqa.
"It's not our tradition," Comanny said. "How can Christian women be expected to do this?"
In the end, most Christian families decided to pay the hefty monthly bribe to Islamic militants that allowed them to stay in the neighborhood, Comanny said, "because it gave them time to prepare to leave. But most can't afford to keep paying."
Comanny, who shared a small house in Dora with his mother, three brothers and four sisters, finally moved on the advice of a lifelong acquaintance he called a sympathetic insurgent. Since militants in Dora frequently attack families returning home to fetch their belongings, Comanny paid his contact $800 for safe passage from the neighborhood.
Today, the Comannys live in the southeast New Baghdad section of the capital with hundreds of other displaced Christian families. The families move cautiously among a majority Shiite population who rely on protection provided by the Mahdi Army headed by the radical Shiite cleric Muqtada al-Sadr.
Christians living in Dora say they once mixed easily with Muslims, sharing cookies at Christmas and joining Muslim neighbors for dinner during Iftar - the sunset feast breaking the daily sunrise-to-sunset fast during the holy month of Ramadan.
Amer Awadish, a 47-year-old taxi driver, said such relationships saved his life. After a handwritten note was delivered to his apartment in December ordering him and his wife, Samia, 48, to leave within two days, a lifelong neighbor appeared at his door. The man, Awadish said, advised him to leave immediately.
"This man used to kiss my mother on the forehead in public," Awadish said, referring to a common gesture of respect toward elderly women. "He was too ashamed to kill me because of that."
In addition to direct threats, Iraq's Christians must also cope with more subtle obstacles.
William Warda, the founder of Hamorabi, a Christian-led national human rights group in Iraq, said most Christians in Baghdad no longer feel safe embracing the lifestyle they once enjoyed.
"They can't drink alcohol, or even dress in the fashion they're accustomed," Warda said. "Maybe they can stand this for a year or two, but not their whole lives."
Most Christians who have remained in Iraq are Chaldean Catholics who acknowledge the pope's authority but remain sovereign from the Vatican. Other denominations include Syrian Catholics, Armenian Orthodox and Armenian Catholics. Small groups of Greek Orthodox and Greek Catholics also practice their religion, as do Anglicans and Evangelicals.
But a common thread among most of these groups is a concern that church leaders are not speaking out about their rights.
Christian churches are "not defending us. This is part of the problem," said Bashar Jamil John, 24, an engineering student at Baghdad Technical Institute.
The Chaldean Catholic patriarch, Emmanuel Delly, who is also the Vatican's representative in Iraq, declined to be interviewed. But Rev. Mokhlous Shasha, 32, a first-year priest at the Lady of Our Salvation Syrian Catholic Church in central Baghdad, said the clergy is just as threatened as the people they serve. Since 2006, militants have killed two priests - a Catholic and a Greek Orthodox - and a Protestant minister. They have also kidnapped at least 10 others, church officials say.
"Priests live in the same situations as their parishioners," said Shasha, who said he never walks the streets of Baghdad wearing his priest collar.
Many Christians also agree that their future in Baghdad is bleak.
At least a dozen churches have closed, and several seminaries and nunneries have moved to the more stable Kurdish region in the north. For those whose doors remain open, attendance is down by more than half, church leaders say.
As a result, Warda of the Christian-led human rights group predicts a mass exodus from Iraq once Western countries relax their immigration policies.
"If the U.S. and Europe open their doors, the Christians in Iraq will be finished," Warda predicted. "They will all leave."

27 settembre 2007

Mons.Sako (Kirkuk) ad Imam: "Non c'è Iraq senza cristiani"

Fonte: SIR
“Non c’è Iraq senza cristiani”. Lo ha ribadito mons. Louis Sako, arcivescovo di Kirkuk, durante una cena offerta a 150 rappresentanti musulmani in occasione del Ramadan, presenti anche esponenti politici curdi, arabi, turcomanni e caldei. “Questo invito – ha detto l’arcivescovo – è espressione di tolleranza, armonia e coesistenza. Siamo tutti fratelli, figli dello stesso Dio. Non dobbiamo vivere come Caino e Abele, ma rispettarci e cooperare per il bene del popolo e del nostro Paese”. “Il mondo ha bisogno dei cristiani e dei musulmani. Il conflitto e l’isolamento di una di questi è una perdita per l’intera umanità” ha proseguito Sako per il quale “non si può vivere senza riconciliazione e collaborazione e soprattutto senza un dialogo sincero”. I presenti, tra cui anche rappresentanti di Muqtada Al Sadr, importante esponente sciita, hanno mostrato apprezzamento per le parole dell’arcivescovo e si sono detti pronti a promuovere la cultura del dialogo e della pace.

26 settembre 2007

Verso la divisione? La presenza dei cristiani in un Paese che tenta di rialzarsi

Fonte: SIR

di Daniele Rocchi

"Tangibili progressi"
sul fronte della sicurezza, ma "non è abbastanza". Nel suo recente intervento al Parlamento iracheno il premier iracheno Nouri al Maliki ha così presentato la sua valutazione sulla situazione in Iraq di questi ultimi mesi. Tuttavia secondo il premier sciita "sul fronte della sicurezza c'è bisogno ancora di maggiori sforzi e tempo perché le nostre forze armate siano in grado di assumere la responsabilità della sicurezza in tutte le province irachene". A dare ragione ad al Maliki sono, purtroppo, le continue notizie di attentati e attacchi, gli ultimi a Baghdad, Bassora, e al-Shifta nei pressi di Baquba. Qui un kamikaze si è fatto esplodere durante l'iftar, il pasto che interrompe ogni giorno al tramonto il digiuno di Ramadan, organizzato per favorire la riconciliazione tra leader sciiti e sunniti. E in questo clima la popolazione continua a soffrire per mancanza di acqua, elettricità, per l'aumento dei prezzi, la disoccupazione e per i casi di colera. Ne abbiamo parlato con l'arcivescovo caldeo di Kirkuk, mons. Louis Sako.

Clicca su "leggi tutto" per l'intervista del SIR a Monsignor Louis Sako
Alla luce di questi "tangibili progressi" sul piano della sicurezza, è possibile parlare di una fase, meno acuta, delle violenze settarie e terroristiche?
"È vero che c'è un miglioramento seppure limitato, ma non si può certo parlare di una fase meno acuta. La violenza è sempre forte e i conflitti settari sono gravi e continueranno. E lo stesso vale anche per i rapimenti con riscatto. È necessario, inoltre, segnalare nel nord dell'Iraq, i casi di colera la cui epidemia sembra essersi diffusa fino a Baghdad. La gente ha paura e perde fiducia. Le ferite sono profonde e a dividere la popolazione ci sono veri e propri fossati".
Iraq a rischio divisione?
"L'Iraq sta andando verso la divisione. I curdi hanno già la loro autonomia, gli sciiti si stanno organizzando e lo stesso stanno facendo i sunniti arabi. Del piano di divisione dell'Iraq si parla anche al congresso Usa".
In questa fase come vive la minoranza cristiana, subisce ancora persecuzioni, è costretta a fuggire o ad emigrare?
"I cristiani sono isolati praticamente e psicologicamente. L'emigrazione continua in maniera cieca, senza avere una visione. A Baghdad e a Mosul si registrano persecuzioni e rapimenti. I gruppi estremisti non accettano altri. A Kirkuk parecchi cristiani partono verso il nord o la Siria. Hanno paura del futuro. I partiti cristiani sono divisi fra loro e i capi religiosi aspettano un miracolo per salvaguardare i loro fedeli. Ci manca una visione obiettiva e un atteggiamento con un piano chiaro. Aumenta anche il numero dei sacerdoti che lascia il Paese per andare in Occidente".
La Chiesa ha sempre parlato di riconciliazione ma in che modo è possibile far passare un messaggio così importante in un Paese dilaniato tra scontri settari tra sciiti, sunniti, curdi, in cui proprio i cristiani sono l'anello debole?
"La Chiesa parla in modo discreto. Ma ora ci vogliono iniziative e contatti con tutti i diversi gruppi in campo. La Chiesa può giocare un ruolo di ponte e di dialogo, ma prima deve avere fiducia in sé stessa e essere cosciente di poterlo fare".
Cosa pensa della possibile decisione americana di far rientrare a metà del 2008 circa 30mila uomini dei 168mila presenti in Iraq?
"È incredibile. Penso che con tutti i sacrifici che gli americani hanno fatto, non lasceranno l'Iraq. Hanno un'agenda e piani per rimanere qui per sempre. I conflitti e le ambizioni regionali stanno peggiorando giorno dopo giorno. Come si può pensare che gli americani lascino campo libero?".
In autunno è prevista la conferenza internazionale per il Medio Oriente, fortemente voluta dall'amministrazione americana e tutta centrata sul conflitto israelo-palestinese. Crede che una soluzione stabile di questo conflitto possa aiutare anche a dirimere la crisi irachena?
"Il nodo del problema sono Israele e Palestina. Penso che sia giunto il momento di risolvere il conflitto. Le intenzioni degli Usa, questa volta, mi sembrano serie. È in gioco la credibilità americana. È una sfida da non perdere".

25 settembre 2007

Preghiere a Londra per il sacerdote ed i diaconi iracheni uccisi

Fonte: Indipendent Catholic News

Padre Ragheed Gani ed i suoi tre diaconi uccisi in Iraq a giugno sono stati ricordati nel corso di una messa in rito caldeo a Londra.
Monsignor Andreas Abouna, vescovo ausiliario di Baghdad, e Padre Habib Jajou, hanno guidato le preghiere presso la Holy Family Church, West Acton, Londra, dove la comunità caldea della capitale si ritrova per pregare ogni settimana.
Padre Ragheed, Basman Yousef Daud, Wahid Hanna Isho, and Gassan Isam Bidawed furono uccisi il 3 giugno dopo la Santa Messa a Mosul, nel nord dell’Iraq.
Alla comunità caldea di Londra si sono aggiunti alcuni fedeli provenienti dall’Irlanda dato che quando era seminarista Padre Ragheed era solito visitare qule paese e recarsi in pellegrinaggio a Lough Derg.
Suha Rassam, dell’organizzazione Iraqi Christians in Need, ha dichiarato: “Padre Ragheed ed i tre diaconi sono martiri della chiesa in Iraq che sta soffrendo molto. Ieri ho parlato al telefono con un sacerdote di Baghdad che mi ha detto di aver accolto nella sua parrocchia 2.000 famiglie, molte delle quali con solo i vestiti addosso. I cristiani vivono nel terrore e sono soggetti ad intimidazioni. Non sanno cosa riserverà loro il futuro.”

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

Fonte: Iraqi Christians in Need

Prayers in London for murdered Iraqi priest and deacons

Source: Indipendent Catholic News

Father Ragheed Gani
and his three deacons who were murdered in Iraq in June were remembered at a Chaldean Mass in London.
Bishop Andreas Abouna, auxiliary Bishop of Baghdad, and Father Habib Jajou, led prayers for the three men at the Holy Family Church, West Acton, where the capital’s Chaldean Catholic community worship each week.
Father Ragheed, Basman Yousef Daud, Wahid Hanna Isho, and Gassan Isam Bidawed were murdered by gunmen on June 3rd as they returned from Mass in Mosul, northern Iraq.
The Chaldean congregation in London was joined by a number of Catholics from Ireland. As a seminarian Father Ragheed used to visit Ireland and go on pilgrimage to Lough Derg.
Suha Rassam, a trustee of Iraqi Christians in Need, said, “Father Ragheed and the three deacons are martyrs of the Church in Iraq. The Church there is going through great suffering. I spoke on the phone to a priest in Baghdad yesterday and he told me that he has received 2,000 families into his parish. Many people have arrived with just their clothes. Christians are living in fear and facing intimidation. They don’t know what their future will be.”


Source: Iraqi Christians in Need

Iraq: Mons. Sako (Kirkuk) "Paese verso la divisione"

Fonte: SIR

E' un paese verso la divisione, l’Iraq di oggi, segnato da violenze settarie, affossato da un’economia che stenta a decollare, e a rischio di epidemia di colera. E nonostante le istituzioni parlino di “progressi tangibili” sul fronte della sicurezza le comunità cristiane vengono perseguitate e minacciate. E’ in sintesi quanto afferma, in un’intervista al Sir (domani on line su agensir.it) l’arcivescovo di Kirkuk, mons. Louis Sako. “E’ vero che c'è un miglioramento seppure limitato – dice Sako - ma la violenza è sempre forte e i conflitti settari sono gravi e continueranno. L'Iraq sta andando verso la divisione. I curdi hanno già la loro autonomia, gli sciiti si stanno organizzando e lo stesso stanno facendo i sunniti arabi. In questa situazione i cristiani sono isolati praticamente e psicologicamente, costretti ad emigrare verso Nord o verso la Siria”. Tuttavia spiega l’arcivescovo la Chiesa non rinuncia a parlare di riconciliazione: “La chiesa può giocare un ruolo di ponte e di dialogo”. In merito ad un ritiro graduale delle truppe Usa dall’Iraq Sako non ha dubbi: “con tutti i sacrifici che gli americani hanno fatto, non lasceranno l'Iraq. Hanno un’agenda e piani per rimanere qui per sempre. I conflitti e le ambizioni regionali stanno peggiorando progressivamente. Come si può pensare che gli americani lascino campo libero?”.


Click on "leggi tutto" for the abstract of the interview by SIR abcd



MGR. SAKO (KIRKUK), “COUNTRY ABOUT TO SPLIT”
A country about to split is today’s Iraq, exhausted by sectarian violence, sunken by an economy that has trouble taking off, and risking a cholera epidemic. And, even if the institutions speak of “tangible progress”, in terms of security the Christian communities are persecuted and threatened. This is briefly what has been stated, in an interview with SIR (online tomorrow at su
agensir.it), by the archbishop of Kirkuk, mgr. Louis Sako. “It is true that there is some improvement, although small – says Sako –, but violence is still rife, and sectarian conflicts are serious and will go on. Iraq is about to split. The Kurds already have their independence, the Shiites are getting geared for that, and the Arab Sunnis are doing the same. In these circumstances, Christians are practically and psychologically isolated, forced to migrate north or to Syria”. However, explains the archbishop, the Church does not fail to speak of reconciliation: “The Church can act as a bridge and promote dialogue”. As to the gradual withdrawal of the US troops from Iraq, Sako has no doubts: “with all the sacrifices the Americans have made, they will not leave Iraq. They have an agenda and plans to stay here forever. Conflicts and regional ambitions are progressively getting worse. How can we think the Americans will ever retreat?”.

22 settembre 2007

A new priest for the Chaldean community in Germany: Father Sami Al Rais




In the photo: second from the right Father Sami Al Rais, followed on his right by
Mgr. Philip Najim and Father Saad Sirop Hanna.

Ankawa.com website published the photos of last Sunday ceremony in Essen (Germany) when the new priest, Father Sami Al Rais, was introduced to his community living there. To the celebration, guided by Mgr. Philip Najim, Chaldean Apostolic Visitor in Europe, was also present Father Saad Sirop Hanna. Father Sami and Father Saad share many things. Both young, both students in Rome, both kidnapped when living in Baghdad, (15 August/ 11 September 2006 Father Saad and 4-10 december of the same year Father Sami) and now both living in Europe, to be the guide of his community the first and to go into more depth study the other.

Nuovo sacerdote caldeo in Germania: Padre Sami Al Rais



Nella foto: a sinistra Padre Sami Al Rais, Monsignor Philip Najim al centro, Padre Saad Sirop Hanna a destra

Il sito Ankawa.com ha pubblicato le foto della cerimonia di presentazione alla comunità caldea di Essen (Germania) del suo nuovo sacerdote, Padre Sami Al Rais, svoltasi la scorsa domenica.
Alla cerimonia, condotta da Monsignor Philip Najim, Visitatore Apostolico dei Caldei in Europa, ha partecipato anche Padre Saad Sirop Hanna. Padre Saad e Padre Sami condividono molte cose. Entrambi giovani, entrambi studenti a Roma presso le università pontificie, entrambi vittime di rapimenti quando ancora vivevano a Baghdad (15 agosto/11 settembre 2006 Padre Saad e 4 -10 dicembre dello stesso anno Padre Sami) ed entrambi ora in Europa, l'uno alla guida di una comunità, l'altro per approfondire i suoi studi.

15 settembre 2007

Gli iracheni approfittano della politica svedese per i rifugiati

Fonte: CBC News

Una città svedese stracolma di rifugiati dall’Iraq sta terminando le risorse per aiutarli, dice il suo sindaco.
“E’ impossibile. Penso che stiamo arrivando al limite” ha dichiarato il sindaco di Sodertalje, Anders Lago, alla CBC News. “Dobbiamo fermarci.”
Sodertalje, una città di 82,000 abitanti ha accolto il doppio dei rifugiati iracheni rispetto agli Stati Uniti. La Svezia è diventata una destinazione tra le preferite per chi fugge dall’Iraq. Secondo il servizio di immigrazione svedese tra gennaio e luglio 2007 ben 10.800 iracheni hanno richiesto asilo, e nel 2006 erano stati 8,950. Il governo assiste i richiedenti asilo con denaro, istruzione, aiuto all’avviamento al lavoro ed una casa, ma
ha modificato la sua politica in materia di rifugio lo scorso luglio, quando sia le case che i lavori sono finiti. Gli iracheni che richiedono asilo devono ora dimostrare di essere in pericolo di vita prima di ottenere lo status di rifugiati.
I funzionari di Sodertalje sono frustrati dalla riluttanza delle altre nazioni ad accogliere un maggior numero di iracheni, secondo la giornalista Adrienne Arsenault.
“Un funzionario ha dichiarato che se i rifugiati vengono spinti a lasciare il paese ed ad andare in Svezia .. è perchè sanno che la Svezia si prenderà cura di loro.”
Meno di 400 rifugiati iracheni sono stati accolti lo scorso anno in Canada, un numero che secondo i funzionari canadesi salirà a 1,400 nel 2007.
With files from the Associated Press

Traduzione di Baghdadhope

Guarda il video (in inglese)
Adrienne Arsenault reports on Iraqi refugees finding safe haven in Sweden

Iraqis strain Sweden's refugee policy

Source: CBC News

A Swedish city overwhelmed by refugees from Iraq is running out of resources to help them, its mayor says.
"It's impossible. I think we [are] coming to the end now," Sodertalje Mayor Anders Lago told CBC News. "We must stop."
Sodertalje, with a population of 82,000, has taken in twice as many refugees from Iraq as the United States. Sweden has become a favoured destination for people fleeing Iraq. The country's immigration service reports that 10,800 Iraqis requested asylum between January and July 2007, up from 8,950 for the whole of 2006. The government provides those who request asylum with money, education and help finding a job and a home.
Sweden modified its refugee policy in July, as homes and jobs filled up. Iraqis seeking asylum now have to prove that their lives are in danger before they will be granted refugee status.
Swedish officials are frustrated with other countries' reluctance to take in more Iraqi refugees, Adrienne Arsenault reported from Sodertalje.
"One official said it's as if asylum seekers are pushed out of other countries and right into Sweden … because [they] know the Swedes will take care of it," she said.
Fewer than 400 Iraqi refugees were accepted to Canada last year. Officials expect that number to increase to 1,400 this year.
With files from the Associated Press

Campo estivo in Libano per i bambini iracheni rifugiati

Fonte: Save the Children Alliance

Click on the title for the article in English

Bambini iracheni, libanesi e palestinesi hanno partecipato ad una campo estivo organizzato da Save the Children Svezia, nella prima iniziativa di questa organizzazione rivolta ai rifugiati iracheni.
Trenta bambini iracheni, libanesi e palestinesi hanno ballato, cantato, fatto teatro e sfilate di moda in una piccola casa sulle montagne che sovrastano la città di Hermel, nel Libano nord occidentale. Il campo estivo di 4 giorni si è svolto dall’8 al 12 settembre finanziato dalla sezione svedese di Save the Children ed è stata un’iniziativa voluta per dare ai bambini uno spazio sicuro dove potessero, con le varie attività ed il divertimento, vivere normalmente.
“Ci siamo divertiti tanto. Spero che organizzino presto degli altri campi” ha detto Emila Sheybo, una rifugiata irachena di 12 anni.
Emila è una dei più di due milioni di persone che sono fuggite dalla violenza che in Iraq ha seguito l’invasione a guida americana del 2003. La maggior parte di loro hanno cercato rifugio in Siria o Giordania. Non esistono statistiche ufficiali ma si stima che 40.000 iracheni siano fuggiti in Libano. Ad essi è stato garantito lo status di rifugiati ed hanno la possibilità di registrarsi negli elenchi dell’UNHCR. (Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite) Eppure assicurare loro i diritti all’istruzione, al lavoro ed alla salute è ancora una sfida. Emila e la sua famiglia hanno vissuto a Beirut, la capitale libanese, per due anni e mezzo ed i genitori hanno pagato perché lei frequentasse una scuola privata. Emila non vuole tornare in Iraq: “ho paura di essere uccisa o rapita, eppure allo stesso tempo non voglio stare in Libano. Non so cosa succederà in futuro.”
Poche delle famiglie irachene rifugiate in Libano possono affrontare i costi delle scuole private. Persino gli iracheni un tempo ricchi stanno rimanendo senza denaro dove anni vissuti come rifugiati. La tredicenne Mariam Kaneni ha vissuto con i genitori ed i fratelli in una sola stanza di un povero sobborgo di Beirut per due anni e mezzo. “Studio in una scuola privata la cui retta è pagata da un’organizzazione non governativa. Spero che un giorno ci sia la pace in Iraq così che io possa tornare dai miei parenti.”

Traduzione di Baghdadhope
Clicca su "leggi tutto" per il resto dell'articolo
Molti bambini iracheni invece non possono uscire di casa in Libano per svariate ragioni che includono la paura di essere arrestati perché senza visto per la residenza. Come spiega Emila: “Viviamo in 6 in due piccole camere dove passo la maggior parte del mio tempo dopo la scuola , non esco quasi mai perché non mi sento sicura fuori e non ho amici libanesi.”
Lo scopo principale del campo è dare ai bambini un posto sicuro dove giocare, conoscersi ed esprimersi. Dei 30 bambini che vi hanno partecipato metà sono iracheni e l’altra metà rifugiati libanesi e palestinesi. La grande maggioranza dei circa 400.000 rifugiati palestinesi in Libano vivono in campi profughi e di raccolta. Molti degli iracheni in Libano vivono nelle zone più povere delle città ed hanno pochi contatti con i libanesi. Il campo estivo è stata una magnifica opportunità per i bambini iracheni di interagire con quelli libanesi e palestinesi come ha spiegato Emila: "al campo ho incontrato bambini libanesi e palestinesi che sono diventati miei amici. “ Mariam ha descritto il campo come un’opportunità per tutti di “conoscersi e conoscere i paesi di ognuno.”
Non c’è dubbio che i bambini abbiano apprezzato le attività del campo estivo: “la cosa più bella è stata vivere nella stessa stanza con bambini di due altre nazioni e divertirsi con loro” ha raccontato Ali Alam, un libanese di 14 anni. Dala Abdel Razek, rifugiato palestinese di 13 anni, ha dichiarato che il vivere con bambini di diverse nazionalità è stata un’esperienza arricchente: "abbiamo capito di essere uguali.”
Oltre a giocare ed a svolgere varie attività il campo ha dato la possibilità ai bambini di discutere dei loro diritti, focalizzandosi sulla percezione che di essi hanno come individui come ha raccontato Mariam Kenani: “tutti i bambini hanno diritto alle cure mediche, al cibo ed a non subire abusi da parte degli adulti” e Ranjwa Bleibel ha aggiunto che: "l’istruzione è un diritto basilare per tutti.”
Ci sono decine di migliaia di bambini iracheni rifugiati in Giordania, Libano e Siria che non hanno accesso all’istruzione. “Persino se questi paesi non hanno firmato la convezione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, essi hanno sottoscritto quella dei Diritti del Bambino che include il diritto all’istruzione. Se i governi non hanno le risorse per aiutare i bambini rifugiati noi faremo il possibile per farlo. Se la Svezia ricevesse centinaia di migliaia di rifugiati in un breve periodo di tempo sarebbe una grossa sfida. Questo è ciò che è successo in paesi come la Giordania, la Siria ed il Libano” così ha dichiarato Sanna Johnsson, il rappresentante regionale di Save the Children Svezia in Libano. L’obiettivo di Save the Children Alliance è arrivare a sostenere dai 10.000 ai 50.000 bambini iracheni per il 2010 con particolare attenzione per i bambini vulnerabili che hanno bisogno di protezione in Giordania, Libano e Siria.
Nel giugno 2007 Save the Children Svezia ha iniziato a lavorare con i bambini iracheni ma la mancanza di statistiche affidabili sulla prsenza degli iracheni in Libano è stato un grosso ostacolo. Molti di loro non si sono registrati negli elenchi dell’UNHCR per paura di essere deportati. Alcuni volontari delle organizzazioni libanesi partners di Save the Children Svezia hanno svolto esercitazioni di mappatura ed identificazione ed hanno parlato con più di 180 bambini iracheni durante l’estate. Il 31% di loro ha detto di non essere iscritto a scuola per l’anno scolastico a venire, mentre il 37% non lo era stato in quello passato. Il 17% lavorava ed il 45% aveva avuto problemi inclusi depressione, violenza, detenzione e discriminazione. “Ci assicureremo che i bambini che non hanno accesso alla scuola possano averlo in autunno. Ci sono molte scuole che vogliono accoglierli, specialmente private o semi-private” dice Sanna Johnsson.
Save the Children Svezia punta ad assicurare il diritto all’istruzione per tutti i bambini ed i suoi partners sosterranno i bambini iracheni dando loro supporto extra scolastico, classi di recupero e sostegno psicologico.

International Save the Children Alliance

Save the Children ITALIA

http://www.savethechildren.it/2003/index.asp

Save the Children SVEZIA (anche in inglese)

Vescovi statunitensi chiedono più aiuto per i rifugiati iracheni

Fonte: Zenit
Un rapporto descrive le conclusioni di un viaggio di 12 giorni in Medio Oriente

WASHINGTON, D.C., venerdì, 14 settembre 2007
Secondo i Vescovi statunitensi, gli Stati Uniti, trovandosi a capo delle forze di coalizione in Iraq, dovrebbero anche guidare la risposta umanitaria alla piaga dei rifugiati. Lunedì 10 settembre, la Conferenza Episcopale USA ha reso noto un rapporto di 31 pagine (in inglese) in cui esorta il Governo ad aumentare l’assistenza offerta ai rifugiati iracheni e ai Paesi nei quali si stanno riversando. Il Vescovo Nicholas DiMarzio di Brooklyn, New York, consultore del Comitato episcopale sulle Migrazioni, ha informato sui risultati del rapporto dopo aver guidato una delegazione che ha trascorso, a luglio, quasi due settimane in Medio Oriente per monitorare le condizioni dei rifugiati iracheni. “La situazione dei rifugiati iracheni diventa ogni giorno più grave”, ha detto il Vescovo. “Ciò che non è cambiato è che la risposta internazionale a questa crisi, e soprattutto quella degli Stati Uniti, rimane deprecabilmente inadeguata”.Come esempio, il presule ha ricordato la lunga trafila cui sono costretti i rifugiati che cercano di inserirsi negli Stati Uniti. Anche se il Governo indica che dovrebbero essere 7.000 i rifugiati reinseriti nel corso dell’anno, attualmente ne sono arrivati solo 700.Il rapporto analizza anche l'aiuto e l'ospitalità forniti da Paesi come la Giordania, la Siria, la Turchia e il Libano ai 2,2 milioni di rifugiati iracheni in Medio Oriente.

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Obispos estadounidenses piden más ayuda para los refugiados iraquíes
Informe episcopal tras un viaje a Medio Oriente para comprobar la situación

WASHINGTON, viernes, 14 septiembre 2007
Dado que Estados Unidos es el líder de la coalición de fuerzas en Irak, debería también liderar la respuesta humanitaria a la situación de los refugiados, afirman los obispos del país norteamericano. La Conferencia Episcopal estadounidense hizo público el lunes un informe de 31 páginas en inglés, urgiendo al Gobierno a incrementar la ayuda a los refugiados iraquíes y a los países a los que están huyendo.El obispo Nicholas DiMarzio de Brooklyn, Nueva York, consultor de la Comisión Episcopal sobre Migraciones, hizo público el informe tras presidir una delegación que estuvo en julio unas dos semanas en Oriente Medio comprobando la situación de los refugiados iraquíes. «La situación de los refugiados iraquíes empeora cada día --dijo el obispo DiMarzio--. Lo que no ha cambiado es que la respuesta internacional a esta crisis, y especialmente la de Estados Unidos, sigue siendo muy insuficiente». Como ejemplo, el prelado aludió al lento procedimiento para aquellos refugiados que desean integrarse en Estados Unidos. Aunque los datos del Gobierno indican que deberían ser examinados en este año los expedientes de siete mil refugiados, sólo han analizado unos 700.El documento informa también que Jordania, Siria, Turquía y Líbano están afrontando, como países de acogida, a los 2,2 millones de refugiados iraquíes en Oriente Medio.

permalink:
http://www.zenit.org/article-24820?l=spanish


Bispos norte-americanos pedem mais ajuda para refugiados iraquianos
Informe episcopal após uma viagem ao Oriente Médio para comprovar a situação

WASHINGTON, sexta-feira, 14 de setembro de 2007
Dado que os Estados Unidos são o líder da coalizão de forças no Iraque, o país deveria também liderar a resposta humanitária à situação dos refugiados, afirmam os bispos do país norte-americano. A Conferência Episcopal americana publicou na segunda-feira um informe de 31 páginas em inglês, instando o Governo a aumentar a ajuda aos refugiados iraquianos e aos países aos quais estão fugindo. O bispo Nicholas DiMarzio, de Brooklyn, Nova York, consultor da Comissão Episcopal sobre Migrações, publicou o informe após presidir uma delegação que esteve, em julho, aproximadamente duas semanas no Oriente Médio comprovando a situação dos refugiados iraquianos. «A situação dos refugiados iraquianos piora a cada dia – disse o bispo DiMarzio. O que não mudou é que a resposta internacional a esta crise, e especialmente a de Estados Unidos, continua sendo muito insuficiente.» Como exemplo, o prelado aludiu ao lento procedimento para aqueles refugiados que desejam integrar-se nos Estados Unidos. Ainda que os dados do Governo indiquem que deveriam ser examinados neste ano os expedientes de sete mil refugiados, só analisaram cerca de 700. O documento informa também que a Jordânia, Síria, Turquia e Líbano estão enfrentando, como países de acolhida, os 2,2 milhões de refugiados iraquianos no Oriente Médio.

permalink:
http://www.zenit.org/article-16138?l=portuguese

U.S. Bishops Urge More Help for Iraqi Refugees

Source: Zenit
Report Details Findings From 12-Day Trip to Mideast

WASHINGTON, D.C., SEPT. 13, 2007
Since the United States is the leader of the coalition forces in Iraq, it should also lead the humanitarian response to the plight of the refugees, say the U.S. bishops.The U.S. bishops' conference released a 31-page report Monday, urging the government to increase assistance offered to Iraqi refugees and the countries to which they are escaping. Bishop Nicholas DiMarzio of Brooklyn, New York, consultant to the episcopal Committee on Migration, released the report after heading a delegation that spent almost two weeks in the Middle East in July assessing the situation of Iraqi refugees."The situation of Iraqi refugees grows worse as each day passes,” Bishop DiMarzio said. "What has not changed is that the international response to this crisis, and particularly that of the United States, remains woefully inadequate."As an example, the prelate reported on the slow processing of refugees looking to resettle in the United States. Though government figures indicated that 7,000 refugees would be processed during the calendar year, only about 700 have actually arrived.The report includes a look at how Jordan, Syria, Turkey and Lebanon are faring as host countries for 2.2 million Iraqi refugees in the Middle East.

14 settembre 2007

Chaldeans in Europe. The Apostolic Visit of Mgr. Philip Najim

By Baghdadhope

The apostolic journey of Mgr. Philip Najim, Procurator of the Chaldean Church to the Holy See and Apostolic Visitor in Europe, will start on Sunday, 16 of September. The journey will begin in Germany and will proceede to Denmark, Norway and Sweden.

We asked Mgr. Najim about his busy agenda.
“The apostolic visit will start from Germany where, on next Sunday, during two celebrations in the cities of Essen and Mönchengladbach, I will officially introduce to the two communities their new priest, Father Sami Al-Rais.”
Is the Chaldean community in Germany a big one?
“Yes. Only considering the cities of Essen and Mönchengladbach we are speaking about 450 families.”
Has Father Sami Al-Rais, the new priest, been living in Germany for a long time?
“No, he has just arrived there. Father Sami is one of the priests who were kidnapped in Iraq last year (he was kidnapped on the 4 of December and released after 6 days, editor’s note) and for security reasons he has been living in the north of Iraq since his release. The same area where the Senior Chaldean seminary Fr. Sami was the director of when he was kidnapped was transferred in January 2007.”

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It will be a happy occasion for him and the whole community…
“Certainly. The faithfuls need a priest to refer to and they are looking forward his arrival.”
But your journey will not stop in Germany..
“No, the duty of the Apostolic Visitor in Europe is to meet the communities to listen to their needs, to make them feel that even in a foreign land, and may times not for their choice, they can count on the unifying and consolatory presence of the Church. Once in Germany I will also officialy deliver to the Diocese of München the letter of introduction for the admittance of a seminarist, the second, who will study in that city.
From Germany I will go to Denmark where about 400 Chaldean families live and where I will meet their priest, Father Faris Toma and the Catholic Bishop, Mgr. Czeslaw Kozon. From Denmark I will go to Sweden, a country that, considering the high number of Chaldean faithfuls, about 20.000 persons, has been divided into three centres.”

And you will visit all the three…
“Sure. From the south of Sweden, where I will visit the new Chaldean centre with the priest, Father Samir Dawood, to Sodertalje, where most Chaldeans live and where the priest is Father Maher Malko, to Eskilstuna where I will meet Father Paul Rabban and his community. It will be also an occasion to meet the youth, our future, to understand the problems of their age, of their living far from their mother country. I consider these meetings with the youth of fundamental importance.
A very busy agenda…
“Yes. Besides the communities I will meet the Catholic Bishop of Stockholm, Mgr. Anders Arborelius, who is really helping our people there, and I will visit the about 100 Chaldean families living in Norway who still don’t have a priest and for whom I will celebrate the Holy Mass”
Most Chaldean faithfuls coming from Iraq live in Sweden, what’s their situation there?
“Emigration to Sweden is not recent. Sweden has always been ready to welcome people who, leaving back situations of disadvantage or danger, wanted to start a new life. So it was for many Chaldean families who in the past decades fled dictatorship, wars and embargo and who are now integrated in the social tissue of the country. The war of 2003 and the terrible episodes of violence that followed it accelerated this flight. That’s because I talked about the no-choice situation of many emigrants, but of their being forced to flee to what no one denies is going on in Iraq: the persecution of Christians. It’s clear that for these people who dreamt a different future, and who found themselves in the uncomfortable position to become refugees, reality is particularly hard and for this reason they need not only material help but moral comfort too.”
What about the other European countries?
“There are countries where the communities have been living since decades ago, and others where there are not. A part from the already mentioned countries there are Chaldean communities in France, Holland, Austria, Greece, Belgium, Great Britain and Georgia. In Georgia, for example, with the help of the Detroit Chaldean Diocese of the Western United States guided by Mgr. Ibrahim N. Ibrahim, we are building the first Chaldean church in Caucasus, a hall for the people and the rectory for the parish priest, Father Benni Bet-Yadkar, the first Chaldean priest in the country in twelve years”
And what about Italy?
“The presence of Chaldean faithfuls in Italy is limited to few families and to the priests, the nuns and the monks who live in Rome for studying or working. It’s the case of the Chaldean Nuns and Monks who have a convent and a nunnery there, of the seminarists and priests coming from Iraq to study -two of them arrrived just a month ago – and mine who work in Rome representing the Chaldean Patriarchate to the Holy See.”
So, there is not a Chaldean church in Italy …
“No, for our celebrations we use Santa Maria degli Angeli Church in Rome. Obviously every Chaldean faithful who lives where there is not a Chaldean church or a Chaldean priest to refer to, can continue his/her life of faith in the Catholic churches, in Italy and all over the world.”
Are there Chaldean churches in Europe?
“Talking about churches of the Chaldean rite, that is an oriental catholic rite, there are three of them. One in Paris, one in Sarcelles, in the outskirts of the French capital, and one in Marseille. There are also Roman Catholic churches where our rite is celebrated. In Lyon, Wien, and the countries I mentioned before. With a growing number of faithfuls in Europe we are trying to build new churches. In Sweden, for example, we are buying a piece of land just for this. In Germany the Archbishopric of München gave to the Chaldean Mission a three-storey building that is now being renovated, that will be ready in 2008 and where there will be also some rooms for the catechism. It is very important for the children born in Germany or who arrived there as babies not to forget their Chaldean Catholic religious roots.”
A lively presence in the European Catholicism…
“Yes, lively and beautiful. Last summer I visited the Chaldean communities in Holland and Belgium. On the 15 of August, the Assumption Feast, I celebrated with Father Firas Ghazi the Holy Mass in the Belgian city of Banneux. There were more than 3000 people coming from Belgium, Holland, Germany and France. It was really a happy day.”
After the Apostolic visit will you come back to Rome?
“Maybe for one day. As Secretary of the Council of the Catholic Patriarchs of Oriental Rites by the 15 of October I will be in Lebanon for its annual meeting. It will be an important occasion to take stock of the different situations of the Catholic faithfuls in the Middle East, and surely Iraq will have a relevant part in it.”
We will be glad to have from you a report of this long Apostolic visit, but by now we wish you a good journey and great days of work.”
“Thanks but I must confess that more than a job this journey is a blessing. To be near to the faithfuls is every time an occasion of joy and hope that our very ancient Church can survive the events and find love also in the hearts of future generations.”

13 settembre 2007

I caldei in Europa. Il viaggio apostolico di Monsignor Philip Najim

By Baghdadhope



Inizierà domenica 16 settembre il viaggio apostolico di Monsignor Philip Najim, Procuratore della Chiesa Caldea presso la Santa Sede e Visitatore Apostolico in Europa. Un viaggio che inizierà in Germania per continuare in Danimarca, Norvegia e Svezia.
Abbiamo chiesto a Monsignor Najim di spiegarci le ragioni di questa fitta agenda.
“Il viaggio apostolico inizierà in Germania dove, domenica prossima, in due cerimonie nelle città di Essen e Mönchengladbach presenterò ufficialmente alle due comunità il loro nuovo sacerdote, Padre Sami Al-Rais
La comunità caldea in Germania conta molti fedeli?
“Si, considerando per esempio solo le città di Essen e Mönchengladbach si tratta di circa 450 famiglie”
Padre Sami Al Rais, il nuovo parroco vive da molto tempo in Germania?
“No, è arrivato da poco. Padre Sami è uno dei sacerdoti che lo scorso anno sono stati vittime di rapimenti in Iraq (fu rapito il 4 dicembre 2006 e rilasciato dopo 6 giorni, ndr) e per ragioni di sicurezza ha vissuto fino a poco tempo fa nel nord dell’Iraq, dove peraltro sin da gennaio del 2007 è stato trasferito il Seminario Maggiore di cui era direttore al momento del rapimento.”

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Sarà quindi un’occasione felice per lui e la comunità tutta..
“Certamente, i fedeli hanno bisogno di un loro sacerdote cui fare riferimento e Padre Sami è atteso con impazienza.”
Il suo viaggio però non si fermerà in Germania..
“No, il compito del Visitatore Apostolico in Europa è proprio quello di visitare le comunità dei fedeli per raccoglierne i bisogni, far loro sentire che seppur in terra straniera, e molte volte non per scelta, essi possono contare sulla presenza unificante e consolatoria della chiesa. In Germania avrò anche occasione di consegnare ufficialmente alla Diocesi di Monaco la lettera di presentazione per l’ammissione di un altro seminarista, il secondo, che studierà in quella città.
Dalla Germania mi sposterò poi in Danimarca dove vivono circa 400 famiglie caldee e dove incontrerò sia il loro sacerdote, Padre Faris Toma, sia il Vescovo Cattolico, Monsignor Czeslaw Kozon. Da lì mi recherò in Svezia che, vista la presenza di fedeli, circa 20.000 persone, è stata divisa in tre centri di competenza per meglio seguirli."
Li visiterà tutti e tre quindi..
“Certo. Dal sud della Svezia, dove con il parroco, Padre Samir Dawood visiterò il nuovo centro caldeo, a Sodertalje, la città che ospita il maggior numero di fedeli caldei guidati da Padre Maher Malko, a Eskilstuna dove incontrerò Padre Paul Rabban e la sua comunità. Sarà anche un’occasione per incontrare i giovani, il nostro futuro, e capire i problemi della loro età, del loro vivere lontani dal paese di origine. Sono incontri, questi con i giovani, che io ritengo di fondamentale importanza”
Un’agenda fitta di impegni..
“Si. Infatti oltre agli incontri con le comunità vedrò il vescovo di Stoccolma, Monsignor Anders Arborelius, che sta veramente aiutando la comunità, e visiterò la comunità in Norvegia, circa 100 famiglie che non hanno ancora un sacerdote e per le quali celebrerò la Santa Messa”
La Svezia è il paese che accoglie più fedeli caldei provenienti dall’Iraq, in che situazione si trova la comunità?
“L’emigrazione in Svezia non è recente. La Svezia è stata sempre pronta ad accogliere coloro che, partendo da situazioni di svantaggio o pericolo volevano rifarsi una vita. Così è stato per molte famiglie caldee irachene che nei decenni passati hanno lasciato alle loro spalle la dittatura, le guerre e l’embargo e che ora sono integrate nel tessuto sociale del paese. Certamente la guerra del 2003 ed i terribili episodi di violenza ad essa successivi hanno accelerato la fuga. Ecco perché ho accennato non ad una scelta di molti emigrati, ma di una costrizione per sfuggire a quella che ormai nessuno nega sia in atto in Iraq: la persecuzione dei cristiani. E’ chiaro che per queste persone che immaginavano un futuro diverso e che si sono ritrovati negli scomodi panni di rifugiati, la realtà sia particolarmente dura e proprio per questo hanno bisogno non solo di aiuto materiale ma anche di conforto morale.”
Qual'è la situazione nel resto dell’Europa?
“Ci sono paesi dove le comunità sono oramai stabili da decenni, ed altri dove in pratica non esistono. A parte i paesi già citati ci sono comunità in Francia, Olanda, Austria, Grecia, Belgio, Gran Bretagna e Georgia. In Georgia, ad esempio, con l’aiuto della Diocesi Caldea degli Stati Uniti Occidentali con sede a Detroit guidata da Monsignor Ibrahim N. Ibrahim, stiamo costruendo la prima chiesa caldea nel Caucaso, una sala per i fedeli e la casa del parroco, Padre Benni Bet-Yadkar, il primo sacerdote caldeo in quel paese da dodici anni a questa parte.”
Ed in Italia?
“No. La presenza di fedeli caldei in Italia è limitata a poche famiglie ed ai sacerdoti, i monaci e le suore che vivono a Roma per motivi di studio o di lavoro. E’ il caso delle Suore e dei Monaci Caldei che a Roma hanno un convento, degli studenti che provengono dall’Iraq per studiare, due sono arrivati un mese fa, e mio, che a Roma lavoro rappresentando il Patriarcato Caldeo presso la Santa Sede.”
Non c’è quindi in Italia una chiesa caldea?
“No, per le cerimonie siamo ospiti della chiesa di Santa Maria degli Angeli, a Roma. Ovviamente ogni fedele caldeo che si trovi a non avere una chiesa, intendendo un edificio di culto, ed un sacerdote caldeo cui fare riferimento, può continuare la sua vita di fede presso le chiese cattoliche romane, in Italia e nel mondo.”
Ci sono chiese caldee in Europa?
“Se per chiese intendiamo edifici interamente dedicati al rito caldeo, che è un rito cattolico orientale, ce ne sono tre, a Parigi, a Sarcelles, nella periferia della capitale francese, ed a Marsiglia. Ci sono poi altre chiese cattoliche romane dove viene celebrato anche il nostro rito. A Lione, a Vienna e negli altri paesi che ho già elencato. Con l’aumentare dei fedeli stiamo anche cercando di costruire altri edifici di cult0. In Svezia, ad esempio, stiamo acquistando un terreno destinato a questo scopo. In Germania l’Arcivescovado di Monaco ha assegnato alla missione caldea un edificio di tre piani ora in fase di ristrutturazione che sarà finito nel 2008 e che ospiterà tra le altre cose anche le aule per il catechismo, molto importanti perché i bambini nati in Germania o arrivati lì piccolissimi non dimentichino le loro radici cattoliche caldee.”
Una presenza viva quindi nell’ambito del cattolicesimo europeo, quindi.
“Si, e bella. Quest’estate ho visitato le comunità in Olanda ed in Belgio ed il 15 agosto, il giorno della festa dell’Assunta ho celebrato insieme al parroco, Padre Firas Ghazi, una Santa Messa nella cittadina belga di Banneux. C’erano più di 3000 persone provenienti da Belgio, Olanda, Germania e Francia. Un giorno molto felice, davvero.”
Dopo questo viaggio tornerà a Roma?
“Forse per un solo giorno. Come Segretario del Consiglio dei Patriarchi Cattolici di Rito Orientale il 15 di ottobre sarò in Libano per la sua annuale riunione. Sarà un’occasione importante per fare il punto delle diverse situazioni che i cattolici stanno vivendo in Medio Oriente e certamente l’Iraq ne rappresenterà una parte rilevante.”
Saremo felici di avere da lei un resoconto di questo lungo periodo di viaggio apostolico, per adesso però le auguriamo buon viaggio e buon lavoro.
“Grazie. Ma confesso che più che un lavoro questo viaggio è una benedizione. Stare vicino ai fedeli è ogni volta un’occasione di gioia e speranza che la nostra antichissima chiesa possa sopravvivere agli eventi e trovare amore anche nel cuore delle generazioni future.”
Le foto si riferiscono alla celebrazione dell'Assunta a Banneux (Belgio) il 15 agosto 2007. Officiante Monsignor Philip Najim.

12 settembre 2007

Giovani in Kurdistan, “speranza per la Chiesa d’Iraq”

Fonte: Asia News

La diocesi di Ahmadiya ha ospitato un raduno di 300 giovani, che hanno riflettuto sul senso della missione nell’Iraq di oggi e su come affrontare le sfide che terrorismo e violenze confessionali pongono alla Chiesa locale. Senza abbandonare la speranza.

Erano in 300 i giovani che da 10 diversi villaggi del Kurdistan iracheno si sono ritrovati ad Ahmadiya, lo scorso 7 settembre, per incontrare il loro vescovo e gli altri sacerdoti della diocesi. Con loro hanno riflettuto sul “senso della missione della Chiesa nel mondo e nell’Iraq di oggi, martoriato da terrorismo e violenze confessionali, e sono tornati a casa pieni di gioia e speranza”. A raccontarlo ad AsiaNews è lo stesso vescovo caldeo di Ahmadiya, mons. Rabban Al-Qas.
L’“emozionante” giornata, come la definisce il presule, si è svolta nell’antica chiesa di Sultana Mahadokht, risalente al VII sec. d.C. Scopo dell’iniziativa: “approfondire il mistero della Chiesa cattolica e la sua missione nel mondo, in modo da aiutare i giovani ad affrontare le sfide che incombono sui cristiani d’Iraq”. A questo proposito p. Najib Mosa ha voluto soffermarsi sull’importanza di ricordare sempre che “la persona di Cristo è la base della Chiesa ed è Lui la buona novella”. “I giovani – dice mons. Al-Qas – hanno sentito la voce della Chiesa, sposa di Cristo, che chiede loro di portare il Suo amore al mondo islamico in cui vivano; con la loro testimonianza questi ragazzi infondono speranza anche ai propri cari, fuggiti in Kurdistan da più parti del Paese”.
Al termine dell’incontro il vescovo ha celebrato una messa a cui sono seguiti canti e giochi di gruppo. È stato, infine, deciso di ripetere l’appuntamento 4 volte all’anno.

Young people in Kurdistan, “hope for the Church of Iraq”

Source: Asia News

The diocese of Ahmadiya hosts a meeting of some 300 young people who came together to reflect upon mission’s meaning in today’s Iraq and on the ways to meet the challenges that terrorism and sectarian violence represent for the local Church, all without losing hope.

Some 300 young people from ten different villages in Iraqi Kurdistan met last Saturday in Ahmadiya with the bishop and other priests from the diocese. Together they reflected upon “the meaning of the Church’s mission in the world and in today’s Iraq, a country suffering from terrorism and sectarian violence. At the end they went home full of joy and hope,” said Mgr Rabban al-Qas, Chaldean bishop of Ahmadiya, who spoke to AsiaNews.
“A day full of emotions,” as the prelate put it; the meeting took place in the ancient church of Sultana Mahadokht, built in 7th century AD. The gathering was organised for the purpose of “deepening the mystery of the Catholic Church and its mission to the world in order to help young people with the challenges Christians face in Iraq.”
Fr Najib Mosa focused an important need, namely to remember always that “the person of Christ is the basis of the Church and that He is the Good News.”
“Young people have felt the voice of the Church, Christ’s bride, which calls upon them to bring His love to the Islamic world in which they live. With their witness these kids can bring hope to their own families who fled to Kurdistan from various parts of the country,”
said Mgr al-Qas.
At the end of the meeting the bishop celebrated mass. The service was followed by songs and group games.
Finally, those present decided to meet again on a regular basis, four times a year.

11 settembre 2007

Vescovo iracheno: in calo la violenza, ora è tempo di educare la popolazione

Fonte: Asia News

Mons. Rabban al Qas
, di Ahmadiya, concorda con il rapporto Petraeus che registra la diminuzione di attentati soprattutto a Baghdad. E spiega: “La vera soluzione alla crisi deve venire dal popolo iracheno, educandolo alla pace e ai valori democratici”, conosciuti dopo il 2003.

“Una concreta soluzione alla crisi irachena deve venire dal popolo stesso e non dalle armi”. A ribadirlo ancora una volta è mons. Rabban al Qas, vescovo caldeo di Ahmadiya, in Kurdistan. Il leader cristiano parla all’indomani dell’attesa audizione davanti alle Commissioni difesa ed esteri della Camera dei rappresentanti Usa, del comandante delle truppe in Iraq, gen. David Petraeus, circa i risultati seguiti all’aumento delle truppe statunitensi nel Paese.
Petraeus ha riferito che la maggior parte dei risultati prefissati con l'invio dei rinforzi a gennaio sono stati raggiunti; ci sono progressi nella sicurezza; i conflitti settari sono diminuiti. Ma la situazione attuale - secondo il generale - è ancora troppo instabile per un ritiro immediato dei soldati statunitensi. Che potrebbe però avvenire, in modo parziale, a metà del 2008 con il rientro di circa 30mila uomini dei 168mila presenti nel Paese del Golfo.
Il governo iracheno ha accolto con favore il rapporto Petraeus. Mowaffaq al Rubaie, consigliere per la Sicurezza nazionale, ha lodato l’“enorme sacrificio” degli Usa e ha detto che l’Iraq è pronto ad affrontare una riduzione dell’impegno militare statunitense sul suo territorio. Si è detto però contrario ad ogni ritiro affrettato.
Da Baghdad la popolazione conferma il calo delle violenze, ma “non tanto da permettere di uscire di casa senza paura”. Anche mons. Rabban al Qas, citando suoi contatti nella capitale, dice che i kamikaze sono diminuiti negli ultimi mesi e parla di una “seconda fase” della guerra: “Ora che si sono raggiunti risultati, seppur deboli, sul terrorismo, ora che Washington ha cambiato mentalità riguardo la sua politica in Iraq, ora è il momento di cambiare la mentalità degli iracheni, di educare i giovani alla pace e ai valori democratici che in questi 4 anni hanno iniziato a circolare nel Paese”. “Ora dobbiamo aprire le porte alla riconciliazione, pur continuando a lavorare per garantire la sicurezza”, conclude.
Petraeus e l’ambasciatore Usa in Iraq, Crocker, continueranno anche oggi ad illustrare il rapporto davanti al Congresso.

Iraqi bishop acknowledges drop in violence, says it is time to educate the population to peace

Source: Asia News

Mgr Rabban al-Qas
, bishop of Ahmadiya, agrees with the Petraeus report with regard to the drop in attacks, especially in Baghdad. A real solution though must come from Iraqis themselves, from educating the people to the values of peace and democracy learnt since 2003.

“A concrete solution to the Iraqi crisis must come from the people themselves, not from the barrel of the gun,” said Mgr Rabban al-Qas, Chaldean bishop of Ahmadiya, in Kurdistan, speaking a day after the US commander in Iraq, General David Petraeus, began presenting his report to the Armed Services and Foreign Affairs committees of the US Congress on the impact of the recent surge of US troops in Iraq.
General Petraeus said that most objectives had been met by the troop reinforcement. Progress has been reported in the area of security, and sectarian violence has dropped. However, he acknowledged that the current situation remained unstable, preventing an immediate trop withdrawal.
The general did say though that around 30,000 troops could be drawn down from the current level of 168,000 by the middle of next year.
The Iraqi government welcomed General Petraeus’s report. Iraqi National Security Adviser Mowaffaq al-Rubaie praised the “enormous sacrifice” made by the United States, predicting a reduced combat role for US troops, adding however that his government opposed any quick pullout.
In Baghdad many residents have noticed a drop in the level of violence, but “not enough to go out without fear.”
From talks with his contacts in the capital, Bishop al-Qas said that suicide attacks have declined in the last few months. In his view, the war has “entered a second phase.”
“Now that some results have been achieved against terrorism, albeit small ones, after Washington changed its attitude towards Iraq, it is also time for Iraqis to change attitudes. We must educated the young to peace and instil the democratic values that have started circulating in the country in the last four years,”
he said.
“Now we must open the doors to reconciliation whilst ensuring security.”
General Petraeus and US Ambassador to Iraq Ryan Crocker are continuing today the presentation of their report to Congress
.

10 settembre 2007

Dall'arcidiocesi di Kirkuk gli auguri ai musulmani per il Ramadan

Fonte: SIR

Un messaggio per i musulmani e il calendario con i riti del Ramadan per i cristiani. È all’insegna del dialogo l’iniziativa dell’arcivescovo di Kirkuk, mons. Louis Sako, in vista del mese sacro ai musulmani che comincia il 13 settembre. Per l’occasione l’arcivescovo ha inviato un messaggio ai musulmani in cui si legge: “Nella vigilia del sacro mese del Ramadan invio, da parte di tutti i cristiani di Kirkuk, a tutti i nostri fratelli musulmani auguri sinceri. Questo è un momento speciale per la preghiera e il progresso verso la virtù, la riconciliazione, il perdono, la compassione e la pace in favore di tutti gli iracheni”. ”È un mese – aggiunge mons. Sako - in cui ci affidiamo alla pazienza e alla forza per creare una società di amore, armonia, verità e giustizia, curare le nostre ferite, realizzare le nostre speranze di vivere in sicurezza, libertà e allontanare la violenza che ci sovrasta”. Per dare concretezza a queste parole l’arcivescovo invita “i fedeli cristiani a rispettare i sentimenti dei cittadini musulmani e quindi di non mangiare né bere in pubblico durante il mese, non indossare un abbigliamento succinto e unirsi a loro nella preghiera per l’unità, la stabilità, la vita e la dignità degli iracheni”. L’arcidiocesi ha anche pubblicato un calendario dei riti del Ramadan e l’ha distribuito a tremila famiglie della città.

6 settembre 2007

Benedetto XVI riceve il vice-presidente siriano, che gli consegna un messaggio personale del presidente Bashar Al-Assad

Fonte:Radiovaticana

Benedetto XVI ha ricevuto questa mattina (5 settembre) in Vaticano il vice-presidente della Repubblica Araba di Siria, Faruk Al-Sharaa il quale ha consegnato al Papa un messaggio personale del presidente siriano Bashar Al-Assad. Successivamente Al-Sharaa si è incontrato con il segretario per i Rapporti con gli Stati, mons. Dominique Mamberti.

Nel corso dei due colloqui, dopo aver sottolineato lo sforzo di accoglienza da parte della Siria di centinaia di migliaia di profughi iracheni e l’aiuto che ci si attende dagli organismi multilaterali, ci si è soffermati sulle condizioni ed i problemi dei cristiani nel Paese arabo e sul contributo decisivo che la Siria può dare per superare le gravi crisi che travagliano molti popoli del Medio Oriente.

5 settembre 2007

Quando anche in Iraq? Echi della festa di Loreto a Baghdad

Di Daniele Rocchi

"Ho visto le immagini dei giovani italiani, intorno al Papa, a Loreto e ho pianto a lungo. Mi sono ricordato delle volte che con padre Raghid Ganni, (il sacerdote caldeo ucciso il 3 giugno a Mosul con i suoi suddiaconi, ndr), l'ultima due anni fa, siamo stati in pellegrinaggio nella Santa Casa. Vedevo quei volti festanti e mi chiedevo: Quando anche noi faremo festa così in Iraq?".
Esordisce così mons. SHLEMON WARDUNI, vescovo caldeo ausiliare di Baghdad. Al telefono dalla capitale irachena racconta le sue emozioni davanti a quelle immagini e per un momento dimentica le gravi condizioni in cui versa la minoranza cristiana, perseguitata da integralisti e fondamentalisti islamici, e tutto l'Iraq.
Eccellenza, sapeva che a Loreto c'erano anche alcuni giovani iracheni, che facevano parte della delegazione libica?
"Davvero? Ne sono felice e cosa hanno fatto?"
Hanno fatto conoscere ai loro coetanei italiani quanto accade in Iraq e le difficoltà in cui versa la Chiesa e a causa delle quali sono stati costretti a lasciare la loro casa.
"Abbiamo bisogno di aiuto concreto e preghiera. La situazione qui è leggermente migliorata ma le violenze, le minacce, i rapimenti e le uccisioni non mancano. E queste riguardano anche noi cristiani. È quanto mai necessario dare a questo lento miglioramento continuità. Senza di questa non è possibile sperare. Non possiamo muoverci e uscire con sicurezza per cui la gente preferisce restare a casa. Abbiamo da pochi giorni riaperto il nostro asilo ma i bambini sono solo sei. Prima ne avevamo circa settanta. Molte famiglie sono emigrate in cerca di salvezza altre hanno paura a mandarli".

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Eppure Bush, in una visita lampo a Baghdad ha detto che "se i progressi nella sicurezza continueranno sarà possibile ridurre le truppe". È d'accordo?
"Ho saputo di questa visita dalla tv. Secondo me, non è importante ridurre o meno le truppe quanto porre il fondamento della pace nella nazione operando con tutte le forze. Che colpa ha commesso l'Iraq per vivere in questo inferno? Viviamo in condizioni pietose. Qui in questo periodo la temperatura arriva a toccare i 45°; come si fa a vivere senza elettricità? Chi possiede un generatore ha poi difficoltà a reperire benzina e gasolio che è aumentato in maniera spropositata. Per non parlare della divisione che c'è nel Paese".
Non è di molto tempo fa la notizia di un tentativo di riconciliazione nazionale tra sciiti, sunniti e curdi. Una cosa possibile?
"Ogni tentativo di parlare e dialogare è una pietra che si pone nell'edificio della pace, una costruzione che ha bisogno di tanti mattoni. Se mettiamo pietre di incontro, e non di inciampo, giorno dopo giorno alimenteremo la speranza in un futuro migliore. C'è bisogno di dire al Paese che le divisioni sono nefaste e non servono, che la cosa essenziale è il dialogo per avvicinare i cuori. Da questo processo di riconciliazione devono restare fuori gli interessi economici e personali di ogni parte. Serve solo il bene comune. La Chiesa irachena non farà mancare il suo apporto su questo tema decisivo".
E come?
"Va detto subito che ciò che trafigge i nostri cuori è vedere le chiese semivuote. Un tempo traboccavano di fedeli. Ma dobbiamo andare avanti per coloro che restano. I giovani si incontrano, i bambini frequentano il catechismo, anche se le lezioni sono spostate al sabato perché il venerdì c'è coprifuoco. Nelle catechesi cerchiamo di insegnare la pazienza, la tolleranza, la condivisione con i più bisognosi. Abbiamo organizzato un comitato per assistere coloro che sono stati costretti a lasciare le loro case a Dora, un tempo quartiere cristiano. Sono più di 3.000 famiglie. Di queste 1.700 hanno trovato rifugio al Nord o presso dei parenti. Dora è quasi vuota delle 5.000 famiglie cristiane che prima vi abitavano. Queste famiglie hanno bisogno di tutto, sono dovute partire solo con i sandali ai piedi. Non sappiamo cosa fare per aiutarle."

4 settembre 2007

Riduzione truppe, Mons. Warduni (Baghdad) "Operare per la pace lasciando fuori gli interessi di parte"

Fonte: SIR

“Non è importante tanto ridurre o meno le truppe quanto porre il fondamento della pace nella nazione operando con tutte le forze mettendo da parte gli interessi di ciascuna fazione”.
Reagisce così il vescovo caldeo, ausiliare di Baghdad, mons. Shlemon Warduni alla notizia della possibile riduzione delle truppe in Iraq espressa dal presidente americano Bush nel corso della sua visita lampo nel Paese. "Viviamo in condizioni pietose” rimarca al Sir il vescovo che poi domanda: “che colpa ha commesso l’Iraq per vivere in questo inferno? In questo periodo la temperatura arriva a toccare i 45°; come si fa a vivere senza elettricità? Chi possiede un generatore ha poi difficoltà a reperire benzina e gasolio che è aumentato in maniera spropositata. Per non parlare della divisione che c’è nel Paese.” Su questo punto mons. Warduni giudica positivo “ogni tentativo di riconciliazione” tra sciiti, sunniti e curdi. “Ogni tentativo di dialogare è una pietra nell’edificio della pace. Se mettiamo pietre di incontro, e non di inciampo, alimenteremo la speranza in un futuro migliore. Da questo processo di riconciliazione devono restare fuori gli interessi economici e personali di ogni parte. Serve solo il bene comune. La Chiesa irachena non farà mancare il suo apporto su questo tema decisivo”

3 settembre 2007

I venditori di sangue trovano un mercato di nicchia a Baghdad

Fonte: IRIN

BAGHDAD, 3 September 2007 Mentre il Centro Nazionale Iracheno per la Donazione del Sangue (Iraqi National Centre for Blood Donation - INCBD) chiede agli iracheni di donare il sangue per far fronte alla sempre maggior domanda, coloro che vogliono vendere il proprio sangue si riuniscono negli ospedali sperando di guadagnare qualcosa. E, tra essi, coloro che offrono un sangue di tipo raro hanno più possibilità. "In molti casi famiglie disperate cercano i venditori di sangue che si possono trovare nei pressi dell’ospedale e del maggior centro trasfusionale di Baghdad. " dice Abdallah Farhan Ahmed, chirurgo al Medical City Hospital. “I tipi di sangue più rari sono i più cari e noi non possiamo obbligare la gente a donarlo.”

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Ahmed dice che gli “agenti” offrono sangue anche davanti la sede dell’INCBD. Chiedono 20/30 $ ogni 350 ml. In un paese dove, secondo il Ministero degli Affari Sociali e del Lavoro, la disoccupazione supera il 38%, la vendita di sangue per molti è un’opzione allettante.
“Ho bisogno di dar da mangiare alla mia famiglia, ed altri hanno bisogno di sangue per salvare la vita dei loro cari, è uno scambio equo. Vengo qui ogni mese a vendere il mio sangue. So che dovrei farlo meno frequentemente ma sono disoccupato e la mia famiglia ha bisogno di mangiare” dice un venditore di sangue che preferisce rimanere anonimo.
La continua violenza a Baghdad ha mantenuto alta la richiesta di sangue: “L’aumento della violenza in Iraq ci ha impedito di fare scorte” dice Maruan Haydar, un dirigente del Ministero della Salute, “chiediamo tutti i tipi di sangue, e specialmente quello di tipo raro come AB o 0.”
Ahmed ha riferito ad IRIN che per almeno un intervento su cinque c’è bisogno di una trasfusione, e che in molte occasioni si sono dovuti posporre degli interventi per l’indisponibilità del sangue necessario.
“Interveniamo solo in casi di emergenza. Gli interventi all cuore ed la cervello vengono rimandati finché il sangue è disponibile, ed a volte ci vogliono più di due settimane” dice.

Area pericolosa


Secondo Haydar, dal gennaio 2006 il numero di donatori è diminuito con l’aumentare della violenza nel distretto di Bab-al-Muadham, dove si trova la sede dell’INCBD.
“Il centro si trova in una delle zone più pericolose della capitale e la gente ha paura di andarci per donare il sangue, ma noi dobbiamo continuare a fare gli appelli” dice, “abbiamo chiesto al Ministero degli Interni di rafforzare la sicurezza nel distretto così che la gente possa donare il sangue in sicurezza, ma la presenza di diverse milizie ha diffuso la paura.”
Il centro ha fatto molti appelli per la donazione nei passati tre anni, ma secondo alcuni funzionari il problema ora è grave.
Abu Muhammad Farez, 41 anni, ha donato sangue al centro nei passati otto anni, ma ha riferito ad IRIN che (quella) sarebbe stata l’ultima volta a causa della mancanza di sicurezza.
“Per raggiungere il centro sono stato fermato ai posti di controllo dalle milizie e dalla polizia locale. Dato che ho la barba lunga mi hanno accusato di essere un sostenitore degli insorti” dice Farez, "so che è ridicolo, ma non credevano che qualcuno potesse essere lì per aiutare altri iracheni e non per ucciderli.”
“Purtroppo smetterò di donare il sangue finché non mi sentirò abbastanza sicuro per tornare al centro.”

Blood sellers find market niche in Baghdad

Source: IRIN

BAGHDAD, 3 September 2007 - As the Iraqi National Centre for Blood Donation (INCBD) urges Iraqis to donate more blood to help meet increasing demand, individuals wishing to sell their blood congregate at hospitals in the hope of being able to make some money. Those offering rare blood types are best able to cash in.
“In many cases, desperate families look for blood sellers who can be found around the hospital and at the [Baghdad’s main] blood centre,” Abdallah Farhan Ahmed, a surgeon at Medical City Hospital, said. “The most expensive blood types are the rare ones and we cannot force people to give them for free.”

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Ahmed said “agents” also stand in front of the INCBD offering blood. They charge US$20-30 for every 350 cu. cm of blood. In a country where, according to Iraq’s Ministry of Labour and Social Affairs, unemployment stands at over 38 percent, the sale of blood is an attractive option for many. “I need to feed my family, and others need blood to save their loved ones and it is a fair exchange. I come here every month to sell my blood. I know I should do this less frequently but I’m unemployed and my family needs to eat,” said a blood seller who preferred anonymity. The continuing violence in Baghdad has kept the demand for blood high: “The increase in violence in Iraq has prevented us from storing adequate blood supplies,” said Maruan Haydar, a senior official in the Ministry of Health. “We are requesting donations of all types of blood… especially rare types like AB and O,” he said.
Ahmed told IRIN that at least one in five operations in the hospital require a blood transfusion and that on many occasions they had to postpone operations because the type of blood required was not available. “We perform operations only in emergencies. Heart and brain operations are being postponed until the right blood is available - and that sometimes might take over two weeks,” Ahmed said.

Dangerous area

According to Haydar, since January 2006 the number of blood donors has been decreasing as the level of violence has increased in the Bab al-Muadham District of Baghdad where the INCBD has its premises. “The centre is located in one of the most dangerous areas of the capital and people are scared to take the risk [of going there to donate blood] but we have to continue with our appeal,” Haydar said. “We have asked the Ministry of Interior to reinforce security in the district to allow people to donate blood in safety, but the presence of different militias has brought fear.”
The centre has issued many appeals for blood donations in the past three years but according to officials the problem is now critical. Abu Muhammad Farez, 41, has been donating blood to the centre for the past eight years but he has told IRIN that this will be his last time as security has been deteriorating and he cannot take any more risks. “To reach the centre I was stopped at checkpoints manned by militias and local police… Because I have a long beard they accused me of being a supporter of the insurgents,” Farez said. “I know it is ridiculous but they didn’t believe that someone was in that area to help other Iraqis rather than kill them.” “Unfortunately I will stop donating until I feel secure enough to return to the centre,” Farez added.