"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

31 marzo 2015

L'ulivo della speranza tra i cristiani d'Iraq

By Avvenire

“Allelujah, ah, ah, ah”,
urlano le donne con un suono simile a quello dei bambini quando giocano a fare i pellirossa. “Allelujah”, Jesuah entra a Gerusalemme. All’ora della processione, tra i profughi di Erbil, un ragazzo gira per lo spiazzo con uno scampanio a tutto volume: “Vatican’s bells”, sono le campane del Vaticano, spiega agli stranieri.
Domenica a Erbil, tra i cristiani espulsi a forza dall'Is dall'antica città di Qaraqosh, la Domenica delle palme è stata una festa partecipata eppure nostalgica: il pensiero andava agli anni precedenti, quando nessuno, tra i 50mila siro-cattolici di Qaraqosh, poteva mancare alla processione che dava il via alla Settimana santa.
Per questo padre Jalal Yako nella Domenica degli ulivi ha voluto con tutte le sue forze passare fra i cunicoli stretti dai container di Ashti camp, a Erbil: la tenacia della fede, di chi anche lì, lontano da casa, trova la forza di ricominciare. Sono 233 container che ospitano 265 famiglie: nemmeno uno a testa per circa 15 metri quadrati a nucleo. Durante la processione i fedeli agitano l’ulivo pensando al futuro: torneremo, ma solo se ci sarà una protezione internazionale. Pace, sperando che un giorno ci possa essere giustizia.

Cor Unum in Iraq: la solidarietà del Papa nel dramma degli sfollati


Mentre è in corso la visita in Iraq del Prefetto di Propaganda Fide il card. Fernando Filoni, è rientrata a Roma da Baghdad, la delegazione vaticana guidata dal Pontificio Consiglio Cor Unum, il dicastero della Carità del Papa, che ha portato la solidarietà del Papa e della Chiesa agli sfollati cristiani iracheni, fuggiti dalle zone occupate dal sedicente Stato Islamico. Sulla finalità di questa missione, Roberto Piermarini ha intervistato il sotto-segretario di Cor Unum a capo della missione, mons. Segundo Tejado Muñoz:
 La finalità è stata anzitutto quella di andare ad incontrare le persone sfollate e le famiglie sfollate, che hanno dovuto lasciare la loro terra e che sono stati cacciati, espulsi. E poi, come Pontificio Consiglio Cor Unum, essendo incaricati di tutte le agenzie di carità e di solidarietà, anche quella di andare a visitare queste Agenzie e gli operatori che lavorano lì, quindi in primis la Caritas e infatti era con noi anche il segretario generale della Caritas Internationalis, il dottor Michel Roy; il presidente della Caritas del Medio Oriente, il professor Farah. Quindi una delle nostre finalità era propria quella di visitare tutte gli operatori che stanno lavorando lì e che molte volte sono i più dimenticati, mentre invece sono le nostre braccia, perché noi non possiamo stare lì e non tutti possiamo andare lì ad aiutare. Noi abbiamo delle braccia, la Chiesa ha delle braccia che ci aiutano e che, con il nostro contributo, portano avanti dei programmi, che possono andare ad aiutarli e che possono incoraggiarli… Tante volte lavorano veramente in situazioni difficilissime.
Come stanno operando?
Appoggiati alla Chiesa locale, perché quelle sono realtà che, se non hai un appoggio locale, è molto difficile e molto complicato riuscire a capire, riuscire a capirne le dinamiche, le situazioni e le difficoltà. Per cui la Caritas Iraq ha preso in mano tutto il coordinamento di questa missione e lo fa in situazioni veramente difficili. Ci sono famiglie che sono state mandate vie dalle loro abitazioni e questo genera in loro anche un rancore, sviluppa una violenza che poi rischia di esplodere in tutti i sensi. Ci hanno parlato delle difficoltà, degli uomini che non lavorano e stanno tutto il giorno senza far niente… Sono situazioni molto complicate, che generano molte tensioni. Lavorare in queste situazioni – da quello che noi abbiamo capito e da quello che loro stessi ci hanno spiegato – è veramente difficile. Portare a queste persone - che sono lì, che stanno lavorando - il sostegno della Chiesa, a noi sembra veramente molto, molto importante anche per poter poi aiutare concretamente i poveri e per svolgere un lavoro che non sia semplicemente portare da mangiare o cercare di fornire loro un alloggio; ma portare anche qualche altra cosa, che è questa presenza del Signore, anche in questa situazione assurda e completamente ingiusta.
Quale è stato l’itinerario della vostra missione lì in Iraq?
Siamo arrivati a Erbil, nella zona curda, perché lì l’aeroporto è ancora aperto. Da lì ci siamo mossi verso il villaggio di Duhok, dove è presente la gran parte degli sfollati della Piana di Ninive: ci sono cristiani, ma anche non cristiani e appartenenti alle altre minoranze; ci sono soprattutto gli yazidi. Lì abbiamo visitato alcuni Campi e abbiamo potuto vedere alcuni dei progetti che sta facendo la Caritas Iraq, soprattutto riguardo al tema dell’educazione e della sanità, ma anche riguardo all’affitto di abitazione o alla costruzione di abitazioni per le famiglie: si cerca di dare anche una dignità abitativa, perché le tende tante volte non aiutano… Da lì siamo poi tornati a Erbil, dove abbiamo visitato altri tipi di Campi, composti da container o da palazzi ancora non terminati, che sono stati divisi con delle mura affinché vi possano alloggiare le famiglie. Abbiamo poi incontrato il vescovo di Erbil, così come in precedenza il vescovo di Duhok; abbiamo avuto anche incontri con le organizzazioni umanitarie che operano lì, quindi con la Caritas, con il Jrs dei Gesuiti, la Focsiv… Ci sono tantissime realtà che operano. Abbiamo avuto anche un incontro molto interessante con il rappresentante delle Nazioni Uniti, che ci ha illustrato tutta la situazione: le Nazioni Unite sono molto preoccupate, perché purtroppo stanno venendo meno i fondi e c’è il rischio di dover tagliare alcuni progetti. Approfitto di questa occasione per fare appello alla solidarietà dei cattolici, perché non dovremmo chiudere alcun progetto per mancanza di fondi. Credo che sia una situazione abbastanza complicata e dal punto di vista umanitario molto, molto grave.
Avete portato anche la solidarietà di Papa Francesco?
Sì. Il giorno prima di partire – il 25 marzo – sono andato con mons. Khaled Ayad Bishay, che è l’officiale della Congregazione delle Chiese orientale, con il quale abbiamo fatto questo viaggio. Abbiamo portato due icone della “Madonna che scioglie i nodi”, perché abbiamo capito che in Iraq e in tutta questa situazione ci sono tanti nodi da sciogliere: quale segno migliore se non portare la Madonna che scioglie i nodi? Quindi abbiamo portato questa Madonna benedetta dal Papa ai vescovi, ai rappresentanti di queste Chiese, di queste agenzie, di questi poveri, di questi sfollati. Il Papa, prima di partire, ci ha benedetto, ci ha incoraggiato ad andare e siamo andati lì con questa benedizione. Abbiamo portato, in questo tempo pasquale, la notizia che Cristo è risorto e che anche in una situazione così difficile – è un vero e proprio inferno quello che vivono tante famiglie – c’è sempre una luce, che è la Resurrezione di Cristo, che ha vinto la morte e ci ha fatto partecipi della sua vita immortale. Quindi abbiamo portato questo messaggio ai cristiani e abbiamo portato anche la speranza a chi non è cristiano di un futuro ritorno… Ma anche ritornare alle abitazioni che hanno lasciato adesso non è facile. Volevamo portare questa testimonianza e il Papa ci ha incoraggiato e ci ha inviato.
Che cosa le ha lasciato questa esperienza e questa missione in Iraq?
Io avevo vissuto già la guerra del Kosovo, quando ero il direttore della Caritas Albania: anche lì abbiamo dovuto accogliere gli sfollati che venivano dal Kosovo. E’ stato un po’ rivivere quel momento. Era la stessa situazione. Una famiglia che viene costretta a lasciare la propria casa, la propria vita, a prendere i propri bimbini e andare verso una terra che non conoscono; non sanno se saranno accolti o se non saranno accolti: è un dramma veramente enorme! Per una persona sola forse è diverso, ma per una famiglia è una cosa molto seria. Io ho vissuto la stessa situazione e mi ricordo quando arrivano dal Kosovo con i trattori, con il nonno, con la nonna, con i bambini; tutta la famiglia. Erano disperati per aver dovuto lasciare tutto. Subito dopo sono tornati e la stessa cosa accede qui: quello che desiderano è tornare, tornare nella loro casa. Tante volte ci dicevano: “Non sarà facile, perché spesso siamo stati denunciati anche dagli stessi vicini; siamo stati minacciati e costretti ad andare via dai nostri vicini, perché ci dicevano che quando sarebbe arrivato l’Is, ci avrebbero denunciato”. Quindi adesso tornare è una situazione complicata: qualcuno di loro, parlandoci, ci ha mostrato questa difficoltà di tornare. E’ veramente una situazione drammatica! Anche vedere questi bambini che, nonostante tutto, sono bambini e quindi sempre allegri, che corrono; si mettevano davanti a noi per fare le fotografie… E’ la vita. Però in questa vita che sorge c’è il dramma di un popolo che viene costretto a fuggire. Si parla di 2 milioni e mezzo di sfollati, senza parlare poi della Siria. Solo in Iraq! Sono molte persone, molte famiglie, molti drammi: li abbiamo toccati con mano, certamente poco, perché pochi sono stati i giorni che siamo stati lì; abbiamo toccato con mano la sofferenza di queste persone, di queste famiglie. 

Cristiani in Iran: c’è sicurezza, ma si vive come in un ghetto

By Asia News
Bernardo Cervellera


Un altro colpo alla presenza cristiana è stata l’emigrazione, talvolta dovuta a persecuzioni dirette, spesso alle difficoltà economiche, alle guerre, alla pressione sociale. Rimane il fatto che le comunità cristiane sono tutte microscopiche. Ho visitato la piccola chiesa armeno-cattolica di Teheran: circa 200 persone, una sessantina di famiglie. Per 2 anni sono rimasti senza vescovo e questo, oltre all’emigrazione all’estero, ha contribuito a una maggiore dispersione. L’episcopio – parola grossa– è una casetta a due piani, con una scaletta interna ripida e stretta. Metà degli spazi sono dedicati agli uffici e metà all’appartamento del vescovo, mons. Neshan Karakeheyan, amministratore patriarcale di Isfahan, che ha ormai raggiunto l’età della pensione e sembra molto stanco. Mentre ci offrono dolci (è domenica) e un tè, mi parla della loro situazione. Il vescovo fa notare che in Iran non c’è persecuzione violenta e c’è sicurezza per i cristiani, ma non si può dire che i cristiani abbiano tutti i diritti come gli altri cittadini: si è ben accetti, ma non si deve fare proselitismo (e missione); si fa pastorale interna alla comunità, ma niente visibilità all’esterno; e soprattutto niente conversioni. Un ritornello che in molti mi hanno ripetuto è che le comunità cristiane sono costrette a mandare via tutte le persone musulmane che vengono a chiedere il battesimo, perché questo creerebbe un forte contrasto col governo.
Ascoltando alcuni laici vengo a conoscere di una certa emarginazione nella società: gli armeni hanno molti dottori, ma nessuno di loro diviene primario; vi sono molti soldati (il servizio militare è obbligatorio), ma nessun armeno diviene generale o colonnello; vi sono molti insegnanti, ma nessuno è preside. Anche nelle scuole armene, il direttore è fissato dal governo ed è musulmano. Nelle scuole si segue il curriculum governativo, ma le scuole cristiane hanno la libertà di non insegnare l’islam e hanno invece 2 o 3 lezioni alla settimana di catechismo per gli studenti armeni.
Per molte attività pastorali (catechismo, incontri, ecc…) il venerdì, che qui è giorno di festa, ha preso il posto della domenica. Qualche comunità celebra perfino la messa “domenicale” al venerdì perché i loro membri non riescono ad avere altro giorno libero durante la settimana.
Le chiese cristiane affascinano gli iraniani per il silenzio che vi domina, l’armonia, la bellezza, i dipinti: la cultura iraniana non ha mai digerito l’iconoclastia fondamentalista e ha sempre usato la pittura e la miniatura perfino per dipingere il profeta Maometto. Di recente, solo durante il periodo di Khomeini vi è stata una chiusura al dialogo con le altre tradizioni religiose. All’uscita della chiesa, a un lato dell’edificio, vi è una grotta di Lourdes, con tanti ex voto di persone guarite o di donne che hanno potuto avere figli grazie alla Vergine. Davanti alla statua di Maria, una donna si ferma in silenzio, avvolta nel chador nero. Dopo che si è allontanata, mi dicono che è una musulmana sposata da diverso tempo e che non riesce ad avere figli. Così viene spesso davanti alla Vergine per chiedere questa grazia.
Ci spostiamo nella chiesa di san Giuseppe, dove si raduna la comunità caldea. Nel cortile interno ci accoglie un sacerdote che ci regala le “palme” della domenica delle Palme. Qui però non si usano i rami di ulivo, ma quelli di qualche pianta da fiore con lo stelo rosso e con piccoli germogli di foglie, molto profumate.
Dopo alcuni minuti in preghiera, andiamo dal vescovo, mons. Ramzi Garmou, un settantenne dall’aria nobile e robusta, che serve circa 2mila fedeli. Ad una mia domanda sulla missione della Chiesa, anche lui mi dice che devono allontanare i musulmani che chiedono di essere battezzati. Anche mons. Ramzi fa notare però che i cristiani in Iran vivono sicuri, senza attacchi di sorta. E fa il paragone con l’Iraq e con quanto gli racconta spesso il patriarca di Baghdad, Mar Louis Sako, suo superiore.
L’impressione che i cristiani vivano come in un ghetto, tollerati, ma divisi e isolati dal resto della società, è fortissima quando vado a visitare il centro Ararat, della comunità armena apostolica. Il centro è dotato di tutto: piscina, campo di calcio, una chiesa armena moderna, un bar, e perfino una scuola di danza e di musica per bambine e ragazzine armene. Al tempo di Khomeini era proibito il canto e la danza. Anche di recente, sotto Ahmadinejad, il predecessore di Rouhani, vi sono state campagne moralizzatrici contro i giovani che si trovavano a cantare e danzare. Ma al presente, almeno a Teheran, si incontrano giovani che nei giardini suonano la chitarra o osano portare magliette con le maniche corte..
Per ogni evenienza, la direttrice della scuola di danza mi chiede di non pubblicare le foto delle piccole e degli esercizi. Va detto che l’entrata al Centro è proibita ai musulmani. Eppure tutti sembrano contenti di questa situazione: i musulmani, che me lo presentano come un esempio di tolleranza, e gli armeni, che applaudono al governo per questa libertà concessa. Ai presenti chiedo se in questo modo si sentano influenti nella società. Risposta: per nulla.
Alla fine facciamo visita alla piccola cappellina armena, in stile moderno, ma con la tipica cupola a cono e con arte armena  contemporanea, piena di afflato spirituale. Attorno all’edificio vi sono alcune antiche pietre tombali portate là da cimiteri armeni in tutto l’Iran, segno della lunga storia di questa comunità perseguitata nei secoli.  All’interno della chiesa, vi è una scultura, una Madonna con bambino stilizzata, che potrebbe figurare molto bene in un museo di arte moderna. Anche rinchiusa in un ghetto, la creatività non si è inaridita.
I tre giorni del triduo Pasquale li ho vissuti con la comunità dei salesiani di Teheran, che hanno la responsabilità della comunità latina. Essa è una comunità internazionale che attorno al rito latino raccoglie, insieme a pochi iraniani, diplomatici stranieri e lavoratori stranieri: indiani, coreani, filippini, congolesi, italiani, inglesi, francesi. In passato, per la presenza di molti stranieri e di un’economia galoppante, questa comunità era molto numerosa. Ora l’embargo e le difficoltà finanziarie dell’Iran hanno ridotto la sua consistenza a poche centinaia di fedeli. Il padre di questa comunità è mons. Ignazio Bedini, vescovo di Isfahan dei latini, ormai 75enne. Il vescovo, amato da tutti, è in Iran da 50 anni e ha vissuto tutti i passaggi di regime: dallo scià a Khomeini, da Khatami ad Ahmadinejad, fino a Rouhani.  In attesa di dare le dimissioni, si è lanciato nel progetto di costruire la nuova cattedrale dei latini, che sta emergendo in un quartiere nuovo, e che sarà dedicata al Sacro Cuore. I salesiani stanno anche cercando benefattori per sostenere quest’opera così importante, che rende presente la comunità nei nuovi quartieri della capitale. Il terreno – molto difficile da ottenere - è stato concesso da Rouhani, ma il progetto ha dovuto sottostare alle regole di sempre: la facciata non deve essere visibile dalla strada.
Parlando con diversi cristiani, si percepisce il timore che la ventata di novità di Rouhani sia solo passeggera. E vi è anche un po’ di sfiducia perché “in tutti questi anni abbiamo sentito parlare molto e promettere molto, ma poi non si è verificato nulla”.

Cristiani in Iran: con Rouhani qualcosa si muove

By Asia News
Bernardo Cervellera

L’Iran è sotto i riflettori mondiali: fra oggi e domani si dovrebbe (come molti sperano) giungere a un accordo o almeno a una bozza di accordo che garantisca la comunità internazionale sul fatto che l’Iran faccia un uso pacifico del suo programma nucleare e alleggerisca Teheran di tutte o una parte delle sanzioni economiche e finanziarie di cui è stata fatta oggetto da quasi 30 anni, cresciuti poi negli ultimi quattro. Le delegazioni e i ministri degli esteri interessati (i 5+1: Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania, oltre all’Iran) si stanno incontrando a Losanna.
Non si sa molto sulle discussioni. Dalle poche parole espresse da rappresentanti anonimi o da noti ministri degli esteri, entrambe le parti vorrebbero riuscire a varare un accordo che si può definire “storico”; entrambe le parti però stanno negoziando da una parte il numero delle centrifughe per l’uranio che Teheran potrà usare per scopi medici e pacifici (6, 7mila, 10mila); dall’altra le tappe per la cancellazione delle sanzioni (alcune subito, altre entro quattro mesi, altre dopo 10 anni).
Ho già spiegato alcuni giorni fa perché è importante per la comunità internazionale giungere a una riconciliazione con l’Iran (v. qui). Non tutti sono d’accordo. I più negativi sono il premier Benjamin Netanyahu, che preferisce “nessun accordo” meglio di “un cattivo accordo”, e l’Arabia saudita che accusa Teheran di voler mettere sottosopra il Medio oriente. Entrambi però non confessano tutta la verità: il primo che è leader dell’unica potenza nucleare in Medio oriente e che cerca di non avere concorrenti; la seconda, non dice quanti petrodollari sono usati per diffondere il fondamentalismo wahabita che sta scuotendo l’Asia, l’Africa e il mondo, per non parlare del sostegno economico e militare dato all’Isis, ora autoproclamatosi Stato islamico.
Al di là di tutte le lotte politiche, a noi interessa la vita del popolo iraniano. Per questo lo scorso anno, di questi tempi, vicino a Pasqua, mi sono recato in visita in questo affascinante Paese, a incontrare il suo popolo, i suoi giovani, le sue Chiese. Sulla situazione delle persone colpite dall’embargo, ho già detto in passato. Come pure sull’islam sciita, più aperto e dialogico dell’islam sunnita: ne sono prova le traduzioni di testi religiosi in persiano da parte di diversi autori musulmani, che hanno perfino tradotto il Catechismo della Chiesa cattolica. Resta da comprendere come vivono i circa 350mila cristiani in Iran, appartenenti a diversi riti. Per alcuni essi vivono in una persecuzione soffocante; per altri essi godono una libertà meravigliosa. Tenendo conto che il Paese è musulmano al 98 % (sciiti 86,1%; sunniti 10,1%; altri musulmani 2%) la libertà garantita ai cristiani è senz’altro maggiore rispetto ad altri Paesi della regione, anche se non mancano problemi e violenze.

Il mio viaggio fra i cristiani dell’Iran comincia da una visita al ministero delle minoranze, guidato dall’hojatoleslam Alì Younesi, che gestisce i rapporti con cristiani e ebrei, ma anche con le minoranze etniche, fra cui baluchi e curdi, sempre inquieti verso il governo centrale. Questo ministero, mi dice, è stato voluto proprio dal presidente Hassan Rouhani, che “ha a cuore i diritti di tutti i cittadini, di qualsiasi religione, razza, cultura. Tutto il popolo iraniano deve godere stessi diritti e la stessa dignità”.
Un rappresentante cristiano alla Majlis (parlamento), il sig. Yonathan Betkolia, assiro, è entusiasta di Rouhani e del suo nuovo corso. Mi dice che la comunità assira e caldea sono in Iran da 3mila anni (forse come etnie!); che cristiani e musulmani vivono insieme dall’inizio, da 1400 anni; che a Urmiyeh, nel nord del Paese, dove vi sono le prime tracce cristiane, sono conservate le tombe dei Re magi; che vi sono molte chiese che ora, con l’esodo dei cristiani, sono curate da musulmani.
Gli domando se in questi anni i rappresentanti cristiani al parlamento hanno portato qualche risultato per migliorare la libertà religiosa dei cristiani. Mi racconta un fatto interessante: fino a poco tempo fa vi era una antica legge che garantiva il cosiddetto “prezzo del sangue”: se uno veniva assassinato e l’omicida preso e condannato, questi doveva pagare il prezzo del sangue alla famiglia dell’ucciso. Ma per un musulmano tale prezzo era di 60 milioni di rial; per un cristiano era 3 milioni di rial. I rappresentanti delle minoranze hanno ottenuto che il prezzo del sangue fosse uguale per tutti, cristiani e musulmani, cioè 150 milioni di rial.
Un’altra legge che si sta per cambiare è quella sull’eredità. Tale legge impone che se un membro della famiglia è musulmano, tutta l’eredità vada a lui e non sia suddivisa fra i membri. Questo ha portato spesso a false conversioni all’islam dettate dalla voglia di impossessarsi di tutti i beni di famiglia. Questa legge la vuole cambiare proprio il ministro Younesi.
Quello delle conversioni dall’islam a un’altra religione e viceversa sono un punto che fa paura all’Iran. “Noi – mi dice - non amiamo che i musulmani costringano le minoranze a diventare musulmane. O viceversa che le minoranze facciano proselitismo [lett.: “propaganda al fine di cambiare la tua mente”]… Noi vogliamo che ognuno viva accanto all’altro, che la moschea viva accanto alla chiesa. Ma non desideriamo né il proselitismo, né il cambiamento [la conversione].
L’unità nazionale e la sicurezza del nostro Paese viene minacciata: questo equilibrio che attualmente vive fra di noi è a favore delle minoranze e noi non vogliamo  rompere questo equilibrio”.
La “sicurezza” è dunque il motivo per cui non si accettano conversioni in un senso o nell’altro. Ed è il motivo per cui il proselitismo viene perseguito come un crimine: ne sanno qualcosa le comunità protestanti che spesso diffondono la loro fede in pubblico, spingono alla conversione, mettono a capo delle loro comunità dei musulmani convertiti. Secondo il Christian Today  (pubblicazione anglicana)  del 27 ottobre 2014, vi sono almeno 49 cristiani protestanti in prigione, accusati di “proselitismo”.
Ma se il “proselitismo” - come pressione e manipolazione della coscienza altrui - è da condannare, rimane il fatto che perfino il parlare in pubblico della propria fede cristiana rischia di essere bollato come “proselitismo” e perciò proibito. Questa situazione ha portato le comunità cristiane a rinchiudersi via via nel loro gruppo, impossibilitati a offrire la loro fede all’esterno, assistendo a una crescita solo per via… demografica, con il battesimo dei figli dei cristiani.
Per il nunzio vaticano, mons. Leo Boccardi è vero che ci sono freni alla missione, “ma con tutto questo c’è ancora spazio disponibile per dialoghi fruttuosi con il mondo islamico. E in ogni caso qui le chiese hanno libertà di culto, che è impossibile vedere altrove; sono sicure, nessuno li tocca; non c’è terrorismo”. Il nunzio, molto ottimista, parla  di una “nuova atmosfera” portata da Rouhani e un senso di maggiore libertà.

30 marzo 2015

Iraq, dove la guerra non si sente. Ma si vede

By ACIstampa

La Messa di Pasqua sarà officiata dal Cardinal Fernando Filoni in una tenda, ad Erbil. Perché è quello il posto dove ascoltano Messa i profughi arrivati nella zona Nord dell’Iraq, nel Kurdistan difeso dai Peshmerga. La tenda l’hanno messa lì per loro, e non si sa quanto resterà. C’è chi sa già che i tempi sono lunghissimi. E c’è chi spera che in sei mesi Mosul sarà ripresa dalle forze dello Stato Islamico, che è lì, a due passi, e diventa ancora più vicino quando si va da Erbil e Duhok e ritorno, costeggiando Alqosh, la città che fino a poco tempo fa era nelle mani dello Stato islamico. Ma tutto è sicuro, e la vita scorre regolare, ad Erbil, come a Duhok. Ci si abitua a tutto. Anche alla guerra.
Il Cardinal Filoni sarà in Iraq tutta la Settimana Santa. E' stato preceduto da una delegazione guidata dal Pontificio Consiglio Cor Unum. Composta da Caritas Internationalis, i rappresentanti delle Caritas locali e di alcune altre organizzazioni della carità cattoliche partner, la delegazione ha visitato Erbil e Duhok, portando solidarietà e conforto ai rifugiati e portando in dono ai vescovi locali una icona della Madonna che scioglie i nodi, per cui Papa Francesco ha grande venerazione. È stato lo stesso Papa a benedire le immagini prima della partenza della delegazione. AciStampa ha partecipato al viaggio. Lì, Caritas Iraq ha pianificato una serie di incontri istituzionali, ma anche visite ai campi profughi. Mai come ora c’è bisogno di sollecitare la comunità internazionale, perché la questione iraqena non sia dimenticata.
A Erbil, la vita scorre come tutti i giorni, la guerra non si sente. Ma se ne vedono i segnali. La capitale del Kurdistan doveva diventare – nelle intenzioni – la Dubai dell’Iraq, e ne sono prova i palazzi in costruzione, nella zona periferica che va verso l’aeroporto. Ma le costruzioni si sono fermate con lo scoppiare della crisi. Grandi carcasse di grattacieli si stagliano nel paesaggio. E ci sono anche alcune costruzioni non rifinite, nella periferia della città.
È un paesaggio che i profughi vedono da lontano, perché i loro campi sono in fondo lontani dal centro città. Sono arrivati in circa 2 milioni e mezzo, a più ondate. Prima di giugno 2014, ce n’erano circa 580 mila. Tra giugno e luglio, quando Mosul è stata attaccata, ne sono arrivati 647 mila. Da agosto in poi, quando l’avanzata dell’autoproclamato Stato islamico, ne sono arrivati altri 1 milione 310 mila.
Sono stati sistemati in tende, poi in container, poi si è avviato un piano per l’affitto di case. L’arcivescovo di Erbil, Bashar Warda, ha spiegato che il piano casa è stata una priorità per l’accoglienza dei rifugiati. “Andando un po’ fuori da Erbil ci sono case, sfitte, appena finite o ancora da rifinire. Abbiamo convinto i proprietari ad affittarle alle famiglie di rifugiati,” racconta. E spiega poi che accanto ad ogni nuovo quartiere si è voluta costituire una parrocchia, per dare un senso di comunità.
Gli affitti non sono bassi, vanno dai 500 ai 1000 dollari, ma – aggiunge l’arcivescovo – “in quelle case possono vivere da 2 a 3 famiglie, che possono condividere l’affitto e pagarlo con il lavoro che trovano.”
Il 35 per cento dei profughi, adesso, è in case prese in affitto secondo il piano organizzato dall’arcidiocesi. Un dato che testimonia anche l’altra faccia di questa crisi di guerra che a volte sembra surreale. Ovvero, che molti di quelli che sono scappati improvvisamente da Mosul o dalla piana di Ninive sono borghesi, alcuni con un lavoro specializzato, altri comunque con un reddito che permetteva una vita dignitosa. Si deduce dal costo della vita ad Erbil, non altissimo, ma nemmeno basso per essere quello di un paese che affronta una emergenza. E costi simili si hanno a Duhok, un’altra città curda che ha accolto rifugiati. E un’altra città dove tutti si sono abituati alla guerra.
Ci vorrebbe forse un’ora e mezza per muoversi da Erbil a Duhok, percorrendo l’autostrada che collega le due città passando attraverso Mosul. Ma Mosul è in mano allo Stato Islamico, e così si deve fare un lungo giro, spostandosi dall’autostrada a strade più accidentate, stando bene attenti all’indisciplinatezza dei guidatori iraqeni.
Si capisce che c’è la guerra perché ci sono i checkpoint, ma l’impressione guardandosi intorno è che tutto scorra in maniera regolare. Di venerdì, quasi tutti vanno sulle montagne, accendono barbecue, e c’è persino qualcuno che festeggia un matrimonio. Il vescovo di Duhok Rabban al-Qas ci tiene ad enfatizzare che “c’è grande sicurezza, tutto funziona benissimo, si può persino andare in strada a mezzanotte.” Ma – al di là della grande organizzazione di sicurezza messa in piedi dai peshmerga – basta allargare lo sguardo per comprendere che non è proprio così.
Vicino Duhok c’è Sharia, un villaggio che è stato trasformato in un cosiddetto “Informal settlement,” una sorta di campo informale per profughi. Quelli che sono lì, sono quasi tutti yazidi. Nel campo, i bambini fanno qualche attività scolastica (anche questa definita informale) e ricreativa, vicino si è stabilito un piccolo mercato di frutta quasi tutta importata non si sa come, e tutti cercano di dare un ritmo regolare alla loro vita. Anche lì, la guerra non si sente. Ma finalmente si vede. Si vede negli occhi i coloro che hanno dovuto lasciare tutto all’improvviso, per aver salva la vita. Negli occhi dei bambini che sono tristi, perché non solo hanno lasciato casa ed amici, ma perché in qualche caso hanno perso anche pezzi di famiglia in una fuga insensata fino ad appena un anno prima.
Ma nei loro occhi  c’è anche la speranza di tornare a casa. Così, aspettano qualunque visita organizzata dalla Caritas, hanno ansia di far vedere le loro case, di mostrare come vivono. E di chiedere al mondo di non essere dimenticati.

Cardinale Filoni in Iraq. Warduni: la nostra è Chiesa martire

By Radiovaticana

È partito alla volta dell’Iraq il cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli, per portare la benedizione e l’aiuto concreto di Papa Francesco alle famiglie cristiane e di altri gruppi del Paese. Si tratta di persone costrette a lasciare le loro case, soprattutto a Mosul e nella Piana di Ninive, a causa delle violenze dei gruppi jihadisti del sedicente Stato Islamico (Is): tali famiglie hanno trovato rifugio perlopiù nella regione autonoma del Kurdistan iracheno, grazie all’aiuto della Chiesa locale e della rete Caritas.
Il porporato, che già nell’agosto scorso visitò le comunità cristiane irachene, ha intanto fatto tappa in Giordania, dove ha visitato due parrocchie di Amman che accolgono rifugiati iracheni, ha incontrato il responsabile della Caritas in Giordania e ha visto anche l'allestimento per l'accoglienza di una ventina di famiglie. “Ho ammirato e sono rimasto edificato - ha detto - dalla generosità di tanti. E’ bello vedere che queste famiglie riescono a ritrovare una loro dignità e amicizia”. Nella parrocchia di Maria Madre della Chiesa, ha potuto inoltre constatare il cardinale Filoni, funziona una scuola pomeridiana per i figli dei rifugiati, con circa 300 bambini. In serata partirà per Baghdad, dove peraltro oggi si registrano almeno 4 vittime in due attacchi con autobomba, in concomitanza con la visita in città del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon.
Della situazione dei cristiani iracheni ci parla mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad dei caldei e presidente di Caritas Iraq, intervistato da Giada Aquilino:
I cristiani di Mosul e di Ninive si trovano nelle stesse condizioni del giugno scorso purtroppo, quindi nelle tende, in caravan, alcuni hanno affittato anche delle case, però vivono comunque in una situazione tragica. Ci chiedono sempre: “Padre, quando potremo tornare nelle nostre case?".
Quali sono le loro condizioni?
Stanno come quando hanno lasciato le loro case e sono fuggiti dai loro villaggi; aspettano con grande ansia e pregano ad esempio per la liberazione della Piana di Ninive. Al momento si trovano nel nord, quindi ad Erbil, ad Ankawa o nei dintorni, insieme ad altre minoranze che sono state cacciate dai loro paesi e dalle loro case.
Perché i cristiani, così come anche altre minoranze, sono stati perseguitati? Sono stati costretti a lasciare le loro abitazioni?
E’ una questione terribile, che fa soffrire. I fanatici, quelli dell’Is, perseguitano tutti quelli che non la pensano come loro e che non si uniscono a loro. E’ proprio un fanatismo ignorante. Non hanno una coscienza, non hanno religione. Come dicono gli stessi musulmani: “Questi non sono musulmani!". Quei cristiani che hanno lasciato le loro case hanno preferito Cristo a tutto.
Si può parlare di Chiesa martire?
Certo. Parliamo in generale delle Chiese orientali, ma quella caldea specialmente è una Chiesa martire. Certamente i martiri non mancano in tutto il mondo, ma la nostra situazione è davvero molto tragica. Siamo riamasti così pochi: però, mettiamo tutto nelle mani della Provvidenza Divina e diciamo: “Oh Signore, noi ti preferiamo a tutto”.
Nelle sedi Onu e non solo, la Santa Sede ha più volte lanciato l’allarme perché la minaccia rappresentata dal sedicente Stato Islamico, da al Qaeda e dai vari gruppi terroristici che operano in Medio Oriente sta generando il rischio di scomparsa completa dei cristiani dalla regione…
Certamente! Più volte molti hanno detto che c’è un grande complotto contro i cristiani del Medio Oriente per farli completamente sparire. Ma com’è possibile? La nostra storia ha 2000 anni, i nostri monumenti così andranno in rovina e verranno distrutti da questa gente barbara, che non ha alcuna coscienza, non ha alcuna cultura, non ha niente.
l cardinale Filoni in Iraq porta la solidarietà del Papa. Francesco, quindi, non dimentica le tante famiglie cristiane, ma anche tutti gli altri gruppi costretti a lasciare le loro case. Con quali sentimenti i cristiani iracheni ricevono le parole e la solidarietà del Papa?
Il Papa ha fatto molto per noi, anche materialmente. Quando ci vede, mostra la sua solidarietà per noi. Così mi diceva tre settimane fa: “Io sono con voi. Voi vescovi siate sempre vicini al vostro popolo, ai vostri fedeli, ai vostri sacerdoti”. Quindi preghiamo insieme e ringraziamo Dio per questo dono che ci dà. Così, di fronte a queste difficoltà, tutti sanno della nostra tragedia, che non sappiamo come finirà.
Siamo nella Settimana Santa: nonostante le difficoltà, come ci si prepara alla Pasqua?
Cerchiamo di prepararci come al solito. Chiediamo al Signore di aiutarci ad andare avanti. Ieri è stata una bella Domenica delle Palme: tante le chiese riempite dai fedeli, dai bambini. Abbiamo grande fiducia e speranza nel Signore, che ci aiuterà a celebrare le feste pasquali. Si dice sempre che la Pasqua è gioia e prima di tutto gioia spirituale, quella che entra nei nostri cuori, per presentarla poi anche a tutti gli iracheni. La nostra speranza è nel Signore e in tutti gli uomini di buona volontà. Tutte le Caritas del mondo ci hanno aiutato e certamente il Santo Padre, che ci incoraggia. La consolazione viene così nel nostro cuore e ci fa felici.

La Chiesa caldea partecipa al lutto per la morte del Patriarca assiro Mar Dinkha IV

By Fides

La Chiesa caldea, in segno di solidarietà e vicinanza con la Chiesa assira d'Oriente, partecipa al lutto per la morte del Patriarca assiro Mar Dinkha IV. Per questo motivo ha dato disposizione di sospendere i tradizionali incontri conviviali per lo scambio degli auguri pasquali in cui il Patriarca, i Vescovi e i parroci, ricevono la visita di rappresentanti politici e istituzionali e di comunità religiose. Lo riferiscono fonti del Patriarcato di Babilonia dei caldei, consultate dall'Agenzia Fides. Nelle liturgie della Settimana Santa le comunità caldee pregheranno anche per l'anima del Patriarca assiro scomparso e per la scelta di un successore animato da autentico fervore pastorale.
Nel settembre 2013 il Patriarca caldeo Louis Raphael I aveva rivolto al Patriarca Mar Dinkha un invito ufficiale a iniziare insieme un cammino di dialogo per ripristinare la piena comunione ecclesiale tra la comunità cristiana caldea – unita al Vescovo di Roma – e quella assira. “Colgo l'occasione” aveva scritto allora il Patriarca caldeo al Patriarca assiro “per esprimere il desiderio della Chiesa caldea riguardo all'attivazione di un dialogo per l'unità, che è il desiderio di Gesù. L'inizio di questo dialogo è oggi urgente, di fronte alle grandi sfide che minacciano la nostra sopravvivenza. Senza unità, non c'è futuro per noi. L'unità può aiutare a custodire la nostra presenza”. All'inizio di ottobre 2013 il Patriarca Mar Dinkha aveva risposto positivamente all'appello del Patriarca caldeo, suggerendo la creazione di un “Comitato congiunto” come strumento per affrontare insieme le urgenze condivise dalle due Chiese sorelle, che hanno in comune lo stesso patrimonio liturgico, teologico e spirituale.

Baghdadhope, 26 marzo 2015
Chiesa Assira dell'Est: Morto il Patriarca Mar Dinkha IV 

Santa Sede: cristiani Medio Oriente presi di mira, rischiano estinzione

By Radiovaticana

I cristiani sono “a rischio di estinzione” in Medio Oriente, la comunità internazionale intervenga il prima possibile o sarà troppo tardi. E’ quanto ha affermato, in un accorato appello al Palazzo di Vetro di New York, l’osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, Bernardito Auza. Ce ne parla Sergio Centofanti
“L'ora è grave” – ha affermato mons. Auza - la sopravvivenza stessa dei cristiani in Medio Oriente è a rischio dopo 2000 anni. Anche altre comunità etniche e religiose stanno subendo ugualmente “violazioni dei diritti umani, torture, uccisioni e ogni forma di persecuzione semplicemente per la fede che professano o per il gruppo etnico di appartenenza”, ma “i cristiani sono stati specificamente presi di mira, uccisi o costretti a fuggire dalle loro case e villaggi”.
“Solo 25 anni fa – ricorda Auza – c’erano quasi due milioni di cristiani che vivevano in Iraq” mentre ora sono meno di 500mila. La situazione è “insostenibile” di fronte alle minacce di morte che subiscono da parte di organizzazioni terroristiche. I cristiani vivono un “profondo senso di abbandono” da parte delle autorità legittime e della comunità internazionale.
La Santa Sede invita tutto il mondo “ad agire prima che sia troppo tardi”
, ricordando che l'intera comunità internazionale ha concordato che ogni Stato ha la responsabilità primaria di proteggere la sua popolazione da genocidio, crimini di guerra, crimini contro l'umanità e pulizia etnica” e - laddove non potesse o non volesse – “la comunità internazionale deve essere pronta ad agire per proteggere le popolazioni in conformità con la Carta delle Nazioni Unite”.
Il presule ricorda anche che Papa Francesco ha ripetutamente invitato la comunità internazionale "a fare tutto il possibile per fermare e prevenire ulteriori violenze sistematiche contro le minoranze etniche e religiose". “Il ritardo dell’intervento – ha ammonito l’osservatore permanente - significherà solo che più persone moriranno, saranno perseguitate o costrette a fuggire”.
La Santa Sede – ha detto mons. Auza – esprime “il suo profondo apprezzamento per i Paesi della regione e per tutti coloro che lavorano instancabilmente, anche a rischio della propria vita, per fornire assistenza a circa due milioni e mezzo di sfollati interni in Iraq, a 12 milioni di siriani che hanno bisogno di assistenza umanitaria, di cui quattro milioni vivono come rifugiati e sette milioni e mezzo di sfollati interni. Cerchiamo - conclude - di aiutare questi Paesi”.

27 marzo 2015

Il Card. Filoni torna in Iraq per manifestare la vicinanza e l’affetto del Papa alle famiglie sfollate

By Fides

“E' costante la sollecitudine di Papa Francesco per la situazione delle famiglie cristiane e di altri gruppi vittime dell’espulsione dalle proprie case e dai propri villaggi, in particolare nella città di Mosul e nella piana di Ninive, molte delle quali si erano rifugiate nella regione autonoma del Kurdistan iracheno. Il Papa prega per loro e auspica che possano ritornare e riprendere la propria vita nelle terre e nei luoghi dove, per centinaia di anni, hanno vissuto e intessuto relazioni di buona convivenza con tutti”.
Così afferma il comunicato diffuso oggi dalla sala stampa della Santa Sede.
Il testo prosegue: “Nella Settimana Santa ormai prossima, queste famiglie condividono con Cristo l’ingiusta violenza di cui sono fatte vittime, e partecipano al dolore di Cristo stesso. Volendo essere accanto alle famiglie, il Cardinale Fernando Filoni ritorna in Iraq in segno di vicinanza, di affetto, e in unione di preghiera con esse. Le famiglie della Diocesi di Roma, unite al loro Vescovo nei sentimenti di vicinanza e di solidarietà con quelle famiglie, attraverso una colletta speciale nelle parrocchie, inviano loro un dolce pasquale (colomba) per condividere la gioia della Pasqua e quale auspicio di bene basato sulla fede nella Risurrezione di Cristo”.
Il comunicato si conclude così: “Il Santo Padre, inoltre, si fa presente in modo concreto con un segno di tangibile solidarietà. E non volendo dimenticare la sofferenza delle famiglie del nord della Nigeria, il Sommo Pontefice ha inviato anche ad esse, tramite la locale Conferenza Episcopale, un segno di uguale solidarietà”.
Già nell’agosto scorso, in seguito alla grave situazione in Iraq, il Santo Padre aveva nominato il Card. Fernando Filoni, Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, Suo Inviato Personale nel paese asiatico “per esprimere la Sua vicinanza spirituale alle popolazioni che soffrono e portare loro la solidarietà della Chiesa”

Patriarca di Baghdad all’Onu: Nuove leggi contro Stati o singoli che sostengono i terroristi

By Asia News
di Louis Raphael I Sako*


Oggi al Consiglio di sicurezza Onu è in programma una sessione dedicata al dramma dei cristiani - e delle altre minoranze perseguitate - in Iraq e in tutto il Medio oriente. A promuovere l’iniziativa presso il massimo organismo delle Nazioni Unite è stata la Francia, presidente di turno, che ha chiesto un dibattimento sulla condizioni delle popolazioni vittime di violenze - dello Stato islamico e altri gruppi estremisti - nella regione, a causa della loro fede o appartenenza etnica. Si tratta del primo dibattito in assoluto dedicato alla persecuzione dei cristiani al Palazzo di Vetro di New York, sede dell’Onu.
Nel corso della speciale sessione è previsto l’intervento del patriarca caldeo Louis Raphael I Sako, che racconta il dramma dei profughi cristiani, centinaia di migliaia di persone cacciate dalle proprie case e, da mesi, costrette a sopravvivere in centri di accoglienza o dimore temporanee. Nel discorso, inviato per conoscenza ad AsiaNews, sua Beatitudine parla di un “impatto negativo” della Primavera araba, che non ha raggiunto gli obiettivi di “pace, stabilità e progresso”. Egli invoca il “pieno sostegno” della comunità internazionale al governo centrale di Baghdad e alle autorità curde di Erbil.
Infine, egli indica alcune proposte concrete per una convivenza futura fra persone di fede diversa, contrastando il fenomeno del fondamentalismo e del terrorismo di matrice religiosa. Fra questi: leggi che promuovano l’uguaglianza; toni moderati nei discorsi dei leader religiosi e lotta all’estremismo, cui deve affiancarsi la riforma del sistema educativo e l’esegesi dei testi secondo il criterio di “tolleranza zero” delle derive violente; leggi severe contro nazioni o singoli che finanziano o sostengono a vario titolo il terrorismo; promuovere l’opera delle organizzazioni pro diritti umani e della società civile.
Ecco, di seguito, il testo completo dell’intervento del patriarca Sako all’Onu inviato ad AsiaNews:
A nome dei cristiani delle diverse confessioni etniche e culturali, che in Medio oriente si trovano ad affrontare prove durissime e che non sembrano avere fine, voglio esprimere i miei più sentiti ringraziamenti al governo francese per aver promosso questa iniziativa umanitaria. E, in special modo, al ministro francese per gli Affari esteri Laurent Fabius. 
Gentili signore e signori, 

come credo tutti voi sappiate, quest’anno ricorre il centenario dei massacri contro i cristiani del 1915. Oggi, cento anni più tardi, stiamo vivendo una situazione catastrofica in tutto simile a quella, e che ha spinto diverse famiglie ad abbandonare il Paese. Si tratta di una enorme perdita per tutti. In tutta sincerità, la cosiddetta Primavera araba ha avuto un impatto negativo per noi. Se solo avessimo avuto l’opportunità di lavorare in armonia con il mosaico di religioni e gruppi etnici che compongono la nostra regione, avremmo visto prendere forma una forza capace di guidare la regione verso la pace, la stabilità e il progresso. 
Da questa tribuna, vorrei portarvi un messaggio ispirato ai valori spirituali e umanitari: la coesistenza secondo un’ottica positiva, basata sulla giustizia e sulla pace secondo lo spirito di amore e amicizia, dovrebbe rimanere uno degli obiettivi prioritari per il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. 
Per quanto concerne il mio Paese, vi chiedo pieno sostegno al governo centrale e al governo regionale curdo nella liberazione di tutte le città irakene e, per quanto concerne in special modo noi cristiani, yazidi e Shabaks, la città di Mosul e tutte le cittadine e villaggi della piana di Ninive; è necessario garantire una protezione internazionale per i suoi abitanti, costretti con la forza ad abbandonare le loro case (una zona di sicurezza); e approvare una Legge sulla proprietà immobiliare che assicuri i loro diritti nella loro terra, e che permetta loro di rientrare nelle loro abitazioni e riprendere la propria vita in condizioni di normalità. Vi è anche una precisa responsabilità del governo centrale di garantire loro un risarcimento adeguato per i danni subiti. 
Il problema principale consiste nel comprendere i diversi elementi che caratterizzano lo Stato: religione, cittadinanza, individui, comunità, il ruolo della donna e dell’educazione nazionale, affinché si possa convivere all’insegna della pace e del rispetto reciproco. 
I gruppi estremisti islamici rifiutano di vivere accanto ai non-musulmani. Li stanno perseguitando e sradicando dalle loro case, stanno cancellando la loro storia (e la loro memoria). Siamo al cospetto di una gravissima crisi ideologica e di un tentativo di monopolizzare il potere, svuotando le istituzioni e restringendo la libertà. 
Questa orribile situazione ci porta a stabilire dei principi, basati sul diritto internazionale, volti a prevenire questa catastrofica discriminazione contro gli esseri umani e l’umanità intera. 
Al tempo stesso, è importante capire che questi atti terroristici non vanno generalizzati e associati, per esteso, a tutti i musulmani. Difatti vi è una maggioranza silenziosa e pacifica di musulmani che respingono una tale politicizzazione della religione; essi accettano di vivere una vita normale con gli altri, all’interno dello stato civile e seguendo i dettami del diritto. La pace e la stabilità non possono essere raggiunte solo grazie alle azioni militari; da sole, infatti, esse non sono in grado di smantellare questo modo totalizzante di pensare che distrugge esseri umani e pietre, in altre parola la civiltà. 
Questo implica che la comunità internazionale - ivi compresa la Lega araba e l’Organizzazione della cooperazione islamica - deve prendere azioni legali decise e misure definitive. Tutto questo può essere raggiunto attraverso risposte di tipo politico, culturale ed educativo. Queste soluzioni devono essere adeguate al fine di proteggere il mosaico nazionale che è formato da ciascun individuo, persona e gruppo, senza distinzioni di natura etnica o religiosa. È loro preciso compito quello di proteggere i diritti di tutti i cittadini e rafforzare le relazioni fra loro. 
Particolare attenzione deve essere dedicata anche a una minaccia ancora più grande. A milioni di bambini e di giovani è negato il diritto allo studio e la possibilità di frequentare la scuola. Milioni di rifugiati sono costretti a vivere nei campi profughi, senza le dovute cure e attenzioni. La crescente frustrazione, la disoccupazione e la povertà potrebbero presto favorire lo sviluppo di un’atmosfera caratterizzata da sentimenti di vendetta ed estremismo. Per questo è oggi ancor più necessario prendersi cura di questi rifugiati, fornire risposte concrete ai loro bisogni e alle loro crescenti sofferenze. 
Ecco dunque, di seguito, una via pratica e concreta per uscire da questo circolo vizioso.
  1. Chiedere, passando attraverso le Nazioni Unite, politiche governative basate sull’aggiornamento della Costituzione e delle leggi. Questo dovrebbe permettere una migliore promozione della giustizia, dell’uguaglianza e della dignità di tutti, in quanto cittadini, senza discriminare un gruppo a vantaggio di un altro. È indispensabile che i nostri Paesi possano usufruire di governi civili, in cui viene garantita l’uguaglianza fra tutti i cittadini. Questi governi sono responsabili della protezione di tutti gli individui e devono preservare i diritti legittimi di tutti i loro cittadini.
     
  2. Incoraggiare i leader religiosi ad adottare un tono moderato nei discorsi, che rafforzi il senso di cittadinanza fra gli individui. Essi devono adottare una cultura dell’appartenenza ai loro Paesi e non solo alle loro confessioni religiose o tribù. Un elemento necessario è la riforma dei programmi educativi, che possano favorire i principi del rispetto fra cittadini e la promozione della tolleranza e della comunicazione. Questo porterebbe a una condanna netta delle divisioni, dell’odio e dello spirito di vendetta. E tutto questo servirebbe anche a proteggere le generazioni future dalle conseguenze dell’estremismo, della violenza e del terrorismo. Per raggiungere questo obiettivo, le gerarchie religiose devono presentare una adeguata esegesi dei testi religiosi, secondo il principio della “tolleranza zero” nell’estrapolare i testi religiosi dai loro contesti.
     
  3. Approvare una legge che punisca nazioni e singoli individui che sostengono gruppi terroristi a livello finanziario, intellettuale o con le armi; renderli perseguibili e considerare i loro gesti come crimini contro la pace sociale.
     
  4. Promuovere lo sviluppo delle organizzazioni per i diritti umani e della società civile. Queste organizzazioni dovrebbero essere sostenute di modo che essere non abbiano solo un ruolo consultivo, ma anche attivo e su due diversi piani: regionale e internazionale. 
Vi ringrazio e vi rivolto i miei migliori auguri per la vostra missione umanitaria. 
* Patriarca di Babilonia dei Caldei e presidente della Conferenza episcopale irakena.

26 marzo 2015

Chiesa Assira dell'Est: Morto il Patriarca Mar Dinkha IV

By Baghdadhope*

Si è spento negli Stati Uniti all'età di 80 anni il Patriarca della Chiesa Assira dell'Est Mar Dinkha IV.
Mar Dinkha IV era nato il 15 settembre 1935 ed era stato battezzato con il nome di Dinkha Khanania nella chiesa di Mar Qaryaqos a Darbandokeh, un piccolo villaggio nell'estremo nord dell'Iraq che si era popolato di cristiani originari della regione di Akkari in Turchia, dalla quale erano fuggiti al tempo delle persecuzioni ottomane, ma che dalla fine del XX secolo a causa delle emigrazioni forzate non ne ospitava già più. Figlio primogenito di Andrews Khanania e di Panna Khanania ebbe due fratelli minori, Ezaria e Victoria.  La prima istruzione gli fu impartita da suo nonno paterno, Padre Benyamin Soro, ed all'età di 11 anni fu affidato alle cure di Mar Yousip Khnanisho, Metropolita e rappresentante patriarcale in Iraq della Chiesa Assira dell'Est che nel 1947 lo inviò a studiare presso il seminario di Baghdad.
Il 12 settembre 1949, a tre giorni dal compimento del suo quattordicesimo anno, Dinkha Khanania fu ordinato diacono, ed il 15 luglio 1957 divenne sacerdote e fu destinato alla città di Urmia, in Iran, diventandone il quarto vescovo dell'ACOE (Assyrian Church of the East) ripristinando così la linea di successione che si era bruscamente interrotta quando il suo predecessore, Mar Dinkha era stato assassinato dalle truppe turche nel 1915.
Nel 1962 si trasferì da Urmia a Tehran dove, l'11 febbraio, fu ordinato vescovo nella chiesa dedicata a San Giorgio Martire dal Patriarca dell'ACOE Mar Eshai Shimun XXIII.
Dopo l'assassinio di quest'ultimo (6 novembre 1975, San Jose, California) la gerarchia dell'ACOE si riunì a Londra per eleggere il nuovo patriarca e la scelta cadde su quello che, consacrato il 17 ottobre nella chiesa di San Barnaba, a Londra, divenne Mar Dhinka IV.
Nominato patriarca una delle sue prime decisioni fu quella di porre fine alla tradizione della linea ereditaria per la successione patriarcale che per secoli aveva legato la chiesa al passaggio della carica da zio a nipote. (Natar Kursi)
Mar Dinkha stabilì la sua sede patriarcale a Chicago (Illinois) nel 1980 anche se nel 2005 ebbe dei colloqui con il presidente della regione autonoma del Kurdistan iracheno, Massoud Barzani, a proposito dell'eventualità di riportare la sede patriarcale in Iraq, ad Ankawa. Il 15 luglio 2007 Mar Dinkha festeggiò i suoi 50 anni di sacerdozio con una grande cerimonia nella cattedrale di San Giorgio a Chicago dove, addirittura, una parte di una strada fu ribattezzata "His Holiness Mar Dinkha IV Blvd".
Nel 2008 ricevette una laurea ad honorem dall'università di Chicago e decretò che solo i sacerdoti in possesso di un diploma universitario in materie teologiche avrebbero potuto essere nominati vescovi.
Da tempo le sue condizioni di salute non erano buone malgardo le rassicurazioni pubblicate lo scorso febbraio dal Sinodo della chiesa assira.
Patriarca di una chiesa che non riconosce l'autorità del Pontefice di Roma Mar Dinkha IV ha avuto comunque molti contatti con il soglio pontificio.
Dopo 10 anni di incontri preparatori tra rappresentanti vaticani e della chiesa assira, l'11 novembre 1994 Mar Dinkha e Giovanni Paolo II firmarono in Vaticano la Dichiarazione Cristologica Comune, definita: "un passo fondamentale del cammino verso la piena comunione che dovrà essere ristabilita fra le chiese" ed in cui si afferma che gli assiri ed i cattolici sono "uniti oggi nella confessione della stessa fede nel figlio di Dio."
Una dichiarazione che poneva fine a secoli di incomprensioni teologiche tra le due chiese, e che aveva l'ambizioso traguardo di superare gli ostacoli al riguardo anche attraverso la costituzione di un comitato misto per il dialogo teologico. Dagli incontri di quel comitato, iniziati nel 1995, scaturì un percorso di riavvicinamento anche tra la chiesa assira e quella cattolica caldea. Nel 1996 l'allora patriarca caldeo, Mar Raphael Bedaweed, e Mar Dinkha sottoscrissero alcune proposte al fine di ristabilire l'unità che nel 1997 furono approvate dai sinodi delle due chiese. Quei passi, e la continuazione delle riunioni annuali del comitato misto promosso nel 1994, ebbero il loro culmine nel 1991con la pubblicazione degli "Orientamenti per l'ammissione all'Eucarestia fra la chiesa caldea e la chiesa assira dell'Oriente" che stabilirono, in caso di necessità dettata, ad esempio, dalla dispersione dei fedeli in diversi continenti,
la loro ammissione all'Eucarestia in ambo le chiese. Un provvedimento che pur smussando gli angoli di dispute teologiche antichissime non rappresenta la piena comunione eucaristica tra le due chiese, ancora non raggiunta, ma è comunque un passo avanti.  
I rapporti tra la chiesa assira e quella cattolica, di cui la caldea è parte, sono continuati negli anni con alti e bassi. Ufficialmente sempre cordiali e scanditi dalle visite in Vaticano di Mar Dinkha, hanno però avuto alcuni anni fa un allentamento. A causarlo è stata la questione di uno dei vescovi della chiesa assira, strenuo difensore della sua unione con la chiesa cattolica come preludio di un eventuale riconoscimento della suprema autorità vaticana. In rotta con la chiesa di appartenenza questo vescovo, Mar Bawai Soro, nel 2005 fu espulso e scomunicato dalla chiesa assira ma trovò presto appoggio nel fedele amico, nonchè vescovo della chiesa caldea negli Stati Uniti occidentali, Mar Sarhad Jammo, che ne perorò la causa che si risolse, nel gennaio 2014, con la nomina di Mar Soro a vescovo della chiesa caldea titolare della sede di Foraziana. L'accettazione da parte del Vaticano e della chiesa caldea  di un vescovo così inviso alla chiesa assira gettò delle ombre sui rapporti tra le parti che, comunque, continuarono con colloqui e visite in Vaticano sia di delegazioni episcopali sia, ancora, di Mar Dinkha che ad ottobre 2014 fu ricevuto da Papa Francesco che in quell'occasione si augurò che si avvicinasse "il giorno benedetto in cui potremo celebrare allo stesso altare il sacrificio di lode che ci renderà una sola cosa in Cristo."
Con la morte di Mar Dinkha resta da vedere se il prossimo Patriarca vorrà continuare sulla strada dell'unione, o se opporrà ad essa gli ostacoli che il suo predecessore e Papa Giovanni Paolo II si erano impegnati a rimuovere dando ascolto ai molti fedeli che in nome dell'attaccamento al loro essere religiosamente e politicamente "Assiri" di avvicinarsi alla chiesa cattolica ed a quella caldea non hanno nessuna intenzione.

Il Sinodo della Chiesa Assira dell'Est che avrà il compito di scegliere il nuovo patriarca è così composto:
1. Mar Aprem Mooken, Metropolita dell’India e Vicario patriarcale
2.   Mar Gewargis Sliwa, Metropolita di Iraq, Giordania e Russia
3.   Mar Paulus Benjamin, Vescovo degli Stati Uniti Orientali
4.  Mar Awa Royel, Vescovo della California e Segretario del Sinodo
5.   Mar Meelis Zaia, Metropolita di Australia, Nuova Zelanda e Libano
6.    Mar Emmanuel Joseph, Vescovo del Canada
7.   Mar Yohannan Yoseph, Vescovo Ausiliare dell’India e degli Emirati Arabi Uniti
8.    Mar Narsai Benjamin, Vescovo dell’Iran
9.    Mar Iskhaq Yosip, Vescovo del Nord Iraq e della Russia
10.  Mar Aprem Nathniel, Vescovo della Siria
11.  Mar Aprem Khamis, Vescovo degli Stati Uniti occidentali
12.  Mar Odisho Oraham, Vescovo dell’Europa
13.  Mar Awgin Kuriakose, Vescovo Ausiliare dell’India
14.  Mar Yosip Sargis, Vescovo Emerito di Baghdad

25 marzo 2015

Onu, i cristiani perseguitati in Consiglio di sicurezza

By Vatican Insider - La Stampa
Giorgio Bernardelli

Approda al Consiglio di sicurezza dell’Onu la situazione dei cristiani perseguitati in Medio Oriente. Per venerdì mattina a New York è convocata una sessione del massimo organismo delle Nazioni Unite che - su proposta della Francia, attuale presidente di turno del Consiglio - dibatterà la condizione delle minoranze nella regione sconvolta dalle violenze dei fondamentalisti islamici. Per portare la testimonianza sul dramma specifico che stanno vivendo i cristiani dell’Iraq, a Palazzo di vetro per questo appuntamento è atteso anche il patriarca dei caldei, Raphael Sako.
L’intenzione di convocare una sessione del Consiglio di sicurezza sul tema delle minoranze perseguitate in Medio Oriente era stata annunciata all’inizio del mese dal ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, durante una visita a Rabat. Erano i giorni immediatamente successivi alla strage dei copti in Libia. Il 13 marzo poi - a rilanciare ulteriormente il tema - è arrivata la dichiarazione congiunta presentata da Vaticano, Russia e Libano al Consiglio per i diritti umani di Ginevra e sottoscritta da 65 Paesi membri dell’Onu.   «Chiediamo alla comunità internazionale - si legge nel testo - di sostenere la presenza di tutte le comunità etniche e religiose che hanno profonde radici storiche in Medio Oriente». Comunità «che vedono minacciata la loro stessa esistenza dal cosiddetto Stato Islamico (Daesh) da al Qaida e dai gruppi terroristici affiliati, sconvolgendo la vita di tutte queste comunità e creando il rischio di una scomparsa totale dei cristiani».
Il dibattito al Consiglio di sicurezza dell’Onu sarà il primo in assoluto dedicato alla persecuzione dei cristiani. E arriva dopo che più volte in questi mesi le comunità cristiane locali hanno denunciato la mancanza di risposte da parte della comunità internazionale. Proprio dall’Iraq - in queste ultime settimane - sono giunte nuovamente le immagini delle croci abbattute dalle chiese e di antichissimi monasteri fatti saltare in aria dal cosiddetto Stato Islamico.
Il tutto mentre da ormai più di nove mesi  migliaia di cristiani costretti a fuggire in fretta e furia da Mosul e dalla Piana di Ninive senza poter portare nulla con sé si trovano a vivere in condizioni insostenibili in Kurdistan. Ed è un problema che va anche al di là della questione contingente del Califfato: appena qualche giorno fa, intervenendo davanti al parlamento, proprio il patriarca Sako ha chiesto alle autorità irachene il varo di una legge per perseguire penalmente i predicatori religiosi che istigano alla violenza. E ha anche espresso profonda preoccupazione per le nuove migliaia di famiglie innocenti che oggi si trovano senza alcuna assistenza a dover fuggire dalle aree che l’esercito iracheno, con l’appoggio delle milizie iraniane, sta cercando di strappare allo Stato islamico.

Iraqi Islamic theologian: The tension in Iraq is not primarily about religions


With all the instability in many Muslim countries, there is a higher need for Christians and Muslims to engage in dialogue and ultimately to find ways to promote peace. Rome's community of Sant' Egidio brought together leading theologians to delve into the issue. Among them were experts from Iraq, where religious extremism has been on the rise.
Waleed Faraj Alla
Theology Professor, University of Kufa (Iraq)
"It's not primarily a conflict between faiths or religions. What is happening in Iraq has no religious connotation. We hope that in one year or so, there can come a solution for Iraq.”
The region of Al Najaf, in southern Iraq, is a refuge for Shia Muslims who have fled from the Islamic State. In their interpretation of sharia law, these Muslims are also considered unfaithful, along with Christians and Yazidis.

"We see these terrible things and condemn these violent actions against Shiites, Christians and Yazidis. We hope that these refugees can return with dignity to their homes and end this tragic situation. For us, there is nothing more serious than violence against people, especially women and children. We hope that peace comes.”   
Now, many Christians and even moderate Muslims who were forced out of their homes, are hoping for the chance to go back and leave the life of refugees behind them.  For generations they co-existed peacefully and they want have that same chance, again.  
"We do not like to talk about 'minorities' when talking about Christians and Yazidis. For we are brothers and sisters, and we reject the concept of 'majority' and 'minority.' We are all children of God. We all have the same rights and duties based on equality.”

As instability continues to be a factor in many Middle Eastern countries, inter-faith dialogue continues to be a beacon of hope.

24 marzo 2015

Appello urgente della chiesa caldea in Libano: per Pasqua aiutateci a sostenere i profughi iracheni e siriani.

By Baghdadhope*

In occasione della prossima Pasqua l’Eparchia Caldea di Beirut guidata da Mons. Michael Kassarji ha diffuso un accorato appello, copia del quale è stata inviata a Baghdadhope.

La situazione in cui vivono i rifugiati cristiani iracheni e siriani in Libano è, si legge, “deplorevole”. Persone fuggite dalle proprie case senza poter portare con sé nulla e rifugiatesi nella Terra dei Cedri alla ricerca di salvezza vivono in condizioni pietose ed hanno urgente bisogno di aiuto.
Il documento parla di numeri di rifugiati in costante aumento che in Libano attendono di essere ricollocati dalle Nazioni Unite in paesi terzi combattendo una “battaglia giornaliera” per “difendere la propria dignità ed assicurarsi la sopravvivenza”. Sono persone che non possono lavorare ufficialmente, e che se trovano un’occupazione in nero sono pagate pochissimo, a fronte di un costo della vita molto alto e di nessun diritto assicurato dallo stato libanese.
La chiesa caldea fa quello che può, ma non è certo abbastanza.
In collaborazione con le Forze di Sicurezza Libanesi, ad esempio, si fa garante per il rilascio di documenti  provvisori che garantiscano ai profughi almeno di potersi muovere all’interno del paese senza timore di essere arrestati come clandestini, nell’attesa di emigrare altrove.

Questi profughi, per ora stimati in 3.000 famiglie, non hanno accesso alle cure sanitarie pubbliche se non in casi eccezionali e di volta in volta autorizzati dal ministero competente, e le strutture private, per quanto garantiscano in alcuni casi il 50% del costo delle cure, non prendono in carico i malati oncologici e quelli bisognosi di interventi chirurgici impegnativi. Per aiutare i profughi in campo sanitario la chiesa caldea  ha creato già nel 2011 il Centro Medico e Sociale di Saint Michael nella zone di Sid El Baouchriyeh,  a nord di Beirut, dove, a titolo quasi completamente gratuito, sono garantite ai profughi cure, analisi, piccoli interventi di chirurgia e farmaci.
Oltre a ciò la chiesa non dimentica né la sua funzione spirituale, tanto da voler costruire un nuovo edificio di culto nella zona di Sid El Baouchriyeh cui sarà annessa una mensa per i poveri, né la sua funzione sociale con  la creazione di un ufficio che metta in contatto i profughi con i datori di lavoro, e di un centro dedicato alla Vergine Maria Misericordiosa dove i profughi appena arrivati possano registrarsi ed essere indirizzati alle associazioni caritatevoli in grado di dare loro aiuto. Neanche gli studenti sono stati dimenticati e per loro la chiesa cerca di garantire di anno in anno la frequentazione scolastica.

Tutte queste iniziative hanno ovviamente costi altissimi che l’Eparchia caldea stima in:
600.000 $ per assicurare cibo per un anno a 3.000 famiglie di profughi
875.000 $ per 2.500 studenti per l’anno scolastico 2014/2015
300.00 $ per spese sanitarie
Sono cifre importanti, ma importanti sono anche i rifugiati che hanno bisogno dell’aiuto delle “persone caritatevoli”, fratelli senza altra colpa se non, come ha detto Papa Francesco, quella di essere cristiani, e che sperano in un aiuto per sopravvivere.

Chi volesse sostenere gli sforzi dell’Eparchia Caldea in Libano a favore dei rifugiati iracheni e cristiani può avere informazioni  scrivendo a: chaldepiscopus@hotmail.com 

P. Samir: Paesi musulmani siano i primi a fermare l'Is

By Radiovaticana

Lo Yemen verso una guerra civile. I ribelli sciiti Houti, che già controllano la capitale Sana'a e il nord del Paese, hanno lanciato un’offensiva verso sud e l'est. Il deposto capo di stato, Hadi, dalla città di Aden ha denunciato l’ingerenza dell’Iran, chiedendo aiuto all’Onu e al Consiglio di cooperazione del Golfo. Ci si chiede quanto il caos istituzionale e le lotte di potere nello Yemen possano avvantaggiare al Qaeda e favorire l’avanzata del sedicente Stato islamico nell’area mediorientale e del Nord Africa.
Roberta Gisotti ha intervistato padre Samir Khalil Samir, docente di Storia della cultura araba e islamologia all’Università Saint Joseph di Beirut:
Lo Stato islamico sta cercando ovunque ci siano dei problemi di creane di nuovi e di dominare man mano le varie regioni del Medio Oriente. Oltre alla Siria e l’Iraq, che erano lo scopo primario, sono poi passati alla Libia. E adesso, vedendo che c’era una lotta nello Yemen tra il governo e gli sciiti, ne approfittano anche lì, così come in Tunisia, dove ci sono tanti turisti e prima c’era un governo filo-islamista e adesso siamo tornati alla situazione precedente. Cercano di sollevare problemi ovunque possono. Vuol dire che hanno anche squadre locali pronte a saltare in aria per dire: "Siamo dappertutto, siamo i più forti, siamo i più barbari, non temiamo niente".
Lei pensa che la realtà del sedicente Stato islamico sia stata e tuttora venga sottovalutata dalla comunità internazionale?
La comunità internazionale non può fare molto, in realtà, perché si tratterebbe prima di attuare un controllo assoluto di tutti questi Paesi arabi. E questo la comunità non lo può fare. Se domani attaccano in Marocco e il Marocco non è preparato, il mondo non può sostituirsi all’insieme della regione. L’altra cosa è che con il sistema adoperato, essendo quello dei kamikaze, non si può prevedere nulla: un kamikaze si presenta come una persona ordinaria solo che porta in sé la bomba che fa saltare lui con altre persone. Può andare dove c’è folla, nelle moschee, nelle chiese, in un supermarket, laddove c’è molta gente è più contento. Siamo in una situazione di pazzia!
Ma è da escludere in ogni caso l’uso della forza nei territori che sono già stati occupati e sotto il controllo delle forze dell’Is?
Il problema è quale tipo di forza, perché usare aerei che bombardano non si può. Loro si sono infatti mescolati in mezzo ai quartieri, in qualunque posto, e lo fanno apposta perché sanno che così le forze aeree non oseranno attaccare. Ed è giusto perché se per uccidere un kamikaze dobbiamo uccidere una decina di persone è impensabile, è disumano. L’unico modo è la lotta a terra, uno contro uno. E’ quello che stanno facendo e provano a fare i curdi, qualche gruppuscolo di assiri, per difendersi contro questi selvaggi disumani e lo fanno rischiando la propria vita. E’ difficile per la comunità internazionale intervenire militarmente. Ciò che può fare è sostenere le comunità locali con mezzi, apparecchi, ecc...
Quindi, c’è veramente da stare preoccupati?
Sì, ma d’altra parte non c’è da esagerare il loro potere, perché la loro forza è il fatto che non hanno nessuno scrupolo e che possono attaccare ovunque, quando vogliono, chiunque.
Ma non si può pensare che stiamo a guardare quello che succede...
Prima di tutto, un aiuto sarebbe, per quanto possibile, non dare possibilità di armarsi a questa gente e questo tocca prima di tutto ai Paesi del Medio Oriente. Le armi vengono dall’Occidente, l’Oriente non ne produce, ma gli Stati arabi sono pronti a comprare, almeno i Paesi ricchi. E probabilmente alcuni dei Paesi danno anche armi all’Is.
Quindi, una risposta dobbiamo aspettarcela all’interno del mondo musulmano…
Deve venire dal mondo musulmano, certamente. Quello che cominciano a dire, anche gli imam importanti: "Dobbiamo fare una rivoluzione nell’interpretare il Corano, dobbiamo ripensare tutto l’islam per il mondo di oggi", cominciando con le classi elementari, fino all’università e fino alle facoltà di teologia... Ci vorrà tempo, però è da cominciare oggi.

Outbreak of Chicken Pox, Lice and Scabies in Assyrian Refugee Camp in Arbel

By AINA

Eight months after ISIS drove nearly 200,000 Assyrians from their villages in the Nineveh Plains north of Mosul, Assyrians are now battling disease in the refugee camps they are living in. Refugees are living in uncompleted buildings, with no walls, windows or dividers.
One location, called the Ankawa Mall, is a 7 story building which was never completed. It has open floors on all levels. There are 420 Assyrian families living there, about 1,800 people, mostly from Baghdede (Qaraqosh), Tel Afar and Bertella. According to Fr. Immanuel Callo, there is now an outbreak of chicken pox, lice and scabies in this building.
There a severe water shortage. Six tankers of water, each bringing at least 12,000 liters of water, are purchased daily. $200 per day is spent on the generator for the building.
There is also a critical shortage of bathrooms, with most floors having only 2 or 3.
According to officials from the Syriac Catholic Church, who are managing the building, very little help is arriving. The central government initially paid one million dinars ($1000) per family, but no additional help has been received since. The Kurdish regional government made a one time donation of clothes and toys.

Aiuto ai cristiani iracheni rifugiati in Giordania

By Patriarcato Latino di Gerusalemme
Myriam Ambroselli

Il Centro “Nostra Signora della Pace”, in collaborazione con la Caritas, ha ospitato molti cristiani fuggiti dall’Iraq a causa dell’ISIS. In tutto circa un centinaio di persone, tra cui trentacinque bambini che hanno perso tutto, tranne la loro speranza. Il Patriarcato latino ha lanciato un appello per poterli aiutare a vivere, per soddisfare i loro bisogni di base e consentire loro di affrontare il futuro senza paura.
Più di 200 famiglie cristiane sono state costrette a fuggire dalla città di Mosul in Iraq e dai suoi dintorni, dopo che i militanti dello Stato islamico ha confiscato loro case, proprietà, e quei pochi generi alimentari e bagagli che avevano preso per la strada. La Giordania ha ospitato quasi 1.000 cristiani, accogliendoli in parrocchie, scuole e istituzioni del Patriarcato latino, con il sostegno della Caritas Giordania.
Questi cristiani sono arrivati ​​con niente, spogliati di tutto, giunti solo con quell’unico abito che avevano addosso, fuggendo. Ora hanno bisogno di un tetto, di quanto possa provvedere dignitosamente ai loro bisogni, ma anche di ricostruire il loro futuro. Dapprima ospitati d’urgenza, nei locali del Centro “Nostra Signora della Pace”, le famiglie cristiane sono ora alloggiate in case mobili attorno al centro, con il minimo indispensabile, in attesa di una vita migliore.
Padre Imad Twal, amministratore generale del Patriarcato latino, li ha visitati e ha espresso il sostegno e le preghiere del Patriarcato latino che riafferma il desiderio di andare in loro aiuto.
Queste famiglie cristiane devono innanzitutto far fronte alle esigenze di base (acqua, cibo, medicine, abbigliamento), sapendo che al Centro “Nostra Signora della Pace”, la loro accoglienza è una vera e propria sfida quotidiana, basti pensare ai servizi igienico-sanitari. Un altro problema riguarda il loro status di rifugiati. In quanto tali, queste persone hanno per il momento un visto che permette loro di rimanere in Giordania dai tre ai sei mesi. Queste famiglie hanno bisogno di essere in grado di riprendere la vita normale e costruire il loro futuro. Al momento si impone anche un’altra necessità: l’urgenza di fornire sostegno psicologico dopo gli eventi traumatici che hanno vissuto. I bambini in particolare hanno bisogno di sentirsi di nuovo al sicuro. Hanno anche bisogno di ritrovare una vita normale, tornare a scuola, essere educati e divertirsi.
L’ufficio del Patriarcato latino per lo sviluppo dei progetti e il Centro “Nostra Signora della Pace” hanno allora deciso di mandare un appello perché queste famiglie ricevano un’assistenza socio-educativo, in particolare rivolta allo studio della lingua inglese, del computer, insieme a corsi di educazione fisica. Semplici modi per ripristinare la fiducia e per vivere in modo costruttivo il loro soggiorno presso il Centro, in attesa di costruire un futuro là dove saranno accolte.
Oggi, queste famiglie hanno bisogno del sostegno e preghiere da tutto il mondo. Grazie al generoso appoggio della Luogotenenza portoghese dell’Ordine del Santo Sepolcro, la richiesta di donazioni lanciata dal Patriarcato per aiutare questi cristiani a guardare con fiducia al futuro, è già stata ascoltata.

23 marzo 2015

La France a accordé 1500 visas à des chrétiens d’Irak et Syrie

By La Croix
Samuel Lieven

« Nous voulons que les chrétiens restent en Orient mais, en même temps, nous ne pouvons pas les exposer à des menaces qui pourraient leur faire perdre la vie » : voilà ce qu’a déclaré le président de la République François Hollande, samedi 21 mars, lors d’une réception dans le jardin du ministère de l’Intérieur, en présence d’une centaine de chrétiens d’Irak venus du Val d’Oise. Il était l’invité surprise de cette réception dont le but, à la veille des élections départementales et à moins d’une semaine de la réunion du conseil de sécurité de l’ONU sur les chrétiens d’Orient (prévue endredi 27 mars), était de marquer solennellement le soutien de la France aux chrétiens persécutés par Daech en Irak et en Syrie.

 Un millier de bénéficiaires déjà en France 

« Vous serez en France pleinement accueillis, aimés, vous serez chez vous, même si chez vous c’est loin et que vous aurez un jour à y retourner », a improvisé François Hollande, après l’annonce par les services du ministère de l’intérieur de l’octroi de 1500 visas depuis le lancement de la procédure d’accueil des réfugiés irakiens en France, le 28 juillet dernier. Un millier de bénéficiaires sont déjà arrivés dans notre pays, essentiellement répartis entre la région parisienne, Lyon et Nantes.
« Nul ne peut aujourd’hui demeurer insensible au sort tragique des chrétiens d’Orient », a alors ajouté le ministre de l’intérieure Bernard Cazeneuve dans une allocution traduite simultanément en arabe. Sur la centaine de chrétiens d’Irak présents samedi au ministère, une petite moitié était arrivée l’été dernier après avoir été chassée de la plaine de Ninive par les terroristes de Daech. Les autres personnes présentes samedi au ministère sont installés en France de longue date. « Les chrétiens sont parmi les premières victimes du projet criminel d'épuration religieuse que Daech cherche à imposer à l'ensemble des territoires qu'il contrôle », a ajouté le ministe en rappelant que 90% des chrétiens d’Irak avaient quitté le pays entre 2003 et 2014, et que plus de 300 000 avaient fui la Syrie de 2011 à 2014.

 "Il faudra plus qu'une prière..." 

Après avoir écouté durant quelques minutes les chants de la chorale chaldéenne Saint Thomas-Apôtre de Sarcelles, François Hollande s’est prêté à un petit bain de foule. « Je prie pour votre réussite contre Daech », lui lance Pierre Palay, installé à Sarcelles depuis les années 1980.
« Il faudra plus qu’une prière… », concède le président. « Alors je prie et vous agissez », lui retourne son interlocuteur, se faisant ainsi le porte-parole de bien des membres de la communauté chaldéenne, avant tout soucieux de voir disparaître la menace terroriste au Proche-Orient.
« Il faut d’abord faire en sorte que ces chrétiens puissent retourner chez eux en sécurité », souligne Mgr Pascal Gollnisch, le directeur de l’œuvre d’Orient, convié à la réception au côté de l’évêque de Pontoise, Mgr Stanislas Lalanne. « Cela implique la neutralisation de Daech. Or, au bout de huit mois de frappes aériennes, les résultats ne sont pas suffisants ».
Par la voix de son observateur à Genève auprès des Nations Unies, Mgr Silvano Tomasi, le Saint-Siège a apporté un soutien inhabituel au recours à la force en Irak et Syrie contre les atrocités commises par Daech, qu’il accuse de « génocide ».

20 marzo 2015

Cristiani d'Iraq, hanno perso tutto ma non la fede: nostro reportage da Erbil

By La Vita del Popolo (Treviso)
Annalisa Milani

L’aereo scende nella luce sospesa tra notte e giorno sopra l’enorme grappolo di luci di Erbil, capitale curda, che in poco più di 6 anni si è trasformata, come una cellula impazzita, da villaggio a metropoli. Dopo l’attraversamento della piana che circonda l’aeroporto (si arriva in una struttura modernissima e poi si viaggia in pullman in mezzo al nulla per 20 minuti prima di guadagnare l’uscita vera) ecco Wisam, l’amico monaco dell’ex monastero di Gesù Redentore di Qaraqosh.
L’abbraccio con me, don Giorgio Scatto della comunità di Marango, suor Gemma, monaca della comunità trentina di Pian del Levro, e Giorgio, mio marito, è lunghissimo, intenso. Si abbraccia un amico che dopo il 6 agosto 2014, con l’avanzata dell’Isis da Mosul per tutta la piana di Ninive, si pensava perduto. Teso, dimagrito, con un berrettino con il frontino sempre in testa, sorridente quanto mai, urla abbracciandoci “Benvenuti, benvenuti… Dio vi benedica”.Due milioni di profughi accalcati
L’avevo incontrato nel 2012 a Qaraqosh, ma ora, con i fratelli monaci Yasser e Raid, condivide la sorte di due milioni di profughi. L’Onu li definisce Internal dispaced peoples - Idps, e sono due milioni di persone: non solo cristiani, ma anche musulmani sciiti e sunniti, yazidi che hanno perso la loro casa, ma restano nel loro paese. Un mare di persone che da mesi vive o in campi allestiti con tende o in caravan su pezzi di terra brulla alle periferie dei centri urbani o in parchi cittadini (come quello nel cuore di Erbil a cura della chiesa caldea), o in edifici in via di costruzione.
Si accalcano anche quattro o cinque famiglie in appartamenti spesso ancora allo stadio del cemento grezzo, senza intonaco, né pavimenti, né infissi. I nostri amici vivono nel campo di Osal, un agglomerato di case nuove a 30 minuti da Erbil centro e paradossalmente accanto ad un modernissmo dysneland curdo, il “Dynosaur park”. Qui vivono 300 famiglie sfollate in case in costruzione, per fortuna con infissi, divise al loro interno con cartongesso. I punti di riferimento sono Wisam, Raid, Yasser e Rahama, Suam e Victoria, tre suore domenicane, pure profughe due volte, prima da Mosul a Qaraqosh e poi da Qaraqosh a Erbil. “Ho sempre una valigetta pronta” ci dice suor Rahma, mentre i nostri amici monaci nella fuga di notte del 6 agosto 2014 hanno lasciato tutto in monastero, persino i vestiti. Con un sorriso amaro Wisam ci dirà: “Anche l’immagine di Charles de Foucault della saletta di accoglienza sarà stata bruciata da Daesh-Isis!”.
Loro, dal mattino alla notte corrono per i bisogni degli sfollati del campo Osal ed anche del campo approntato nel “palazzo” poco lontano, dove vivono 180 famiglie. Non c’è lavoro per nessuno di questi uomini e donne che da sempre a Qaraqosh, Berthella, Karamless ed altri paesi sulla piana di Ninive, coltivavano le terre degli avi cristiani e avevano impiantato piccoli commerci. Ora sono seduti su sedie di plastica a piccoli gruppi, parlano con gli sguardi vuoti e se ti fermi, mentre ti offrono un tè o un caffè iniziano a raccontarti... molti di loro dicono: “Questa volta basta, non possiamo più vivere con i musulmani, provenivano dai villaggi più poveri e li abbiamo aiutati con le scuole, i centri della salute, ed ora che è arrivato l’Isis i nostri vicini sono i primi che si sono rivoltati contro. Telefonano ad alcuni di noi dicendoci ironicamente che hanno occupato le nostre case e ci chiedono che cosa vogliamo che ci lascino! Non abbiamo più speranza, vogliamo andare via, in Europa, Australia, Canada, aiutateci!”.

Abbandonati e senza speranza
Anche i Curdi sfruttano i cristiani: i prezzi delle case, i prezzi dei beni di prima necessità sono aumentati abnormemente. Lo sciacallaggio si è scatenato ovunque, anche ad Ankawa, quartiere cristiano di Erbil da sempre: negli appartamenti sono ospitate 4000 persone, i prezzi per due stanze sono di 900 dollari e molte famiglie che avevano portato via un po’ di soldi accumulati se li stanno mangiando tutti, trovandosi completamente a terra. Padre Jallal, che gestisce un campo di container mi dice: “Molti chiedono asilo nei container, perché in questi campi un po’ di assistenza c’è”. Molti adolescenti sono senza scuola e tentano, per far sopravvivere la famiglia, di trovare qualche lavoretto in nero e i giovani che frequentavano l’ università non possono più andare avanti, non hanno soldi, non conoscono il curdo e oltre allo sradicamento subentra la non integrazione.
Aissar, ventenne, lungo, magro, davanti ad uno scatolone di pere che vende dentro i corridoi del campo dell’Ankawa Mall, mi racconta: “Io frequentavo il primo anno di Scienze ambientali all’università di Mosul, ora non posso più andare all’università e faccio qualcosa per sopravvivere. Ho molta nostalgia di casa, voglio ritornare. Tutti i giovani sfollati che hanno interrotto gli studi non fanno nulla e sono disperati!”.
Solo le elementari e medie sono state garantite dagli stessi insegnanti cristiani-iracheni che si sono auto organizzati, sotto le tende, dentro i container, in stanze piccole che a volte contengono 100 allievi.

Abitazioni da 9 metri quadrati
All’Ankawa Mall, un enorme centro commerciale in costruzione, si sono costruite con box e mura in cartongesso stanzette da tre metri per tre, dove vivono 5 o 6 persone: entrando ti investe l’odore di vissuto quotidiano di 420 famiglie e 1.700 persone. Impressionante è anche il rimbombo delle grida di bimbi che si rincorrono nelle scale ancora da finire. Qui in questo grigio e buio contenitore dove la luce penetra da un enorme lucernario, ma non riesce a raggiungere i piani dove si sono attrezzati fornelli e cucine, incontriamo Afnan, già conosciuta tra le donne di preghiera nel monastero di Qaraqosh nel 2012. Ci riconosce e piange. Il suo esiguo spazio è ordinato e pulito. Si tira giù un materasso impilato con altri per la notte (ha con lei due figli) ci si siede per terra, offre subito il caffè e aggiunge: “In questa situazione i valori umani si sono persi, c’è poca collaborazione anche tra la gente, le condizioni portano a far scoppiare molti conflitti”. Virgin, che ora presiede la scuola elementare del campo con 200 bambini in sei classi, ci racconta come i bambini non comunicano più tra loro, è aumentata l’aggressività, molti vivono incubi e non dormono di notte. “Che cosa possiamo fare noi per loro? Che cosa possiamo dire alle nostre comunità in Italia? Queste le domande che ci sorgono e poniamo sempre”. La risposta di Afnan e Virgin è: “Pregate”. Virgin aggiunge: “Vorrei ritornare libera, e non c’è odio nei confronti di chi ci ha fatto tutto questo, ma vogliamo ritornare a vivere in pace nelle nostre terre”.
Di fronte alla nostra fragile fede di cristiani di occidente, le parole di queste cristiane irachene ci lasciano senza fiato. Seduti a terra, con don Giorgio che piange, apriamo tutti le mani per un Padre Nostro in italiano, aramaico, arabo. Un Padre Nostro comune ed in varie lingue che si ripeterà spesso fino all’ultimo momento del nostro viaggio. Da un campo profughi all’altro incontriamo padre Jallal e fratel Basem, rogazionisti iracheni che gestiscono un campo di container con 270 famiglie. “Come tutti quelli di Erbil ed Ankawa - dice padre Jallal in perfetto italiano - questo campo è stato aperto dalla commissione dei vescovi, caldei, siri, ortodossi. Il ruolo della chiesa è essenziale, mentre dallo stato iracheno o curdo non è arrivato quasi nulla. Qui umanamente la gente vive spogliata della propria dignità e man mano che il tempo trascorre l’ incertezza del futuro getta ancora più nella disperazione”. Aggiunge: “Le nostre chiese nelle zone occupate sono state distrutte o trasformate in ristoranti e a fare questo sono stati spesso i musulmani che erano i nostri vicini, con loro un dialogo non sarà mai possibile”. Una posizione, questa, ripetuta in molti incontri.

Si riorganizza la comunità cristiana
Attraversiamo una trafficatissima strada che taglia in due il campo e lungo i cui bordi, con i teli blu dell’Alto Commissariato dei Rifugiati, si sono costruiti banchetti di fortuna che vendono un po’ di cibo. E via verso il Shelter Sport Ankawa, altro ex centro sportivo nel cui cortile oggi vi sono container con 215 famiglie. Il giovane abuna (padre) Bashar, chiamato a destra e a manca, ci racconta mentre ci accompagna: “Questa esperienza è per me nuova, molto sofferta, ma è il mio servizio come sacerdote”. Ci fermiamo a bere il caffè offerto dalla famiglia di Abdhallah, che ci convince che se avessero avuto armi vere si sarebbero difesi. Abuna Bashar gli dice in arabo “lascia perdere”, ed è ben contento quando ci dice che a Natale di persona l’ha chiamato “padre Francesco” o meglio “papa Francesco”. Scopriremo poi che attraverso altre “chiamate” personali papa Francesco è sempre presente lì, tra quei cristiani. Sotto le tende diventate chiese, nei corridoi e pianerottoli dei palazzi, nei magazzini, si riorganizza il catechesimo, il rosario ogni giorno, la messa ogni domenica, la preparazione per la prima comunione, i battesimi dei bimbi che, nonostante tutto, nascono, insomma le “parrocchie in esilio”, per i cristiani iracheni che ormai rischiano la scomparsa, funzionano per il momento da forte legame comunitario.

Yazidi, gli ultimi tra gli ultimi
Ma per le 35 famiglie di Yazidi che visitiamo nel campo di Osal non esiste nessuna struttura di chiesa, nessun legame comunitario. Gli Yazidi, stabilitisi attorno al monte Sinjar nel 1915, in numero di 700 mila, di religione zoorastiana, ora sono i paria tra i profughi. Sotto una struttura di lamiere e cartoni, incontro Ali. Abitava a Sinjar con altre 5.000 persone e mentre l’Isis attaccava, 35 persone della sua famiglia sono salite per 7 giorni al monte Sinjar. La situazione è stata tragica, molte donne hanno lasciato morire i bimbi piccoli perché non avevano acqua, poi con un intervento d’emergenza molti sono stati salvati ed ora vivono in 16 campi profughi attorno a Dohuk, ma “in condizioni da piangere”.
Ma nessuno dei miei racconti può documentare l’intensità del momento di silenzio di suor Suam, quando mi ha tradotto ciò che è accaduto ad una donna loro parente a cui i guerriglieri hanno tolto il bambino di 7 giorni dalle braccia e l’hanno ucciso sbattendolo sulla pietra. Il silenzio è doveroso di fronte a queste barbarie. Le uniche parole che mi sento di scrivere sono quelle del salmo 126 nato in queste terre “Riconduci, Signore, i nostri prigionieri, come i torrenti del Negheb. Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo. Nell’andare, se ne va e piange, ma nel tornare,viene con giubilo, portando i suoi covoni”.
L’aereo scende nella luce sospesa tra notte e giorno sopra l’enorme grappolo di luci di Erbil, capitale curda, che in poco più di 6 anni si è trasformata, come una cellula impazzita, da villaggio a metropoli. Dopo l’attraversamento della piana che circonda l’aeroporto (si arriva in una struttura modernissima e poi si viaggia in pullman in mezzo al nulla per 20 minuti prima di guadagnare l’uscita vera) ecco Wisam, l’amico monaco dell’ex monastero di Gesù Redentore di Qaraqosh.
L’abbraccio con me, don Giorgio Scatto della comunità di Marango, suor Gemma, monaca della comunità trentina di Pian del Levro, e Giorgio, mio marito, è lunghissimo, intenso. Si abbraccia un amico che dopo il 6 agosto 2014, con l’avanzata dell’Isis da Mosul per tutta la piana di Ninive, si pensava perduto. Teso, dimagrito, con un berrettino con il frontino sempre in testa, sorridente quanto mai, urla abbracciandoci “Benvenuti, benvenuti… Dio vi benedica”.
Due milioni di profughi accalcati
L’avevo incontrato nel 2012 a Qaraqosh, ma ora, con i fratelli monaci Yasser e Raid, condivide la sorte di due milioni di profughi. L’Onu li definisce Internal dispaced peoples- Idps, e sono due milioni di persone: non solo cristiani, ma anche musulmani sciiti e sunniti, yazidi che hanno perso la loro casa, ma restano nel loro paese. Un mare di persone che da mesi vive o in campi allestiti con tende o in caravan su pezzi di terra brulla alle periferie dei centri urbani o in parchi cittadini (come quello nel cuore di Erbil a cura della chiesa caldea), o in edifici in via di costruzione.
Si accalcano anche quattro o cinque famiglie in appartamenti spesso ancora allo stadio del cemento grezzo, senza intonaco, né pavimenti, né infissi. I nostri amici vivono nel campo di Osal, un agglomerato di case nuove a 30 minuti da Erbil centro e paradossalmente accanto ad un modernissmo dysneland curdo, il “Dynosaur park”. Qui vivono 300 famiglie sfollate in case in costruzione, per fortuna con infissi, divise al loro interno con cartongesso. I punti di riferimento sono Wisam, Raid, Yasser e Rahama, Suam e Victoria, tre suore domenicane, pure profughe due volte, prima da Mosul a Qaraqosh e poi da Qaraqosh a Erbil. “Ho sempre una valigetta pronta” ci dice suor Rahma, mentre i nostri amici monaci nella fuga di notte del 6 agosto 2014 hanno lasciato tutto in monastero, persino i vestiti. Con un sorriso amaro Wisam ci dirà: “Anche l’immagine di Charles de Foucault della saletta di accoglienza sarà stata bruciata da Daesh-Isis!”.
Loro, dal mattino alla notte corrono per i bisogni degli sfollati del campo Osal ed anche del campo approntato nel “palazzo” poco lontano, dove vivono 180 famiglie. Non c’è lavoro per nessuno di questi uomini e donne che da sempre a Qaraqosh, Berthella, Karamless ed altri paesi sulla piana di Ninive, coltivavano le terre degli avi cristiani e avevano impiantato piccoli commerci. Ora sono seduti su sedie di plastica a piccoli gruppi, parlano con gli sguardi vuoti e se ti fermi, mentre ti offrono un tè o un caffè iniziano a raccontarti... molti di loro dicono: “Questa volta basta, non possiamo più vivere con i musulmani, provenivano dai villaggi più poveri e li abbiamo aiutati con le scuole, i centri della salute, ed ora che è arrivato l’Isis i nostri vicini sono i primi che si sono rivoltati contro. Telefonano ad alcuni di noi dicendoci ironicamente che hanno occupato le nostre case e ci chiedono che cosa vogliamo che ci lascino! Non abbiamo più speranza, vogliamo andare via, in Europa, Australia, Canada, aiutateci!”.
Abbandonati e senza speranza
Anche i Curdi sfruttano i cristiani: i prezzi delle case, i prezzi dei beni di prima necessità sono aumentati abnormemente. Lo sciacallaggio si è scatenato ovunque, anche ad Ankawa, quartiere cristiano di Erbil da sempre: negli appartamenti sono ospitate 4000 persone, i prezzi per due stanze sono di 900 dollari e molte famiglie che avevano portato via un po’ di soldi accumulati se li stanno mangiando tutti, trovandosi completamente a terra. Padre Jallal, che gestisce un campo di container mi dice: “Molti chiedono asilo nei container, perché in questi campi un po’ di assistenza c’è”. Molti adolescenti sono senza scuola e tentano, per far sopravvivere la famiglia, di trovare qualche lavoretto in nero e i giovani che frequentavano l’ università non possono più andare avanti, non hanno soldi, non conoscono il curdo e oltre allo sradicamento subentra la non integrazione.
Aissar, ventenne, lungo, magro, davanti ad uno scatolone di pere che vende dentro i corridoi del campo dell’Ankawa Mall, mi racconta: “Io frequentavo il primo anno di Scienze ambientali all’università di Mosul, ora non posso più andare all’università e faccio qualcosa per sopravvivere. Ho molta nostalgia di casa, voglio ritornare. Tutti i giovani sfollati che hanno interrotto gli studi non fanno nulla e sono disperati!”. Solo le elementari e medie sono state garantite dagli stessi insegnanti cristiani-iracheni che si sono auto organizzati, sotto le tende, dentro i container, in stanze piccole che a volte contengono 100 allievi.
Abitazioni da 9 metri quadrati
All’Ankawa Mall, un enorme centro commerciale in costruzione, si sono costruite con box e mura in cartongesso stanzette da tre metri per tre, dove vivono 5 o 6 persone: entrando ti investe l’odore di vissuto quotidiano di 420 famiglie e 1.700 persone. Impressionante è anche il rimbombo delle grida di bimbi che si rincorrono nelle scale ancora da finire. Qui in questo grigio e buio contenitore dove la luce penetra da un enorme lucernario, ma non riesce a raggiungere i piani dove si sono attrezzati fornelli e cucine, incontriamo Afnan, già conosciuta tra le donne di preghiera nel monastero di Qaraqosh nel 2012. Ci riconosce e piange. Il suo esiguo spazio è ordinato e pulito. Si tira giù un materasso impilato con altri per la notte (ha con lei due figli) ci si siede per terra, offre subito il caffè e aggiunge: “In questa situazione i valori umani si sono persi, c’è poca collaborazione anche tra la gente, le condizioni portano a far scoppiare molti conflitti”. Virgin, che ora presiede la scuola elementare del campo con 200 bambini in sei classi, ci racconta come i bambini non comunicano più tra loro, è aumentata l’aggressività, molti vivono incubi e non dormono di notte. “Che cosa possiamo fare noi per loro? Che cosa possiamo dire alle nostre comunità in Italia? Queste le domande che ci sorgono e poniamo sempre”. La risposta di Afnan e Virgin è: “Pregate”. Virgin aggiunge: “Vorrei ritornare libera, e non c’è odio nei confronti di chi ci ha fatto tutto questo, ma vogliamo ritornare a vivere in pace nelle nostre terre”.
Di fronte alla nostra fragile fede di cristiani di occidente, le parole di queste cristiane irachene ci lasciano senza fiato. Seduti a terra, con don Giorgio che piange, apriamo tutti le mani per un Padre Nostro in italiano, aramaico, arabo. Un Padre Nostro comune ed in varie lingue che si ripeterà spesso fino all’ultimo momento del nostro viaggio. Da un campo profughi all’altro incontriamo padre Jallal e fratel Basem, rogazionisti iracheni che gestiscono un campo di container con 270 famiglie. “Come tutti quelli di Erbil ed Ankawa - dice padre Jallal in perfetto italiano - questo campo è stato aperto dalla commissione dei vescovi, caldei, siri, ortodossi. Il ruolo della chiesa è essenziale, mentre dallo stato iracheno o curdo non è arrivato quasi nulla. Qui umanamente la gente vive spogliata della propria dignità e man mano che il tempo trascorre l’ incertezza del futuro getta ancora più nella disperazione”. Aggiunge: “Le nostre chiese nelle zone occupate sono state distrutte o trasformate in ristoranti e a fare questo sono stati spesso i musulmani che erano i nostri vicini, con loro un dialogo non sarà mai possibile”. Una posizione, questa, ripetuta in molti incontri.
Si riorganizza la comunità cristiana
Attraversiamo una trafficatissima strada che taglia in due il campo e lungo i cui bordi, con i teli blu dell’Alto Commissariato dei Rifugiati, si sono costruiti banchetti di fortuna che vendono un po’ di cibo. E via verso il Shelter Sport Ankawa, altro ex centro sportivo nel cui cortile oggi vi sono container con 215 famiglie. Il giovane abuna (padre) Bashar, chiamato a destra e a manca, ci racconta mentre ci accompagna: “Questa esperienza è per me nuova, molto sofferta, ma è il mio servizio come sacerdote”. Ci fermiamo a bere il caffè offerto dalla famiglia di Abdhallah, che ci convince che se avessero avuto armi vere si sarebbero difesi. Abuna Bashar gli dice in arabo “lascia perdere”, ed è ben contento quando ci dice che a Natale di persona l’ha chiamato “padre Francesco” o meglio “papa Francesco”. Scopriremo poi che attraverso altre “chiamate” personali papa Francesco è sempre presente lì, tra quei cristiani. Sotto le tende diventate chiese, nei corridoi e pianerottoli dei palazzi, nei magazzini, si riorganizza il catechesimo, il rosario ogni giorno, la messa ogni domenica, la preparazione per la prima comunione, i battesimi dei bimbi che, nonostante tutto, nascono, insomma le “parrocchie in esilio”, per i cristiani iracheni che ormai rischiano la scomparsa, funzionano per il momento da forte legame comunitario.
Yazidi, gli ultimi tra gli ultimi
Ma per le 35 famiglie di Yazidi che visitiamo nel campo di Osal non esiste nessuna struttura di chiesa, nessun legame comunitario. Gli Yazidi, stabilitisi attorno al monte Sinjar nel 1915, in numero di 700 mila, di religione zoorastiana, ora sono i paria tra i profughi. Sotto una struttura di lamiere e cartoni, incontro Ali. Abitava a Sinjar con altre 5.000 persone e mentre l’Isis attaccava, 35 persone della sua famiglia sono salite per 7 giorni al monte Sinjar. La situazione è stata tragica, molte donne hanno lasciato morire i bimbi piccoli perché non avevano acqua, poi con un intervento d’emergenza molti sono stati salvati ed ora vivono in 16 campi profughi attorno a Dohuk, ma “in condizioni da piangere”.
Ma nessuno dei miei racconti può documentare l’intensità del momento di silenzio di suor Suam, quando mi ha tradotto ciò che è accaduto ad una donna loro parente a cui i guerriglieri hanno tolto il bambino di 7 giorni dalle braccia e l’hanno ucciso sbattendolo sulla pietra. Il silenzio è doveroso di fronte a queste barbarie. Le uniche parole che mi sento di scrivere sono quelle del salmo 126 nato in queste terre “Riconduci, Signore, i nostri prigionieri, come i torrenti del Negheb. Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo. Nell’andare, se ne va e piange, ma nel tornare,viene con giubilo, portando i suoi covoni”. - See more at: http://www.lavitadelpopolo.it/Mondo/Cristiani-d-Iraq-hanno-perso-tutto-ma-non-la-fede-nostro-reportage-da-Erbil#sthash.dP5PJ2Vf.dpuf
L’aereo scende nella luce sospesa tra notte e giorno sopra l’enorme grappolo di luci di Erbil, capitale curda, che in poco più di 6 anni si è trasformata, come una cellula impazzita, da villaggio a metropoli. Dopo l’attraversamento della piana che circonda l’aeroporto (si arriva in una struttura modernissima e poi si viaggia in pullman in mezzo al nulla per 20 minuti prima di guadagnare l’uscita vera) ecco Wisam, l’amico monaco dell’ex monastero di Gesù Redentore di Qaraqosh.
L’abbraccio con me, don Giorgio Scatto della comunità di Marango, suor Gemma, monaca della comunità trentina di Pian del Levro, e Giorgio, mio marito, è lunghissimo, intenso. Si abbraccia un amico che dopo il 6 agosto 2014, con l’avanzata dell’Isis da Mosul per tutta la piana di Ninive, si pensava perduto. Teso, dimagrito, con un berrettino con il frontino sempre in testa, sorridente quanto mai, urla abbracciandoci “Benvenuti, benvenuti… Dio vi benedica”.
Due milioni di profughi accalcati
L’avevo incontrato nel 2012 a Qaraqosh, ma ora, con i fratelli monaci Yasser e Raid, condivide la sorte di due milioni di profughi. L’Onu li definisce Internal dispaced peoples- Idps, e sono due milioni di persone: non solo cristiani, ma anche musulmani sciiti e sunniti, yazidi che hanno perso la loro casa, ma restano nel loro paese. Un mare di persone che da mesi vive o in campi allestiti con tende o in caravan su pezzi di terra brulla alle periferie dei centri urbani o in parchi cittadini (come quello nel cuore di Erbil a cura della chiesa caldea), o in edifici in via di costruzione.
Si accalcano anche quattro o cinque famiglie in appartamenti spesso ancora allo stadio del cemento grezzo, senza intonaco, né pavimenti, né infissi. I nostri amici vivono nel campo di Osal, un agglomerato di case nuove a 30 minuti da Erbil centro e paradossalmente accanto ad un modernissmo dysneland curdo, il “Dynosaur park”. Qui vivono 300 famiglie sfollate in case in costruzione, per fortuna con infissi, divise al loro interno con cartongesso. I punti di riferimento sono Wisam, Raid, Yasser e Rahama, Suam e Victoria, tre suore domenicane, pure profughe due volte, prima da Mosul a Qaraqosh e poi da Qaraqosh a Erbil. “Ho sempre una valigetta pronta” ci dice suor Rahma, mentre i nostri amici monaci nella fuga di notte del 6 agosto 2014 hanno lasciato tutto in monastero, persino i vestiti. Con un sorriso amaro Wisam ci dirà: “Anche l’immagine di Charles de Foucault della saletta di accoglienza sarà stata bruciata da Daesh-Isis!”.
Loro, dal mattino alla notte corrono per i bisogni degli sfollati del campo Osal ed anche del campo approntato nel “palazzo” poco lontano, dove vivono 180 famiglie. Non c’è lavoro per nessuno di questi uomini e donne che da sempre a Qaraqosh, Berthella, Karamless ed altri paesi sulla piana di Ninive, coltivavano le terre degli avi cristiani e avevano impiantato piccoli commerci. Ora sono seduti su sedie di plastica a piccoli gruppi, parlano con gli sguardi vuoti e se ti fermi, mentre ti offrono un tè o un caffè iniziano a raccontarti... molti di loro dicono: “Questa volta basta, non possiamo più vivere con i musulmani, provenivano dai villaggi più poveri e li abbiamo aiutati con le scuole, i centri della salute, ed ora che è arrivato l’Isis i nostri vicini sono i primi che si sono rivoltati contro. Telefonano ad alcuni di noi dicendoci ironicamente che hanno occupato le nostre case e ci chiedono che cosa vogliamo che ci lascino! Non abbiamo più speranza, vogliamo andare via, in Europa, Australia, Canada, aiutateci!”.
Abbandonati e senza speranza
Anche i Curdi sfruttano i cristiani: i prezzi delle case, i prezzi dei beni di prima necessità sono aumentati abnormemente. Lo sciacallaggio si è scatenato ovunque, anche ad Ankawa, quartiere cristiano di Erbil da sempre: negli appartamenti sono ospitate 4000 persone, i prezzi per due stanze sono di 900 dollari e molte famiglie che avevano portato via un po’ di soldi accumulati se li stanno mangiando tutti, trovandosi completamente a terra. Padre Jallal, che gestisce un campo di container mi dice: “Molti chiedono asilo nei container, perché in questi campi un po’ di assistenza c’è”. Molti adolescenti sono senza scuola e tentano, per far sopravvivere la famiglia, di trovare qualche lavoretto in nero e i giovani che frequentavano l’ università non possono più andare avanti, non hanno soldi, non conoscono il curdo e oltre allo sradicamento subentra la non integrazione.
Aissar, ventenne, lungo, magro, davanti ad uno scatolone di pere che vende dentro i corridoi del campo dell’Ankawa Mall, mi racconta: “Io frequentavo il primo anno di Scienze ambientali all’università di Mosul, ora non posso più andare all’università e faccio qualcosa per sopravvivere. Ho molta nostalgia di casa, voglio ritornare. Tutti i giovani sfollati che hanno interrotto gli studi non fanno nulla e sono disperati!”. Solo le elementari e medie sono state garantite dagli stessi insegnanti cristiani-iracheni che si sono auto organizzati, sotto le tende, dentro i container, in stanze piccole che a volte contengono 100 allievi.
Abitazioni da 9 metri quadrati
All’Ankawa Mall, un enorme centro commerciale in costruzione, si sono costruite con box e mura in cartongesso stanzette da tre metri per tre, dove vivono 5 o 6 persone: entrando ti investe l’odore di vissuto quotidiano di 420 famiglie e 1.700 persone. Impressionante è anche il rimbombo delle grida di bimbi che si rincorrono nelle scale ancora da finire. Qui in questo grigio e buio contenitore dove la luce penetra da un enorme lucernario, ma non riesce a raggiungere i piani dove si sono attrezzati fornelli e cucine, incontriamo Afnan, già conosciuta tra le donne di preghiera nel monastero di Qaraqosh nel 2012. Ci riconosce e piange. Il suo esiguo spazio è ordinato e pulito. Si tira giù un materasso impilato con altri per la notte (ha con lei due figli) ci si siede per terra, offre subito il caffè e aggiunge: “In questa situazione i valori umani si sono persi, c’è poca collaborazione anche tra la gente, le condizioni portano a far scoppiare molti conflitti”. Virgin, che ora presiede la scuola elementare del campo con 200 bambini in sei classi, ci racconta come i bambini non comunicano più tra loro, è aumentata l’aggressività, molti vivono incubi e non dormono di notte. “Che cosa possiamo fare noi per loro? Che cosa possiamo dire alle nostre comunità in Italia? Queste le domande che ci sorgono e poniamo sempre”. La risposta di Afnan e Virgin è: “Pregate”. Virgin aggiunge: “Vorrei ritornare libera, e non c’è odio nei confronti di chi ci ha fatto tutto questo, ma vogliamo ritornare a vivere in pace nelle nostre terre”.
Di fronte alla nostra fragile fede di cristiani di occidente, le parole di queste cristiane irachene ci lasciano senza fiato. Seduti a terra, con don Giorgio che piange, apriamo tutti le mani per un Padre Nostro in italiano, aramaico, arabo. Un Padre Nostro comune ed in varie lingue che si ripeterà spesso fino all’ultimo momento del nostro viaggio. Da un campo profughi all’altro incontriamo padre Jallal e fratel Basem, rogazionisti iracheni che gestiscono un campo di container con 270 famiglie. “Come tutti quelli di Erbil ed Ankawa - dice padre Jallal in perfetto italiano - questo campo è stato aperto dalla commissione dei vescovi, caldei, siri, ortodossi. Il ruolo della chiesa è essenziale, mentre dallo stato iracheno o curdo non è arrivato quasi nulla. Qui umanamente la gente vive spogliata della propria dignità e man mano che il tempo trascorre l’ incertezza del futuro getta ancora più nella disperazione”. Aggiunge: “Le nostre chiese nelle zone occupate sono state distrutte o trasformate in ristoranti e a fare questo sono stati spesso i musulmani che erano i nostri vicini, con loro un dialogo non sarà mai possibile”. Una posizione, questa, ripetuta in molti incontri.
Si riorganizza la comunità cristiana
Attraversiamo una trafficatissima strada che taglia in due il campo e lungo i cui bordi, con i teli blu dell’Alto Commissariato dei Rifugiati, si sono costruiti banchetti di fortuna che vendono un po’ di cibo. E via verso il Shelter Sport Ankawa, altro ex centro sportivo nel cui cortile oggi vi sono container con 215 famiglie. Il giovane abuna (padre) Bashar, chiamato a destra e a manca, ci racconta mentre ci accompagna: “Questa esperienza è per me nuova, molto sofferta, ma è il mio servizio come sacerdote”. Ci fermiamo a bere il caffè offerto dalla famiglia di Abdhallah, che ci convince che se avessero avuto armi vere si sarebbero difesi. Abuna Bashar gli dice in arabo “lascia perdere”, ed è ben contento quando ci dice che a Natale di persona l’ha chiamato “padre Francesco” o meglio “papa Francesco”. Scopriremo poi che attraverso altre “chiamate” personali papa Francesco è sempre presente lì, tra quei cristiani. Sotto le tende diventate chiese, nei corridoi e pianerottoli dei palazzi, nei magazzini, si riorganizza il catechesimo, il rosario ogni giorno, la messa ogni domenica, la preparazione per la prima comunione, i battesimi dei bimbi che, nonostante tutto, nascono, insomma le “parrocchie in esilio”, per i cristiani iracheni che ormai rischiano la scomparsa, funzionano per il momento da forte legame comunitario.
Yazidi, gli ultimi tra gli ultimi
Ma per le 35 famiglie di Yazidi che visitiamo nel campo di Osal non esiste nessuna struttura di chiesa, nessun legame comunitario. Gli Yazidi, stabilitisi attorno al monte Sinjar nel 1915, in numero di 700 mila, di religione zoorastiana, ora sono i paria tra i profughi. Sotto una struttura di lamiere e cartoni, incontro Ali. Abitava a Sinjar con altre 5.000 persone e mentre l’Isis attaccava, 35 persone della sua famiglia sono salite per 7 giorni al monte Sinjar. La situazione è stata tragica, molte donne hanno lasciato morire i bimbi piccoli perché non avevano acqua, poi con un intervento d’emergenza molti sono stati salvati ed ora vivono in 16 campi profughi attorno a Dohuk, ma “in condizioni da piangere”.
Ma nessuno dei miei racconti può documentare l’intensità del momento di silenzio di suor Suam, quando mi ha tradotto ciò che è accaduto ad una donna loro parente a cui i guerriglieri hanno tolto il bambino di 7 giorni dalle braccia e l’hanno ucciso sbattendolo sulla pietra. Il silenzio è doveroso di fronte a queste barbarie. Le uniche parole che mi sento di scrivere sono quelle del salmo 126 nato in queste terre “Riconduci, Signore, i nostri prigionieri, come i torrenti del Negheb. Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo. Nell’andare, se ne va e piange, ma nel tornare,viene con giubilo, portando i suoi covoni”. - See more at: http://www.lavitadelpopolo.it/Mondo/Cristiani-d-Iraq-hanno-perso-tutto-ma-non-la-fede-nostro-reportage-da-Erbil#sthash.dP5PJ2Vf.dpuf