"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

26 febbraio 2022

Patriarchi del Medio oriente: la guerra fra Mosca e Kiev ‘sconfitta di tutti’

Dario Salvi

“Grande amarezza e profonda delusione”. Sono le parole con cui il patriarca latino di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa commenta ad AsiaNews i venti di guerra che arrivano dall’Ucraina, sotto l’assedio dell’esercito russo dopo la dichiarazione di guerra del presidente Vladimir Putin. L’escalation che ha portato al conflitto “è una sconfitta per tutti coloro i quali credono nella possibilità di superare le differenze in maniera diversa” osserva il patriarca, che non nasconde la propria “preoccupazione” perché Mosca “ha un ruolo molto importante nel Mediterraneo e in Medio oriente”. Questa, osserva, “è una prova di forza che potrebbe avere ripercussioni sulla nostra regione”.
In questi giorni in Italia per partecipare al convegno “Mediterraneo frontiera di pace” in corso a Firenze dal 23 al 27 febbraio, il patriarca Pizzaballa approfondisce anche il tema delle divisioni fra le Chiese di Russia e Ucraina e le possibili ripercussioni. “Queste divisioni - sottolinea - sono conseguenti, perché le contrapposizioni fra Chiese accompagnano le divisioni politiche e sono diventate strumentali alle visioni politiche”, questo “purtroppo bisogna riconoscerlo”.
La speranza è che le fratture “non si allarghino al mondo ortodosso” perché questo diventerebbe un “problema di tutte le comunità cristiane”. Il patriarca latino di Gerusalemme rilancia in chiusura la giornata di preghiera e digiuno per il 2 marzo, che coincide “con l’inizio della Quaresima ed è per noi una giornata molto importante”. Sarà, conclude, “un evento molto partecipato” nel quale non mancherà una intenzione speciale “per la riconciliazione fra le Chiese” e per “la fine dei conflitti” a partire da quello in Ucraina.

Sulla escalation militare che ha portato alla guerra interviene anche il patriarca dei caldei in Baghdad, il card. Louis Raphael Sako, il quale esprime “solidarietà” al popolo. “Anche noi - spiega ad AsiaNews - abbiamo sofferto in questi anni per la guerra. Sono colpito dal messaggio diffuso da Moqtada al-Sadr [leader sciita e vincitore col suo blocco delle ultime elezioni, ndr], che si chiede come mai due Paesi cristiani si stiano facendo la guerra fra loro”. Non dobbiamo, avverte il porporato, perseguire “l’interesse personale, le guerre non solo la soluzione. Al contrario, va cercata una soluzione e il modo per dialogare e allentare le tensioni”.
Il patriarca di Baghdad non nasconde il timore di “ripercussioni” su tutta la regione mediorientale dall’escalation militare fra Mosca e Kiev, che potrebbe sfociare “in una terza guerra mondiale, ma tutti noi speriamo tutti di no”. Tuttavia, avverte, “anche i cristiani devono agire in prima persona” e per questo in Iraq vi sarà una grande partecipazione alla giornata del 2 marzo, in concomitanza con l’inizio della Quaresima.

Ai popoli di Russia e Ucraina guarda con “preoccupazione e attenzione” il patriarca armeno cattolico Raphaël Bedros XXI Minassian, secondo cui sono le persone normale, i civili, che “stanno pagando il prezzo più alto” di questa situazione. Per il patriarca “ci sono forze esterne” che usano la piazza ucraina “per creare confusione” e il cuore della controversia non è Kiev “ma tutto quello che ruota attorno”. Una immagine simile, conclude, “in Medio oriente la possiamo trovare in Libano” che è stato il punto del “conflitto di altri Paesi, ma chi ha pagato il prezzo delle violenze” anche in questo caso “è la popolazione libanese”.

24 febbraio 2022

Erbil, prima pietra della futura cattedrale della Chiesa assira d’Oriente


Foto Assyrian Church News
Una cerimonia semplice, ma partecipata per celebrare la posa della prima pietra della futura cattedrale assira dei santi apostoli mar Thomas, mar Addai e mar Mari, discepoli dell’Oriente. L’evento si è tenuto ieri nell’area del cantiere a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, sul quale sorgerà il luogo di culto e centro amministrativo, fermo da oltre un decennio, e che segna al contempo il ritorno definitivo in Iraq della sede patriarcale della chiesa assira d’Oriente.
A presiedere la cerimonia vi era il patriarca Mar Awa III, assieme a numerose personalità ecclesiastiche locali (fra i quali vescovi caldei e siriaci) e rappresentanti delle istituzioni e della società civile. Il terreno su cui sorgerà la futura cattedrale - e sede patriarcale - appartiene alla Chiesa assira d’Oriente ed è situato vicino al centro di Erbil, nei pressi della cittadella.
L’inizio dei lavori di costruzione risale a una decina di anni fa, sotto la guida dell’allora patriarca Mar Dinkha IV; tuttavia, il cantiere è rimasto a lungo abbandonato e solo nell’ultima fase è ripreso lo studio del progetto, culminato ieri con la posa della prima pietra e il via libera ai lavori. Fonti cristiane locali celebrano l’evento, sottolineando che rappresenta un ulteriore segnale del “ritorno in Mesopotamia” e nelle sue “terre di origine” della chiesa dopo “alcuni decenni” di esilio.
Foto Assyrian Church News
La Chiesa assira d’Oriente è cristiana di rito siriaco orientale; si considera continuazione legittima della Chiesa d’Oriente. Nel 1933, a causa della situazione geopolitica nella regione e delle persecuzioni contro i cristiani, a partire dal genocidio assiro-armeno avvenuto nella Prima guerra mondiale, la sede viene trasferita dal Medio oriente prima a Cipro, poi a Chicago negli Stati Uniti. I primi passi verso il ritorno nel 2006, con la costruzione della nuova sede patriarcale a Erbil e l’elezione dell’ultimo patriarca, con la piena autorità sul luogo in cui ha avuto origine la storia della Chiesa assira. L’attuale capo della Chiesa assira d’Oriente è Mar Awa Royel, che è succeduto nel settembre scorso al dimissionario Mar Gewargis III Sliwa, ed è formata da circa 350mila fedeli, la maggior parte dei quali vive nei Paesi della diaspora.
Sempre ieri i cristiani di Iraq e Siria hanno commemorato il settimo anniversario del sanguinoso attacco dello Stato islamico contro villaggi assiri della piana di Khabour, in Siria. Nella notte fra il 22 e il 23 febbraio 2015 centinaia di mezzi dell’Isis hanno colpito 35 villaggi nel governatorato di Hassaké, nel nord-est del Paese, sequestrando 290 civili, la maggior parte dei quali donne e bambini. Di questi, almeno 44 sono stati giustiziati dai jihadisti e altre 10mila persone sono fuggite dalla regione in cerca di riparo. Tutte le chiese e i luoghi di culto cristiani sono stati bruciati o distrutti in una delle pagine più buie delle persecuzioni anti-cristiane per mano dell’Isis.

23 febbraio 2022

Basel Yaldo: “Il convegno sul Mediterraneo aiuterà i cristiani del Medioriente”

Federico Piana

L’incontro dei vescovi e dei sindaci del Mediterraneo intitolato ‘Mediterraneo frontiera di pace’, che si apre oggi a Firenze e si concluderà domenica 27 febbraio con la visita di Papa Francesco, per monsignor Basel Yaldo, vescovo ausiliare di Baghdad, rappresenta una speranza concreta: ”Sono sicuro - dice- che aiuterà i cristiani del Medioriente a rimanere ognuno nel proprio Paese, perché non si può immaginare un Medioriente senza cristiani”.

Sogni e preoccupazioni
Al vertice sulla pace e sul futuro delle genti del Mare nostrum, il vescovo ausiliare della capitale irachena, insieme al Patriarca di Baghdad dei Caldei, il cardinale Louis Raphael I Sako, porterà le preoccupazioni ed i sogni del travagliato popolo iracheno. “Il nostro Paese sta vivendo un periodo davvero molto difficile, come accade anche in altre nazioni del Medioriente, ad esempio Siria e Libano. Spero che questo incontro possa davvero produrre buoni risultati” si augura monsignor Yaldo.

Qual è, oggi, la situazione in Iraq?
Ancora non è stabile. I risultati delle elezioni sono stati accettati ma il governo non si è formato: ci vorrà ancora del tempo perché, purtroppo, ogni politico vuole comandare. E poi ci sono problemi legati alla corruzione che complicano le cose. Noi cristiani, però, abbiamo un buon rapporto con tutti. Il cardinale Sako sta lavorando per tentare di trovare un’intesa tra tutte le forze politiche.
Questo incontro di Firenze è la seconda edizione di ‘Mediterraneo frontiera di pace’ che due anni fa si tenne, per la prima volta, a Bari. Il vertice del capoluogo pugliese quali frutti ha generato?
Dopo l’incontro di Bari, abbiamo svolto delle conferenze in Iraq, Siria, Libano e Giordania, per mettere a punto delle strategie con le quali aiutare i cristiani di queste zone del Mediterraneo. E, su questo fronte, stiamo ancora lavorando, con un’attenzione particolare rivolta ai giovani cristiani: dobbiamo dare loro delle soluzioni concrete affinché non abbandonino il proprio Paese.
Ad un anno di distanza, il prossimo 5 marzo si ricorderà la storica visita di quattro giorni di Papa Francesco in Iraq. Nel Paese sono previsti avvenimenti commemorativi?
Sì certo. Il primo ministro ha annunciato che il 6 marzo sarà celebrata la Giornata della tolleranza perché, in questo stesso giorno di un anno fa, a Najaf il Papa incontrò l’imam sciita Ali al-Sistani mentre ad Ur abbracciò i rappresentanti di tutte le religioni. Inoltre, noi faremo un convegno, al quale inviteremo tutte le autorità civili, politiche e religiose, ed una mostra nella quale, tra le altre cose, saranno esposti tutti i libri dedicati a questo viaggio straordinario e memorabile. Infine, abbiamo previsto anche un concerto ed un pellegrinaggio con i giovani proprio ad Ur dei Caldei.

Il comitato sadrista ha restituito oltre 120 proprietà ai cristiani iracheni


In poco più di un anno oltre 120 beni ed edifici appartenenti in origine a cristiani e sabei, espropriati in precedenza con la forza o l’inganno da mafie o bande locali, sono tornate nelle mani o sotto il controllo dei loro legittimi proprietari.
A riferirlo è il Comitato per la restituzione delle proprietà cristiane e sabee il quale, in collaborazione con l’Esercito del Mahdi [le ex Brigate della pace Saraya al-Salam, ndr] entrambe agli ordini del leader sciita Muqtada al-Sadr, hanno supervisionato l’iter di restituzione. I beni sono tornati a disposizione dei cristiani “dopo il completamento della revisione dei documenti che ne comprovavano il permesso” e il successivo esproprio da parte di bande o gruppi riconducibili alla “mafie dei terreni”.
L’atto ufficiale di restituzione è avvenuto il 21 febbraio scorso alla presenza di alcuni esponenti del comitato fra i quali Awn Al-Nabi (stretto collaboratore di al-Sadr), del primo vice presidente del Parlamento Hakim al-Zamili e di Hassan al-Kaabi, vice presidente del blocco sadrista. La consegna, spiegano i responsabili, ha riguardato un certo numero di case, di terreni, di fabbriche e di negozi che, prima della restituzione ai proprietari, sono stati sottoposti a una meticolosa opera di restauro.
Agli inizi dello scorso anno al-Sadr, leader della fazione sadrista che rappresenta il blocco principale in Parlamento e ha vinto le ultime elezioni politiche nel 2021, ha creato un comitato incaricato di raccogliere e verificare notizie e reclami riguardanti gli espropri di beni cristiani. Un patrimonio immobiliare sparso in diverse zone del Paese ed espropriato ai legittimi proprietari negli ultimi anni. Una iniziativa, come l’aveva illustrata lo stesso capo sciita, che aveva l’obiettivo di ristabilire la giustizia, mettendo fine alle violazioni dei diritti di proprietà dei “fratelli cristiani”.
Il fenomeno della sottrazione illegale di case e beni cristiani di mafie organizzate sostenute da funzionari corrotti è conseguenza dell’esodo di una parte consistente della comunità cristiana in seguito all’invasione statunitense del 2003 per destituire il rais Saddam Hussein. Un fenomeno che ha ridotto di un terzo (oggi meno di 500mila) la popolazione cristiana e ha lasciato campo libero per espropri e furti “legalizzati” di proprietà come denunciato dalle massime cariche cattoliche del Paese. Nella lettera pastorale inviata ai fedeli in occasione del Natale 2015 il patriarca caldeo card. Louis Raphael Sako aveva descritto in modo ampio e diffuso il fenomeno, inserendolo fra i mali che “affliggono la società”, alcuni dei quali colpiscono “in particolare i cristiani”. Sua beatitudine aveva parlato di “famiglie oggetto di attacchi mirati ed espropri da parte di delinquenti e gruppi estremisti”, rivolgendo un appello alle autorità per una maggiore sicurezza e protezione.
Ad aprile del 2017 era tornato sulla questione l’ex parlamentare cristiano Yonadam Kanna, leader dell'Assyrian Democratic Movement, che in una intervista ad AsiaNews aveva parlato di “criminali che realizzano documenti falsi e certificati contraffatti, per rivendicare beni, case o attività di cristiani emigrati dal Paese in questi anni a causa delle guerre e delle violenze”. “Una mafia - aveva spiegato - che opera secondo uno schema: falsifica gli attestanti, si reca in tribunale e davanti ai giudici rivendica il possesso di un bene che in realtà non è loro. E i giudici finiscono per cedere”.
Oggi almeno una parte di questi beni e proprietà sono tornati ai legittimi proprietari. Al-Zamili ha parlato delle “mafie immobiliari” che hanno “approfittato delle precarie condizioni di sicurezza” per “mettere le mani sulle proprietà”, ma le minoranze non resteranno “senza sostegno”. Il Comitato per la restituzione delle proprietà cristiane e sabee ha infine espresso la speranza per “un pronto ritorno” di tutti gli iracheni sfollati, cristiani, sabei o altri, dopo aver completato “la restituzione” di tutte le loro proprietà “entro i parametri legali e il miglioramento delle condizioni di sicurezza”.

20 febbraio 2022

Il vescovo di Baghdad a Radio Vaticana: Mons. Basilio Yaldo

By Radio Vaticana
19 febbraio 2022


Il viaggio a Roma delle comunità cristiane orientali di Francia

Andrea Gagliarducci
19 febbraio 2022

C’è, in Francia, un Ordinariato dei cattolici di rito orientale. Struttura creata da Pio XII nel 1954, erede dell’Amministrazione diocesana per gli stranieri che esisteva sin dal 1922 nell’arcidiocesi di Parigi, l’ordinariato ha giurisdizione sui cattolici di rito orientale residenti in Francia e senza una gerarchia propria. Dal 13 al 17 febbraio, i membri di questo ordinariato sono stati a Roma per il loro incontro annuale.
Era la prima volta che questo incontro si teneva fuori dalla Francia, ma è stato un viaggio molo sentito. Monsignor Sabri Anar, sacerdote caldeo della parrocchia di Saint-Thomas Apotre sottolinea che il viaggio vuole “mostrare lo spirito orientale della Francia e ricordare l’importanza delle nostre chiese orientali, dell’universalità della Chiesa”.
Il gruppo era composto da una ventina di sacerdoti, responsabili delle loro comunità libanesi, melchite, caldee, siriane, persino copte. Hanno un forte legame con i territori di origine, curano un gregge che vive nella diaspora, e guardano a Roma come “sede del Papa e punto di riferimento della fede”.
Con loro, monsignor Pascal Gollnish, direttore generale dell’Oevure d’Orient e vicario generale dell’Ordinariato "Vogliamo – sottolinea monsignor Gollnish - permettere a queste comunità orientali di trovare il loro posto nella società francese, che ha regole, leggi e (...) una laicità che non è sempre facile da capire", dice”.
Tra le sfide, quella di aiutare la diaspora a mantenere un legame “vivace e forte” con la Chiesa di origine, perché – continua monsignor Gollnish - “non può esistere una diaspora che in funzione di un centro. Se non c'è più un centro, la diaspora perde la sua identità. Questo centro può essere reale o immaginato. Per 19 secoli il popolo ebraico ha avuto come centro e orizzonte Gerusalemme, dove non ha più vissuto”.
I cristiani in diaspora hanno come punto di riferimento i loro luoghi di origine. E, in molti casi, vivono sfide simili, da quelle della secolarizzazione a quella del dialogo con l’Islam. Molto ha fatto il viaggio del Papa in Iraq, cui tutti guardano con attenzione anche per lo sviluppo di nuove relazioni fraterne.

18 febbraio 2022

"Patriarcato dei caldei in Baghdad." Sparito il riferimento a Babilonia e punto fermo nel contrasto tra la sede di Baghdad e l'eparchia statunitense della California.

By Baghdadhope*

Il punto 9 del
comunicato finale del sinodo della chiesa caldea tenutosi a Baghdad dal 9 al 14 di agosto del 2021 riguarda la denominazione accettata dai membri sinodali di "Patriarcato Caldeo" al posto di "Patriarcato di Babilonia dei caldei" 
La spiegazione di questa scelta fu data successivamente dal patriarca cardinale Mar Louis Sako che ben chiarì che l'aggiunta del riferimento alla città di Babilonia è relativamente recente visto che risale al 1724, ma che non ha giustificazione storica visto che quella città non è mai stata sede patriarcale e neanche episcopale ed è oggi un centro esclusivamente abitato da musulmani. 
Anche le giustificazioni bibliche addotte da chi ha criticato la decisione sinodale non sono accettabili visto che la Babilonia citata altro non è - ha spiegato Mar Sako - che la metafora della Roma persecutrice dei cristiani ed assassina di Pietro e Paolo.
Con una nota pubblicata il 17 febbraio dal sito del Patriarcato è stata resa pubblica l'approvazione da parte del Santo Padre della decisione presa nel corso del sinodo del 2021. 
Il nome ufficiale del Patriarcato è quindi da oggi "Patriarcato dei caldei in Baghdad" (in italiano nel testo in arabo).
Come si legge infatti, a partire dal 1553, cioè dall'anno in cui una parte della Chiesa dell'Est chiese ed ottenne l'unione con Roma, le sedi patriarcali della chiesa caldea sono state le attuali città turche di Dyarbakir, Sirte, e Cizre e le irachene Mosul e Baghdad e mai Babilonia. 
Questa decisione sinodale e la successiva approvazione papale travalica le questioni burocratiche e storiche e può mettere il punto finale al complicato rapporto tra il patriarcato caldeo di Baghdad ed una delle due eparchie degli Stati Uniti. 
Un rapporto che durante il patriarcato di Mar Emmanuel III Delly, iniziato nel 2003 e terminato con le dimissioni per motivi di salute nel 2012, sembrava sbilanciato a favore dei vescovi degli Stati Uniti, ed in particolare dell'allora vescovo dell'eparchia con sede in California, Mons. Sarhad Jammo che fin dalla caduta del regime iracheno nel 2003 aveva guidato il movimento che mirava al riconoscimento della "nazione caldea," e quindi dei caldei contemporanei, come entità autonoma nel nuovo panorama politico del paese in quanto eredi diretti dell'impero babilonese di Nabucodonosor. Una posizione che mal si conciliava con le diplomatiche dichiarazioni di Mar Delly che nell'Iraq "liberato" continuava a parlare di una nazione simile ad un prato fiorito dove ogni fiore ha un suo colore e contribuisce all'armonia del tutto, sottintendendo come la linea da seguire fosse non tanto quella della rivendicazione dell'unicità quanto quella della creazione di uno stato in cui ogni fiore avrebbe dovuto e potuto avere la stessa importanza degli altri.
Linea sposata dal successore di Mar Delly, l'attuale patriarca Mar Louis Sako, che fin dall'inizio ha dichiarato come indispensabile il concetto di "cittadinanza irachena" in grado di superare e sanare i conflitti tra le diverse etnie e le diverse religioni che la caduta del regime aveva esacerbato. 
Quando Mar Louis Sako divenne patriarca nel 2013 il contrasto tra Baghdad e San Diego si spostò poi su un ulteriore livello. 
Complice la salute malferma del patriarca Delly alcuni sacerdoti e monaci caldei durante gli ultimi tempi del suo patriarcato avevano lasciato l'Iraq e si erano trasferiti negli Stati Uniti, nella diocesi allora guidata da Mar Sarhad Jammo, senza l'approvazione del proprio superiore o vescovo o addirittura con scuse pretestuose. 
Fin dalla sua nomina il patriarca Sako decise però di porre rimedio a questa "fuga" che avrebbe potuto rappresentare un pessimo esempio per i giovani sacerdoti che ancora vivevano in un Iraq ben lontano dall'essere "pacificato." La questione che convolse anche il Vaticano si risolse a favore del patriarcato con l'allontanamento di alcuni dei chierici coinvolti che non avevano accettato di far ritorno in patria. 
Con la cancellazione del riferimento a Babilonia dal nome e dallo stemma patriarcale si chiude quindi un periodo turbolento che nel 2015 fece addirittura temere uno scisma all'interno della chiesa cattolica caldea quando, esasperato dal rifiuto di Mar Jammo di favorire il rientro dei sacerdoti il patriarca Sako arrivò ad auspicare le dimissione del vescovo perché altrimenti: "
sarò io a lasciare la carica patriarcale che non avrebbe più nessun senso, se non quello di un titolo onorifico cui non tengo."
Il ritiro nel 2016 per raggiunti limiti di età di Mons. Sarhad Jammo, il prevalere della linea che auspica la piena cittadinanza degli iracheni tutti che ha trovato nuovo impulso dalla visita nel paese di Papa Francesco la cui prima conseguenza è stata un nuovo e più profondo rispetto per la sua componente cristiana, e il termine delle fughe dei sacerdoti verso lidi più sicuri hanno quindi di fatto riportato l'ago della bilancia caldea ad est, a Baghdad. 
Questo, unito alla normalizzazione verso la quale il paese sta procedendo seppure con fatica e che può significare la fine dei flussi migratori che hanno finora nutrito la diaspora, al ritorno in patria della sede patriarcale della Chiesa assira dell'est dopo decenni di esilio americano, ed alla recente scomparsa del patriarca della Chiesa antica dell'Est che insieme a quella caldea ha mantenuto la propria sede in Iraq può significare una nuova pagina per la cristianità in terra mesopotamica che ha trovato, ahimè, attenzioni da parte dell'Occidente grazie alle guerre ed alle sofferenze inflittegli più che alla bellissima frase di Papa Giovanni Paolo II che già nel 1980 ricordava che: «Non si può respirare come cristiani, direi di più, come cattolici, con un solo polmone; bisogna aver due polmoni, cioè quello orientale e quello occidentale». "   

In Cattolica per diventare il sale dell'Iraq

Michele Nardi

A 83 kilometri dall’ex capitale dello Stato Islamico è nata una università cattolica. La rinascita dell’Iraq passa dalla formazione di una nuova classe dirigente che possa dare un futuro al paese e l’Università Cattolica del Sacro Cuore vuole dare il suo contributo alla ricostruzione di una delle culle della civiltà cristiana. Per questo due studenti della Catholic University of Erbil, Adad e Maryam, stanno frequentando la laurea magistrale di Global Business Management, corso erogato in lingua inglese nel campus di Piacenza dell’Ateneo.
«A Erbil ho frequentato Legge e Relazioni internazionali -racconta Adad-, perché voglio capire meglio la situazione politica del mondo e del mio paese. Studiare lì ha rimodellato il mio modo di vivere e di pensare e sono certo che incontrare una cultura vivace come quella italiana mi aiuterà a comprendere il mondo e a stimolare la creatività. Grazie alle conoscenze che sto acquisendo qui potrò essere protagonista dello sviluppo del mio paese quando sarò tornato».
Nato proprio a Mosul nel 1997, Adad ha vissuto e studiato lì fino a quando l’Isis non ha conquistato la città. Dopo esser scappato con la sua famiglia in un sobborgo vicino a Dahuk, da dove proviene suo padre, è riuscito a completare gli studi superiori nelle scuole per sfollati interni allestite da UNESCO e UNHCR per poi entrare nella CUE, di cui è diventato uno dei primi diplomati.
L’ateneo è nato nella capitale del Kurdistan iracheno secondo padre Dankha Joola, vice chancellor della CUE, proprio per dare un motivo a chi stava abbandonando l’Iraq per restare. La costruzione dei suoi spazi è avvenuta tra il 2012 e il 2015 grazie al supporto della CEI, proprio nei momenti in cui le bandiere nere dello Stato Islamico sembravano prevalere.
«È stata una grande sfida per noi in quel periodo-racconta Dankha Joola- ma anche una missione per il nostro futuro, per implementare la diversità e insegnare alle persone ad accettarsi. Noi siamo il sale dell’Iraq: parliamo l’aramaico, la lingua di Cristo, e siamo uno dei gruppi cristiani più antichi del mondo. Prima del 2013 eravamo un milione e trecentomila mentre oggi siamo solo duecentomila, siamo sopravvissuti all’Isis ma la nostra università è aperta a tutti. Ci sono cristiani, musulmani, yazidi: noi esistiamo per servire la comunità. Vogliamo implementare i valori cristiani nella nostra società esaltandone gli elementi di diversità: nel mio paese i problemi sono nati proprio perché non siamo stati in grado di accettare le differenze tra noi».
Lo stesso spirito anima Maryam, coetanea di Adad ma originaria di Baghdad: «Sono portata per aiutare le altre persone. A Erbil ho studiato Relazioni Internazionali e quando tornerò vorrei riprendere questa passione mettendo a frutto le conoscenze che otterrò dai miei studi qui per servire il mio Paese. L’esperienza alla CUE la definirei “insolita” visto che durante i miei studi ho avuto a che fare prima con la rapida diffusione dell’Isis nella zona e poi durante l’ultimo semestre con la pandemia e tutte le nuove sfide che essa ha imposto. Ho cercato per molto tempo un’esperienza di studio all’estero ma quando ho saputo di questa opportunità ho esitato, temevo di non essere pronta. Invece eccomi, in collegio mi trovo davvero bene e l’italiano è musica per le mie orecchie».
Adad e Maryam sono ospitati dal collegio Sant’Isidoro e tutti i costi per la loro permanenza sono a carico dell’Ateneo. I due studenti usufruiranno di una borsa di studio affinché possano far fronte alle necessità ordinarie durante il loro soggiorno in Italia. La loro presenza in Cattolica è frutto di un rapporto di collaborazione sempre più stretto tra i due atenei, che sono al lavoro per rendere stabile e duratura questa possibilità di scambio e di dialogo interculturale.
Proprio in quest’ottica, lo scorso dicembre padre Dankha Joola ha incontrato il professor Pier Sandro Cocconcelli, Delegato al coordinamento dei progetti di internazionalizzazione del rettore Franco Anelli: «La visita del vice chancellor dell’Università di Erbil in Università Cattolica è stata una preziosa occasione per approfondire la collaborazione con una istituzione che svolge un ruolo fondamentale nel costruire opportunità di istruzione universitaria per i giovani nel Kurdistan iracheno – ha commentato il professor Cocconcelli-. Questo incontro offre la possibilità di rinnovare l’impegno che il nostro Ateneo, già da tempo, ha assunto nel contribuire alla formazione per le future generazioni dei Paesi del Medio Oriente».

Mons. Basilio Yaldo, Vescovo Ausiliare di Baghdad a Milano.

By Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano

17 febbraio 2022

Scholarships help cement legacy of papal visit to Iraq

Felipe d’Avillez -  Maria Lozano

Less than one year after the Pope's historic visit to Iraq, and despite difficulties caused by the pandemic, the first cohort of students have started to benefit from the “Pope Francis Scholarships” funded by Aid to the Church in Need (ACN).
This partnership between ACN and the Catholic University in Erbil (CUE) is helping to build a more promising future for Iraqi Christians and members of other minorities in the north of the country.
ACN will be the first and main donor, with a commitment of more than $1.7 to fund the “Pope Francis Scholarships.” They will benefit 150 students—90 percent of them being Christians—over a period of four years. Many of the students are internally displaced, having been forced from their homes in the surrounding region by the Islamic State in 2014.
Under the banner of the “Pope Francis Scholarships,” a cohort of 128 students, comprising 113 Christians, 12 Yazidi and 3 Muslims, supported by ACN, have started the academic year of 2022/2023. The organization also supports accommodations near the university in Erbil for 12 female and 2 male students who are originally from the Nineveh Plains.
Initially set to be launched in the fall of 2021, in the aftermath of the historic papal visit to Iraq, the Pope Francis Scholarship program was postponed to 2022 because of the pandemic.
“The CUE model encourages the whole family to stay and not to emigrate; their children will have an excellent education to obtain work and therefore a future in Iraq to support themselves and their parents,” Chaldean Archbishop Bashar Warda of Erbil and founder of the university.
“If young Christians can be given an opportunity to gain a good education, then they will remain. ACN has already done everything possible to help the Christians to remain in their native land, by investing in the reconstruction of their homes, their churches and essential infrastructure. Now is the time to invest in the young people of the country,” declares Thomas Heine-Geldern, executive president of CAN.
The CUE currently has 280 students in four different years, working to obtain degrees in courses that vary from architecture and medical laboratory science (MLS), to accounting and English. More departments such as pharmacy will open next year, allowing even more choice for students to be able to come to the university. Crucially, students are exposed to a Christian ethos and Catholic Social Teaching which is not possible anywhere else in Iraq.
Since it was founded in 2015, the Catholic University has enjoyed great success, and is already ranked 41th out of 250 higher education institutions in Iraq. All teaching and study is done in English. Archbishop Warda hopes to see it climb into the top 10 within a few years. But alongside academic excellence, the valuable fruits of this university are the promotion of social cohesion and interreligious harmony in a country still recovering from nearly two decades of conflict and Christian persecution.
“I thank all the very hardworking ACN offices worldwide and all of their donors in supporting the young Christians of Iraq, to have not only a right, but the actual opportunity to obtain a higher education. It gives them and their families hope for the future. I thank all at the CUE for such an achievement during the pandemic,” says Archbishop Bashar Warda.
Mr. Heine-Geldern believes that this is a fitting way to keep the legacy of Pope Francis’ visit alive. “We believe that this project will support the Pope’s message in favor of social cohesion and reconciliation. The University is centered around diversity. Here young people of different creeds can learn to live together in harmony.”

Iraq: card. Sako (patriarca) a sacerdoti Chiese orientali in Francia, “aiutare gli immigrati a integrarsi nella loro nuova società”


Foto Patriarcato caldeo
“Amare i fedeli e i parrocchiani provenienti dall’Oriente e servirli con generosità”.
È quanto il card. Louis Raphael Sako, patriarca caldeo di Baghdad, ha raccomandato ai sacerdoti delle Chiese orientali residenti in Francia, durante un incontro avvenuto ieri pomeriggio a Roma. I sacerdoti, infatti, sono in visita nella Capitale, mentre il patriarca sta partecipando ai lavori della Plenaria della Congregazione per le Chiese orientali, in corso in questi giorni in Vaticano. 
Mar Sako, riferiscono fonti del Patriarcato, rivolgendosi ai preti, tra loro anche caldei, ha sottolineato la fedeltà alla Chiesa madre e la conservazione del loro autentico patrimonio religioso.
Ribadita anche l’importanza di “aiutare gli immigrati a integrarsi nella loro nuova società”. Nel suo discorso il patriarca ha voluto ricordare anche la visita – un anno fa circa – di Papa Francesco in Iraq, definita “una benedizione”, che ha aperto il Paese alla comunità internazionale.
“Le parole e i discorsi del Papa hanno cambiato la mentalità delle persone in termini di tolleranza, cooperazione e attenzione alla fraternità e alla diversità”, ha detto il cardinale.
 

16 febbraio 2022

Convegno liturgico e Sessione plenaria del dicastero orientale


A venticinque anni dall’Istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei canoni delle Chiese Orientali è giunto il momento di fare il punto della situazione. Per questo, la Congregazione per le Chiese Orientali organizza un convegno liturgico, che si svolge al Pontificio Istituto Patristico Augustinianum, dal 16 al 18 febbraio.
È il cardinale prefetto Leonardo Sandri, ad aprire domani mattina i lavori, cui partecipano anche i membri della sessione plenaria del dicastero. Modera l’esarca apostolico per i cattolici di rito bizantino in Grecia, Manuel Nin, e interviene l’arcivescovo di Telmessos, Job Getcha, rappresentante del Patriarcato ecumenico, seguito dalle relazioni degli arcivescovi Claudio Gugerotti, nunzio apostolico in Gran Bretagna, e Cyril Vasil’, vescovo eparchiale di Košice. Nel pomeriggio, la preghiera conclusiva secondo il rito caldeo è affidata al cardinale patriarca Louis Raphaël I Sako. Giovedì 17 i lavori proseguiranno a porte chiuse e venerdì 18 il cardinale Sandri presiederà la celebrazione della messa nella basilica di San Pietro.

Sandri: l’identità liturgica d’Oriente, un patrimonio da tutelare

Alessandro De Carolis

C’è un patrimonio che rischia di dissiparsi, sotto la forza delle cose contingenti. 
È il patrimonio liturgico delle Chiese orientali, che “migra” da est a ovest seguendo i flussi migratori, e che potrebbe smarrire le proprie caratteristiche, magari appiattendosi sullo stile latino, senza un’adeguata attenzione da parte dei responsabili delle Chiese dei due poli.
L’avvertimento viene dal cardinale Leonardo Sandri, che ha portato il suo saluto all’inizio dei lavori del convegno organizzato per i 25 anni dell’Istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali.
Tradizioni liturgiche a confronto
Il documento, denominato Il Padre incomprensibile, reca la firma del cardinale Achille Silvestrini con la data del 6 gennaio ’96 e avrebbe dovuto vedere l’anniversario celebrato lo scorso anno, evento rinviato a causa della pandemia.
Con lo slittamento al 2022, ha sottolineato il prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, si è voluto far coincidere l’inizio del convegno con quello della plenaria del dicastero, così da avere il più possibile presenti non solo i capi e i padri delle diverse Chiese cattoliche orientali, ma anche i membri delle rispettive chiese liturgiche, allo scopo di generare un ascolto e un confronto tanto con la Sede Apostolica, quanto, ha detto il porporato, “tra Chiese appartenenti alla medesima tradizione rituale: l’alessandrina, la costantinopolitana, la siro-antiochena, la siro-orientale, l’armena”.

Il rischio di perdere l’identità
Il cardinale Sandri ma messo in rilievo il fatto che la relazione d’apertura del convegno sia stata affidata all’arcivescovo Job di Telmessos, rappresentante del Patriarca ecumenico Bartolomeo I. Presenza, ha osservato il capo dicastero, che “fa sentire la celebrazione dei divini misteri nel suo respiro più ampio”, un respiro che sollecita la responsabilità di lavorare di comune accordo per scongiurare il “il pericolo della perdita dell’identità orientale”, oggi caratterizzato – si affermava già nell’Istruzione del 1996 – “da grandi migrazioni dall’Oriente verso terre ritenute più ospitali, di prevalente tradizione latina”.
E “cosa dovremmo dire oggi – ha riflettuto il cardinale Sandri - dopo la seconda guerra del Golfo, le cosiddette primavere arabe, la guerra in Siria, il DAESH, la situazione di Etritrea e di Etiopia ora aggravate dal conflitto nel Tigray, oltre a quanto accaduto e ancora oggetto di preoccupazione nell’Europa Orientale?”.

Le due facce di una responsabilità
Nello scenario attuale quindi, ha concluso il prefetto delle Chiese orientali, tutelare questo patrimonio chiama da un lato i Pastori latini a non “limitarsi a garantire una “generica ‘Messa in lingua araba’” di fronte ai numerosi migranti nei loro Paesi. Dall’altro chiede ai capi e ai padri delle Chiese Orientali di non “inseguire una assuefazione ad una forma celebrativa come quella latina, come se essa pur maggioritaria fosse l’unico modello di riduzione cui tendere”.

L’Iraq tra dialogo interreligioso e prospettive di pace


È trascorso quasi un anno dal viaggio di
papa Francesco in Iraq. Una visita definita storica, in quanto ha aggiunto un ulteriore, significativo tassello al cammino tracciato nel solco del dialogo interreligioso dal “Documento sulla fratellanza umana” di Abu Dhabi. Ma che nello stesso tempo ha gettato semi di speranza in un Paese che potrebbe essere la culla di un nuovo processo politico in tutto il Medio Oriente.
È quanto documenta il giornalista di Avvenire Luca Geronico nel suo libro Ritorno ad Abramo. In viaggio con Francesco alle radici della fratellanza (Castelvecchi Editore). Da oltre vent’anni nella redazione Esteri e più volte inviato del giornale in Iraq, Geronico ha seguito quel viaggio e ha percorso, con pochi giorni di anticipo, lo stesso itinerario di papa Francesco: Baghdad, Najaf, Ur, Mosul, Qaraqosh ed Erbil.
Il volume sarà presentato giovedì 17 febbraio, alle 16, nella Sala Negri da Oleggio dell’Università Cattolica (largo Gemelli 1, Milano) e online sulla piattaforma Microsoft Teams, in un dialogo a più voci cui parteciperà anche il vescovo ausiliare caldeo di Baghdad Basilio Yaldo, che tra l’altro prenderà parte all’Incontro dei vescovi e sindaci del Mediterraneo in programma a Firenze dal 23 al 27 febbraio. Dopo i saluti introduttivi di Angelo Bianchi, preside della facoltà di Lettere e filosofia, e di Marco Rizzi, direttore del Dipartimento di Scienze religiose, seguiranno gli interventi del vescovo Yaldo, di Riccardo Cristiano di Reset e dei docenti dell’Università Cattolica Paolo Branca e Lorenzo Perrone. Al dibattito, moderato dal giornalista di Avvenire Riccardo Maccioni, sarà presente l’autore.
L’evento sarà anche l’occasione per dare voce alle testimonianze di due giovani iracheni studenti in Cattolica: Adad Alana Zaia Zaia e Maryam Benyameen Sryoka Kora
Dall’anno accademico 2021/22 sono iscritti alla magistrale in Global Business Management, erogata dalla facoltà di Economia e Giurisprudenza, campus di Piacenza. Esonerati dal pagamento dei contributi universitari e ospitati dal Collegio Sant’Isidoro, Adad e Maryam sono stati accolti nell’ambito di un progetto di collaborazione fra l’Ateneo e la Catholic University di Erbil.

15 febbraio 2022

Iraq: Patriarcato e Caritas distribuiscono aiuti agli sfollati dei campi di Anbar e Sheikhan


1400 tra stufette e coperte sono state distribuite, in questi giorni, dal Patriarcato caldeo e dalla Caritas Iraq agli sfollati residenti nei campi di Anbar e di Sheikhan a nord di Mosul. 
La consegna, rende noto il Patriarcato, è stata effettuata dal Sunni Endowment Office e dalla Lega caldea. 
Le condizioni degli sfollati sono peggiorate a causa del freddo e per questo motivo il Patriarcato ha lanciato un appello ai politici perché affrontino questa situazione. I kit distribuiti hanno un valore di 50mila dollari Usa. 
Intanto dal Patriarcato caldeo giunge la notizia che il patriarca, card. Louis Raphael Sako è partito alla volta di Roma per partecipare ad un incontro presso la Congregazione per le Chiese Orientali, e poi trasferirsi a Firenze per presenziare alla conferenza dei vescovi delle Chiese che si affacciano sul Mediterraneo nei giorni 23-27 febbraio.

The final statement of the MECC Executive Committee Meeting:

On Friday, February 11, 2022, the Executive Committee of the Middle East Council of Churches held an online meeting in compliance with the ongoing preventive measures during the Corona pandemic. Members of the Committee from Egypt, Palestine, Jordan, Syria, Iraq, Iran, Cyprus, and Lebanon attended the meeting.
The meeting was presided by the heads of the Church families of the Council: President of the Council for the Eastern Orthodox family His Holiness Patriarch Mor Ignatius Aphrem II, President of the Council for the Greek Orthodox family His Beatitude Patriarch John X, President of the Council for the Catholic family His Beatitude Patriarch Cardinal Mar Louis Raphael Sako, President of the Council for the Evangelical family Reverend Dr. Habib Badr. Other participants were members of the Executive Committee, the General Secretariat team, and the invitees of Secretary General Dr. Michel E. Abs.
After completing the quorum, the first session began under the chairmanship of His Holiness Mor Ignatius Aphrem II with the opening prayer prepared by the Syriac Orthodox Church. Members of the committee then agreed on the agenda of the meeting, and the minutes of the meeting of the previous session, held remotely on August 3, 2021, were read and approved.
The work started with the presentation of the Secretary General Dr. Michel Abs for the agenda of the upcoming 12th General Assembly to be held in Egypt and hosted by His Holiness Pope Tawadros II, Pope of Alexandria and Patriarch of the See of St. Mark, from May 16 to 20, 2022. After discussing the details of the Assembly’s agenda, there were suggestions for some amendments, but the rest was submitted to the Preparatory Committee for the follow-up assembly.
In the second session chaired by Reverend Dr. Habib Badr, a presentation explaining annual reports of the activities and achievements of the General Secretariat of the Council and the entire departments was shown. Then, the Head of the Finance Department presented the annual financial report for the year 2021.
In conclusion, members of the Committee commended the remarkable development of the Council's activities and the ecumenical dynamism that characterized its projects and work, in addition to the remarkable transparency and clarity in the annual financial report.

Participants confirmed the following:
- Thanking His Holiness Pope Tawadros II for his invitation to host the next 12th General Assembly between May 16-20, and expressing their appreciation for the preparations were being made for the success of this historic ecumenical meeting, held for the first time in Egypt.
- Ensuring that the only representative of Eastern Churches and their issues and challenges is the Middle East Council of Churches, where they meet in an ecumenical and united spirit, as a symbol of Christian unity and cooperation in partnership and communion to serve people and preserve their dignity.- Emphasizing solidarity with all those suffering from the various crises afflicting the Middle East, including the Corona pandemic and its repercussions, especially since Middle Eastern countries are suffering today from a fierce wave of virus, confirming the need to confront the pandemic by intensifying vaccination campaigns and providing a fair distribution of vaccines between different Countries. The committee also called for accelerating planning to contain the post-pandemic phase, especially putting an end to the aggravation of the problems of poverty and unemployment, increasing daily as a result of these difficult times.
- Finally, participants called for unity in prayer on behalf of those suffering in the East, regardless of their beliefs or affiliations, amidst ongoing wars and destructive conflicts in the Middle East. This alone confirms the necessity of concerted efforts to build peace and end the suffering.

12 febbraio 2022

Morto il patriarca della Chiesa Antica dell'Est Mar Addai II

By Baghdadhope*

Si è spento a Phoenix, negli Stati Uniti,  Mar Addai II, patriarca della Chiesa Antica dell'Est, la più piccola chiesa cristiana di origine mesopotamica dal punto di vista del numero dei fedeli che, per quanto diffusa nei paesi della diaspora, ha ancora, insieme alla chiesa caldea, la sua sede patriarcale a Baghdad.
Una chiesa che nella sua pur breve storia ha vissuto molte vicissitudini.
Fino al 1968, infatti, la Chiesa Antica dell'Est non esisteva ed i suoi fedeli ed il suo clero erano tutti membri di quella che all'epoca si chiamava Chiesa dell'Est, l'erede della tradizione cristiana mesopotamica risalente alla predicazione in quell'area di San Tommaso.
Nel 1933 il patriarca della Chiesa dell'Est, Mar Eshai Shimun XXIII, fu esiliato a Cipro dal neonato governo iracheno libero dal controllo britannico dall'anno precedente. Da Cipro il Patriarca si trasferì negli Stati Uniti dove nel 1940 stabilì la nuova sede patriarcale.
Nel 1968 però uno scisma all’interno della Chiesa dell’Est la divise in due rami.
Da una parte la chiesa guidata da Mar Eshai Shimun XXIII (che nel 1976 sarebbe stata rinominata dal suo successore Mar Dinkha IV “Chiesa Assira dell’Est”) e dall'altra quella guidata da Mar Thoma Darmo, Metropolita di Trichur (India) che, in disaccordo con il Patriarca Mar Eshai Simun XXIII, si trasferì a Baghdad dove nominò tre vescovi che a loro volta lo elessero patriarca della neonata Antica Chiesa dell’Est. Carica che però Mar Thoma Darmo poté esercitare per un solo anno vista la sua morte l’anno successivo.
Ad egli successe nel 1969 proprio il patriarca Mar Addai II.
I motivi dello scisma furono molti ed il peso di ognuno di essi fu diversamente valutato e citato dalle diverse parti in causa. Principalmente - e senza voler approfondire le motivazioni politiche o tribali - le critiche su cui il movimento scismatico si concentrò furono tre.
Da 35 anni, da quando cioè Mar Eshai Simun XXIII, era stato esiliato prima a Cipro e successivamente negli Stati Uniti, la Chiesa dell’Est in Iraq era rimasta senza la sua massima guida spirituale e politica. Una parte dei fedeli e del clero desiderava invece che il Patriarca risiedesse a Baghdad e ne facesse la sua sede.
Nella Chiesa dell’Est fin dal secolo XV era in vigore la pratica (non istituzionalizzata né stabilita dai canoni ecclesiastici) del Natar Kursi (successore designato) secondo la quale la carica patriarcale passava al nipote del patriarca in carica. Pratica che venne abolita dall’allora patriarca della Chiesa Assira dell’Est, Mar Dhinka IV, al momento della sua nomina nel 1976 quindi successivamente al movimento scismatico del 1968 che la contestava.
L’ultima contestazione riguardava l’adozione del calendario gregoriano avvenuta nel 1964 da parte di Mar Eshai Shimun XXIII per rispondere agli appelli di molti sacerdoti, vescovi e fedeli che avevano chiesto di abbandonare l'uso del calendario giuliano per il Natale e la Pasqua vista la difficoltà di celebrare quelle festività in paesi in cui vigeva l’uso del calendario gregoriano.
Dal 1968 sono ormai passati 42 anni ma questa storia che appare ormai lontana proprio negli scorsi giorni ha ritrovato la sua attualità.
Il 12 aprile 2009, infatti, Mar Addai II anticipò ai fedeli che nel corso del sinodo che si sarebe tenuto di lì a poco uno dei punti in discussione sarebbe stata proprio la possibile adozione del calendario gregoriano per il Natale. (ma non per Pasqua)
Annuncio al quale si aggiunse quello fatto dal Metropolita dell’Australia e della Nuova Zelanda, Mons. Yako Daniel, che spiegò come nel sinodo sarebbe stata discussa persino la possibile riunione delle due chiese divise nel 1968.
Già nel sinodo della Chiesa Assira dell’Est del 1999 il patriarca ed i vescovi avevano deciso in effetti di riconoscere la gerarchia della Chiesa dell’Est e di istituire un comitato congiunto con il fine di “realizzare la piena comunione tra le due parti.”
Una comunione che rimase però nelle intenzioni sinodali e che finora non si è realizzata.

11 febbraio 2022

Christian Communities in the Middle East: Behind the doors marked with ‘N’


Janine di Giovanni made a tour of the shrinking Christian communities of the Middle East. 
In this extract from her new book, she charts the arrival of the Islamic State in Iraq in 2014
On 10 June 2014, when ISIS took Mosul, I was in a hotel room in Baghdad lying on a dirty coverlet. I was listening to the BBC. The hotel was owned by Christians — my driver had taken me there believing I would be safer from kidnapping in that hotel than in any of the others in the city. It was steaming hot outside. There was a pool, and even though it was dirty, I swam in it once in an attempt to calm my nerves after a long day of working. 
I waited until after dark because, even in a conservative one-piece bathing suit with a T-shirt over it, and even in a Christian hotel, I felt too exposed in the daytime.
Still, men gathered to watch me do my laps. I crept out of the pool and donned a long robe and covered my head. The men snickered and stared. So I didn’t go swimming in the pool again. But I wondered: If it was this bad in Baghdad, the most cosmopolitan and educated city of Iraq, how bad could it get with ISIS, whose members scorned women and wanted to push them back to the seventh century?
Earlier that same day, before I heard the BBC report about ISIS, the driver had rushed into my room in terror. He was hearing reports that ISIS was advancing on the capital. Everyone was stunned at how quickly the group had moved south, and my friends were talking about leaving the city. 
I couldn’t help but think of the people still in Mosul. 
I was especially worried for the Christian and Yazidi families there who were now under ISIS control. 
For days we had no news, and then the reports began to trickle in. Christians were told to leave or die.
“In addition to forcing mass exodus from thousand-year-old villages,” wrote Sajad Jiyad, a respected analyst from the Baghdad-based think tank Integrity and the Century Foundation, “ISIS militants destroyed churches, libraries, and monuments to wipe out any trace of these being Christian areas.”
Shocked and worried for those inhabitants of Mosul, I drove across town to visit William Warda in his Baghdad home.
Warda was the leader of political and military affairs for a party called the Assyrian Democratic Movement. 
Deeply rooted in his country, he was born in Mosul and had grown up in the city, graduating from the university there. 
When I found him in his office, Warda was distraught. The news from Mosul was unreliable; no one quite knew what was going on. Warda was trying to reach relatives, but the phone lines were down. He kept picking up his cellphone, putting it down, and picking it up again, as if some kind of magic would restore the network.
“It’s a cleansing of all Christians from the region,” he said.
We sat silently drinking coffee in a dark room, and Warda shifted the small cup between his hands. His aides came in and out, speaking urgently to him in Arabic. Confused people — parishioners, friends — kept knocking at the door for advice. Should they stay in Iraq and risk extermination (the word they used in Arabic), or flee to relatives outside the country and risk living in permanent exile?
Warda spoke softly to them and then returned to me. “How can I tell them not to go?” he asked, his voice thick with emotion. “I know they have no future here. But if they go, we as Christians have no future here.”
By the grace of God or sheer luck, Warda would survive ISIS’s reign of terror in Iraq, though he would be irrevocably changed: How do you ever trust in life again if your world falls apart?
On a warm autumn day, a few months after the final liberation of Mosul from ISIS in 2017, the photojournalist Nicole Tung and I were invited to lunch with some Christians. 
A group of neighbours and friends were gathering at Mar Mattai, or the Monastery of St Matthew, one of the oldest Christian monasteries in the world. 
It had been founded in the fourth century by Matthew the Hermit, a noted healer and converter who practiced asceticism on the site, Mount Alfaf. 
The monastery seems to grow from the mountain’s terrain. 
In the ninth century, more than 7000 monks worshipped and communed amid the monastery’s arched courtyards and corridors, which overlook stunning views of the surrounding countryside. 
By 2015, as ISIS came to the region, only five monks remained. 
Lining the mountain’s edge, the monastery is the same sandy colour as the stone cliffs that jut out above and below. 
We arrived in the morning as the heat rose. I had walked up the hill to the monastery in the late morning light, and the priest and the gathering congregation greeted me with a kind of resigned wariness. I found a quiet spot by one of the walls and looked out at the dried-out landscape, imagining what it would have felt like to be there as ISIS was running wild. The monastery was 20 miles from Mosul, where more than 100,000 Christians had been displaced from their homes. They had gone through so much, and a stranger, though welcomed, was another reminder of the trauma they had recently endured. 
One of the children led me to a wall at the edge of the monastery and pointed below to the brown dusty tracts of fields. 
From high above, I saw how close the villages were, and how exposed the road to Mosul was. My hosts unloaded baskets of food and arranged themselves around a long table in the courtyard. A woman named Niser spread out a white tablecloth and laid out a plate of dolmas. “It’s a way of celebrating that we still exist,” she told me.
More people were arriving — babies, children, grandparents, cousins, aunts, distant relations — all members of one of the oldest continuous Christian communities in the world. 
Many had not seen each other for three years, since the beginning of the ISIS brutality. 
Their conversations, as they unpacked their food, centred on rebuilding: how to fix their charred homes and shattered churches, now pockmarked with shells and bullet holes. They wanted to restore their dwindling families. They wanted to find people who had been lost.
I sat quietly, talking to small groups of people and trying to record what had happened to them. I wanted details: How had they first received information that ISIS was closing in on Mosul? When did they decide to flee? What had they taken with them? 
In three decades of working with refugees, these are the questions I have always asked. 
In the days of the Bosnian War, when there were no cellphones, people passed information from village to village. In Syria, during the worst days of fighting, people got messages on WhatsApp. 
The Christians I spoke with at the monastery, who told their stories readily, reported that their families had been in close contact and made decisions together as to when they should flee, and when they went, they went en masse. 
After the meal, when the heat became unbearable, people retreated to the cool shade of the small monk-like cells of the monastery. I went from room to room with my notebook, talking to each of them. The most anxious of the people I interviewed, it seemed, were the young. 
The older ones seemed resigned to a difficult life. “We are minorities, we have endured a lot already,” one told me. 
But, when I spoke to Sara Bahodij, a 23-year old from Mosul, she recounted the early days of ISIS with a shaky voice. She told me how the militants had raised the black flag and given Christians an ultimatum: convert to Islam or pay the jizya. “How did they ask you?” I inquired gently, trying to soothe her. 
“They came to our house,” she replied. “They went door to door looking for Christians.” At first, she said, it wasn’t too bad. Her family was able to remain in the city for a few months after the occupation because they paid. “How much?” I asked. She said there had been no set fee, but instead a sliding scale depending on a family’s wealth. “It could be $10,000, it could be $1000, it was whatever they wanted to charge,” Bahodij added bitterly. She told me that her father sold their gold — her mother’s wedding gold, family gold — and in total paid the militants $800,000. “It’s all gone, our history,” she said. Their land was confiscated. She described the feeling of having everything you had ever known suddenly slip away “between your fingers”. Even after paying off ISIS, her family did not feel safe. Christian women were used to adopting a more Western style: jeans, Turkish-made T-shirts, and knock-off handbags. The younger women often had long, flowing hair that came down past the waist. They looked less like Iraqis and more like Parisian schoolgirls, albeit not as wealthy. Now they had to cover up their hair and clothes with abayas and hijabs. Bahodij found shapeless garments, things she could use to cover her jeans. She felt ugly and angry. 
The ISIS fighters had left, but then they came back. This time, they went from house to house, marking the doors with the letter N: an ancient reference to Nazaria, or Jesus of Nazareth. It was horribly reminiscent of the yellow stars that Jews were forced to wear during the Holocaust. Daniel Williams, then an official with Human Rights Watch’s Emergencies Team, recalled that the cleansing of Christians from Mosul and the surrounding area was highly organised. “A systematic campaign was under way,” he wrote in 2016, describing how quickly the ethnic cleansing of Iraqi Christians had begun.

This is an extract from The Vanishing: The Twilight of Christianity in the Middle East by Janine di Giovanni, published by Bloomsbury at £20 (Church Times Bookshop £18); 978-1-52662-583-0.

10 febbraio 2022

Iraq, passi avanti nella ricostruzione. Padre Jahola: la gente chiede stabilità

Michele Raviart

La Chiesa della Madonna dell’ora e la cattedrale siro-cattolica Al-Tahira di Mosul, distrutte durante l’occupazione del sedicente Stato Islamico della seconda città dell’Iraq, saranno ricostruite grazie a un intervento dell’Unesco e degli Emirati Arabi Uniti. I lavori inizieranno a marzo e coinvolgeranno anche il minareto di al Hadba e, a maggio, della moschea Al-Nouri, che era stata la sede ufficiale del califfato durante l’occupazione del 2014 e in cui recenti scavi hanno portato alla luce una sala di preghiera del tredicesimo secolo.
Da ricostruire anche 122 case storiche
Un lavoro di recupero da cinquanta milioni di dollari ai quali si aggiungono altri 38,5 milioni provenienti dall’Unione Europea per ricostruire 122 case storiche della città, distrutte durante i quattro anni di occupazione jihadista. Una luce di speranza per un ritorno alla normalità in Iraq, nelle ore in cui il parlamento ha deciso di rinviare sine die le elezioni del presidente della Repubblica mentre si cercano di trovare gli equilibri per formare un nuovo governo.
Le speranze degli iracheni
Padre don Georges Jahola, parroco della chiesa di San Behnam e Sarah a Qaraqosh, come vive la popolazione irachena questa situazione di stallo?
È un momento di instabilità che preoccupa la gente, perché e formare un governo vuol dire anche far funzionare tutto. Non è come in Europa dove tutto funziona anche nelle fasi di transizione. Qui rimane tutto bloccato le cose non vanno come si deve se le istituzioni non vanno avanti. Quest’attesa va contro le speranze della gente.
Quali sono i bisogni principali oggi, all’inizio del 2022 per la popolazione irachena. Cos’ è che serve soprattutto?
La politica influisce anche sull’economia e sulla vita quotidiana. Se continua il settarismo la gente resterà preoccupata. Dal punto di vista politico se il governo del Paese rimane controllato dai partiti religiosi sostenuti dall’estero ci sarà ancora instabilità, perché mancherebbe la sovranità del popolo. Il popolo è rappresentato dal parlamento e dal governo e così non funzionerebbe ia favore del popolo. È importante avere una certa autonomia delle decisioni, soprattutto in campo militare, perché c’è la mano di altri Paesi che controllano il territorio in modo indiretto. Invece dal punto di vista economico c’è attesa di un cambiamento che favorisca l’occupazione. I giovani laureati non trovano lavoro né per sopravvivere né per costruire un futuro in questo Paese. Se continua così, tanta gente cerca, soprattutto noi cristiani, di andarsene via definitivamente dall’Iraq oppure – ma questo è meno probabile - di spostarsi altrove nel Paese, come ad esempio in Kurdistan o altri luoghi. Quindi l’instabilità legata a due condizioni, due situazioni: quella politica, ma anche quella economica.
Quanto è importante il ruolo della Chiesa per essere accanto alle persone, anche quando sono smarrite per questa instabilità di cui ha parlato?
La Chiesa fa quello che può per aiutare le famiglie a stare bene anche dal punto di vista materiale. Qui a Qaraqosh ci sono ancora tante case non ricostruite quindi noi come Chiesa e come comitato di ricostruzione continuiamo questo lavoro per dare sicurezza e almeno una dimora degna, a quattro-cinque anni dal rientro. La Chiesa vuole anche, e cerca, di sviluppare progetti di investimento per creare posti di lavoro. Finora sono molto limitati perché non ci sono risorse, ma da questo punto di vista la Chiesa può fare tanto.

9 febbraio 2022

Mosul, torneranno a vivere le due chiese e il minareto distrutti dall'Is


Dopo tre anni di intensi lavori preparatori, partirà, il prossimo mese, la ricostruzione del minareto di Al-Hadba, della chiesa di Al-Saa’a (Nostra Signora dell'Ora, dei padri domenicani) e di quella della chiesa siro-cattolica di Al-Tahera, (dell'Immacolata) a Mosul, in Iraq. L’annuncio è stato dato dal vicedirettore generale per la cultura dell’Unesco, Ernesto Ottone Ramìrez, e dagli Emirati Arabi Uniti, coinvolti nei lavori che verranno inaugurati dal direttore generale dell’Unesco, Audrety Azoulay.

Rivivrà lo ‘spirito di Mosul’
L'80% della città vecchia di Mosul è stata distrutta dai miliziani del sedicente Stato islamico, che l’hanno occupata dal 2014 al 2017. Dopo la liberazione della città, l’anno successivo, l’Unesco ha lanciato un'ambiziosa iniziativa internazionale di ricostruzione e di riconciliazione per “far rivivere lo spirito di Mosul", per riportare questa città, ricca di storia, crocevia di culture e religioni del Medio Oriente, al suo antico splendore, responsabilizzandone anche la popolazione, coinvolgendola nel processo di riedificazione. Gli Emirati Arabi Uniti sono stati il primo partner ad aderire a questa iniziativa dell’organizzazione delle Nazioni Unite, per il restauro della moschea Al-Nouri e del minareto Al-Hadba. Il progetto è stato poi ampliato per includere le chiese Al-Saa'a e Al-Tahera. L'Unione europea ha quindi collaborato con l’Unesco per il rifacimento di 122 case storiche, che verranno inaugurate a marzo.
Un lavoro ambizioso iniziato nell'autunno 2018 In coordinamento con il governo dell'Iraq, i partner locali e gli esperti internazionali, il processo di restauro di questi monumenti iconici è iniziato nell'autunno 2018, a partire dalle operazioni di sminamento dei quattro siti, fortemente danneggiati. Durante il processo di sgombero delle macerie, sono state rinvenute pietre di valore da utilizzare durante le fasi di ricostruzione, accuratamente selezionate da esperti internazionali e da studenti di archeologia dell'Università di Mosul. I quattro siti, tutti messi in sicurezza e stabilizzati, sono pronti per il cantiere. Oltre alla riabilitazione dei monumenti architettonici, questa iniziativa intende anche essere una importante occasione di formazione professionale per i giovani, di rafforzamento delle capacità degli artigiani e di creazione di posti di lavoro.

Una scoperta archeologica eccezionale. 
Sotto la sala delle preghiere di Al-Nouri, scavi archeologici, coordinati dal Ministero della Cultura dell’Iraq e dal Consiglio di Stato delle antichità e del patrimonio, hanno anche permesso di rinvenire quattro stanze del periodo degli Atabeg (1127-1233), probabilmente utilizzate per le abluzioni, come indicherebbe la scoperta di una serie di bacini d'acqua e di canali di drenaggio adiacenti alle pareti laterali degli ambienti. La datazione delle stanze è stata possibile grazie al rinvenimento di monete risalenti a tale epoca. Sono stati trovati anche altri manufatti di diverse epoche, come vasi, frammenti di ceramica e pezzi di pietra intagliata. “Questa scoperta – ha dichiarato Ramìirez porta un messaggio di speranza al popolo di Mosul, all'Iraq e al mondo. Mette in evidenza la profonda storia del Paese, apre nuove opportunità per imparare a scoprirne il ricco patrimonio”.

Mosul, leader cristiani: oltre l’Isis, l’obiettivo è ricostruire in ‘pace e fraternità’


Dall’uccisione di Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi, successore di al-Baghdadi alla guida dello Stato islamico (SI, ex Isis), ai raid aerei turchi contro miliziani curdi del Pkk, passando per l’assalto al carcere di Ghwayran, sono giorni di tensione al confine fra Iraq e Siria. Una escalation che vede protagonisti i miliziani del califfato, che un tempo controllavano metà dei territori a cavallo fra i due Paesi, soprattutto le aree desertiche, e che oggi mantengono una presenza attiva con cellule dormienti, ma pronte a colpire. Violenze che preoccupano soprattutto la sponda siriana, mentre in Iraq è la crisi politica ad alimentare l’instabilità: sul fronte del terrorismo e della sicurezza la situazione è invece in massima parte sotto controllo.
Il domenicano mons. Michaeel Najeeb Moussa, dal gennaio 2019 arcivescovo caldeo di Mosul, metropoli del nord un tempo roccaforte jihadista, racconta che in città “non si respira un clima di paura” per quanto sta accadendo “soprattutto oltreconfine, in Siria”. Anche nella piana di Ninive, aggiunge, “la situazione è relativamente calma e stabile”. “In realtà - spiega ad AsiaNews - Mosul è oggi fra le aree più tranquille dell’Iraq, io stesso ci vivo in modo stabile da sei mesi”. A livello di base, prosegue, “la vita sta riprendendo il suo corso normale, con i propri ritmi e una armonia di fondo” che si cerca di costruire partendo dai principi di “pace, fraternità e rispetto reciproco”.
Una spinta fondamentale nella direzione del dialogo e della ricostruzione è stata impressa “da papa Francesco nel marzo scorso”, durante lo storico viaggio apostolico in Iraq. “Vi è grande attenzione - conclude l’arcivescovo caldeo - verso questa città martirizzata, per aiutarla a liberarsi dei retaggi del passato e contribuire alla ricostruzione delle infrastrutture e marciare assieme verso il progresso”.
In alcune aree del nord dell’Iraq viaggiare di notte può essere pericoloso, come racconta un cittadino di Jalawla, nel nord-est, per il timore di attacchi Isis. L’opinione comune è che Daesh [acronimo arabo per l’Isis] non sia così potente come nel 2014, le risorse sono limitate ma può approfittare di una situazione di confusione, del vuoto di potere e controllo di alcuni territori, soprattutto oltreconfine. Come fanno notare alcuni abitanti di Sinjar, la prima volta l’Isis è arrivato dalla Siria ed è proprio al di là della frontiera che la realtà appare meno stabile e le cellule dei miliziani siano più libere di muoversi, agire e colpire.
Al contempo resta ancora molto lavoro da fare per contrastare una mentalità settaria, in cui emergono episodi di abusi ed emarginazione. Secondo il sito ankawa.com la polizia di Mosul ha aperto una indagine sul decesso di una ragazza, probabilmente per cause naturali, in precedenza espulsa dalla preside della scuola media per essersi rifiutata di indossare il velo islamico. Mons. Paolo Thabit Mekko, vescovo coadiutore di Alqosh (Kurdistan irakeno) e in passato responsabile per anni della comunità cristiana a Karamles, nella piana di Ninive, conferma che sono emerse voci sulla vicenda, ma i contorni restano poco chiari e “non abbiamo alcuna certezza”.
Per quanto concerne gli attacchi di Daesh, mons. Mekko parla di “episodi che possono succedere”, come accaduto il mese scorso con “l’assalto a un reparto dell’esercito. Anche la fuga dei miliziani dalla prigione siriana ha sollevato qualche timore in Iraq, poi vi sono casi sporadici di violenze come avvenuto a Kirkuk, ma la vita scorre tutto sommato normale”. Il problema “principale”, avverte, è “il vuoto politico, l’incapacità di scegliere un presidente e poi i gruppi sciiti divisi al loro interno, non vogliono collaborare mentre qualche rappresentante in passato potente, oggi torna alla ribalta per chiedere un posto nel governo”. In questo contesto, conclude, “noi cristiani ci affidiamo alla preghiera e al digiuno, come stiamo facendo in questi giorni per la supplica di Ninive, un evento molto importante per tutti i cristiani iracheni”.

8 febbraio 2022

Il Patriarca Sako dà lezione ai politici iracheni, citando l’Imam Ali


 “Fai in modo che il tuo cuore provi misericordia, amore e gentilezza per i sudditi, e non essere di fronte a loro un animale vorace, considerandoli come una facile preda, perché sono di due tipi: o sono tuoi fratelli nella fede, o sono tuo pari nella creazione”.
Con questa parole di Ali ibn Abi Talib, cugino e genero del Profeta Mohammad, considerato il primo Imam dall’islam sciita, il Patriarca caldeo Louis Raphael Sako ha introdotto la singolare lezione da lui tenuta sabato 5 febbraio davanti a circa duemila rappresentanti della classe politica irachena. 
L’intervento si è svolto in una grande sala per conferenze di Baghdad, in occasione dell’incontro annuale promosso dal leader politico e religioso iracheno Ammar al Akim, fino al 2017 alla guida del Supremo Consiglio Islamico dell’Iraq. 
Il promotore dell’incontro appartiene all’influente famiglia sciita degli Akim. Nato nel 1971 a Najaf, fu costretto a fuggire in esilio in Iran all’età di nove anni, insieme al padre, dopo che il regime di Saddam Hussein aveva sterminato sette dei tuoi zii e sessantadue suoi familiari. Ammar Akim si è laureato in Iran, presso l’Università di Qom, principale centro di studi dell’islam sciita, e adesso è legato ai settori politici sciiti iracheni considerati vicini all’Iran. 
“Nel mio intervento” riferisce in sintesi il Patriarca Sako all’Agenzia Fides “ho parlato tra le altre cose della tolleranza, e ho insistito sulla centralità della scuola e dell’educazione come ambiti da curare per liberare le giovani generazioni dal virus del settarismo. Ho fatto riferimento alla piaga della corruzione, ai rischi di strumentalizzare il cosiddetto ‘discorso religioso’, e alla necessità di fare leggi ispirate al principio di cittadinanza”.
Alla riunione promossa da Ammar Akim sono intervenuti, tra gli altri, il Presidente uscente Barham Salih, il Premier uscente Mustafa al Khadimi e il Presidente del Parlamento Muhammad al Halbousi. L’unico rappresentante di una comunità di fede invitato a parlare ai politici iracheni è stato il Patriarca Sako. Con scelta eloquente, intervenendo a un incontro promosso da un leader sciita, il cardinale iracheno ha introdotto il suo discorso con la citazione tratta dalla famosa lettera inviata dall’Imam Ali a Malik al-Ashtar, un fedele sostenitore che servì come governatore dell'Egitto. La lettera consiglia a Malik al-Ashtar come trattare con giustizia il popolo egiziano, e viene considerata da alcuni studiosi come un modello a cui dovrebbe ispirarsi ogni governante islamico desideroso di operare con giustizia e lungimiranza. L’invito a tenere una lezione alla classe politica irachena rivolto da un leader sciita al Patriarca caldeo assume rilievo soprattutto se si tiene conto della convulsa e allarmante fase politica attraversata dal Paese dopo le elezioni parlamentari tenutesi il 10 ottobre 2021. La spartizione su base etno-confessionale delle cariche istituzionali prevede che il Capo dello Stato sia scelto tra i rappresentanti politici curdi, mentre il Presidente del Parlamento deve essere un sunnita e il Premier deve essere sciita. Le ultime elezioni dello scorso ottobre hanno visto una netta affermazione del Movimento sadrista, guidato dal leader sciita Muqtada al Sadr, che in Parlamento ora occupa 73 dei 329 seggi disponibili. Dalle elezioni è ridimensionato il peso parlamentare dei Partiti sciiti filo-iraniani, che hanno duramente contestato i risultati. Finora non è stato possibile procedere alla formazione di un nuovo governo. Né all’elezione di un nuovo Presidente.

Language classes unite communities in Iraq's Kurdistan


In Iraq's northern Kurdistan region, youths from different communities learn each other's languages to increase social cohesion as many Arabic-speaking people settle in Sulaimaniya.

     

4 febbraio 2022

Verso il "Digiuno di Ninive". Patriarca Sako: ci aiuti a rallegrarci della salvezza altrui e a liberarci da ogni rigorismo

By Fides - Patriarcato Caldeo

La salvezza promessa da Dio non è riservata a particolari gruppi etnici, o a determinate categorie morali. La sua misericordia abbraccia chiunque si pente, e a volte scandalizza quelli che pretendono di possedere in esclusiva e a priori i doni della grazia. E’ disseminata di liberanti suggerimenti per godere dei tesori delle pie pratiche tradizionali la riflessione offerta quest’anno dal Patriarca caldeo come strumento per prepararsi al cosiddetto “Digiuno di Ninive”, che la Chiesa caldea si appresta a vivere da lunedì 7 a mercoledì 9 febbraio.
Nella tradizione liturgica caldea, il cosiddetto “Digiuno di Ninive” (Bautha d'Ninwaye), precede di tre settimane quello quaresimale. Per tre giorni, i caldei che osservano questa pratica spirituale si astengono dal cibo e dalle bevande dalla mezzanotte fino al mezzogiorno del giorno successivo, e per tutta la durata del digiuno evitano di mangiare cibi e condimenti di origine animale.
La pratica del “digiuno di Ninive” si rifà al digiuno chiesto dal Profeta Giona agli abitanti di quella città corrotta, che sorgeva nell'area dell'attuale Mosul, metropoli nel nord dell’Iraq rimasta dal 2014 al 2017 in mano ai jihadisti del Califfato islamico (Daesh). Quel digiuno – così si legge nella Bibbia - commosse Dio (cfr Gion 3,1) e salvò la città dall'annientamento.
Negli ultimi anni, il Patriarca Sako ha sempre invitato i battezzati della Chiesa caldea a vivere il Digiuno di Ninive chiedendo all’Onnipotente anche i doni della pace, della concordia nazionale e della fine della pandemia 
Quest’anno, la riflessione sul Digiuno di Ninive offerta dal cardinale iracheno contiene preziose note filologiche, esegetiche e storiche sul Libro di Giona. Ma il testo biblico offre al patriarca soprattutto spunti suggestivi per riaccennare ai tratti di gratuità e universalità che connotano la salvezza promessa da Cristo a tutte le genti.
"La parola "Ba'utha” – ricorda tra l’altro il Patriarca Sako nel suo contributo, diffuso dai media ufficiali del Patriarcato - in siriaco indica una richiesta e una supplica. Il Patriarca Ezechiele (570—-581) ordinò un digiuno di penitenza in seguito al diffondersi dell'epidemia di peste in Mesopotamia e alla morte di un gran numero di persone, per chiederne la fine, in maniera analoga a quanto è avvenuto con la pandemia da Covid-19”.
L’autore del Libro di Giona – prosegue il Cardinale iracheno – vuole soprattutto riferire una parola nuova su Dio, “per rivelare che la salvezza promessa da Dio è per tutti e la sua infinita misericordia abbraccia tutti quelli che si pentono”. Lo scrittore del testo sacro “vede in modo sublime la verità inaggirabile della solidarietà amorosa di Dio con i peccatori e i poveri, e il suo desiderio di vederli salvati”.
La parola “Giona” – prosegue il Patriarca - in ebraico e siriaco significa ‘colomba’. Ma il Profeta indicato con quel nome “non è certo una colomba della pace”: lui brandisce la “minaccia di punizione” e appare chiuso in un nazionalismo religioso intollerante, al punto di volersi sottrarre al comando di Dio, che lo invia a predicare il pentimento a la possibile salvezza in una città lontana da Israele, a un popolo percepito come ostile. Giona prova a fuggire nella direzione opposta a quella indicata da Dio. Poi, quando tutto il popolo di Ninve si pente, digiuna e vede accadere la salvezza promessa dal Signore, Giona si arrabbia per quel gesto di misericordia divina, rinfacciando quasi a Dio di aver salvato per grazia una nazione malvagia e nemica.
La posizione di Giona – rimarca il Patriarca – ricorda quella di tutti i rigorismi che pretendono di monopolizzare per proprio merito la salvezza donata da Dio. Ma Gesù “è venuto a salvare il mondo”, e il racconto del Profeta Giona mostra che di solito i pagani sono più pronti a pentirsi e convertirsi di quanto non lo siano quelli che si ritengono salvati “a priori”, per condizione data. Alla fine, anche Giona si rallegra del cambiamento avvenuto anche grazie alla sua predicazione. Così – aggiunge il Patriarca – “il Libro di Giona ci insegna a confidare nella misericordia del Signore, a pregare per gli altri e a gioire del loro pentimento, invece di brontolare”. Le due posizioni che si confrontano, nel libro di Giona e in tutta la storia della salvezza sono da una parte quella del perdono e del pentimento, e dall’altra quella dell’ostinazione e del fanatismo. Per questo – fa notare il Patriarca Sako – conviene riconoscere che “il messaggio del Libro di Giona non era indirizzato solo al popolo della antica Ninive, ma è un messaggio che raggiunge tutti noi, attraverso le generazioni”. La riflessione del cardinale iracheno si conclude con un invito a pregare “per la pace e la stabilità nel nostro Paese, perché la pandemia causata dal Covid-19 sparisca in tutta la terra, perché l’ambiente non venga devastato e per l'unità delle nostre Chiese.