"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

31 marzo 2009

Marcia per i cristiani perseguitati a Vienna. Mons. Louis Sako

By Baghdadhope

Ogni anno nel periodo quaresimale la branca austriaca dell’associazione Christian Solidarity International organizza una marcia silenziosa per i cristiani perseguitati, ed ogni anno ospita un rappresentante religioso di un paese cui dare particolare attenzione.
Quest’anno, il 27 marzo, la marcia cui hanno partecipato circa 800 persone e che si è conclusa nella centralissima cattedrale di Vienna dedicata a Santo Stefano ha avuto come ospite Mons. Louis Sako, Arcivescovo caldeo di Kirkuk.
Mons. Sako, arrivato in Austria grazie anche agli inviti di Aid to the Church in Need e Pro Oriente, riferendosi alla sorte degli iracheni cristiani, ha parlato chiaramente di “tragedia”.

2/3 della popolazione cristiana irachena ha lasciato il paese, circa 750 cristiani sono stati uccisi, ha riferito il vescovo che ha puntualizzato come la situazione per la comunità si sia invertita con la caduta del regime: “prima avevamo sicurezza ma non libertà, ora è il contrario.”
Pur ammettendo che la situazione è migliorata a Baghdad e Bassora il vescovo ha precisato come invece essa sia ancora critica a Mosul a causa della presenza di gruppi Wahabiti, una corrente teologica radicale dell’Islam sunnita che in Arabia Saudita è ideologia di stato: “I fondamentalisti vogliono stabilire uno stato islamico” ha dichiarato a
Radiovaticana “e pensano che i cristiani siano stranieri”.
Ricordando che la presenza della comunità cristiana in Iraq risale a duemila anni fa Mons. Sako ha lamentato il non rispetto dei suoi diritti e la forte emigrazione che l’ha decimata causando la
perdita di una parte della stessa cultura e storia del paese.
Ha inoltre suggerito, come riporta
Derstandard, che il miglior sostegno agli iracheni cristiani può essere rappresentato dal visitarli, dal rendersi conto di persona delle condizioni in cui vivono. Un suggerimento che riprende l’appello lanciato a metà marzo da alcuni vescovi e sacerdoti iracheni (tra cui lo stesso Mons. Sako) che hanno invitato a proposito i religiosi cattolici americani.Alla marcia hanno partecipato il cardinale di Vienna, l’Arcivescovo Christoph Schönborn, Padre Ra’ad Washan Sawa che in Austria segue la comunità cattolica caldea, ed altri religiosi austriaci ed iracheni.

Silent march for persecuted Christians in Wien. Msgr. Louis Sako

By Baghdadhope

Every year for Lent the Austrian branch of Christian Solidarity International organizes a silent march for the persecuted Christians, and every year hosts a religious representative of a country to be given special attention. This year, on March 27, the march to which 800 people participated ended in the central cathedral of Wien dedicated to St. Stephen and had as its special guest Msgr. Louis Sako, Chaldean Archbishop of Kirkuk.
Msgr. Sako, who arrived in Austria thanks also to the invitation of Church in Need and Pro Oriente, referring to the fate of Iraqi Christians spoke clearly of a "tragedy".
2/3 of the Iraqi Christian population left the country, about 750 Christians were killed, said the bishop who pointed out that the situation for the community was reversed by the fall of the regime: "before we had security but no freedom, now is the opposite."
While conceding that the situation has improved in Baghdad and Basra the Bishop explained how it is still critical in Mosul because of the presence of Wahabites groups, a radical theological current of Sunni Islam that in Saudi Arabia is the state ideology: "Fundamentalist want to establish an Islamic state," said to Radiovaticana "and they think that Christians are foreigners." Recalling that the presence of the Christian community in Iraq dates back to two thousand years ago, Archbishop Sako complained that its rights are not respected and that the emigration that decimated it can cause the loss of part of the culture and history of the country. He also suggested, as reported by Derstandard, that the best support for Iraqi Christians can be represented by visiting them, by seeing personally their conditions of life.
A tip that recalls the appeal made on mid-March by some Iraqi bishops and priests (including Msgr.Sako) who invited the American Catholics to visit Iraq. Present to the march there were the Cardinal of Wien, Archbishop Christoph Schönborn, Father Ra'ad Washan Sawa who follows the Chaldean Catholic community in Austria, and Austrian and Iraqi priests.

Iraq: il posto più pericoloso al mondo per i cristiani


by Canon Andrew White

Tradotto ed adattato da Baghdahope

I cristiani dell'Iraq sono una delle più antiche comunità del mondo. Qui, tra questa gente meravigliosa, si parla ancora la lingua di nostro Signore. Il 98% dei fedeli della chiesa di St. George a Baghdad è originario di "Niniwah" (Ninive) ed è erede dell'evangelista Giona che arrivò dal mare nel ventre di una balena 2700 anni fa. 700 anni più tardi arrivò lo scettico Tommaso nel suo cammino verso l'India e disse al popolo che il Messia stava arrivando. Il popolo gli credette e da quel giorno in Iraq i cristiani venerano Giona e Mar Thoma.
Eppure mi guardo intorno nella nostra chiesa e la maggior parte dei nostri fedeli (oltre 2000) sono donne e bambini perché i nostri uomini sono stati uccisi o rapiti. Tutti i fedeli, tranne me, sono iracheni e tutti hanno sofferto terribilmente. Solo lo scorso anno 93 dei miei fedeli sono stati uccisi. E quest'anno altri cinque. Tutti i dirigenti della mia chiesa sono stati uccisi nel 2005 e tutti i cristiani nel paese che hanno potuto sono andati in Giordania, Siria o Svezia, così che quelli che sono rimasti sono i membri più poveri della comunità.
Noi viviamo ancora nel luogo del mondo più pericoloso per i cristiani. La sicurezza è leggermente migliorata e alcune persone hanno fatto ritorno a luoghi come Dora, ma i cristiani in Iraq sono ancora in grande pericolo.
Qui faccio parte di quella minoranza che dice che la guerra doveva esserci e che Saddam doveva essere rimosso, ma ero qui in Iraq prima della guerra. Ho visto la paura e la dissolutezza del regime. Ancora adesso non denuncio la guerra, ma ciò che è accaduto dopo è stato più che terribile. E' stato terribile per tutti ma soprattutto per quei gruppi che sono poco numerosi. Io non li chiamo minoranze perché essi stessi non accettano tale termine. Non importa se sono Mandei, Yazidi, Turcomanni, curdi feyli o curdi cristiani - tutti hanno sofferto, sono stati emarginati e dimenticati.
Non si è pensato alle esigenze od alla protezione di questi gruppi. Il fatto che queste persone sarebbero stati perseguitate era prevedibile ma non c'erano piani per il loro futuro. Ho passato molti giorni a Washington DC ed a Londra in passato e c'era un totale rifiuto del pensiero dell'eventuale sviluppo del settarismo delle diverse componenti religiose. Mi fu detto che bisopgnava occuparsi prima dell'acqua e dell'energia elettrica e solo in un secondo tempo della religione. Alcune settimane più tardi mi fu detto che non si riuscivano ad affrontare i problemi dell'acqua e dell'elettricità a causa del fattore religioso. Il settarismo religioso è sempre stato una questione potenzialmente importante in Iraq ma sotto il precedente regime non si vedeva. La minoranza sunnita aveva il controllo e il suo primo nemico era la maggioranza sciita. Pertanto i cristiani erano trattati relativamente bene ed avevano alcune libertà purchè si conformassero al regime. Oggi le cose sono diverse ma la gente spesso non ascolta. Centinaia di cristiani sono stati uccisi, costretti a convertirsi o forzati a pagare la tassa di protezione. Nel complesso la gente non ha neanche sentito parlare di questi problemi. Ogni settimana in chiesa guardo le vedove ed i bambini senza genitori. Sono i miei fedeli e devo provvedere loro. Non c'è alcuna sicurezza sociale, hanno bisogno di cibo, vestiti e assistenza sanitaria. Non hanno denaro e dobbiamo pensarci noi. Ringrazio Dio che perchè attraverso la sua grazia ed i nostri sostenitori sono sempre riuscito a farlo. Posso essere un anglicano ma non diamo solo alla nostra comunità ma anche agli assiri, agli armeni, ai caldei, ai siro-ortodossi ed ad altri gruppi protestanti. Ciò possiamo dare però è niente rispetto alle esigenze.
Un'altra soluzione potrebbe essere l'impegno politico internazionale ed il sostegno al governo iracheno. La politica della comunità internazionale non ha fatto molto per aiutare la comunità cristiana. In realtà ciò che possiamo fare è limitato. La coalizione in Iraq ha cercato di aumentare la sicurezza e la protezione dei cristiani e lo ha fatto dove possibile. Negli ultimi mesi ha cercato di aumentare la sicurezza data dall'MNFI (Multi National Force -Iraq) nei pressi di Ninive quando gli attacchi contro i cristiani sono aumentati, ed insieme ad governo iracheno c'è stato un certo successo. Ma i cristiani hanno dovuto fare attenzione alla quantità di aiuti ricevuti da parte della coalizione perché molti dei gruppi terroristici hanno erroneamente pensato che i cristiani dell'Iraq hanno legami con l'occidente e sono parte di una religione occidentale. La coalizione in Iraq non ha inoltre compreso la natura del cristianesimo in Iraq. Ad un certo punto mi è stato chiesto da parte della coalizione se fosse possibile istituire gruppi di cristiani simili a quello del 'Risveglio sunnita' che imbraccia le armi per proteggere gli altri. Questa affermazione può sembrare adatta ma è fondamentalmente errata. In nessun modo la comunità cristiana è simile a quella sunnita. Molto raramente i cristiani imbracciano le armi. Né di solito vivono in comunità dove la maggioranza è puramente cristiana e dove è facile proteggere un settore specifico. Per quanto riguarda il governo iracheno esso non ha mai intrapreso azioni negative nei confronti dei cristiani. Il governo iracheno non si preoccupa dei suoi cristiani. Membri del Gabinetto vanno anche regolarmente in chiesa. Il consiglio e il governatore spesso cercano il modo per aiutarci. Ma mentre le persone e le chiese ci hanno aiutato ad aiutare i cristiani di Iraq mai lo siamo stati da parte di associazioni benefiche cristiane. E' troppo pericoloso per loro inviare qualcuno e così non ci aiutano. Questo punto è veramente frustrante: quelli che hanno più bisogno non possono essere aiutati perché è troppo pericoloso per le associazioni inviare qualcuno qui.
Il fatto è che è proprio nei luoghi pericolosi che i nostri fratelli cristiani hanno bisogno di aiuto. Spesso si dice che ho la parrocchia più pericolosa al mondo. Forse, ma non la lascerò. Proprio l'altro giorno un famoso predicatore americano mi ha detto che il problema è che le persone non hanno visto abbastanza Dio come Giobbe. Ha detto "tu hai visto Dio nei bambini dell'Iraq". Sono d'accordo, non lascerò queste persone perchè sono le più meravigliose al mondo, e sono gli iracheni cristiani.

Iraq: The most dangerous place in the world for Christians


By: Canon Andrew White

The Christians of Iraq are some of the oldest and long standing Christians in the world. Here among these wonderful people is still spoken the language of our Lord. Ninety-eight per cent of my people at St George's, Baghdad originate from "Niniwah" (Nineveh) and are the result of the most miserable evangelist ever, who arrived by submarine transportation 2,700 years ago - Jonah. Another miserable person turned up 700 years later called doubting Thomas. He was on his way to India. He told the people that their Messiah had come. They believed him and, to this day, the Christians in Iraq revere Jonah and Mar Thoma.
Yet I look around our church and most of our members (over 2,000) are women and children because our men have been killed or kidnapped. All of our members apart from me are Iraqis and all have suffered terribly. Last year alone, 93 of my people were killed. This year already, five of my people have been killed. All of my original church leaders were killed in 2005 and all Christians in the country who had the means have left and gone to Jordan, Syria or Sweden so that those left behind tend to be the poorer members of the community.
Thus, we are still in the most dangerous place for Christians in the world. Security has slightly improved and some people have returned to places like Dora, but Christians in Iraq are still surrounded by great danger.
I am in a minority here in saying that the war had to happen and Saddam had to be removed, but I was here in Iraq before the last war. I saw the fear and debauchery of the regime. I still do not denounce the war, but what happened afterwards was worse than terrible. It was awful for all but particularly for those groups who are small in number. I do not call them minorities because they themselves object to that term. It does not matter if they are Mandeans, Yazidees, Turkman, Fali Kurds or Christians - they have all suffered, been marginalised and forgotten by the masses.
Proper thought did not take place about the needs or protection of these groups. The fact that these people would be persecuted was to be expected, yet the plans that were needed for their future did not exist. I spent many days in Washington DC and London beforehand and there was a total rejection of any possible religious component to the development of sectarianism. I was told that first water and electricity needed to be dealt with and at a far later date, religion. A few weeks later I was told they could not even deal with water and electricity because religion kept getting in the way.
Religious sectarianism has always potentially been a major issue in Iraq but under the previous regime it did not show its head. The minority Sunni were in control and their first enemy just happened to be the majority Shia. Therefore in previous days the Christians were treated relatively well and given certain freedoms as long as they totally complied.
Today things are different but still people often do not wake up and listen. Hundreds of Christians have been killed, forced to convert or made to pay jezerah tax. On the whole people have not even heard of these problems. I stand in church each week and look at the widows and children without parents. They are my people and I have to provide for them. There is no social security, they need food, clothes and healthcare. They have no money so we have to provide it. I thank G-d that by his grace through our supporters, I have always been able to do this. I might be an Anglican but we do not just give to our own we also give to the Assyrian, Armenian, Chaldean, Syrian Orthodox and to some of the Protestant groups. What we can give though is minuscule compared to the extent of the needs.
Other present solutions could be international political engagement and the support of the Iraqi Government. The International Political community has not done a huge amount to help the Christian community. In reality what it can do is limited. The coalition in Iraq has tried to increase security and protection for the Christians and has done so where possible. In recent months it tried to increase MNFI security around Niniveh when the attacks against Christians escalated and together with the Iraqi Government there was some success. But the Christians have had to be careful about the extent of help it receives from the coalition because many of the terrorist groups have wrongly thought that Christians of Iraq have Western links and are part of a Western religion.
The coalition in Iraq has also failed to understand the nature of Iraqi Christianity. At one stage I was asked by the coalition if it would be possible to establish groups of Christians like the 'Sunni Awakening' who would take up arms and would protect the others. This very statement may sound good but it is fundamentally flawed. At no point are Christians like the Sunni community. Very rarely do and would Christians take up arms. Neither do they usually live in communities where the majority are purely Christians and where it is easy to protect a specific area.
Regarding the Iraqi Government, at no point has it ever taken negative action towards Christians. The Iraqi Government does care about its Christians. Members of the Cabinet even regularly come to church. The council and the governor often see how they can help us. But whilst individuals and churches have helped us help the Christians of Iraq, never once has any Christian relief agency ever helped us. It is far too dangerous for them to send people in so they do not help us. It is this point that really frustrates me, that those in some of the greatest need cannot be helped because it is too dangerous to have a presence.
The fact is that it is in the most dangerous places that our fellow Christians need help. It is often said that I have the most dangerous parish in the world. Maybe I do but I will not leave them. Just the other day a famous American preacher said to me the problem is that people have not seen G-d enough like Job did. He said "you have seen G-d in the children of Iraq". I agree I have, I will never leave these people they are indeed the most wonderful people in the world and they just happen to be Iraqi Christians.

Cristiani "cancellati" in Iraq

Fonte: onenewsnow.com

by Allie Martin

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

I cristiani in Iraq sono assititi da un'associazione che opera per aumentare la consapevolezza sulla chiesa perseguitata nel mondo.
Open Doors USA ha creato farmacie ed altri progetti medici in tutto l'Iraq. Le farmacie non aiutano solo i cristiani a trovare medicinali a buon prezzo ma danno anche lavoro ai rifugiati nel nord del paese.
L'associazione offre anche un servizio di sostegno per il superamento del trauma di chi ha dovuto lasciare la propria casa e la propria famiglia a causa della violenza, ed insegna agli agricoltori come coltivare gli alberi da frutto e venderli sul mercato.
Il Dottor Carl Moeller, presidente di Open Door USA, ha dichiarato che la comunità cristiana in Iraq è stata duramente colpita: "E' un dovere per Open Doors verso tutti i cristiani nel mondo ricordare le difficili condizioni di chi la cui esistenza è stata quasi cancellata dalla competizione tra le sette ed i credi religiosi dell'Islam sunnita, sciita e curdo."
"Non c'è quasi più posto dove i cristiani possano vivere in pace nella società irachena."
L'associazione sta anche inviando Bibbie, testo scolastici, cibo, attrezzature mediche e per equipaggiare una scuola cristiana.

Christians being ’squeezed out’ in Iraq

Source: onenewsnow.com

by Allie Martin

Christians in Iraq are being assisted by a ministry that raises awareness of the persecuted church worldwide. Open Doors USA has set up pharmacies and other medical projects throughout Iraq. The pharmacies not only help Iraqi Christians find affordable medicine, but they also provide jobs for refugees in northern Iraq.
The ministry is offering trauma counseling for those who have had to leave their homes and families due to violence, while also teaching farmers how to grow fruit trees and bring produce to market.
Dr. Carl Moeller, president of Open Doors USA, says the Christian community in Iraq has been hit especially hard.
“It is the call of Open Doors to all Christians around the world to remember the plight of those who have been squeezed almost out of existence by the competing Islamic sects and religious belief systems of Sunni Islam, Shia Islam, and Kurdish Islam,” he notes. “There’s almost literally no place for Christians left in the Iraqi society where they can live in peace.”
The ministry is also sending Bibles, study guides, food, medical equipment, and other supplies for a Christian school.

30 marzo 2009

Ai vescovi ed ai sacerdoti della chiesa cattolica in America

By Baghdadhope

Di seguito il testo tradotto ed adattato da Baghdadhope dell'appello firmato da alcuni vescovi e sacerdoti iracheni in cui invitano i vescovi ed i sacerdoti americani a visitare il nord Iraq per vedere di persona le condizioni di vita della comunità cristiana che lì vive:
Noi, vescovi e sacerdoti firmatari, vorremmo invitarvi come nostri ospiti in Iraq. Se non potete venire oggi, potreste farlo la prossima settimana? Avete saputo della nostra situazione dalle conferenze, dalla televisione e dalle radio. Ora è tempo per voi di venire a conoscerci. State tranquilli perchè sarete al sicuro.
Noi cristiani rischiamo seriamente di scomparire a causa dell'emigrazione. I nostri amici e le nostre famiglie hanno avuto delle buone ragioni per partire. Sono stati sfollati a causa della guerra. Sono stati rapiti ed uccisi, le loro case sono state saccheggiate e confiscate. Non hanno lavoro nè futuro.
Quelli di noi che non sono partiti sopravvivono, ma non è abbastanza. Vogliamo che le nostre famiglie abbiano un lavoro qui. I nostri bambini devono frequentare qui la scuola. I nostri malati hanno bisogno di ospedali. Abbiamo dei progetti sul lavoro, la scuola e l'istruzione ma abbiamo bisogno di aiuti finanziari. Abbiamo bisogno di aiuto ora.
La popolazione irachena è composta da più di 25 milioni di persone. Noi cristiani al massimo siamo 500.000. Ci siamo raggruppati nel nord per la guerra. Qui siamo più al sicuro ma abbiamo bisogno di esserlo di più. E la nostra sicurezza non ci sarà data dalle votazioni o dalla nostra rappresentatività nel governo perchè non l'abbiamo.
Il nostro ruolo ci viene dal servizio che diamo negli ambiti della scuola e della salute. Sono questi i campi in cui i cristiani hanno sempre brillato, nella storia ed anche ora, e nel mezzo delle guerre.
Abbiamo costruito due scuole a Baghdad. Gli studenti sono cristiani e musulmani. La nostra futura sicurezza è nell'istruzione.
Siamo pronti ad inviarvi le firme di migliaia di famiglie qui in Iraq che vi invitano a venire qui a conoscerle: dottori che non hanno cliniche in cui prendersi cura dei malati, ingegneri pronti a ricostruire le nostre case, insegnanti che vogliono insegnare. Siamo pronti a lavorare. Vogliamo rimanere qui.
Per favore, cari vescovi e sacerdoti in Cristo, avete bisogno di visitarci. Venite in Iraq così da vedere di persona la situazione dei vostri fratelli e sorelle qui.
Attraverso il Sacro Cuore di Gesù siate rafforzati nei vostri compiti e possa la Sua Santa Mano guidarvi da noi.
Con nostra Madre Maria, che conforta gli afflitti e che è la regina della pace, vi invitiamo.
In Cristo.

Firme leggibili:
Mons. Mikha P. Maqdassi (Vescovo caldeo di Al qosh)
Mons. Luis Sako (Vescovo caldeo di Kirkuk)
Mons. Petros Harbouli (Vescovo di Zakho)
Padre Bashar Warda (Rettore del seminario)
Padre Nona Amel
Padre Douglas Al Bazi
Padre Nadheer Dakko
Padre Fadi Lion
Padre Salar Sulaiman

27 marzo 2009

Coppia missionaria invita i cattolici a visitare l'Iraq. Le diocesi hanno bisogno di sostegno per preservare le comunità cristiana

Fonte: ZENIT

by Genevieve Pollock

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

ARBIL, Iraq, MARCH 26, 2009

Una coppia trapiantata nel nord dell'Iraq cerca sostegno per la Chiesa di questa regione che ha bisogno della comunità mondiale in questo periodo di nuova speranza e di ricostruzione. Hank e Diane McCormick parlano a nome di molti vescovi e sacerdoti in Iraq che si offrono di organizzare ed ospitare i pellegrini che vogliono venire ad aiutarli a rinnovare e rafforzare la comunità cattolica nella regione.
In questa intervista a ZENIT la coppia racconta la propria storia e lancia un appello alla comunità cattolica mondiale per aiutare la sempre minore popolazione cristiana a preservare le proprie tradizioni e la propria presenza in Iraq.
Come siete finiti nel nord Iraq?
Hank: Come missionario per le comunicazioni e le relazioni della Chiesa per SAT-7, una televisione satellitare dedicata ai cristiani in Medio Oriente, il mio primo contatto con i cattolici iracheni aveva lo scopo di promuovere maggiori opportunità perchè essi potessero far sentire la propria voce all'interno dei programmi televisivi cristiani in Medio Oriente. Eravamo a conoscenza della difficile situazione che in Iraq i cattolici stavano affrontando ed eravamo ansiosi di incontrarli.
D: Qual è la situazione della Chiesa nel nord Iraq? Quali particolari esigenze avete individuato tra le comunità cattoliche nell'Iraq settentrionale?
Hank: Migliaia di cattolici sono arrivati nel nord Iraq nel corso degli ultimi tre anni. Solo da Mosul, in un periodo di due mesi, più di 10.000 famiglie sono state sfollate e reinsediate nella diocesi di Alquoch. I cattolici sono stati costretti all'immigrazione forzata per due volte nella loro vita. All'inizio del regime di Saddam sono stati trasferiti con la forza dai loro villaggi curdi e ridislocati a Baghdad e Mosul che divennero nel corso dei 30 anni del regime la loro casa. Con il crollo del regime e la violenza civile che è seguita le famiglie cattoliche sono diventate vittime della persecuzione religiosa e dell'estorsione. I cattolici sono stati uccisi, rapiti, e minacciati.
Di fronte a queste realtà la loro unica scelta è stata quella di partire per andare all'estero come rifugiati o nel nord Iraq. Ancora una volta i cattolici sono stati sradicati. Nel nord dell'Iraq sono al sicuro ma sono ormai una comunità di rifugiati all'interno del loro paese. La situazione economica è difficile. I sacerdoti li hanno tutti sistemati nelle case e nessuno vive per strada. Tuttavia non ci sono posti di lavoro per queste migliaia di persone. Molti contano sull'aiuto dei familiari all'estero. Come profughi essi ricevono un piccolo stipendio mensile dal governo regionale ma non è sufficiente per vivere. La comunità cattolica ha bisogno di posti di lavoro, opportunità di istruzione ed assistenza sanitaria. I cattolici possiedono le competenze e l'esperienza per lavorare in scuole ed ospedali nelle loro nuove comunità se viene data loro la possibilità.
D: I vescovi ed i sacerdoti dell'Iraq il mese scorso hanno lanciato un appello per chiedere il sostegno dei cattolici americani. Come è nato quell'appello?
Hank: I firmatari hanno scritto questa appello urgente come invito personale ai vescovi e sacerdoti della Chiesa negli Stati Uniti per venire ad incontrarli e per discutere le strategie di sviluppo volte a favorire l'integrazione dell'attuale popolazione cattolica come membro a tutti gli effetti della loro nuova comunità. Sebbene sia possibile dare informazioni attraverso i rapporti le petizioni e le statistiche le visite dirette alla regione sono essenziali.
Negli ultimi due anni delegazioni dell'Europa occidentale hanno visitato il nord Iraq ed altre sono attese. Ora è giunto il momento di venire anche per i vescovi ed i sacerdoti provenienti dagli Stati Uniti. La popolazione cattolica in Iraq è a rischio di scomparire a causa di questi elevati tassi di emigrazione. Al fine di preservare la presenza cattolica che risale al tempo degli Apostoli c'è bisogno che la Chiesa universale aiuti adesso i cattolici locali ad impegnarsi nelle loro nuove comunità.
Si tratta di un compito impegnativo. I cattolici hanno dovuto abbandonare le loro comunità e stabilirsi in zone che sono mal organizzate ad accoglierli. Molti, ad esempio, hanno fatto ritorno ai villaggi dei loro padri - villaggi sono stati costretti ad evacuare quaranta anni fa. Questa popolazione essenzialmente urbana è stata reinsediata in una comunità agricola che offre poche opportunità di lavoro. Inoltre nel nord, che ha accolto con favore i cristiani, ci sono barriere linguistiche. Il curdo è la lingua ufficiale della regione ed i cattolici parlano Surith (aramaico) ed arabo.
La Chiesa non era preparata al caos verificatosi dopo la caduta del regime di Saddam, alle ostilità ed alle persecuzioni che hanno colpito i cattolici. L'enorme numero di cattolici sfollati in quegli anni l'ha costretta a battersi per gli aiuti. I sacerdoti ed i vescovi hanno lavorato a fianco delle suore, dei diaconi, dei seminaristi e dei fedeli per far sì che tutti avessero un riparo ed il cibo. Ora stanno sviluppando dei piani strategici per aiutare i cattolici ad impegnarsi nelle loro nuove comunità. Un'ulteriore preoccupazione che la Chiesa sta affrontando è la presenza dei cristiani evangelici che stanno convertendo i caldei, i siriaci e gli ortodossi. Spesso i metodi attraverso cui si verificano tali conversioni sono inappropriati. Questa è una parte dell'appello. Invitare i vescovi ed i sacerdoti a venire nell'Iraq settentrionale come ospiti della chiesa caldea per vedere cosa sta succedendo "sul campo" e contribuire a sviluppare un piano per aiutare la comunità a vivere e prosperare in Iraq è un appello fatto col cuore.
D: Qual è stata la vostra esperienza personale in Iraq? Come fate fronte alla paura, se ne avete?
Diane: La mia esperienza in Iraq è stata una benedizione. Sarò sempre grata agli iracheni per averci accolti nella loro vita. Sono persone di fede con un forte senso della famiglia e della comunità. Li ammiro molto. Ci siamo spostati liberamente in tutta la regione senza alcuna difficoltà. Abbiamo soggioornato in alberghi musulmani, mangiato, fatto compere, preso il taxi per tutta la durata del nostro soggiorno e siamo sempre stati trattati con rispetto e gentilezza. La difficoltà maggiore per noi è stata il nostro cellulare che non funzionava in nord Iraq. Ma grazie alla tipica ospitalità irachena abbiamo potuto risolverla. Dopo giorni in cui abbiamo cercato di risolvere il problema da soli siamo andati al centro di Arbil in uno dei numerosi negozi di telefonia mobile.
Il negozio era così affollato che a malapena siamo riusciti ad entrare. Qualcuno dietro il banco ci ha visto è scomparso nel retro del negozio ed è riapparso con un giovane uomo che ha annunciato di essere uno specializzando in inglese all'università.
Il suo inglese era davvero perfetto. Dopo aver esaminato il nostro telefono che ci ha chiesto di seguirlo. Uscito dal negozio ci ha guidato lungo la strada, dietro un angolo, e giù per delle scale fino ad uno scantinato. Lì c'era un suo amico di 20 anni che ha lavorato per più di mezz'ora per eliminare ed aggiungere i vari programmi necessari per risolvere il nostro problema. Non solo abbiamo fatto una deliziosa chiacchierata con questi due intraprendenti giovani uomini d'affari musulmani, ma abbiamo anche risolto il nostro problema - ed hanno insistito a non farci pagare perché eravamo stranieri nel loro paese - era semplice ospitalità ed i due giovani ci hanno detto che sapevano che gli americani l'avrebbero ricambiata se loro fossero andati negli Stati Uniti. La mancanza di paura nell'andare in Iraq era basata sul principio guida insegnatoci da papa Giovanni Paolo II: "Non abbiate paura. Dio è con voi". Queste parole sono state la fonte della nostra forza per anni. Sebbene siano state quelle che ci hanno guidato in Iraq al nostro arrivo era chiaro che la vita procedeva normalmente e non c'era davvero ragione di avere paura.
Hank: Visitare il paese è stata una meravigliosa esperienza per noi. E' stato emozionante vivere con un popolo la cui lingua madre, l'aramaico, è la lingua che parlava Nostro Signore. Abbiamo viaggiato in tutta la regione senza paura. Abbiamo incontrato alcuni dei caldei cattolici che sono stati vittime della violenza post-Saddam. Sono allegri, pieni di speranza. E' stato triste rendersi conto che le famiglie di tanti di questi cattolici sono divise, con alcuni membri in Occidente ed altri in Turchia o in Giordania.
Il lavoro che i sacerdoti ed i religiosi stanno facendo sono una grande testimonianza dell'amore di Cristo. Abbiamo incontrato un sacerdote di Baghdad che è stato rapito, colpito ad una gamba in un secondo episodio, ed in un terzo episodio era nella sua chiesa dove è scoppiata una bomba. Era nel nord per una visita ma stava per tornare alla sua parrocchia di Baghdad. Abbiamo visitato i santuari del sacerdote martire Padre Ragheed Ganni e di Mons. Paulos Faraj Rahho di Mosul. Questi uomini sono morti per Cristo e per la sua Chiesa. Mons. Louis Sako, di Kirkuk, uno dei firmatari dell'appello ha promosso l'unità cristiano-islamica nelle strade, nelle chiese e nelle moschee. Padre Bashar Warda, rettore del Seminario di San Pietro, ha supervisionato la costruzione - e la ricostruzione - delle scuole cattoliche di Baghdad, scuole che sono piene di studenti di tutte le fedi.
Queste scuole ricevono attualmente abbastanza rette per coprire i costi totali di funzionamento della parrocchie cui sono collegate. Le Suore della Immacolata e le domenicane gestiscono orfanotrofi, scuole e cliniche. Ho potuto vedere il volto di Cristo in questi uomini e donne e nel lavoro che fanno.
D: State pensando di vivere in Iraq per i prossimi anni per aiutare la Chiesa. Perché?
Hank: La popolazione attuale è sopravvissuta a decenni di terrore e violenza sotto Saddam, ad una guerra contro l'Iran, a due guerre del Golfo, ad un embargo internazionale ed al caos che ha fatto seguito alla caduta del regime di Saddam. Oggi, tra 28 milioni di musulmani iracheni non vivono più di 700.000 di cristiani iracheni - il 70% dei quali è cattolico. Hanno cominciato a ricostruire le loro comunità. Hanno ricominciato a rimettere insieme i pezzi della loro vita in una nuova era di speranza. Saremo onorati e benedetti se potremo contribuire in ogni modo possibile ad aiutare i cattolici in Iraq a conservare le loro tradizioni e la loro presenza nella loro terra d'origine. L'Iraq è un posto meraviglioso.
Ci sono magnifici siti religiosi ed archeologici da visitare, e c'è molto da fare. Gli iracheni sono amichevoli ed accoglienti. Vorremmo contribuire a promuovere le opportunità economiche, a creare ponti tra le Chiese orientali e la Chiesa in Occidente, e partecipare al dialogo cristiano-islamico.
D: Come può la comunità cattolica internazionale aiutare la Chiesa nel nord Iraq? Cosa può motivarla a farlo?
Diane: I vescovi ed i sacerdoti della Chiesa cattolica negli Stati Uniti e in altri paesi possono venire nel nord Iraq a vedere la situazione di persona e quindi condividere tale conoscenza. Delegazioni provenienti da Inghilterra e Francia lo hanno già visitato, e la Germania ha preso già accordi a proposito. Gli imprenditori cattolici, gli investitori e gli esperti economici possono visitare l'area e dare consigli sullo sviluppo e sulle opportunità economiche. Le parrocchie di tutto il mondo possono partecipare al programma Adotta una Parrocchia. Questo programma collegherà parrocchie cattoliche all'interno dell'Iraq con parrocchie cattoliche nel resto del mondo. Noi crediamo che una maggiore sensibilizzazione promossa dai media cattolici sulle opportunità per aiutare i nostri fratelli e sorelle motiverà la comunità cattolica internazionale. Siamo chiamati dal battesimo a diffondere il Vangelo ed a proteggere gli innocenti e le persone vulnerabili. Per anni l'Occidente è stato profondamente impegnato nella politica irachena e questo ha avuto un profondo impatto su tutto il paese. Ora, mentre l'Iraq ricostruisce, è il momento di incoraggiare i cattolici a partecipare direttamente alla vita dei loro fratelli e sorelle in Iraq.

Missionary Couple Invites Catholics to Visit Iraq. Says Dioceses Need Support to Preserve Christian Communities

Source: ZENIT

By Genevieve Pollock

ARBIL, Iraq, MARCH 26, 2009
A couple transplanted to Northern Iraq is rallying support for the Church in the region, which needs the worldwide community to aid its time of new hope and rebuilding. Hank and Diane McCormick speak on behalf of several bishops and priests in Iraq, who are offering to help organize and accommodate pilgrims that want to come and help renew and strengthen the Catholic communities in the region.I
n this interview with ZENIT, the couple tells their story, and appeals for the global Catholic community to help the dwindling Christian population preserve their presence and traditions in Iraq.
How did you wind up in Northern Iraq?
Hank: As a missionary for communications and Church relations for SAT-7, a Middle East Christian satellite television company, my initial contact with Iraqi Catholics was to foster increased opportunities for them to share their voice in the Christian television programs of the Middle East. We had been aware of the difficult situation Catholics in Iraq were facing, and were eager to meet with them.
What is the situation of the Church there? What particular needs have you identified among the Catholic communities in Northern Iraq?
Hank: Thousands of Catholics have arrived in Northern Iraq over the past three years. In a two-month period, more than 10,000 families were displaced from Mosul alone, and resettled in the Diocese of Alquoch. Catholics have experienced forced immigration twice in their lives. Early in the Saddam regime they were forcibly moved from their Kurdish villages and relocated to Baghdad and Mosul. Over the 30 years of the regime, those families made Bagdad or Mosul their home. With the collapse of the regime, and the civil violence that followed, Catholic families became victims of religious persecution and financial extortion. They were murdered, kidnapped, and threatened with their lives. Faced with these realities, their only choice was to leave, either to go abroad as refugees, or to head into Northern Iraq. Once again, they were uprooted.In Northern Iraq, they are safe, but they are now a refugee community within their own country. The economic situation is difficult. The priests have resettled everyone in homes. No one is living on the street. However, there are no jobs for these thousands of new people who have moved into the community. Many rely on help from family members abroad. As refugee families they receive a small monthly stipend from the regional government, but it is not enough to live on. The Catholic community needs jobs, educational opportunities, and health care. The Catholics possess the skills and experience to staff schools and hospitals within their new communities if such an opportunity were given to them.
The bishops and pastors of Iraq wrote an appeal last month asking for support from American Catholics. How did this appeal come about?
Hank: The signatories issued this urgent letter of appeal as their personal invitation to the bishops and priests of the Church in the United States to come and meet with them, and to discuss development strategies to integrate the present Catholic population as vibrant members into their new communities. While it is possible to relay some of this information via reports, petitions and statistics, actual visits to the region are essential. Over the past two years, delegations from Western Europe have visited northern Iraq, and more are coming. Now, it is time, they pray, for bishops and priests from the United States to come as well.The Catholic population in Iraq is at risk of disappearing due to such high rates of emigration. In order to preserve the Catholic presence there, a presence that dates back to the time of the Apostles, there is an immediate need for the universal Church to help the local Catholics engage in their new communities. This is a challenging task. Catholics had to flee their established communities, and settle in areas that are ill-equipped to absorb them. Many, for example, have returned to the villages of their fathers -- villages they were forced to evacuate forty years ago. Now, this essentially urban population has been resettled in an agricultural community that offers very few employment opportunities. Also, in the North, which has welcomed the Christians, there are language barriers. Kurdish is the official language of the region, and the Catholics come speaking Surith (Aramaic) and Arabic. The Church was not completely prepared for the ensuing chaos which occurred after the fall of Saddam's regime, or the hostility and persecution that was directed against them. The tremendous numbers of Catholics displaced during those years left the Church scrambling for assistance. The priests and bishops worked alongside of the sisters, deacons, seminarians, and parishioners to see that all gained shelter and food. They are now developing strategic plans to help the Catholics engage in their new communities. An additional concern that the Church is facing is the presence of Evangelical Christians, who are converting Chaldeans, Syrians and orthodox. Often the methods through which these conversions occur are inappropriate. This is some of the background to the appeal. It is a heartfelt plea, inviting the bishops and priests to come to northern Iraq, as guests of the Chaldean Church, to see what is happening "on the ground," and to assist in developing a plan to help them succeed in their quest to live and thrive in Iraq.
What has been your own personal experience in going to Iraq? How do you cope with fear or are you afraid?
Diane: My experience of going to Iraq has been a blessing. I will always be grateful to the Iraqis for welcoming us into their lives. They are people of faith with a strong sense of family and community. I admire them greatly. We moved freely throughout the region without any difficulties. We stayed in Muslim hotels, ate, shopped, and rode in taxis throughout our entire stay and were continuously treated respectfully, pleasantly, and kindly. Our biggest trouble was that our cell phone data plan did not work in Northern Iraq. But thanks to typical Iraqi hospitality, we survived this crisis. After days of trying to fix it on our own, we went down to the center of Arbil, to one of the numerous cell phone stores. The store was so crowded we could barely fit in the door. Someone behind the counter spotted us, disappeared into the back of the store, and reappeared with a young man who announced he was an English major at the university. His English was textbook perfect. After looking at our phone, he asked us to follow him. He exited the store, went down the street, around the corner, and down some stairs to a basement. There sat his 20-year old friend who then worked more than half an hour deleting and adding various programs necessary to fix our data troubles. We not only had a delightful chat with these two young, up-and-coming Muslim business men, but they sent us on our way with our data capabilities restored -- and insisted there was no charge to us because we were foreigners in their country -- it was mere hospitality that they said they knew Americans would extend to them if they came to the United States. My original lack of fear in going to Iraq was based on the guiding principle taught to us by Pope John Paul II: "Be not afraid. God is with you." These words have been the source of our strength for years. Although they are what guided us to Iraq, on our arrival it was apparent that life was proceeding normally, and there was indeed no reason to be afraid.
Hank: It was a wonderful experience for us to visit the country. It was exciting to be with a people whose native language, Aramaic, is the language that was spoken by Our Lord. We traveled throughout the region without fear. We met some of the Chaldean Catholics who had been victims of the post-Saddam violence. They remain cheerful, and hopeful. It was sad for me to realize that the families of so many of these Catholics are split apart, with some members in the West, and others in Turkey or Jordan.The work that the priests and religious are doing is a tremendous witness of Christ’s love. We met a priest from Baghdad who had been kidnapped once, shot in the leg in a second incident, and in a third incident, present in his church as it was bombed. He was up north for a visit, but was going back to his parish in Baghdad. We visited the shrines of the martyred priest Father Ragheed Ganni, and Archbishop Paulos Faraj Rahho of Mosul. These men died for Christ and his Church. Archbishop Louis Sako, of Kirkuk, one of the signatories of this appeal, has been promoting Christian-Islamic unity on the street, in churches, and in mosques. Father Bashar Warda, rector of St. Peter’s Seminary, has overseen the construction -- and reconstruction -- of Catholic Schools in Baghdad, schools that are filled with students of all faiths. These schools are presently receiving enough tuition to cover the total costs of operating the parishes that the schools are connected to. The Sisters of the Immaculate, and the Dominicans, are running orphanages, schools and clinics. I could see the face of Christ in these men and women and the work they do.
You are planning to live in Iraq for the next few years to help the Church. Why?
Hank: The present population has survived decades of terror and violence under Saddam, a war with Iran, two Gulf wars, an international embargo, and the ensuing chaos that followed the fall of Saddam’s regime. Today, amidst 28 million Muslim Iraqis there stand no more than 700,000 Iraqi Christians -- of whom almost 70% are Catholics. They have begun to rebuild their communities. They have begun to piece back together their lives in a new era of hope. We will be honored and blessed to contribute in any way possible to help the Catholics in Iraq preserve their traditions and their presence in their homeland. Iraq is a great place. There are great religious sites and archeological sites to visit, and there is much to do. Iraqis are friendly and welcoming. We would like to help promote economic opportunity, create bridges between the Eastern Churches and the Church in the West, and participate in Christian-Islamic dialogue.
How can the international Catholic community help the Church in Northern Iraq? What can motivate them to do this?
Diane: Bishops and priests from the Catholic Church in the United States and other countries can travel to Northern Iraq to see the situation first hand, and then share that knowledge. Delegations from England and France have already visited, and Germany has made arrangements to go.Catholic businessmen, investors, and economic experts can tour the area, and make recommendations on development and economic opportunities. Parishes around the world can participate in the Adopt-a-Parish program. This program will connect Catholic parishes inside Iraq with Catholic parishes in the rest of the world.We believe that an increased awareness, promoted by the Catholic media, of the opportunities for helping our Catholic brothers and sisters will motivate the international Catholic community. We are called by baptism to spread the Gospel, and we are called to protect the innocent and the vulnerable. For years, the West has been deeply involved in Iraq’s political affairs, and this has had a profound impact on the entire country. Now, as Iraq rebuilds, it is time to encourage Catholics to become directly involved in the lives of their Catholic brothers and sisters inside
Iraq.

Read the appeal to the BISHOP AND PRIESTS OF THE CATHOLIC CHURCH IN AMERICA by clicking
here

25 marzo 2009

Secondo le Nazioni Unite 2 milioni di persone hanno lasciato l'Iraq


by Tina Wolfe

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

Steven gioca con un telefono giocattolo su un materasso senza lenzuola in una minuscola stanza dalle pareti nude e sbrecciate. La madre del bimbo di 4 anni, Nada, lo guarda tenendo in braccio la sua irrequieta sorellina. Molte famiglie di profughi iracheni finiscono nel distretto di Al Fanar a Beirut dove vivono in condizioni di povertà e con l'aiuto di gruppi come la Caritas, un ente di carità cattolico. Sono arrivate a Beirut all'inizio di questo mese dalla città settentrionale irachena di Mosul dopo aver ricevuto una minaccia di morte per telefono. La Caritas, ente cattolico di carità, registra una media di cinque nuove famiglie ogni settimana in Libano. Più di 200 famiglie irachene sono arrivate dopo l'inizio di una violenta campagna anti-cristiana a Mosul lo scorso ottobre.
La maggior parte delle famiglie fuggite hanno ricevuto messaggi o telefonate che ordinavano loro di lasciare le loro case pena la morte. Sei anni dopo l'invasione a guida USA una continua situazione di crisi riguardante i rifugiati smentisce le notizie sulla diminuzione della violenza e di una maggiore sicurezza in alcuni quartieri iracheni.
L'agenzia dell'ONU per i rifugiati (UNHCR) stima che più di 4,5 milioni di iracheni siano stati sradicati a causa del conflitto creando la più grande crisi di rifugiati in Medio Oriente dalla fondazione di Israele nel 1948. Matta aspetta che la sorella si registri presso il centro Caritas al suo arrivo a Beirut da Mosul, Iraq, da dove è fuggita temendo per la sua vita, come Naima e Najet, fuggiti da Mosul con le loro famiglie dopo il rapimento del figlio maggiore. Steven gioca nel piccolo monolocale in cui vive con la madre e la sorella. Circa 2.5 milioni di persone sono sfollate all'interno dell'Iraq mentre più di 2 milioni si sono rifugiate nei paesi vicini, specialmente Siria e Giordania. Di questi l'UNHCR stima che in Libano ne siano arrivati 30.000, di cui circa un terzo cristiani.


Una vita dura

Nada, che come gli altri rifugiati intervistati per questo articolo ha chiesto che il suo cognome non sia riportato per paura che i parenti in Iraq possano essere uccisi, paga 125 $ al mese per la piccola stanza. Anche per gli standards libanesi l'affitto è altissimo. Quattro materassi coprono il pavimento lasciando spazio a due enormi valigie traboccante di abiti. Non ci sono armadi, sedie, tavoli o foto di famiglia. Il bagno è condiviso con un'altra famiglia di rifugiati, così come una piccola cucina con due pentole sul fuoco. I fornelli a gas sono l'unico apparecchio che Nada è riuscita ad acquistare con una buono di 50 $ donato dalla Caritas.
"Compro riso e patate, che è quello che abbiamo mangiato da quando siamo arrivati", dice con la disperazione dipinta sul viso.
Sined El Bouchrieh, un quartiere prevalentemente cristiano di Beirut, è diventato un santuario per i cristiani caldei in fuga dall'Iraq.
Nelle vicinanze ci sono scuole, negozi di alimentari ed un Internet cafè che con un cartello annuncia che una chiamata in Iraq costa 75 centesimi.
Nonostante le dure condizioni di vita la stragrande maggioranza dei rifugiati afferma di non voler tornare in Iraq. Hanno venduto tutto ciò che possedevano e sperano di essere reinsediati in paesi terzi, in particolare negli Stati Uniti. Nel 2008, 1143 rifugiati iracheni in Libano sono stati reinsediati negli Stati Uniti, un numero che si prevede raddoppierà fino a 2500 quest'anno, afferma Laure Chedrawi dell'UNHCR. Già alle 10 del mattino la sala principale dell'ufficio della Caritas, uno dei sei sparsi in Libano a servizio dei profughi iracheni, è pieno di donne e bambini in attesa di incontrare un operatore.
Matta, 38 anni, entra con la sorella appena arrivata. È fuggita da Mosul e rifiuta di farsi fotografare per paura di essere riconosciuta e di mettere in pericolo i suoi cari rimasti a casa. E' venuta a registrarsi presso il centro Caritas ed a prendere delle coperte, una stufa a gas e delle forniture sanitarie. Matta è arrivato sei mesi fa con la moglie, che ora è incinta di tre mesi.
E' riuscito a trovare lavoro come cameraman in una stazione TV e guadagna 400 $ al mese che dice non sono sufficienti per i bisogni fondamentali. Il suo visto libanese è scaduto tre mesi fa e vive nella paura di essere deportato o arrestato. Sua moglie, che lavorava presso una università in Iraq, esce raramente di casa. Nonostante i rapporti parlino di iracheni che tornano a casa non c'è una chiara procedura per stabilirne il numero.
I funzionari delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni che si occupano dei rifugiati affermano inoltre che un ritorno massiccio è improbabile, almeno in tempi brevi, perché la maggior parte di loro temono ancora di essere perseguitati, hanno esaurito le loro risorse e non hanno mezzi per ricominciare da dove hanno lasciato.

Limbo giuridico

In quanto paese non firmatario della Convenzione sui rifugiati del 1951 il Libano non ha alcuna legge a proposito e non riconosce lo status degli iracheni, neanche quelli registrati con l'UNHCR. Una volta che i loro visti scadono gli iracheni sono trattati come immigrati clandestini e se catturati dalle autorità rischiano l'arresto. La maggior parte dei rifugiati iracheni non sono legalmente autorizzati a lavorare in Libano e coloro che di solito lavorano nell'economia sommersa - nel settore delle costruzioni, nei mercati alimentari o nelle fabbriche, guadagnano meno di 200 $ al mese. Una cifra non sufficiente per pagare l'affitto, il cibo, i servizi e la scuola per i loro figli.
L'illegalità li rende vulnerabili allo sfruttamento ed all'abuso da parte dei datori di lavoro e dei proprietari. "Vai al mercato e vedi qualcosa che ti piace e che costa 7 $ e pensi che sia caro. Ma se provi a tirare sul prezzo il venditore dice che ti denuncerà alla di polizia" spiega Matta.
All'inizio di questo mese il governo libanese ha concesso un'amnestia di tre mesi a tutti gli stranieri, compresi gli iracheni, per legalizzare il loro status nel paese con un permesso di residenza e di lavoro. Ma a caro prezzo. Gli iracheni devono pagare un minimo di 1000 $ per legalizzare il loro status ed i loro datori di lavoro devono sponsorizzarli con un deposito di 1000 $ in banca - investimenti che la maggior parte degli iracheni non possono permettersi e pochi datori di lavoro libanesi sono disposti a fare.
Isabel Saade Feghali, vice direttrice della Caritas, ha dichiarato che molti iracheni hanno un disperato bisogno di assistenza medica. "Abbiamo molti casi di malattie croniche, come il cancro, il diabete, malattie cardiache ed asma".
A Najmä, 51 anni, è stato recentemente diagnosticato un cancro alla gola e sta facendo la chemioterapia. Finora il suo trattamento è costato alla Caritas più di 10.000 $. Lei e suo marito, Najet, sono fuggiti dall'Iraq con sette dei loro otto figli. E 'stato il sequestro del figlio di 24 anni che alla fine ha spinto la famiglia a lasciare la casa di Mosul lo scorso maggio per l'incerta vita dei rifugiati. Hanno venduto un redditizio salone di bellezza per pagare le spese tra cui i biglietti aerei ed un deposito di 2000 $ a persona necessario per entrare legalmente Libano.
E questo in aggiunta al riscatto di 9000 $ pagato per la liberazione del figlio. Lasciando il loro appartamento Najmä, che non può parlare a causa delle sue condizioni, chiede se posso aiutarli ad accelerare la pratica del loro reinsediamento. Sperano di andare in California dove il marito, Najet, ha quattro fratelli.

UN estimates 2 million people left Iraq

Source: Washington Times

by Tina Wolfe

Steven plays with a toy phone on a sheetless mattress in a tiny room of bare, chipped walls. The 4-year-old’s mother, Nada, looks on while holding his restless younger sister in her arms. Many Iraqi refugee families end up in Beirut’s Al Fanar district, where they live in poverty and with the help of groups such as Caritas, a Catholic charity. They arrived in Beirut earlier this month from the northern Iraqi city of Mosul after receiving a death threat by telephone. Caritas, a Catholic charity, registers an average of five new families each week in Lebanon.More than 200 Iraqi families have arrived since a violent anti-Christian campaign began in the Mosul last October. Most of the fleeing families received text messages or phone calls ordering them to leave their homes or be killed. Six years after the US-led invasion, a continuing refugee crisis belies reports of falling violence and improved public safety in some Iraqi neighborhoods. The UN refugee agency (UNHCR), estimates that more than 4.5 million Iraqis have been uprooted by the conflict, creating the largest refugee crisis in the Middle East since the founding of Israel in 1948. Matta waits for his sister to register at the Caritas center, a Catholic charity, on her arrival in Beirut from Mosul, Iraq, which she fled on fear for her life, like Naima and Najet who fled Mosul with their family after their eldest son was kidnapped. Four-year-old Steven plays in the tiny one-room apartment he shares with his sister and mother. About 2.5 million are displaced within Iraq, while more than 2 million have taken refuge in neighboring countries, mainly Syria and Jordan. Of those, the UNHCR estimates that Lebanon hosts about 30,000, nearly a third of them Christians.

A hard life

Nada, who like other refugees interviewed for this article asked that her last name be withheld for fear relatives in Iraq would be killed, pays $125 per month for the tiny room. Even by Lebanese standards the rent is enormous. Four mattresses cover the floor, leaving room for two huge suitcases overflowing with clothes. There are no cupboards, chairs or tables, or family photos on display. They share a bathroom with another refugee family, and a tiny kitchen, where two pots steam on a gas cooker. It is the only appliance that Nada has been able to buy with a $50 coupon donated by Caritas.
“I buy rice and potatoes, that´s what we´ve been eating since we came,” she says, desperation written all over her face.
Sined El Bouchrieh, a predominantly Christian district in Beirut, has become a sanctuary for Chaldean Christians fleeing Iraq.
There are nearby schools, food stores and an Internet cafe, where a sign announces that a 3-minute phone call to Iraq costs 75 cents.
Despite the harsh living conditions, refugees overwhelmingly say they will not return to Iraq. They have sold everything they owned and are hoping to be resettled in third countries, especially the United States. In 2008, 1,143 Iraqi refugees in Lebanon were resettled to the US, a number that is expected to more than double to 2,500 this year, says Laure Chedrawi of the UNHCR. By 10 am, the main hall of the Caritas field office, one of six spread across Lebanon to serve Iraqi refugees, is teeming with women and children waiting to meet with a social worker. Matta, 38, walks in with his newly arrived sister. She fled Mosul and refuses to have her photograph taken for fear of being recognized and endangering her loved ones left behind. She has come to register at the Caritas center and to take blankets, a gas heater and sanitary supplies. Matta arrived six months ago with his wife, who is now three months pregnant. He managed to find work as a cameraman at a TV station and earns $400 a month, which he says is not enough to cover their basic needs. His Lebanese visa expired three months ago and he lives in fear of being deported or detained. His wife, who used to work at a university in Iraq, rarely leaves the house. Despite reports of some Iraqis returning home, no clear mechanism exists to track their numbers. Moreover, UN and other refugee officials say that a massive cross-border return is unlikely anytime soon because most still fear persecution, have exhausted their resources and lack means to pick up where they left off in their pre-war communities.

Legal limbo

As a non-signatory to the 1951 Refugee Convention, Lebanon has no domestic refugee law and does not recognize the status of Iraqis, not even those registered with the UNHCR. Once their visas expire, Iraqis are treated as illegal immigrants and if caught by the authorities, they risk arrest. Most Iraqi refugees aren’t legally allowed to work in Lebanon, and those who do usually work in an underground economy - taking jobs in construction, in food markets or factories and earning less than $200 a month. It’s not enough to pay for rent, food, utilities and schooling for their children.
This makes them vulnerable to exploitation and abuse by employers and landlords. “You go to the market and you see something you want to buy for $7 and think it´s expensive. But if you try to negotiate [the price], the vendor says he will report you to the police,” Matta said. Earlier this month, the Lebanese government granted a three-month amnesty for all foreigners, including Iraqis, to legalize their status in the country with a residency and work permit. But it comes at a high price. Iraqis need to pay a minimum of $1,000 to legalize their status, and their employer must sponsor them with a $1,000 deposit in the bank - investments that most Iraqis can´t afford and few Lebanese employers are willing to make.
Isabel Saade Feghali, Caritas´ deputy manager, said that many Iraqis come in desperate need of medical assistance. “We have many cases with chronic diseases, like cancer, diabetes, heart [problems] and asthma,” she said.
Najma, 51, was recently diagnosed with throat cancer and is undergoing chemotherapy. So far, her treatment has cost Caritas more than $10,000. She and her husband, Najet, fled Iraq with seven of their eight children. It was the kidnapping of their 24-year-old son that finally pushed the family to leave home in Mosul last May for an uncertain life as refugees. They sold a prosperous beauty-salon business to help pay expenses, which included plane tickets and a $2,000 deposit per person required to enter Lebanon legally. That was in addition to a ransom of $9,000 for the son’s release. While leaving their apartment, Najma, who can hardly talk because of her condition, asks whether I could help speed up their resettlement. They hope to go to California, where her husband, Najet, has four brothers.

De Mistura: più stabilità e democrazia in Iraq


Il ministro degli Esteri siriano Walid al Muallim è arrivato stamani a Baghdad per una visita ufficiale che si protrarrà per alcuni giorni. Nell'autunno 2006, Damasco e Baghdad hanno ufficialmente ripristinato i loro rapporti diplomatici, interrotti nel 1980. Ieri, intanto, si è conclusa la storica visita del presidente turco Gul a Baghdad, la prima di un capo di Stato turco in Iraq negli ultimi 33 anni. Sono questi segnali di una progressiva stabilizzazione, come sottolinea il rappresentante del segretario generale dell’ONU per l’Iraq, Staffan de Mistura, intervistato da Alessandro Gisotti:
"Negli ultimi sei mesi abbiamo visto progressi veramente straordinari nel campo dei contatti regionali. Pensi all’ultima visita del segretario generale della Lega araba, Amr Moussa, alla visita attuale del presidente turco. La Turchia è un Paese importantissimo tra i vicini di casa dell’Iraq che ha sempre avuto un’attenzione particolare verso la stabilità del Paese del Golfo. Le ambasciate aperte degli Emirati Arabi, del Bahrein, del Qatar, dell’Egitto, della Siria, della Giordania e del Kuwait sono tutte indicazioni in questa direzione. Tutti i vicini di casa dell’Iraq hanno un interesse che sia stabile e unificato. Questo, devo dire, è un messaggio che aiuta anche gli iracheni ad essere responsabili di questa stabilità."
Lei è in Iraq dal settembre del 2007, quali progressi ha registrato nel Paese, quali invece problemi ancora irrisolti, e cosa sta facendo l’Onu al riguardo?
"Nei progressi, un esempio emblematico è stato il progredire del processo democratico. La prova del nove sono state le elezioni in gennaio provinciali in tutto l’Iraq. Abbiamo avuto più di 14 mila candidati. Devo dire che è un risultato assolutamente rispettabile in termini elettorali, cioè democratici. Gli iracheni hanno dimostrato di voler giocare la carta democratica, elettorale, politica nella direzione del loro futuro. Il rischio peggiore, principale, è che ci sia una tensione tra curdi e arabi all’interno dell’Iraq per la questione di Kirkuk, da qui l’intenzione dell’Onu, come per la questione elettorale, di contribuire come aveva fatto l’anno scorso, evitando il referendum e proponendo invece delle formule politiche. Gli iracheni hanno bisogno di vedere un miglioramento della loro qualità di vita in poche parole, elettricità, acqua, sanità e lavoro. Se non c’è questo passaggio, visto che il Paese è ricco, c’è rischio di instabilità, come in qualunque parte del mondo."
Nonostante il miglioramento delle condizioni sul terreno, la cronaca riferisce purtroppo spesso di atti anche violenti contro la minoranza cristiana. Ci sono speranze, secondo lei, che si raggiunga una convivenza pacifica tra le diverse realtà irachene...
"Sì, ci sono, però debbono essere costantemente ricordate. I cristiani danno un contributo fondamentale a quella che è l’economia, ma anche la capacità culturale e tradizionale. Loro appartengono all’Iraq e vogliono continuare ad appartenere a questo Paese. Le elezioni hanno dimostrato che i cristiani hanno il diritto di avere una quota e il primo ministro ha insistito che ci sia una protezione nei loro confronti. Sono a rischio e sono spesso preoccupati. Loro vogliono restare come in un mosaico: basta una pietra che manchi e tutto il mosaico è rovinato."

Rappresentanti di tutte le chiese cristiane riuniti a Baghdad

By Baghdadhope

E' in svolgimento a Baghdad la riunione del Consiglio dei Capi delle Chiese Cristiane in Iraq.
"Ci siamo riuniti" ha dichiarato a Baghdadhope Mons. Shleimun Warduni, Patriarca Vicario caldeo "per fondare questo consiglio che riunirà, si pensa due volte all'anno, tutti i capi delle chiese cristiane in Iraq."
Questo vuol dire che i consigli analoghi già esistenti, per esempio quelli di Baghdad, di Ninive e delle province del nord verranno sciolti?
"No, quelli rimarranno, ma questo nuovo consiglio opererà a livello nazionale riunendo i rappresentanti di tutte le chiese cristiane: cattolica, ortodossa, protestante. Quella di questi giorni è la riunione costituente in cui saranno elaborate le regole, una sorta di statuto, che i lavori del consiglio seguiranno."
Chi lo presiederà?
"L'attuale riunione è presieduta dal Patrarca caldeo, il Cardinale Mar Emmanuel III Delly, ma sono previste elezioni per stabilire chi in futuro lo presiederà e chi ne sarà il segretario."
Chi è presente alla riunione?
"I rappresentanti di tutte le chiese o in persona o con una nota fattaci pervenire. Della chiesa caldea sono presenti il Cardinale Delly, io, Mons. Jacques Isaac e Mons. Andraous Abouna, per l'Antica Chiesa dell'Est il suo patriarca Mar Addai II, per la chiesa latina c'è il vescovo di Baghdad Mons. Jean B. Sleiman, per la chiesa siro cattolica c'è Mons. George Qas Musa, vescovo siro cattolico di Mosul, e c'è Mons. Avak Asadorian, vescovo della chiesa armena apostolica. Tutte le chiese però hanno aderito a questa iniziativa, cattoliche, ortodosse, la Chiesa Assira dell'Est, quella protestante ed anche quella degli Avventisti del Settimo Giorno."
Avete già dei temi di discussione nell'agenda di questa riunione?
"No. Non per adesso, l'agenda dei lavori sarà decisa per la successiva riunione."
Come mai l'esigenza di questo consiglio?
"E' necessario ed anche auspicabile che le chiese, tutte le chiese, si confrontino per meglio affrontare le sfide che il futuro dell'Iraq comporterà per tutti i suoi cittadini. Le nostre diversità troveranno, con l'aiuto del Signore che sempre ci sostiene, un terreno comune. Ciò che tutti desideriamo è il bene del nostro amato paese e per questo lavoreremo."

Gathering in Baghdad of the representatives of all the Christian churches

By Baghdadhope

Meeting in Baghdad of the Council of the Heads of Christian Churches in Iraq.
"We met," declared to Baghdadhope Msgr. Shleimun Warduni, Chaldean Patriarch Vicar "to establish this council that will gather, we think twice a year, all the heads of the Christian churches in Iraq."
Does it mean that the already existing similar councils, such as those in Baghdad, Nineveh and the provinces of the North will be dissolved?
"No, but this new council will operate at national level by bringing together representatives of all the Christian churches: Catholic, Orthodox, Protestant. This is the constituent meeting in which the rules will be set, a kind of status that the works of the council will follow."
Who will chair the Council?
"The current meeting is chaired by the Chaldean Patriarch, Cardinal Mar Emmanuel III Delly, but there will be elections to determine who will preside it in the future and who will be the secretary."
Who is attending the meeting?
"Representatives of all the churches. Those who are not phisically present sent a written note. For the Chaldean church there are Cardinal Delly, me, Msgr. Jacques Isaac and Msgr. Andraous Abouna, for the Ancient Church of the East there is its Patriarch Mar Addai II, for the Latin church there is the bishop of Baghdad Msgr. Jean B. Sleiman, there is Msgr. George Qas Musa, Syriac Catholic bishop of Mosul, and there is Msgr. Avak Asadorian, bishop of the Armenian Apostolic Church. All the churches, however, have joined this initiative, Catholic, Orthodox, Assyrian Church of the East, Protestant and the Seventh-Day Adventist Church.
Are there some topic of discussion in the agenda of this meeting?
"No. Not for now, the agenda will be decided for the next meeting."
Why this Council?
"It is necessary and desirable that the churches, all churches, meet in order to better face the challenges that the future of Iraq will bring to all its citizens. Our diversity will find, with the help of the Lord who always supports us, a common ground. What we all want is the good of our beloved country and for this we will work."

24 marzo 2009

Dalla Toscana un centro per i giovani di Baghdad

Fonte: Toscana oggi

di Andrea Fagioli

Un centro polivalente aperto a tutti i giovani. È questo il sogno dell’arcivescovo di Bagdad, Jean Benjamin Sleiman, che potrebbe diventare realtà grazie all’intervento della Fondazione Giovanni Paolo II, una onlus promossa dalla diocesi di Fiesole con l’intento, dopo un decennale impegno per la Terra Santa, di operare a favore dei cristiani e delle popolazioni dei Luoghi santi e delle altre regioni del mondo che vivono in difficoltà.
Ospite in Toscana, l’arcivescovo di Bagdad (63 anni, originario del Libano, dal 2001 in Iraq) ha spiegato che «per troppo tempo in Iraq si è vissuto come se non esistesse un periodo della vita chiamato gioventù. Ora – dice – dobbiamo ripartire proprio dai giovani». E l’idea è quella di creare un centro dove si possa fare formazione, non solo religiosa, ma anche culturale. «L’importante – a giudizio di Sleiman – è aiutare la gioventù a vivere la reciprocità e l’uguaglianza. Le Chiese sono state sempre uno spazio di libertà per i giovani. Noi vogliamo organizzare questa libertà e questo spazio per loro».
Per la realizzazione del centro, che dovrebbe sorgere su un terreno attiguo alla cattedrale di Bagdad, si sta appunto mobilitando la Fondazione Giovanni Paolo II, che inizierà a raccogliere fondi, studiare progetti e poi seguirà passo passo i lavori nella capitale irachena come finora ha fatto con tutte le realizzazioni in Terra Santa e quelle avviate di recente anche in Siria e in Libano.
«I giovani – dice Sleiman – sono la realtà su cui puntare, rappresentano il futuro. Per troppo tempo la gioventù non ha avuto in Iraq lo spazio che meritava».
Il centro potrebbe anche favorire la permanenza dei cristiani, ridotti ormai a un’esigua minoranza. Si parla di una cifra tra i 400 e i 500 mila, di cui l’80 per cento cattolici, su una popolazione di 25 milioni. «Purtroppo non è facile avere dei numeri precisi – dice Sleiman –. Qualche anno fa si parlava di un milione, ma molti se ne sono andati: un vero e proprio esodo dettato dalla paura».
Anche andare alla Messa può essere pericoloso, nonostante che di fronte alle chiese non si facciano parcheggiare o passare le auto, che rappresentano ancora uno dei mezzi più usati per gli attentati. «A Bagdad – spiega ancora l’arcivescovo – ci sono una sessantina di chiese: la metà sono chiese caldee. Noi latini ne abbiamo solo quattro, anche se regolarmente officiate, senza contare i conventi che hanno le loro. Tutte e quattro le nostre chiese sono rette da religiosi. Noi latini insieme agli armeni siamo le comunità più piccole».
È infatti variegato il panorama delle Chiese cristiane in Iraq. Gli stessi cattolici si distinguono tra caldei, siro-cattolici, armeni cattolici, greci cattolici e latini. Poi ci sono gli ortodossi (a loro volta suddivisi in numerose comunità) e i protestanti. «Il dialogo comunque c’è – dice l’arcivescovo latino –, anche con protestanti e ortodossi. A febbraio, ad esempio, c’è stato un raduno di tutte le Chiese cristiane dell’Iraq e per la prima abbiamo parlato a una sola voce arrivando a decidere di fare qualcosa tutti insieme a favore dello sviluppo integrale della persona».
Un aiuto monsignor Sleiman se lo aspetta anche dai cristiani di casa nostra: «Ogni scambio – dice – è già di per sé un incoraggiamento, ma la Chiesa in Occidente deve incoraggiare la Chiesa in Iraq a prendere coscienza del proprio ruolo, dell’importanza che ha per tutti. L’Oriente cristiano esiste e può svolgere un ruolo molto positivo a servizio della pace, della coesistenza e dei rapporti culturali. La presenza cristiana nei Paesi arabo-islamici va protetta e sostenuta. Oggi dobbiamo capire una cosa importante: se si lascia l’islam da solo sarà peggio per tutti, finirà per dialogare con se stesso. I musulmani più illuminati ce lo chiedono già: non lasciateci soli».

24 marzo 2009: In catene per Cristo liberi di amare

Fonte: Movimento Giovanile Missionario

24 marzo 2009: GIORNATA DEI MISSIONARI MARTIRI

ELENCO DELLE MISSIONARIE E DEI MISSIONARIUCCISI NELL’ANNO 2008
S.Ecc. Mons. Paulos Faraj Rahho
Iraq
Arcivescovo Caldeo di Mosul (Iraq)
13 marzo (?) – Mosul (Iraq)

Nel giorno che ricorda l'uccisione di Mons. Oscar Arnulfo Romero, il 24 marzo del 1980, la Chiesa Italiana si ritrova per celebrare una giornata di preghiera e digiuno facendo memoria dei missionari martiri e di quanti ogni anno sono stati uccisi solo perché incatenati a Cristo. La ferialità della loro fede fa di questi testimoni delle persone a noi vicine, modelli accessibili, facilmente imitabili. Don Gianni, Direttore Nazionale delle Pontificie Opere Missionarie ci parla del tema della XVII Giornata: In catene per Cristo, liberi di amare. Di seguito il materiale per celebrare e vivere personalmente e comunitariamente la giornata e il progetto in India che sarà finanziato con le offerte raccolte.
Manifesto [ZIP]
Dossier Agenzia Fides [DOC]
Indicazioni per vivere la Giornata [PDF]
Progetto di solidarietà [PDF]
Elenco Missionari Uccisi [PDF] [DOC]
Riflessione Tematica [PDF]
Veglia di Preghiera [PDF] [DOC]
Adorazione Eucaristica [PDF] [DOC]
Via Crucis [PDF] [DOC]
Celebrazione Ecumenica [PDF] [DOC]

Nella pace monastica dell’Abbazia delle Tre Fontane di Roma centinaia di giovani si sono ritrovati all’inizio dello scorso ottobre per vivere insieme la conclusione della Carovana Missionaria della Pace 2008, celebrando insieme una Veglia di preghiera al sabato notte e una coinvolgente Eucaristia domenicale la mattina seguente.
Lo spazio dell’Abbazia è particolarmente suggestivo perché la tradizione ce lo consegna come luogo del martirio di san Paolo, l’apostolo che aveva assistito – come Saulo – al sacrificio del primo martire Stefano e che come lui sarà messo in catene, senza perdere mai la libertà di amare e di annunciare con le parole e con i fatti la forza e la gioia del Vangelo.
Nei suoi scritti Paolo più volte rivendica di avere patito in varie forme sofferenze per Cristo e nello stesso tempo di avere patito anche per la sua “preoccupazione per tutte le Chiese”, per le quali invocava dal Signore con una sofferenza quasi fisica il dono della fedeltà al Vangelo ricevuto.
L’anno 2008 appena trascorso consegna alla storia della Chiesa un altro lungo elenco di sofferenze, di uccisioni, di assurdità, di diritti negati anche ai cristiani e spesso proprio a causa della loro appartenenza religiosa.
Pensiamo agli eventi dell’India, della Nigeria, della Somalia, dell'Iraq, del Darfur, del Nord Kivu e della Terra Santa, alle difficoltà tuttora vissute in Cina così come in molte regioni segnate da fondamentalismi religiosi e politici. Accanto allo sgomento e all’angoscia per la sorte di migliaia di persone abbiamo conosciuto commoventi testimonianze di pace e di perdono da parte di coloro che sono stati messi davvero in catene per Cristo, liberi di amare.
Pensiamo che dietro a ogni missionario martire o ucciso o rapito o perseguitato vi sono le sofferenze costanti delle loro comunità, la precarietà della vita quotidiana, le minacce a molti umili testimoni del Vangelo, specialmente laici e laiche, che non godono di mobilitazione di folle e di giornali e la cui difesa è spesso affidata alla sola voce di missionari e missionarie che condividono ogni piega di quelle situazioni, motivati solo dalla forza dell’amore.
In catene per Cristo, liberi di amare: san Paolo è non solo l’autore, ma anche il robusto esempio di questo messaggio. Esso chiede indubbia solidarietà con le comunità sofferenti, ma chiede anche a ciascuno di noi di realizzare nella preghiera, nel digiuno e nella vita quella intercessione che non è rassegnazione alle contese, alle negazioni dei diritti, alle logiche della violenza, ma è uno stare in mezzo, inventando gesti e relazioni di riconciliazione e tenendo comunque presente la misteriosa parola che Gesù riserva a quanti sono perdenti agli occhi del mondo, ma beati agli occhi di Dio: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi» (Mt 5,11-12).

20 marzo 2009

Una minuscola comunità cristiana in Iraq

Fonte: AFP

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

Gli armeni sono stati a lungo uno delle più piccole comunità con poca influenza politica, anche contando tra i suoi antichi membri la donna più ricca dell’Iraq ed il "Signor 5%" del petrolio iracheno.
Il basso profilo ha consentito alla piccola comunità cristiana nell’Iraq a maggioranza musulmana di prosperare fin da quando i primi mercanti si avventurarono in Mesopotamia - la terra tra i fiumi - e vi si stabilirono nel XVII secolo.
A differenza dei Caldei che rappresentano la maggioranza dei cristiani del paese martoriato dalla guerra e che sono emigrati in massa, gli armeni pensano di rimanerci ha dichiarato l’Arciprete Nareg Ishkhanian. "Questa è anche la nostra terra. Siamo qui per rimanerci" pur avendo "a volte problemi con i fanatici” (islamisti) ha aggiunto il 63enne Ishkhanian.
La comunità conta oggi circa 12.000 membri -7.000/8.000 a Baghdad - su una popolazione irachena di circa 29 milioni di persone. Negli anni 50 essa contava 35.000 membri la maggior parte dei quali erano i sopravvissuti ed discendenti di ciò che gli armeni definiscono il genocidio della Turchia ottomana del 1915. Ankara ancora oggi nega qualsiasi accusa di genocidio.
Ma la presenza armena in Iraq risale al XVII secolo quando i mercanti si stabilirono lungo un territorio che si estendeva attraverso l'Iran e l'India fino al porto di Bassora sul Golfo, oggi nell’ Iraq meridionale, fino a nord a Baghdad. La loro chiesa principale nel centro di Baghdad, in Piazza Tehran [1], conserva documenti risalenti al 1636. Almeno 45 armeni sono stati uccisi negli anni di dilagante insurrezione, guerra settaria e spesso sfrenata criminalità post-Saddam, mentre altre 32 persone sono state rapite per riscatto, due delle quali risultano ancora oggi scomparse. Il 7 dicembre 2004, durante la notte fu attaccata una nuova chiesa nella città settentrionale di Mosul, un bastione di Al-Qaeda, pochi giorni prima della sua inaugurazione. Come tutti gli iracheni gli armeni sono stati coinvolti dallo scoppio di autobomba, uccisi durante delle rapine, o per errore dai soldati degli Stati Uniti o dagli appartenenti alla ditta di sicurezza privata Blackwater.

Storicamente gli armeni in Iraq non hanno mai contestato il regime dominante. Essi sono stati vicino ai pascià durante il dominio ottomano ed al successivo dominio coloniale inglese.
Il dittatore Saddam Hussein non li riteneva una minaccia tanto che essi formavano la maggioranza del suo personale domestico, dalle governanti al sarto personale, dal falegname al fotografo ufficiale. Ishkhanian ha insistito nel rendere omaggio al paese ospitante nonostante la sua storia turbolenta che ha causato ondate migratorie durante le quale specialemente i più ricchi hanno iniziato una nuova vita in Occidente. "Siamo in debito con gli arabi", ha detto. "Hanno fatto di tutto per accoglierci. Ci hanno permesso di vivere e di crescere nella società dopo che i sopravvissuti armeni, molti dei quali orfani, erano arrivati scalzi dalle marce della morte attraverso il deserto."
All'altra estremità dello spettro la famiglia Iskenderian – da tempo stabilitasi in Iraq – reclama parte della Zona verde nel centro di Baghdad che comprende uno dei palazzi di Saddam e che è ora sede del governo iracheno e dell’enorme ambasciata americana. Un'altra importante famiglia, la Kouyoumdjians, fa risalire le proprie origini in Iraq ad un periodo precedente alla relazione di parentela e di affari con Calouste Gulbenkian, il famoso signor 5% del petrolio iracheno di un secolo fa.
Vasti appezzamenti di terreno a Falluja, in passato epicentro della rivolta anti-USA, ancora appartengono alla famiglia. Il primo re iracheno, Faisal, era solito fermarsi per il tè nel loro castello – ora distrutto - sull'Eufrate. Contemporaneamente Dikran Ekmekjian, che fu insignito di un MBE per il suo servizio all’impero britannico contribuì a formare ed ebbe vari incarichi nella prima amministrazione irachena dopo l'indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1932.
La televisione satellitare irachena ha anche trasmesso una serie sulla storia di Sara al-Zangina [2] (La ricca Sarah), un’ereditiera armena benefattrice dei superstiti al massacro le cui ricchezze furono bruciate da un esecutore testamentario senza scrupoli. Tante sono le storie che narrano la sua bellezza giovanile, di come fu fatta fuggire dalle attenzioni di un anziano pascià nascosta in un tappeto persiano, delle favolose feste che diede in Oriente dopo che lui fu richiamato ad Istanbul.
Oggi la principale chiesa di Baghdad fa parte di un complesso che comprende una scuola elementare, l'arcivescovado e cimitero. Il cimitero da solo occupa un’aerea di 5.000 metri quadrati di terreno di altissimo valore.
Il preside Karnik Avakian ha raccontato come la scuola abbia riaperto nel 2004 dopo essere rimasta chiusa per la maggior parte del periodo di governo del partito Baath di Saddam durante il quale tutti gli iracheni dovevano frequentare le scuole statali. Ma anche nell’Iraq di Saddam erano permesse lezioni di lingua armena e studi religiosi, ha detto Avakian, la cui la scuola elementare ha 150 studenti appartenenti a 70 famiglie.
La vetrate colorate della chiesa sono state distrutte su un lato a causa delle molte esplosioni nella vicina Piazza Teheran. Ma i suoi lampadari in cristallo ancora testimoniano la vecchia ricchezza della comunità armena. In una dimostrazione di fede nel nuovo Iraq la chiesa è stata appena ridipinta. Alla fine di un altro giorno di piccole ristrutturazioni Ishkhanian ha riflettuto sulla storia della comunità mentre le tende sull'altare venivano chiuse per il periodo di digiuno quaresimale che precede la Pasqua. "I ricchi sono andati via tutti. Ora siamo noi i ricchi perché serviamo la chiesa e la comunità", ha detto.
L’invasione a guida americana del marzo 2003 ha portato migliaia di armeni a fuggire in Armenia, Siria e Libano. Altri si sono risistemati negli Stati Uniti, in Svezia ed in Olanda. "Molti di loro stanno tornando grazie al miglioramento della sicurezza nel paese", spiega Ishkhanian, mentre Avakian aggiunge che alcune famiglie stanno pensando di tornare dai loro rifugi nella sicura zone curda nel nord dell'Iraq.

[1] Tayeran Sq. Note by Baghdadhope
[2](La Ricca Sara) o Sarah Khatoun era conosciuta come una delle donne più riche e generose di Baghdad. Tuttora Camp Sarah Khatoun nel sobborgo di Riyadh porta il suo nome. Note da Azad Hye web site. Middle East Armenian Portal