"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

30 novembre 2010

A Sua Immagine - VIDEO DIARIO DA BAGHDAD

By Baghdadhope*

Guarda la prima puntata del Video Diario da Baghdad alla fine dell'Angelus del Santo Padre cliccando sul collegamento qui sotto.
(14 novembre 2010)

Da 00.30.35
Video Rai.TV - A Sua Immagine - Domenica 14 novembre

Guarda la seconda puntata del Video Diario da Baghdad alla fine dell'Angelus del Santo Padre cliccando sul collegamento qui sotto.
(21 novembre 2010)

Da 00.39.30
Video Rai.TV - A Sua Immagine - Domenica 21 novembre

Guarda la terza puntata del Video Diario da Baghdad alla fine dell'Angelus del Santo Padre cliccando sul collegamento qui sotto.
(28 novembre 2010)

Da 00.39.oo

Bishops Commend House Resolution Seeking Protection for Religious Minorities in Iraq

By United States Conference of Catholic Bishops

WASHINGTON (November 29, 2010) — The U.S. bishops commended a resolution in the House of Representatives that condemns recent attacks on religious minorities in Iraq and calls for the U.S. government to work with the Iraqi government to protect these vulnerable groups.
In a November 29 letter to the sponsors of House Resolution 1725, Bishop Howard Hubbard of Albany, New York, chairman of the United States Conference of Catholic Bishops’ (USCCB) Committee on International Justice and Peace, and Archbishop Jose H. Gomez, co-adjutor archbishop of Los Angeles and chairman of the USCCB Committee on Migration, called for its immediate passage.
The resolution was introduced November 18 by Representative Chris Smith (R-NJ) and co-sponsored by Representatives Frank Wolf (R-VA), Anna G. Eshoo (D-CA), Mark S. Kirk (R-IL), Gary C. Peters (D-MI), Joseph Pitts (R-PA), and Trent Franks (R-AZ),).
“Our conference welcomes this bipartisan resolution as a way to focus attention on the situation of the vulnerable religious communities in Iraq,” the bishops wrote. “In particular,” they added, “we support the emphasis on developing a comprehensive plan to improve security for religious minorities and to increase their representation in the Government of Iraq and to include them in all aspects of Iraqi society.”
In their letter, the bishops referenced the recent attack in Our Lady of Salvation Church in Baghdad.
“The October 31 attack on worshippers in Our Lady of Salvation Church in Baghdad that killed 58 and wounded 75 and the continuing violence against Christians are horrific reminders of the appalling lack of security that has condemned many in Iraq to live in fear,” the bishops said. The House resolution condemns the attack against Our Lady of Salvation Church.
The bishops also welcomed the resolution’s concern for Iraqi refugees and supported its call for measures to accelerate the review of their applications for resettlement and to improve conditions on the ground so that refugees may safely return to Iraq.
“We sincerely hope that H. Res. 1725 will be adopted quickly by the House of Representatives as we believe it will help improve security for all Iraqis, especially Christians and other vulnerable minorities,” the bishops said. “We hope it will contribute to the overall goal of achieving a “responsible transition” that will reduce further loss of life and address the refugee crisis in Iraq.”

Usa: i vescovi plaudono la Risoluzione della Camera sui cristiani in Iraq

By Radiovaticana
a cura di Lisa Zengarini

I vescovi degli Stati Uniti plaudono la Risoluzione 1725 della Camera dei Rappresentanti che condanna i recenti attacchi contro le minoranze cristiane in Iraq e chiede all’amministrazione americana di collaborare con il governo iracheno per proteggere le minoranze nel Paese.
“La nostra Conferenza episcopale saluta con favore questa risoluzione bipartisan che servirà a richiamare l’attenzione sulla situazione delle comunità religiose vulnerabili in Iraq”, si legge in una lettera firmata da mons. Howard Hubbard e da Jose H. Gomez, presidenti, rispettivamente, delle Commissioni per la giustizia e la pace internazionale e per i migranti della Usccb. I vescovi appoggiano in particolare l’idea avanzata nella risoluzione di elaborare un piano di ampio respiro per garantire più sicurezza e una maggiore rappresentanza in seno al governo iracheno alle minoranze religiose. A questo proposito, essi rilevano come l’attacco del 31 ottobre contro la chiesa caldea di Nostra Signora della Salvezza a Baghdad abbia lanciato “un terribile avvertimento sulla spaventosa mancanza di sicurezza che ha condannato molti iracheni a vivere nel terrore”.
La Conferenza episcopale afferma di condividere anche la richiesta di garantire una nuova sistemazione ai rifugiati iracheni e un loro rientro sicuro in patria. La lettera conclude quindi con l’auspicio che la risoluzione, presentata lo scorso 18 novembre, sia approvata quanto prima: “La nostra speranza è che essa possa contribuire all’obiettivo generale di arrivare a una ‘transizione responsabile’ che permetta di ridurre la perdita di vite umane e affrontare la crisi dei rifugiati in Iraq”.

La strage silenziosa dei cristiani in Iraq: tema della tavola rotonda ieri a Roma

By Radiovaticana
a cura di Fausta Speranza

Nel mondo su 10 persone 7 soffrono di violazione della libertà religiosa. E su 100 morti per motivi religiosi 57 sono cristiani. E’ quanto ha ricordato l’europarlamentare Mario Mauro, Rappresentante personale dell’Ocse per la lotta contro il razzismo e la persecuzione ai cristiani, nella tavola rotonda che si è svolta ieri sera a Roma presso la Sede dell’Università Lumsa. Il Rettore, prof. Dalla Torre, ha letto il messaggio di mons. Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, che non ha potuto essere presente ma ha espresso parole di preghiera per il rispetto ovunque della vita e della libertà religiosa dei cristiani.
Tema del dibattito è stato “Guerra ai cristiani”, come il titolo del volume di Mario Mauro che documenta minacce e violenze ai cristiani nel mondo. Hanno partecipato il direttore di Asianews, padre Bernardo Cervellera, e i due giornalisti, Monica Maggioni e Gian Micalessin, che hanno realizzato un reportage sulle intimidazioni e i massacri di cristiani in Iraq. Dunque di Iraq si è parlato in particolare. In ogni caso, è emerso chiaramente che a Baghdad, Mossul o altre città irachene così come in altre parti del mondo, i cristiani vengono presi di mira perché sono la comunità che per il valore profondo di fratellanza che viene dalla loro fede, più si contrappone alla logica violenta del fondamentalismo islamico.
Mario Mauro ha ricordato che Giovanni Paolo II definiva la libertà religiosa “cartina tornasole” di tutte le altre libertà perché la libertà religiosa mette a nudo l’approccio che il potere ha con la persona umana, con la sua dimensione spirituale.
“Dove potere significa ideologia, teocrazia, l’uomo diventa niente di fronte al potere”, ha spiegato l’europarlamentare aggiungendo che il cristianesimo non potrà mai aderire a questa logica perché al centro di tutto negli insegnamenti di Cristo c’è l’uomo e la sua dignità di essere stato creato a immagine di Dio. Il prof. Dalla Torre ha sottolineato l’importanza di non trascurare quanto accade non solo per solidarietà umana verso chi soffre ma anche perché in questa epoca in cui “si parla tanto di diritti umani si rischia che i più fondamentali diritti umani vengano violati nell’impotenza e l’indecisione delle istituzioni internazionali”.
Va ricordato che il Parlamento dell’Unione Europea ha votato la settimana scorsa una Risoluzione in difesa dei cristiani in Iraq condizionando gli aiuti al rispetto di molte libertà tra cui chiaramente espressa quella della libertà religiosa. Ma è stata fatta notare l’assenza di pronunciamenti significativi da parte dell’Onu.
Di indifferenza mediatica ha parlato Monica Maggioni, sottolineando che di Iraq e tantomeno di violenze quotidiane non si parla mai, ad eccezione di frettolose coperture di eventi particolarmente drammatici come la recente strage alla chiesa caldea di Baghdad. L’inviato di guerra Gian Micalessin ha affermato che “nel ritiro delle truppe straniere il ‘grande dimenticato’ è stata la comunità dei cristiani”.

Provo a dimenticare, ma vedo sempre la chiesa insanguinata a Baghdad

By Asia News
di Giulia Mazza

Provo a dimenticare quanto accaduto”, ma “non appena sto da solo inizio a pensare, mi tornano alla mente tutte le immagini di quello che ho vissuto lì. Fa male, mi sento scioccato, è impossibile descrivere quelle situazioni”. A parlare così è un cattolico iracheno, uno dei “fortunati” sopravvissuti all’attacco portato il 31 ottobre da uomini di al Qaeda alla chiesa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso di Baghdad. Ha schegge di granata nella schiena e nelle gambe. Per altre 58 persone è andato peggio, hanno perso la vita: tra loro, 46 fedeli che erano andati a messa e i due sacerdoti che celebravano. Oltre 70 sono i feriti. Di questi, circa 37 (i casi più gravi) sono stati trasferiti in Francia lo scorso 8 novembre, altri 26, insieme con i loro familiari, sono stati ricoverati a Roma, dove hanno parlato con AsiaNews.
“Era domenica, la messa del pomeriggio era appena iniziata. Poco dopo la lettura del Vangelo, verso le 17,15, abbiamo iniziato a sentire rumori di una sparatoria fuori dalla chiesa. Don Tha’er, che celebrava la funzione, ha cercato di calmarci dicendo di pregare tutti insieme. Il rumore si è fatto più alto, poi abbiamo sentito una forte esplosione e i terroristi sono entrati nella chiesa – saranno stati cinque, sei in tutto – e hanno iniziato a sparare dappertutto”.
Ci ha chiesto di restare anonimo. “Per motivi di sicurezza”, spiega. Non una parola su quella che era la sua vita prima dell'attentato. Dice solo: “Ho sempre preso parte alle attività pastorali della chiesa, ero amico di entrambi i sacerdoti, don Tha'er e don Wassim». 32 anni il primo, 27 il secondo”, entrambi falciati dai colpi dei terroristi. “Io ero seduto al primo banco, come al solito, e appena hanno fatto irruzione mi sono buttato a terra per proteggermi. Don Tha’er mi ha chiamato e mi ha detto: ‘Prova a far entrare tutti in sagrestia’. Erano momenti difficili, perché gli attentatori sparavano ovunque. Stavo entrando insieme ad altri in sagrestia, quando ho visto non molto lontano una ragazza ferita al collo. Non sapevo cosa fare, se aiutarla o correre anch’io e mettermi in salvo”.
Doveva essere un'intervista. Ma alla prima domanda: “Hai voglia di parlare, di raccontare quanto accaduto?” è seguito un racconto-fiume. Impossibile da fermare. “Vedevo quella ragazza ferita. Ho deciso di andarla a prendere per portare dentro anche lei. L’ho presa e me la sono caricata sulle spalle, ma uno dei terroristi mi ha visto e ha gettato contro di noi una granata: la ragazza è morta e io sono rimasto a terra ferito. Mi sono finto morto. Mentre ero a terra ho visto don Tha’er che cercava di difendere i chierichetti: li ha abbracciati e coperti sotto l’abito talare, per proteggerli, come a volerli nascondere. Uno degli uomini l'ha aggredito, cercava di buttarlo giù, ma lui ha resistito ed è rimasto in piedi, e alla fine il terrorista lo ha ucciso. Sentivo le grida della gente, nella chiesa, che aveva paura, quando a un certo punto ho sentito una voce, non saprei dire chi fosse, urlare ai terroristi: ‘Noi moriamo, moriamo, va bene. Però viva la croce’. Chiunque fosse, è stato ucciso subito”.
I fatti di quella drammatica giornata sono ancora vivi e dolorosissimi nel suo ricordo, e in quello degli altri sopravvissuti. Fotogrammi nitidi fin nei particolari, impressi per sempre. Indelebili.
“I terroristi non facevano che girare e sparare dappertutto. Quando uno di loro mi è passato accanto, ho visto che indossava una cintura esplosiva. Che avessero un piano era evidente. Ai lati dell’altare hanno messo due cecchini, altri due verso metà navata e uno sul piano superiore. Parlavano tra di loro con una radio, ripetendo che tutto stava andando come da progetto. La chiesa è stata scelta proprio per la sua struttura: è un corpo unico in cemento armato, con tre ingressi principali, due laterali e l’altare posto in fondo alla navata. Fuori, all’ingresso della chiesa, c’è una croce alta 49 metri, speculare alla profondità della chiesa. Dico che la scelta è ricaduta su Nostra Signora del Perpetuo Soccorso per come è costruita, perché le finestre si trovano solo in alto, verso il piano superiore. In questo modo tutte le esplosioni che ci sono state all’interno della chiesa hanno fatto ancora più danni, perché gli sbocchi per far diminuire gli effetti delle esplosioni sono a un'altezza molto superiore al normale. Ecco perché non facevano altro che gettare granate sulle persone. Quelli che sono usciti vivi dalla chiesa sono quelli che si sono finti morti, come me”.
“A un certo punto, quando ero a terra ferito, ho cercato di avvicinarmi all’altare e nascondermi dietro un muro. Arrivato lì, ho messo una salma sopra di me per nascondermi. Ciononostante riuscivo a sentire quello che si dicevano. Uno dei terroristi era rimasto ferito, e continuava a dire al suo comandante: ‘Sono ferito, faccio saltare la cintura esplosiva così diventerò martire, e vado subito in paradiso’. In un primo momento quello che doveva essere il comandante del gruppo gli ha detto di aspettare, che non era ancora il momento. Allora l'uomo ferito ha detto: ‘No, sto soffrendo troppo, sono stato colpito’. Il comandante gli ha dato il permesso, l'altro l'ha salutato dicendo: ‘Va bene, ci vediamo in paradiso’. E si è fatto esplodere. I suoi compagni allora hanno cominciato a gridarci: ‘Voi siete miscredenti, voi andrete all'inferno mentre noi andremo in paradiso, Dio è grande’”.
I segni di quei lunghi momenti di orrore sono ben visibili sul suo volto. Gli occhi neri tradiscono l'incredulità. La voce, a tratti, ancora trema: “Durante quelle cinque ore di assedio, i terroristi hanno reso la nostra chiesa una moschea. Gridavano le loro invocazioni islamiche, e hanno fatto per due volte la preghiera del tramonto, quella della sera e del pomeriggio. Dopo che l'uomo si è fatto saltare in aria, i suoi compagni sono come andati fuori di testa: sparavano dappertutto.
All'inizio non si sono resi conto che quasi 60 persone si erano nascoste nella sagrestia [tra cui il vicario episcopale, 75 anni, ferito]. Ma quando se ne sono accorti, hanno cercato di sfondare la porta di legno, senza successo: le persone infatti l'avevano bloccata dall'interno con degli armadi di metallo. Allora gli attentatori hanno iniziato a lanciare granate contro la porta, fino a quando non sono riusciti a creare un varco. A quel punto però sono tornati verso l'entrata principale, perché le forze irachene tentavano finalmente di fare irruzione. Io ho approfittato di quel momento e sono strisciato fino alla porta della sacrestia. Cercavo di farmi riconoscere, ma le persone all’interno non volevano aprirmi, per timore che fossi un terrorista. Poi una ragazza ha riconosciuto la mia voce, hanno socchiuso la porta e mi hanno tirato dentro. Sono rimasto con gli altri, bloccati nella sagrestia, e ho visto che molti erano feriti, e con le ultime esplosioni una ragazza e altri due erano morti”. “Dovete sapere che la sagrestia ha anche un'altra porta, di ferro, che dà all'esterno, molto pesante e quindi difficile da aprire. Con un cellulare sono riuscito a chiamare un capo delle forze armate, che conoscevo, per chiedergli di aprire quella porta e farci scappare. Ma l'uomo mi ha detto che era impossibile, perché la porta era chiusa a chiave e avremmo dovuto aprirla noi. Alla fine della telefonata, mi ha detto che le forze armate stavano per entrare, e che sarebbe stato un intervento molto duro. Una ragazza e una bambina hanno ascoltato la conversazione e si sono spaventate, perché un attacco del genere avrebbe potuto distruggere la chiesa, con noi dentro. Così ho abbracciato la ragazza e la bambina, ci siamo buttati a terra e io ho fatto loro scudo con il mio corpo. La mezz'ora successiva è stata un inferno: un attacco terribile, con bombe e razzi: i terroristi rimasti hanno fatto esplodere le loro cinture non appena sono intervenuti i militari. È stata una carneficina. Quando finalmente i soldati ci hanno liberato ci hanno fatto uscire dalla porta principale”.
Sembra il racconto di un film, ma non lo è. Un racconto che lascia spazio alle domande che dovranno avere una risposta: “L'atteggiamento del governo e delle forze armate, è stato un po' strano. Se conosci la planimetria della chiesa, sai quali sono i punti deboli dai quali poter entrare per fare irruzione. Dove ci sono le finestre, in alto, c'è un tetto che circonda la chiesa largo un metro, un metro e mezzo. Sopra c'è un tetto più alto, dove puoi mettere i commando, e da lì poi entrare attraverso le finestre. Potevano andare e prenderli uno per uno [i terroristi]. Ma non è solo questo a essere insolito. Quando alcune persone che erano lì fuori – familiari, gente che lavorava nei dintorni – sono andate a chiedere ai soldati se avevano bisogno di una mano, si sono sentite rispondere: ‘Andate via, questi non sono affari vostri’. I militari poi sono intervenuti solo dopo cinque ore, quando i terroristi avevano ormai usato tutte le loro armi”.
“Don Tha'er, il sacerdote che celebrava la messa, è morto perché voleva salvare dei bambini. Insieme a don Wassim, che al momento dell'attacco era nel confessionale, hanno cercato di parlare con i terroristi per convincerli a lasciar andare la gente e i bambini, e prendere solo loro due come ostaggi. Hanno offerto la loro vita. Don Wassim, quando ha fatto per scendere dall'altare e andare verso i terroristi, è stato freddato da uno di loro. L'ultima frase di don Tha'er, morto davanti agli occhi di sua madre [sopravvissuta e ora ricoverata in Francia], è stata: “Gesù, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Di lui ricordo una frase, che ripeteva sempre a tutti quelli che vivevano momenti difficili della loro vita: “Sorridi perché Dio ti ama”».
“Ciò che io e gli altri abbiamo vissuto in quella chiesa, è stato un inferno. Provo a dimenticare quanto accaduto, a scherzare, a ridere con le persone. Ma non appena sto da solo inizio a pensare, mi tornano alla mente tutte le immagini di quello che ho vissuto lì. Fa male, mi sento scioccato, è impossibile descrivere quelle situazioni. Sono stati uccisi molti bambini e bambine nella chiesa. Un mio amico con sua moglie, la figlia e il padre sono stati uccisi. Lui chiedeva di essere ucciso, ma di lasciare la bambina viva. Non l'hanno ascoltato. C'era un bambino, o una bambina non so bene, che piangeva, i terroristi hanno chiesto alla madre di non farlo piangere. Non c'è riuscita, e quell'uomo ha detto: ‘Ok, lo faccio io’. E l'ha ammazzato”.

Si ferma, riprende fiato. Ricorda: “Prima di quest'inferno, avevo una vita normale. I nostri vicini erano musulmani, il rapporto con loro era tranquillo, ci salutavamo, parlavamo con loro e così via. Ma quando usciva fuori il discorso religioso, alzavano i toni, dicevano che noi cristiani non crediamo nel loro profeta che è ‘l'ultimo profeta’”. Il futuro? “Essere cristiano in Iraq significa vivere perseguitati per la tua fede. Noi vogliamo che il mondo lo sappia. Non ce la facciamo più a sopportare questa violenza”.

I try to forget, but I will always see the blood stained church of Baghdad

By Asia News
by Giulia Mazza

"I try to forget what happened," but "as soon as I'm alone I start to think and all of those images come to mind, of what I experienced there. It hurts, I'm still in shock, it is impossible to describe what happened”. These are the words of an Iraqi Catholic, one of the "lucky" survivors of the October 31 al Qaeda attack on the church of Our Lady of Salvation in Baghdad. He has shrapnel in his back and legs. But for another 58 people it was even worse, they lost their lives: among them, 46 faithful who simply had gone to Mass and the two priests who were celebrating. More than 70 injured. Of these, approximately 37 (the most severe cases) were transferred to France last November 8, 26 others, along with their families, have been hospitalized in Rome, where they spoke with AsiaNews.
"It was a Sunday and evening mass had just begun. Shortly after the Gospel reading, about 17.15, we heard the sound of gunfire outside the church. Don Tha'er, who was celebrating the liturgy, tried to calm everyone down, telling us to pray together. The noise became louder, then we heard a loud explosion and the terrorists entered the Church – five or six in all - and started shooting everywhere".
He has asked to remain anonymous. "For safety reasons," he says. He will not speak about his life before the attack. He just says: "I have always taken part in the pastoral activities of the church, I was friends with both the priests, Don Tha'er and Don Wassim. The first 32, the second 27, both mowed down by the terrorists. "I was sitting in the front pew, as usual, and as the gunfire broke out I threw myself on the ground. Don Tha'er called me and told me: 'Try to get everyone into the sacristy'. Those were difficult moments, because the attackers were firing everywhere. I was trying to get to the sacristy along with others , when not far away I saw a girl wounded in the neck. I did not know what to do, whether to help her or run for my life”.
It was supposed to have been an interview. But the first question: "Do you want to talk, to tell us what happened?" was answered with a deluge of words. Unstoppable. "I saw the injured girl. I decided to go and get her to try and bring her to safety. I took her on my shoulders, but one of the terrorists saw me and threw a grenade at us: the girl died and I was on the ground wounded. I pretended to be dead. While I was on the ground I saw Don Tha'er trying to defend the altar servers: he embraced them and covered them with his cassock, to protect them, as if he wanted to hide them. One of the men attacked him, trying to beat him to his knees, but he resisted and remained standing, in the end the terrorist killed him. I could hear the cries of the people in the church, terribly afraid, when at one point I heard a voice, I do not know who he was shouting to the terrorists: 'We die, we die, okay. But the cross lives. Whoever it was, was immediately killed. "
The events of that tragic day are still fresh and painful in his memory, and that of other survivors. Details, etched forever on their minds. Indelible. "The terrorists kept moving around and shooting everywhere. When one of them passed me by, I saw he was wearing an explosive belt. They obviously had a clear plan. Two snipers were placed at the sides of the Church, two others mid-aisle and one on the upper floor. They talked among themselves by radio, insisting that everything was going as planned. The church was chosen because of its structure: it is a single piece of reinforced concrete, with three main entrances, two at the sides and the altar at the back of the nave. Outside the entrance to the church, there is a cross 49 meters high, which reflects the depth of the church. I think they chose Our Lady of Salvation, because the windows are only up at the top. In this way all the explosions inside the church were magnified, with all possible vents for their destructive force only on the upper level. That's also why they kept throwing grenades at people. Those who came out alive are those who pretended to be dead, like me. "
"At one point, while I was wounded on the ground, I tried to crawl to the altar and hide behind a wall. When I made it I covered myself with a dead body to hide. Nevertheless, I could hear what was said. One terrorist was wounded, and kept saying to his leader: 'I'm hurt, I'll detonate the explosive belt so I can become a martyr, and go straight to heaven'. At first the man who must have been the commander told him to wait, that was not yet time. Then the wounded man said, 'No, I'm in too much pain, I was hit'. So the commander gave him permission, they bade each other farewell saying, 'Okay, see you in heaven'. Then he blew himself up. His companions then began to shout: 'You are unbelievers, you will go to hell while we are going to heaven, God is great'. "
The strain of those long moments of horror are clearly visible on his face. His dark eyes betray his incredulity. At times his voice still trembles. "During the five-hour siege, the terrorists transformed our church into a mosque. They shouted their Islamic prayers, and twice preformed their sunset prayer, in the evening and afternoon. After the man blew himself to pieces, his comrades went crazy: shooting everywhere.
At first they didn’t realize that almost 60 people were hiding in the sacristy [including the wounded 75 year old Episcopal Vicar]. But when they realised it, they tried to break through the wooden door, without success: in fact the people had locked themselves inside with the metal cabinets. Then the attackers began throwing grenades at the door, until they were able to create an opening. At that point, however, they had to go back towards the main entrance, because finally the Iraqi forces were trying to storm the building. I took advantage of that moment and I crawled to the door of the sacristy. I tried to identify myself, but the people inside would not let me in, for fear that I was a terrorist. Then a girl recognized my voice, they opened the door and pulled me inside. I stayed with the others, locked in the sacristy, and I saw that many were wounded in the last explosion and that a girl and two others were dead.
"
"You should know that the vestry has another door, which leads the outside, made of iron and therefore very heavy and difficult to open. I managed to call an army chief I knew on my cell phone, asking him to open that door and let us escape. But the man told me that was impossible, because the door was locked and we would have to open it. At the end of the call, he told me that the armed forces were about to enter, and it would be a tough operation. A girl and a small child had listened to the conversation and were scared, because such an attack could destroy the church, with us inside So I took them in my arms, we were thrown to the ground and I did my best to shield them with my body. The next half hour was hell, a terrible attack with bombs and rockets: the terrorists detonated their belts when the military intervened. It was a massacre. When the soldiers finally freed us they made us walk out the front door.
"
It sounds like the plot of a film, but it is not. A story that leaves room for questions that must have an answer: "The attitude of the government and armed forces, was a little strange. If you know the layout of the church, you know where the weak points are, the best points from where to launch a raid. Up where the windows are, there is a roof that surrounds the church one meter wide. Above this again is another roof, where commandos could position themselves, and then enter from there through the windows. They could have picked them off one by one [the terrorists]. But this is not the only thing that was unusual. When some people who were out there - family members, people working in the area - went to ask the soldiers if they needed a hand, we heard them say: 'Go away, this is none of your business'. The military then intervened only after five hours, when the terrorists had already emptied all of their weapons on us. "
"Don Tha'er, the priest who celebrated the Mass, died because he wanted to save the children. Don Wassim with, who at the time of the attack was in the confessional, tried to talk with the terrorists to convince them to let the people and children go, and take only the two of them as hostages.
They offered their lives. Don Wassim, when he made to leave the altar and approach the terrorists he was shot by one of them. The last sentence of Don Tha'er, who died before the eyes of his mother [who survived and is now recovering in France], was: "Jesus, into thy hands I commend my spirit." I remember these words, which he always used to say to all those in difficult moments of their lives: "Smile because God loves you"”. "What we experienced in that church was hell. I try to forget what happened, I try joking and laughing with people. But when I'm alone I start to think, the images of what I went through come to mind. It hurts, I'm still in shock, it is impossible to describe those situations. Many boys and girls were killed in the church. A friend of mine with his wife, daughter and father were killed. He asked to be killed, but to let the child live. He was not heard. There was a baby boy or a girl I do not know, who cried, the terrorists told the mother to stop him crying. But she couldn’t, and the man said, 'OK, I'll do it'. And killed the baby".
He stops, to draw breath and remember: "Before this hell, I had a normal life. Our neighbours were Muslims, the relationship with them was normal, we greeted each other, we talked with them and so on. But once the question f religion came into play they would raise their voices, saying that we Christians do not believe in their prophet who is the 'last prophet'.
" The future? "Being a Christian in Iraq means you are persecuted for your faith. We want the world to know. We can no longer bear this violence".

29 novembre 2010

Iraq: cristiani chiedono una loro provincia a est di Mosul


I cristiani iracheni hanno chiesto al premier incaricato Nuri al-Maliki e al suo futuro governo di concedere loro una provincia che potrebbe sorgere a est di Mosul, nel nord del paese. Secondo quanto rivela il deputato cristiano iracheno Yunadim Kana, al giornale arabo 'al-Hayat', "è stata individuata un'area di alcune decine di chilometri quadrati nella zona di Sahl Ninve dove ci sono diversi villaggi quasi interamente abitati da cittadini di fede cristiana". Secondo il parlamentare, "la nostra richiesta rispetta l'articolo 125 della Costituzione che prevede la nascita di nuove province", ricordando che alcune zone, come quella di Salahuddin, Dihuk e Najaf sono diventate province solo alla fine degli anni cinquanta.
Infine Kana respinge con forza "il tentativo di costringere i cristiani iracheni a emigrare" e ricorda che da giorni centinai di cristiani "stanziano davanti al consolato francese di Baghdad nella speranza di ottenere un visto per espatriare". La proposta di dare vita a una provincia cristiana in Iraq risponderebbe così all'appello del presidente, Jalal Talabani, che aveva chiesto ai suoi cittadini di fede cristiana di concentrarsi nel Kurdistan iracheno per sfuggire agli attentati di al-Qaeda.

Dall'Iraq a Favaro: «Siamo fuggiti e non torneremo indietro»

By Gente Veneta online 45/2010 29 novembre 2010
di Laura Campaci

«Non puoi avere nostalgia di un Paese che ti ha fatto terrore»:
con queste parole Manal giustifica oggi la sua volontà di rimanere in Italia, dopo che quattordici anni fa lasciò l'Iraq.
«Il momento più difficile qui – continua a spiegare la giovane donna irachena, che oggi vive con il marito e i figli a Favaro – è la domenica, quando c'è l'abitudine di visitare i parenti». I parenti di Manal invece sono sparsi per il mondo, e alcuni vivono ancora in Iraq. Così sono molti i viaggi programmati nel corso di un anno, per poter mantenere i contatti coi familiari. A Natale, intanto, saranno tutti in Svezia, dove vive una nipote di Manal, figlia di sua sorella, che invece risiede ancora in Iraq. La storia della fuga di Manal, e di colui che poi sarebbe diventato suo marito, Zuhair, inizia subito dopo la guerra tra Iran e Iraq. A partire dagli anni '90 la situazione dell'Iraq degenera: sia quella economica, che quella sociale. Manal non riconosce più il proprio Paese: si tratta di un popolo mescolato da ondate migratorie di vario tipo, che sembra aver perso la bussola. Le difficoltà economiche provocano le prime fughe e la criminalità dilaga al punto che anche fare shopping può risultare pericoloso. «Il popolo cercava di vivere – dice Manal – ma il reddito di un impiego qualsiasi non era sufficiente nemmeno per comprare un paio di scarpe».
Ingegneri nell’occhio del ciclone. Manal e Zuhair, entrambi ingegneri, a quel tempo lavoravano nel centro di trasmissione televisiva di Bardat, le loro condizioni di vita erano buone, anche se il regime di Saddam Hussein vietava ogni forma di disobbedienza: così quando l'attacco americano del 1991 danneggiò l'apparecchio per la trasmissione e l'embargo imposto all'Iraq impediva il rifornimento dei pezzi danneggiati, fu proprio su di loro che si riversarono le pressioni per rimettere in funzione lo strumento. Ma la cosa era impossibile, racconta Manal. Le pressioni aumentavano, ma non si poteva rispondere negativamente a ciò che veniva richiesto. Si instaurò così sempre più un clima di terrore. Manal e Zuhair oltretutto sono cristiani, anche se ancora a quel tempo non c'erano le difficoltà di oggi riguardo la religione. C'era più che altro curiosità: i colleghi facevano domande, chiedevano perché pregavano per una croce, o per le statue, ma si sentivano ancora liberi di rispondere secondo coscienza.
La fuga e l’approdo in Italia. Tuttavia i condizionamenti insistenti del regime spinserno Manal e il futuro marito a progettare la fuga. Nel 1996 lasciarono l'Iraq per la Giordania, dove rimasero due anni e proprio qui si sposarono. Il loro obiettivo era spostarsi verso il Libano, ma dovettero cambiare i propri piani quando al marito non fu concesso il visto. Il viaggio subì un'inversione di rotta, si può proprio dire, fatale: Manal e Zuhair raggiunsero l'Albania in aereo, poi un gommone li condusse in Italia, a Bari.«In gommone pensavo alla morte». Avevano lavorato a lungo e con sacrificio per mettere da parte il necessario per pagare questo viaggio: quattromila dollari a testa. «Mi ricordo la morte», confessa Manal rivivendo quell'esperienza: «Tre ore di traversata col vento che alza il gommone, e tutto ciò a cui ho pensato fu la morte». In Italia, i due coniugi ricevettero istruzioni su come raggiungere i propri parenti in Olanda: un treno da Roma e poi un taxi che dalla Germania doveva condurli a destinazione. Ma il taxi fu intercettato dalla polizia tedesca, che ritirò loro i documenti e furono costretti, a quel punto, a chiedere il diritto di asilo. I loro piani vennero nuovamente stravolti: soltanto dopo 7 mesi l'Italia rispose accettando la domanda di Manal e Zuhair, che nel frattempo erano in dolce attesa. La prima figlia aveva due mesi quando raggiunsero Venezia, che sarebbe stata la meta definitiva del loro lungo peregrinare. La prefettura diede loro ospitalità solo per un mese, poi sarebbero finiti in mezzo alla strada. Per chi chiede asilo d'altra parte non c'è nessun diritto, né di studiare né di lavorare: «Come potevamo vivere senza un lavoro?», domanda Manal.
L’aiuto di mons. Visentin. In quel frangente viene loro in aiuto mons. Giuseppe Visentin, che offri loro per un paio di mesi un posto alla casa “Betania”: Manal esprime a gran voce la sua riconoscenza per quel gesto, a tre anni dalla scomparsa del sacerdote. Nel frattempo subentra un forte shock per la neo-mamma: la condizione di rifugiata, per lei che un tempo aveva una posizione sociale elevata e stabile, la deprime fortemente, al punto che il suo malessere si riversa anche sulla figlioletta. La pediatra le suggerisce di ricoverare la bambina, che non mangiava più, in ospedale, così che possano prendere tempo. I medici si danno molto da fare anche per comunicare con il Comune, che finalmente li ospita in un'altra struttura fino a quando, nel 2000, ottengono il permesso di soggiorno. Da allora, si sono rimboccati le maniche: Manal studiando l'italiano a casa, da sola, e Zuhair diventando elettricista e facendo valere il proprio talento. In quell'anno arriva anche il secondogenito della coppia, che man mano si stabilizza e grazie al lavoro riesce a inserirsi nella società e a camminare con le proprie gambe, al punto che dal 2006 Zuhair è in grado di avviare una ditta in proprio.
La comunità di Favaro. Manal e Zuhair entrano anche in una comunità cristiana, quella di S. Pietro di Favaro, che li accoglie e impara a conoscere la loro storia, e in questi giorni prega per le persecuzioni che i cristiani subiscono in Iraq, consapevoli che alcuni parenti della famiglia ancora vi risiedono. «Oggi non esiste una famiglia irachena al completo»: dice Manal. Anche per questo non vuole tornare nel suo paese d'origine. «Il Vescovo di lì dice che dobbiamo rimanere uniti, ma è più importante fare numero o salvare la propria vita e quella dei propri figli? Un tempo eravamo tutti uguali. Dal 2003 è cominciata una guerra religiosa che attacca tutte le minoranze». E i cristiani in Iraq da due milioni e mezzo sono passati a 200mila.«Avevo promesso a mio papà che sarei tornata a casa prima o poi, ma lui nel frattempo è morto, e la prima volta che la famiglia ha potuto riunirsi è stato solo nel 2005, in Siria», continua Manal.
Le sorelle rimaste in Iraq: «Vivono nel terrore». Oggi la situazione economica in Iraq per chi lavora è ottima, ma mancano la sicurezza e la stabilità. Per questo Manal guarda con preoccupazione alle due sorelle rimaste a Baghdad: la necessità di lavorare e la loro età avanzata le tiene strette alla loro terra, ma il terrore religioso è pericoloso. Dopo la tragedia avvenuta il 31 ottobre scorso con l'attentato alla chiesa siro-cattolica di Nostra Signora della Salvezza di Baghdad, in cui hanno perso la vita oltre 50 persone, il messaggio è chiaro: «Spingono i cristiani ad uscire dal Paese, non so per quale ragione. Mia sorella non vuole parlare al telefono di quanto è successo». La vita sociale poi è molto limitata. Andare fino in centro città significa un controllo militare ogni chilometro. Uscire di casa rappresenta un rischio ogni giorno. Manal guarda con distacco all'Iraq, ormai si sente italiana e perfino i figli non hanno imparato la lingua irachena. Si legge in lei ancora la sofferenza di quanto ha vissuto, i «giorni tristissimi» di cui parla ancora attraversano il suo sguardo. Una speranza per il futuro, però, ce l'ha: «La speranza sono i figli».

Arrestati i terroristi dell’attentato alla chiesa di Baghdad


“Solo bugie, operazioni di facciata” per far credere ai cittadini e alla comunità internazionale che il nuovo governo iracheno stia lavorando per garantire la sicurezza delle comunità religiose di minoranza, mentre la gente è costretta ancora a emigrare per la mancanza di sicurezza. Da Baghdad a Mosul, è questa la reazione della comunità cristiana alla notizia dell’arresto di una dozzina di terroristi responsabili dell’assalto alla chiesa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso nella capitale il 31 ottobre.
Lo scorso 27 novembre è stata ufficializzata la cattura da parte delle forze di sicurezza irachene di un leader di al-Qaeda e di undici suoi uomini, implicati in diversi attacchi nella capitale. Si tratta di Hudhaifa al-Battawi, comandante militare di al-Qaeda a Mansour, nell'area occidentale di Baghdad. A darne notizia è stata la tv di stato Iraqiya, che ha citato il generale Ahmed Abu Rgheif.
L’operazione, ha precisato l'emittente, è stata condotta il 24 novembre, anche se è stata rivelata solo dopo tre giorni. I 12 arrestati hanno ammesso la loro responsabilità per una serie di attentati, tra cui la presa di ostaggi nella chiesa di Baghdad, conclusasi con la morte di 57 persone. Tra gli altri attentati imputati al gruppo ci sono quelli dei mesi scorsi contro la Banca Centrale, contro gli uffici della tv satellitare al-Arabiya e contro alcuni negozi di gioielleria.
Nell’operazione sono stati scoperti anche quattro edifici in cui si preparavano autobombe, mine e giubbotti esplosivi e sono state sequestrate sei tonnellate di esplosivo e alcuni barili di sostanze tossiche.
La notizia,dell'arresto però non ha tranquillizzato la comunità cristiana, che da tempo chiede protezione e giustizia al governo centrale. “Si tratta di una messa in scena, avevano detto che i terroristi erano stati tutti uccisi durante il raid per liberare gli ostaggi nella chiesa!”, commentano alcuni cristiani emigrati dalla capitale, dopo l’ultima escalation di violenza contro la comunità di minoranza.Intanto continua a crescere il numero di famiglie che dopo le esplosioni mirate davanti alle loro case nei quartieri abitati dai cristiani, e le minacce di al-Qaeda di eliminare i cristiani dall’Iraq, si rifugiano nel nord del Paese. Ormai sono 85 quelle arrivate dalla capitale a Sulaimaniya, cifra raddoppiata in appena una settimana.

Terrorists behind attack on Baghdad church arrested


"Only lies, a superficial move" to make it appear to the public and the international community that the new Iraqi government is working to ensure the security of minority religious communities, while people are still forced to emigrate because of the lack security. From Baghdad to Mosul, this is the reaction of the Christian community to the arrest of a dozen terrorists responsible for the attack on the church of Our Lady of Salvation in the capital on October 31.
Last Nov. 27 it was announced that Iraqi security forces had captured an al-Qaeda leader and eleven of his men, involved in several attacks in the capital. He is Hudhaifa al-Battawi, military commander of al-Qaeda in Mansour, in western Baghdad. The news was reported by Iraqiya state television, quoting General Ahmed Abu Rgheif.
The operation, said the broadcaster, was conducted Nov. 24, although it was only made public three days later. The 12 arrested have admitted their responsibility for a series of attacks, including the hostage-taking in the Baghdad church which ended with the death of 57 people. Among other attacks attributed to the group there are those of the past month against the central bank, the offices of al-Arabiya satellite television and against some jewellery stores.
During the operation new plans were discovered to target four buildings with car bombs, landmines and explosive vests and six tons of explosives and some barrels of toxic substances were seized.
But news of the arrest has not reassured the Christian community, which has been seeking protection and justice from the central government. "It's a sham, they had said that the terrorists were all killed during the raid to free hostages in the church!" Commented some Christians who have emigrated from the capital, after the latest escalation of violence against the minority community.
Meanwhile, an increasing number of families are seeking refuge in the north after the explosions that targeted their homes in neighbourhoods inhabited by Christians, and the threat of al-Qaida to eliminate Christians from Iraq. 85 have arrived in Sulaimaniya from the capital, the figure has doubled in just one week.

28 novembre 2010

Lutto nella chiesa caldea, la scomparsa di Padre Boutrous Haddad. Mons. Najim, amministratore patriarcale del Cairo

By Baghdadhope*

Lutto nella chiesa caldea. All'età di 72 anni si è spento ieri a Baghdad dopo lunga malattia Padre Boutrous Haddad, (foto di Ankawa.com) parroco della chiesa di Sultanat al Wardia a Karrada Kharig.
In sua memoria, ma anche per ricordare ancora una volta gli eventi del 31 ottobre nella chiesa di Nostra Signora della Salvezza a Baghdad, oggi è stata celebrata una messa nel collegio di Sant'Efrem a Roma.
A parlarne a Baghdadhope è Mons. Philip Najim che ha celebrato la messa cui hanno assistito i sacerdoti di rito orientale ospitati nel collegio ed altri che studiano a Roma, seminaristi di diversi collegi pontifici, suore caldee, domenicane e delle Piccole Sorelle di Charles de Foucault, ed alcuni dei feriti dell'attentato del 31 ottobre ricoverati al Policlinico Gemelli e già in grado di uscirne per occasioni simili a quella di oggi.
"Padre Boutrous era un grande studioso, aveva conseguito il dottorato in teologia a Roma e conosceva diverse lingue tanto che aveva tradotto in arabo molte delle opere scritte da diversi orientalisti ed archeologi europei che avevano operato in Iraq."
Dal sito Ankawa.com si apprendono maggiori particolari circa la vita di questo sacerdote la cui figura è stata ricordata oggi anche dal presidente iracheno Jalal Talabani.
Padre Boutrous Haddad era nato nel 1939 a Mosul e nel 1954 era entrato in seminario per poi continuare i suoi studi a Roma. Ordinato sacerdote nel 1961 fece ritorno a Mosul nel 1964. Nel 1966 si trasferì a Baghdad dove servì come cancelliere del Patriarcato nominato dall'allora patriarca Raphael Bedaweed, ed in varie chiese prima di essere nominato in quella della Vergine del Rosario dove oggi è stato celebrato il servizio funebre.
"E' una grande perdita per la chiesa," dice Mons. Najim, "Padre Boutrous era un uomo colto ed amato. Si sentirà la sua mancanza."



Monsignor Najim, oggi ha celebrato la messa in memoria di Padre Haddad a Roma dove lei risiede in qualità di visitatore apostolico per l'Europa e procuratore della chiesa caldea presso la Santa Sede, in realtà però lei è sempre più spesso in Egitto. come mai?
Dopo la scomparsa lo scorso anno di Monsignor Youssef Sarraf, vescovo del Cairo, sono stato nominato dal patriarca, Cardinale Mar Emmanuel III Delly, come amministratore patriarcale della diocesi di quella città. Ecco perchè ora la mia vita si divide tra Roma ed il Cairo.
Ci sono molti fedeli caldei in Egitto?
No, non molti, la maggior parte vive al Cairo. Direi che ci sono circa 150 famiglie.
Eppure al Cairo c'è una bellissima basilica dedicata a Nostra Signora di Fatima..
Si. E' una basilica molto importante perchè frequentata non solo da fedeli caldei ma anche latini e copti cattolici. Non dimentichiamo inoltre che essendo dedicata alla figura di Maria, viene visitata anche da fedeli musulmani per la grande importanza che la Vergine ha nel sacro libro islamico.
Che rapporti ci sono tra le varie confessioni cristiane cattoliche e quella copto ortodossa che in Egitto rappresenta quella maggioritaria?
"Io parlo per la chiesa caldea e dico che i rapporti sono ottimi. Ho avuto un lungo incontro con Papa Shenouda III, la sua guida spirituale, mi sono presentato a lui come un figlio e come tale sono stato accolto. Papa Shenouda mi ha fatto molte domande sulla situazione della comunità cristiana in Iraq ed ho visto il lui una sincera partecipazione. Quando, il 13 ottobre, abbiamo ricordato l'ultima apparizione di Fatima nella basilica, oltre al nunzio apostolico per l'Egitto, Mons. Michael Louis Fitzgerald, è venuto a porgere il saluto di Papa Shenouda il suo segretario privato."
Ed i rapporti con i musulmani? La chiesa copta ha dei problemi, quella caldea?
"I caldei sono concentrati nella capitale dove questi problemi di convivenza si sentono meno. Tutte le chiese sono protette dalla polizia che in questo periodo di maggiore tensione ha intensificato la sua presenza. Se penso alla basilica ed alla zona in cui si trova - Heliopolis - dico che i rapporti con i fratelli musulmani sono ottimi. Visitano la chiesa e finchè in essa era operativo un ambulatorio medico dove medici cristiani visitavano i pazienti con un compenso praticamente simbolico tra essi c'erano anche dei musulmani."
Eppure la tensione c'è, cosa ne pensa?
"Penso che i cristiani hanno problemi nell'ottenere i permessi per costruire nuove chiese e ristrutturare le già esistenti e che in un paese democratico, come l'Egitto dice di essere, questi permessi dovrebbero essere concessi riconoscendo quindi ai cristiani i diritti che spettano loro in quanto cittadini egiziani."
Gli attentatori della chiesa a Baghdad avevano chiesto la liberazione dei prigionieri di Al Qaeda detentuti in Egitto ed in Iraq in qualche modo "legando" le due nazioni e le rispettive problematiche di convivenza tra religioni. Come è stato vissuto l'episodio di Baghdad in Egitto?
"Tra tutte le reazioni inorridite per la strage della chiesa di Nostra Signora della Salvezza forte è stata quella dello sceicco dell'università di Al Ahzar, Ahmad Al-Tayyeb, che ha condannato tali azioni barbariche ed ha parlato del fatto che che il loro risultato non sia stato quello di dividere ma, anzi, di rafforzare l'unità tra le diverse componenti del paese."
Insomma, pur non priva di problemi la convivenza interreligiosa in Egitto regge...
"La chiesa non smette di pregare per questo e per la pace non solo in Iraq ma in tutto il mondo. Per l'immediato futuro posso dire che per il Santo Natale alla messa serale seguirà un rinfresco nella chiesa che, per la prima volta, ospiterà anche un incontro per alcune famiglie dopo la messa del 31 dicembre per attendere insieme il nuovo anno che tutti ci auguriamo migliore."

27 novembre 2010

Iraq’s Troubles Drive Out Refugees Who Came Back

By New York Times, November 26, 2010
by John Leland

A second exodus has begun here, of Iraqis who returned after fleeing the carnage of the height of the war, but now find that violence and the nation’s severe lack of jobs are pulling them away from home once again.
Since the American invasion in 2003, refugees have been a measure of the country’s precarious condition, flooding outward during periods of violence and trickling back as Iraq
seemed to stabilize. This new migration shows how far the nation remains from being stable and secure.
Abu Maream left Iraq after a mortar round killed his brother-in-law in 2005.
Amar al-Obeidi left when insurgents threatened to kill him and raided his shops.
Hazim Hadi Mohammed al-Tameemi left because the doctors who treated his wife’s ovarian cancer had fled the country.
All three joined the flow of refugees who returned as violence here ebbed. But now they want to leave again.
“The only thing that’s stopping me is I don’t have the money,” said Mr. Maream, who gave only a partial name — literally, father of Maream — because he feared reprisal from extremists in his neighborhood. “We are Iraqis in name only.”
Nearly 100,000 refugees have returned since 2008, out of more than two million who left since the invasion, according to the Iraqi government and the United Nations
high commissioner for refugees.
But as they return, pulled by improved security in Iraq or pushed by a lack of work abroad, many are finding that their homeland is still not ready — their houses are gone or occupied, their neighborhoods unsafe, their opportunities minimal.
In
a recent survey by the United Nations refugee office, 61 percent of those who returned to Baghdad said they regretted coming back, most saying they did not feel safe. The majority, 87 percent, said they could not make enough money here to support their families. Applications for asylum in Syria have risen more than 50 percent since May.
As Iraq struggles toward a return to stability, these returnees risk becoming people without a country, displaced both at home and abroad. And though departures have ebbed since 2008, a wave of recent attacks on Christians has prompted a new exodus.
Mr. Obeidi, who used his tribe’s name instead of his father’s name as a surname, left for Syria in 2006 after an improvised bomb exploded near his nephew, terrifying the boy, and insurgents threatened to kill Mr. Obeidi. On a recent evening in Baghdad, he had trouble controlling his breathing as he talked about the daily blasts in his neighborhood.
“There’s no security here,” he said, ticking off his close encounters with guns and bombs. “I was near a female suicide bomber a couple months ago. Then I was in my brother’s truck when insurgents opened fire on a bridge. My friend was killed in front of me with a knife. I’ve been destroyed. My mother needs an operation for her eyes, and I don’t have money. We need someone to help us.”
“Feel my stomach,”
he said. “It’s like a rock. It’s going to blow out.”
Before insurgents robbed his tool shops in 2006, he said, he earned about $1,000 a month and was planning to marry. But during several trips abroad he was unable to find work. Since returning to Baghdad he has struggled to find day labor, earning about $6 a day. The woman he had intended to marry is now with another man.
He has twice paid smugglers, to take him to Austria on one occasion and to Italy on another, but each time the men took his money without helping him.
“Life was better in Syria, but I can’t work there,” said Mr. Obeidi, who is a Sunni. “Jordan was the same. Turkey was the same. And it was expensive to live there. That’s why I had to come back. But our country is not our country. It’s Iran’s country. We need someone to help us.”
The United Nations provides some transportation costs and a small stipend for families that come back, but fewer than 4 percent of returnees take advantage of the program. Most either do not know about it or think they may still want to return to their asylum country and will want the agency to help them as refugees, not as returnees.
For Abu Maream and his family, who left for Syria in 2005 and came back last year, life has come down to a choice between bad options. Syria seemed safe, he said, but he felt “humiliated” as an unemployed foreigner seeking work, selling off his possessions to keep the family afloat. Back here, he has been unable to find work, and neighbors who used to respect the family now “look down on us,” he said.
On a recent afternoon he sat in a two-room apartment with only a mattress on the floor and a few possessions in boxes. He had no refrigerator and received only a few hours of electricity a day.
“Before, we had Shiite neighbors, and there were no problems at all,” said Mr. Maream, who is Sunni. “The government created the sectarian thing,” he said, meaning that the political parties formed along ethnic or religious lines, formalizing the division. Now his neighborhood has become a stronghold for Sunni extremists.
He sat on the edge of the mattress, his mother sitting behind him. In the coming months, he said, he will send his sisters and mother back to Syria for their safety, and he and his wife and three children will move in with an uncle in Iraq, splitting up the family. When the family would be reunited in Syria he could not say.
“It’s over; that’s it,” he said. “I’m not coming back. How can I come back? I don’t believe Iraq will have a chance again.”
Mr. Tameemi, who fought in the bloody eight-year war with Iran, said he hated leaving Iraq in 2006. “I love my country,” he said. But after years of sanctions and the American-led invasion, doctors and medicines were scarce in the country — one of the many toxic effects of displacement in Iraq.
In Jordan he found doctors to treat his wife’s cancer, but he could not find work. “They don’t treat us well,” he said.
Now, after two months back in Iraq, Mr. Tameemi is ready to leave again. Despite improvements in security, medical care here — once a model for the region — is still inadequate, and doctors have not returned. “Even if I have to sleep in the road, I want to take care of my wife,” he said.
His next plan is to apply for asylum in the United States, but he knows that the odds are against him. In the meantime, his experience has soured him on the country he can no longer call home.
“I regret coming back, but financial problems pushed me to do it,” he said. “The Iraqis don’t help the Iraqis.”

Duraid Adnan contributed reporting.

For Iraqi Christians killed in Baghdad


This address, based on Matthew 5. 1-2, was delivered at Westminster Cathedral on 26 November 2010, in a service to remember the victims of sectarian violence in Iraq - and especially those killed recently at the Our Lady of Salvation Church in Baghdad.

We have gathered this evening to pray for the eternal rest of the sisters and brothers who have died in Iraq because they are Christian. We have gathered to pray for their families and for all who mourn them. We have come to mourn ourselves.
Some of you will have lost relations in these vicious terrorist attacks. Many more will have friends, relations or families who you know and who are affected by these killings. I myself am in that category having known the families of some of the people killed in Baghdad and earlier in Mossul. At the end of last week I met relations of some of the dead in Sweden. I should have travelled to Iraq before Christmas but that is now cancelled because of the security situation in the country.
Our emotions are of deep sorrow and possibly also of anger: anger that innocent people are killed in this way, that our friends, our relations are sacrificed for at best short term political gain, and at worst for no real reason at all, other than that they are followers of Jesus Christ.
We know the situation of our brothers and sisters still in Iraq who wake at night frightened by the knock at the door, the unusual sound, the gunshot or the explosion, the knowledge that few if any will defend them, the constant fear and tension of not knowing what will happen next. We who are here in [Britain] are angry when our Government said on Tuesday [23 November 2010] that it was safe for people to be repatriated to Iraq. You know in a way few others do how untrue that is.
In a few weeks time we will read of Herod killing the small boys of Bethlehem and we can make our own the text from the prophet Jeremiah which was then fulfilled: “A voice was heard in Ramah wailing and loud lamentation, Rachel weeping for her children; she refused to be consoled because they are no more.” (Matthew 2:18)
We come this evening with our burden of sorrow, anger, frustration and perhaps the feeling that no one cares. We also come this evening and listen to texts which speak of the Glory of the Lord and the glory which will be ours. We read from the Beatitudes and hear that they who mourn are blessed for they will be comforted.
Where is our comfort? How are we blessed? The people, killed in Baghdad and in other places because they are Christian and died for their faith, are in the great line of martyrs. That is something which the Catholic Church in England and Wales understands. The Church in these countries is built on the witness of those put to death because they would not renounce their faith. The Catholic Christians of this country know something about the sorrow, the pride, the despair and the joy of martyrdom for the faith.
Today it is not only our relations and friends whom we have come to mourn. We have also come to honour them as people who have been killed because of their faith. We must express our sorrow that this has happened, for Christ tells us that if we do not bear witness to the truth then the stones themselves will shout out the message. But that message is the message of the Gospel.
You and I are obliged to announce the Good News of the Gospel, even in our sorrow and anger. Our faith tells us that all people who have been killed because of their faith, and all who live through Christ and in Christ and with Christ, and die clinging to Christ will live with him [eternally]. This is indeed our glory. We need to keep our eyes on Christ otherwise we risk giving in to hopelessness, despair and the wanting of revenge.
Many years ago, there was a campaign in this country where it was said “there are no strangers, just brothers and sisters whom I have not yet met”. It is hard to understand that when we believe that we know who has killed our loved ones. Yet it is true.
Many suspect that Muslims are responsible for the killings, but many Muslims have also fled to this country, and often for more or less the same reason that Christians have: poverty, insecurity, war and persecution. Even in our sorrow and anger we need to appreciate that every women and every man is made the image and likeness of God. We need to call out to that image which is in every person that they may show us the godliness which is within them.
We need to take seriously the witness that the people of Iraq give to us. The Beatitudes which we have read are that witness. We mourn and we will be comforted in God's time by the people around us; we are meek and we need to realise that we will inherit the earth; at the same time we hunger and thirst for justice, and we will continue until we are satisfied; but we will be merciful, for we wish to be treated with mercy; we are pure of heart and peacemakers for we wish to see God. We know that when we are persecuted, when we suffer, when we are treated unjustly then the Kingdom of God is ours.
It is vitally important that we do this. This is our comfort, this is our blessing, this means that these deaths are not meaningless. It is what Christ himself says and we must have our eyes always on Him. It is what our martyrs would want. They are now with God, the God of the Beatitudes, the God who understands the weeping and lamentation of Rachel, the God who understands where we are, and who we are.
If God is with us who can be against us, whatever happens? You and I are called to give an even greater gift to the sisters and brothers around us. We are called to mourn and be proud, to seek justice in mercy, and to show that we in our sorrow can find a way to stretch out a hand to all women and men because we are Christians, because we are proud that martyrs are called from our midst, because we believe that every woman and man carries God within them.
Rachel wept and lamented her dead children. So do we. We do it however knowing that they are with God in glory, knowing that we have from in our midst produced martyrs, witnesses to the Gospel, knowing that we are the poor in Spirit, relying on God, because we will inherit the Kingdom.

William Kenney
CP is Auxiliary Catholic Bishop of Birmingham. This sermon is reproduced with grateful acknowledgment to the Public Affairs Office of the Diocese of Westminster

Iraq: appello dei vescovi caldei contro le violenze nel Paese


I vescovi caldei dell'Iraq hanno rivolto un appello alle autorità religiose musulmane affinché sia espressa una pubblica condanna contro le azioni violente che colpiscono le minoranze religiose. È quanto emerso dalla riunione dei presuli che si è svolta a Erbil, coordinata dall'arcivescovo di Kerkuk dei caldei, Louis Sako.
In un messaggio, a firma di monsignor Sako ripreso da L'Osservatore Romano, si chiede una fatwa delle autorità musulmane «per aiutare a chiarire che le violenze contro i cristiani sono illegittime e contrarie ai principi della religione islamica».
Secondo il messaggio, a seguito delle violenze, una sessantina di famiglie cristiane sarebbero fuggite dalla capitale Baghdad per rifugiarsi a Suleimaniya, mentre altre ottanta si sarebbero dirette a Erbil. A queste, inoltre, si devono aggiungere quelle che hanno trovato riparo nei villaggi cristiani situati nella piana di Ninive. I vescovi hanno espresso «sconvolgimento» per l'attentato alla chiesa di Nostra Signora della Salvezza, a Baghdad, che ha causato oltre cinquanta morti e decine di feriti e per gli altri episodi di violenza che hanno colpito la comunità cristiana nella città di Mosul.
L'arcivescovo di Kerkuk ha sottolineato come la richiesta di una fatwa sia stata avanzata nella convinzione che essa possa «aiutare a chiarire che tali azioni sono illegittime e contrarie ai principi della religione islamica».
L'incontro, secondo quanto riporta il sito Baghdadhope, si è svolto in assenza del patriarca di Babilonia dei Caldei, il cardinale Emmanuel III Delly, rimasto nella capitale Baghdad a causa della difficile situazione. Nel messaggio dei vescovi caldei, si evidenzia in particolare l'importanza «di salvaguardare e consolidare la presenza storica dei cristiani in Iraq», in quanto «se emigrassero, se ne andrebbe anche il ricco patrimonio di cui sono depositari». In questo contesto, i presuli concludono rivolgendo un'esortazione «ai cristiani benestanti che vivono nei Paesi della diaspora, affinché investano nella regione per creare opportunità di lavoro per i loro fratelli».

Arresti per il massacro nella Cattedrale di Baghdad. Mario Mauro: no a un "ghetto cristiano"

By Radiovaticana

In Iraq, il Ministero dell’interno fa sapere che sono stati arrestati i presunti responsabili dell'attacco compiuto il 31 ottobre scorso contro la Cattedrale di Baghdad, nel quale sono morti 44 fedeli e due sacerdoti. E dopo le ultime lettere di minaccia inviate da esponenti di Al Qaeda a famiglie di cristiani, il governatore della provincia di Ninive conferma il via libera del governo alla concessione del porto d’armi a tutti i cristiani residenti nella provincia. L’Unione Europea ha invitato le autorità irachene a prendere misure efficaci per contrastare la persecuzione in atto contro i cristiani, ma i provvedimenti dovrebbero andare ben oltre questa iniziativa. La Risoluzione votata dal parlamento europeo due giorni fa prevede un piano di azione concreto e soprattutto la presa di coscienza di cosa ci sia in gioco.
Fausta Speranza ne ha parlato con il promotore della Risoluzione, l’europarlamentare Mario Mauro, rappresentante dell’Ocse per la lotta contro il razzismo e la persecuzione dei cristiani:
Si chiedono al governo iracheno azioni immediate, perché il governo iracheno, con un’azione di natura tempestiva, ha la possibilità di essere decisivo per creare le condizioni di sicurezza per il Paese. C’è una proposta di Jalal Talabani, presidente iracheno, che io però contrasto, perché la proposta di Talabani è quella di mettere in sicurezza i cristiani, concentrandoli in un'unica provincia. Ma il problema non è di fare un ghetto cristiano. I cristiani sono i cristiani di Kirkuk, di Mossul e di Baghdad, di Bassora: non sono un’etnia a parte, sono persone tra le persone, comunità nella comunità. Quindi, devono avere garanzie lì dove vivono e devono avere garanzie con un piano che deve essere sostanzialmente riconosciuto dalla comunità internazionale, per permettere il ritorno dei cristiani in Iraq.
Nella risoluzione si chiedono azioni immediate, un’inchiesta a livello internazionale, ma anche la promozione a Baghdad, in tempi brevi, di una conferenza per promuovere il dialogo…
Il problema della sopravvivenza - ormai di questo si tratta - della comunità cristiana in Iraq è un problema di enorme complessità, cui sono evidentemente legati dei principi che fondano la stessa possibilità della convivenza civile in quel Paese. Intanto, in Iraq si sta consumando una tragedia di proporzioni bibliche, perché sono oltre un milione le persone che hanno dovuto lasciare il Paese perché cristiane e che vivono in condizioni molto difficili soprattutto tra Siria e Giordania. Questo fenomeno è iniziato con la caduta del governo di Saddam, perché i cristiani sono diventati ostaggio nelle tensioni fondamentaliste che hanno scosso il Paese, nello scontro tra sunniti, sciiti e curdi. E sulla pelle dei cristiani si gioca un equivoco tipico della propaganda fondamentalista: i cristiani iracheni sarebbero cioè i crociati, gli occidentali, i colonialisti, gli imperialisti. Nulla di più falso, perché sono arabi che pensano in arabo, parlano arabo e sentono l’Iraq come il proprio Paese e sono in quel Paese da secoli, prima dell’arrivo dell’Islam. E’ vero, invece, che esiste la strategia di utilizzare l’attacco ai cristiani per mandarsi messaggi finalizzati ai propri equilibri di potere. E’ tipica non solo degli ambienti fondamentalisti, ma di tutta la politica irachena del dopo Saddam.
Presidente Mauro, oltre ovviamente alla solidarietà umana per queste persone, che cosa significa per l’Europa difendere il principio di libertà religiosa?
Intanto, significa ribadire al mondo le ragioni per le quali abbiamo fatto l’Unione Europea. L’Unione Europea è stata fatta come antidoto ai fondamentalismi che ci hanno portato all’ultima guerra mondiale. Allora, quei fondamentalismi erano di matrice totalitaria - nazismo, fascismo, comunismo - oggi sono progetti di potere a matrice islamista, teocrazie serpeggianti, che cercano di sottrarre agli iracheni il proprio futuro. Finalmente, però, abbiamo anche una leva su cui fare pressione, per esercitare un condizionamento reale nel processo di sviluppo di democrazia in Iraq. Questa leva è la nascita del primo accordo tra Unione Europea e Iraq, un accordo che vale svariate decine di miliardi, dentro il quale abbiamo la possibilità di ricordare che il primo problema non è di natura economica, ma di natura politica. Senza rispetto dei diritti umani, senza rispetto della libertà religiosa non c’è possibilità di mettere in sintonia l’Europa e l’Iraq e, quindi, di dare quel benessere che solo può garantire il futuro del Paese mediorientale.

26 novembre 2010

Parlamento europeo: Seduta plenaria giovedì 25 novembre 2010

By Parlamento Europeo

25 novembre 2010
Discussioni su casi di violazione dei diritti umani, della democrazia e dello Stato di diritto
Iraq - in particolare la pena di morte (compreso il caso di Tariq Aziz) e gli attacchi contro le comunità cristiane

TESTO APPROVATO:
Risoluzione del Parlamento europeo del 25 novembre 2010 sull'Iraq, la pena di morte (in particolare il caso di Tariq Aziz) e gli attacchi nei confronti delle comunità cristiane

Il Parlamento europeo,

viste le sue precedenti risoluzioni sulla situazione in Iraq,

– viste le sue precedenti risoluzioni sull'abolizione della pena di morte, in particolare quella del 26 aprile 2007 sull'iniziativa a favore di una moratoria universale in materia di pena di morte,

– viste la risoluzione 62/149 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, del 18 dicembre 2007, che chiede una moratoria sul ricorso alla pena di morte e la risoluzione 63/168 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, del 18 dicembre 2008, che sollecita l'applicazione della risoluzione 62/149 del 2007,

– visto il discorso tenuto in Aula il 16 giugno 2010 dalla Vicepresidente della Commissione/Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Catherine Ashton, che ha ribadito che l'abolizione della pena di morte in tutto il mondo costituisce una priorità per l'Unione europea,

– vista la dichiarazione finale adottata dal Quarto congresso mondiale contro la pena di morte, tenutosi a Ginevra dal 24 al 26 febbraio 2010, in cui si chiede l'abolizione universale della pena di morte,

– visto l'articolo 2 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea,

viste le conclusioni del Consiglio adottate il 16 novembre 2009 sulla libertà di religione o di culto, che sottolineano l'importanza strategica di questa libertà e dell'opposizione all'intolleranza religiosa,

vista la dichiarazione delle Nazioni Unite del 1981 sull'eliminazione di ogni forma di intolleranza e di discriminazione basata sulla religione o il credo,

viste le dichiarazioni della Vicepresidente della Commissione/Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Catherine Ashton, sull'Iraq, in particolare quella del 1° novembre 2010 a seguito dell'attacco contro i fedeli presso la cattedrale di Nostra signora della salvezza a Baghdad, in Iraq

viste le sue relazioni annuali sulla situazione dei diritti umani nel mondo e le sue precedenti risoluzioni sulle minoranze religiose nel mondo,

– visto l'articolo 122, paragrafo 5, del suo regolamento,

Sulla pena di morte (incluso il caso di Tariq Aziz)

A. considerando che il 26 ottobre 2010 il tribunale supremo iracheno ha condannato a morte l'ex vice premier iracheno Tariq Aziz, 74 anni, insieme a Sadoun Shakir, ex ministro degli interni, e Abed Hamoud, ex segretario particolare di Saddam Hussein; che, se il ricorso contro la sentenza sarà respinto, la condanna a morte sarà probabilmente eseguita entro 30 giorni,

B. considerando che in un precedente processo Tariq Aziz era stato condannato a 22 anni di carcere in regime di isolamento e che tale sentenza costituisce di fatto una condanna in perpetuità, a causa della fragile salute di Tariq Aziz, che in carcere è stato colpito da diversi ictus, soffre di problemi polmonari e ha subito un intervento chirurgico a seguito di un coagulo di sangue nel cervello,

C. considerando che il presidente iracheno, Jalal Talabani, ha dichiarato che non firmerà l'ordine di esecuzione per Tariq Aziz; che, a norma della Costituzione irachena, il Presidente dovrebbe ratificare le condanne a morte, ma che vi sono meccanismi per far sì che le esecuzioni siano eseguite sotto l'autorità del Parlamento,

D. considerando che la condanna a morte di Tariq Aziz farà ben poco per migliorare il clima di violenza in Iraq e che l'Iraq ha disperatamente bisogno di riconciliazione nazionale,

E. considerando che l'Unione Europea è fortemente impegnata a operare a favore dell'abolizione della pena di morte ovunque e si adopera perché questo principio sia accettato a livello universale,

F. considerando che la pena di morte è la punizione più crudele, disumana e degradante in assoluto, che viola il diritto alla vita quale sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e che costituisce un atto di tortura inaccettabile per gli Stati che rispettano i diritti dell'uomo,

Sugli attacchi contro le comunità cristiane

G. considerando che il 22 novembre 2010 due cristiani iracheni sono stati uccisi a Mosul; che il 10 novembre una serie di attacchi con bombe e colpi di mortaio rivolti contro i settori cristiani hanno ucciso almeno cinque persone nella capitale irachena, Baghdad; che tali attacchi hanno fatto seguito all'assalto, da parte di militanti islamici, ad una cattedrale di fede cattolica sira il 31 ottobre 2010, che ha portato alla morte di oltre 50 fedeli;

H. considerando che il gruppo militante Stato islamico dell'Iraq, considerato appartenente al movimento internazionale di Al Qaida, ha rivendicato la responsabilità delle uccisioni e promesso di lanciare ulteriori attacchi contro i cristiani,

I. considerando che l'articolo 10 della Costituzione irachena sancisce l'impegno del governo a garantire e mantenere la sacralità dei santuari e dei luoghi di culto; che l'articolo 43 stabilisce che i seguaci di tutti i gruppi religiosi devono essere liberi di praticare i propri riti e gestire le proprie istituzioni religiose,

J. considerando che centinaia di migliaia di cristiani sono fuggiti dal paese dinanzi ai ripetuti attacchi contro le loro comunità e chiese; che molti degli assiri iracheni rimanenti (caldei, siri e altre minoranze cristiane) sono diventati sfollati interni, avendo dovuto fuggire dalla violenza estremista nei loro confronti,

K. considerando che gli assiri (caldei, siri e altre minoranze cristiane) costituiscono un antico popolo autoctono, molto esposto alla persecuzione e all'emigrazione forzata, e che vi è il rischio che la loro cultura si estingua in Iraq,

L. considerando che in Iraq le violazioni dei diritti umani, soprattutto contro minoranze etniche e religiose, continuano a un livello preoccupante; che la sicurezza e i diritti di tutte le minoranze, compresi i gruppi religiosi, devono essere rispettati e protetti in tutte le società,

M. considerando che l'Unione europea ha ripetutamente espresso il proprio impegno a favore della libertà di pensiero, della libertà di coscienza e della libertà di culto e ha sottolineato che i governi hanno il dovere di garantire tali libertà,

Sulla pena di morte (incluso il caso di Tariq Aziz)

1. ribadisce la sua opposizione di lunga data alla pena di morte in tutti i casi e in tutte le circostanze, anche nel caso di crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio, e sottolinea ancora una volta che l'abolizione della pena di morte contribuisce a rafforzare la dignità umana e al progressivo sviluppo dei diritti umani;

2. deplora profondamente, pertanto, la decisione del tribunale supremo iracheno di condannare a morte Tariq Aziz, Sadoun Shakir e Abed Hamoud; sottolinea tuttavia l'importanza di considerare responsabili quanti violano i diritti umani, compresi gli (ex) politici, nel quadro dello Stato di diritto e del giusto processo;

3. invita le autorità irachene a riconsiderare la loro decisione e a non eseguire la sentenza capitale pronunciata dal tribunale supremo; accoglie con favore l'annuncio del presidente Talabani che non avrebbe firmato l'ordine di esecuzione;

4. incoraggia il governo iracheno a firmare e ratificare il secondo protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e politici concernente l'abolizione della pena di morte in ogni circostanza e chiede una moratoria immediata delle esecuzioni;

5. ricorda che la completa abolizione della pena di morte rimane uno dei principali obiettivi della politica UE in materia di diritti umani;

Sugli attacchi contro le comunità cristiane

6. esprime la sua profonda preoccupazione per i recenti attacchi, che condanna con forza, contro comunità religiose cristiane e di altre fedi in Iraq e per l'abuso della religione da parte di quanti hanno commesso tali atti;

7. chiede alle autorità irachene di aumentare drasticamente i loro sforzi volti a proteggere i cristiani e altre minoranze vulnerabili, di potenziare la lotta contro la violenza interetnica e di fare il possibile per portare gli autori di crimini dinanzi alla giustizia, in conformità con i principi dello Stato di diritto e le norme internazionali;

8. ribadisce il suo pieno sostegno alla popolazione dell'Iraq ed esorta tutte le entità politiche irachene a lavorare insieme contro la minaccia della violenza e del terrorismo; sottolinea che il diritto di tutti i gruppi religiosi a riunirsi e praticare il proprio culto liberamente deve essere tutelato; deplora i deliberati attacchi contro località dove si riuniscono civili, tra cui i luoghi di culto; condanna fermamente tutti gli atti di violenza contro le chiese e qualsiasi luogo di culto e sollecita l'Unione europea e la comunità internazionale a rafforzare la lotta contro il terrorismo;

9. esprime la propria solidarietà alle famiglie delle vittime e confida che il popolo iracheno rimarrà fermo nel suo rifiuto costante degli sforzi, da parte di estremisti, di innescare tensioni confessionali;

10. si compiace della dichiarazione del ministero iracheno degli affari esteri, del 2 novembre 2010, che invita le autorità specializzate e tutte le forze di sicurezza a rimanere fermi contro ogni tentativo di separare i cittadini iracheni su base confessionale o razziale, ad assicurare protezione ai cittadini iracheni e tutelare la pratica religiosa;

11 invita il Consiglio e la Commissione, in particolare la Vicepresidente della Commissione/Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Catherine Ashton, in vista della preparazione del primo accordo di partenariato e di cooperazione tra l'Unione europea e l'Iraq, ad affrontare come questione prioritaria il problema della sicurezza dei cristiani all'interno del territorio iracheno;

12. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente risoluzione alla Vicepresidente della Commissione/Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, al Consiglio, alla Commissione, ai governi e ai parlamenti degli Stati membri, al Segretario generale delle Nazioni Unite, al presidente dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, ai governi degli Stati membri delle Nazioni Unite e al governo e al parlamento dell'Iraq.

La Ue: «Se l’Iraq vuole aiuti, tuteli la comunità cristiana»

By Avvenire
di Franco Serra

In difesa della libertà religiosa e delle martoriate comunità cristiane in Iraq: l’Europarlamento ha approvato ieri, col voto di tutti i gruppi politici, una risoluzione che, condannando i massacri di cristiani iracheni, impegna i governi dell’Ue a premere sui dirigenti di Baghdad perché vengano intensificati «in modo drastico gli sforzi per proteggere i cristiani e le comunità più vulnerabili». La risoluzione chiede inoltre ai governanti iracheni di non far eseguire la condanna a morte di Tareq Aziz e di risparmiare la vita anche di altri due esponenti della dittatura. Alla rappresentante per la politica estera dell’Ue, Catherine Ashton, viene chiesto di considerare una priorità la sicurezza dei cristiani e di comportarsi in conseguenza.
Promotore dell’iniziativa, con il gruppo Ppe di cui fa parte, Mario Mauro che ha espresso «grande soddisfazione» per il voto. In una dichiarazione con il capofila degli eurodeputati Pd David Sassoli, Mario Mauro – che è presidente degli eurodeputati del Pdl, vicepresidente dell’Europarlamento e rappresentante dell’Osce per la lotta alle discriminazioni contro i cristiani – ha sottolineato che la risoluzione «esprime la forte unità dell’Assemblea in difesa dei diritti fondamentali, chiedendo al governo iracheno di agire subito per la difesa della comunità cristiana irachena e per la libertà di religione, ed è anche un chiaro impegno contro la pena di morte chiedendo la sospensione dell’esecuzione di Tarek Aziz». «Il dato politico importante – ha detto ancora Mauro – è che il Parlamento nella sua interezza, oltre a condannare con forza gli attacchi, chiede che venga ristabilito in Iraq lo stato di diritto sulla base del principio della libertà religiosa, che è alla base di tutte le altre libertà, alla base di ogni sistema democratico ed è contenuto nella Costituzione del Paese». «Voglio anche ribadire – ha aggiunto Mauro – che nel testo troviamo richieste politiche precise, a livello di diritti umani e principi democratici, che sono diventate oggi la premessa e le condizioni che l’Ue chiederà per concludere il primo accordo di cooperazione con l’Iraq».
«Sull’istanza di abolizione universale della pena di morte, sulla quale non siamo secondi a nessuno – ha poi commentato il presidente del “Movimento per la vita”, Carlo Casini, invitando a riaffermare le radici cristiane dell’Europa – sento il dovere di rilanciare l’iniziativa promossa da Giuliano Ferrara di una moratoria sull’aborto come conseguenza logica dell’affermazione del valore della vita umana».
Commenti di piena soddisfazione per il contenuto e la forma unitaria del voto sono venuti egualmente da sinistra. A nome dell’intero gruppo di parlamentari Pd, di cui è presidente, Patrizia Toia ha annunciato il voto favorevole dichiarando che «la condanna a morte di Tareq Aziz, insieme a due altri ex funzionari, le uccisioni dei cristiani iracheni a Mosul e gli attacchi ai luoghi di culto cristiano non lasciano indifferente il Parlamento europeo, da sempre sensibile in prima linea per garantire il rispetto dei diritti fondamentali».
Un voto, quello di Strasburgo, in pieno accordo con la politica della Farnesina: il ministro degli Esteri Franco Frattini ha annunciato che, in occasione della sua visita a Baghdad del prossimo 5 dicembre, chiederà l’istituzione di una commissione governativa irachena che si occupi della libertà di culto dei cristiani. «Voglio parlare della libertà dei cristiani – ha aggiunto – e chiederò con forza che ci sia una commissione governativa irachena che si occupi della libertà dei cristiani di esercitare il loro culto ovunque».