"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

29 marzo 2013


Buona Pasqua!

Happy Easter!  

By Baghdadhope*

27 marzo 2013

I leader cristiani di Baghdad propongono al governo un piano di riconciliazione nazionale

By Baghdadhope*



L’incontro avvenuto ieri tra il patriarca caldeo, Mar Raphael I Sako, ed i capi delle altre confessioni cristiane di Baghdad, e che ha avuto come punto centrale in discussione l’elaborazione di un piano pastorale comune, ha avuto oggi un risvolto politico con l’incontro degli stessi prelati con il primo ministro iracheno Nouri Al Maliki ed altre personalità del governo tra le quali il ministro dell’ambiente, il cristiano Sargon Lazar.
Guidati da Mar Sako i prelati hanno presentato al governo un piano di riconciliazione nazionale per il quale il premier Al Maliki ha espresso gratitudine. 
Per l’occasione il patriarca caldeo, dopo aver ringraziato il premier per la sua partecipazione alla cerimonia della propria intronizzazione lo scorso 6 marzo, ha ricordato come “Cristo dice nel Vangelo: il più grande tra voi sia il vostro servitore. Lei – rivolgendosi appunto ad Al Maliki – è il più grande tra noi in quanto a responsabilità ed è quindi suo dovere prendere l’iniziativa per la riconciliazione come farebbe un padre, per il bene dell’Iraq e degli iracheni.”
Baghdadhope pubblica il piano di riconciliazione proposto da Mar Louis Raphael I Sako e dagli altri capi cristiani di Baghdad, presentato al primo ministro iracheno, Nouri al Maliki, e che è stato inoltrato anche al Presidente della Repubblica Irachena, a quello della regione autonoma del Kurdistan ed al presidente del Parlamento centrale, Osama Al Nujaifi, che domani incontrerà il patriarca Sako ed i capi cristiani.

Si tratta di un’iniziativa per il dialogo e la riconciliazione nazionale con l’aiuto dei quali superare l’attuale situazione politica, riavvicinare i suoi rappresentanti a quelli del governo e ricostruire la fiducia reciproca. Passi coraggiosi da fare per il bene del paese e del popolo che ancora soffre,  teme per il proprio futuro e merita di essere amato dai suoi governanti e di raggiungere finalmente la pace e la stabilità.
Ciò che chiediamo è che ognuno si assuma le proprie responsabilità e ciò che proponiamo è riassunto in 4 punti:
1.  Non permettere interventi stranieri in materia di politica interna e occuparsi della edificazione della casa irachena attraverso l’attiva partecipazione di tutte le componenti del mondo politico. 
2. Impegnarsi a risolvere i contrasti attraverso lo strumento del dialogo evitando di usare i media per istigare, provocare e minacciare, specialmente in considerazione delle imminenti elezioni che decideranno delle sorti del paese.
3. Riaprire i dossier che riguardano i detenuti nel territori di competenza del governo centrale ed in quello del Kurdistan rilasciando gli innocenti e premettendo loro di riunirsi alle proprie famiglie.
4. Istituire una commissione per il dialogo che ne segua le tappe e la messa in pratica.

Il testo si conclude con una nota di ottimismo: che tutti gli iracheni possano concordare su una frase sola: lunga vita all’Iraq!

Incontro tra i rappresentanti delle Chiese sulla condizione e i problemi attuali delle comunità cristiane

By Fides

Ieri martedì 26 marzo i capi e i rappresentanti delle Chiese e delle comunità cristiane presenti in Iraq si sono riuniti presso la sede del Patriarcato caldeo a Baghdad per confrontarsi sulla condizione presente dei battezzati che vivono nella nazione mediorientale e per affrontare in maniera condivisa le emergenze e le difficoltà che affaticano la presenza dei cristiani in quel Paese nell'attuale momento storico. L'incontro, convocato dal Patriarca di Babilonia dei Caldei Louis Raphaël I Sako, ha visto la partecipazione di rappresentanti autorevoli delle Chiese greco-ortodossa, armena apostolica, assira d'Oriente, siro-ortodossa, copta ortodossa e siro-cattolica. Alla riunione era presente anche George Chamoun, presidente della comunità avventista in Iraq.
L'ecumenismo e il dialogo fraterno di comunione con tutti i cristiani rappresenta una priorità per l'attuale Patriarca caldeo.
“Adesso”
aveva dichiarato S. B. Sako all'Agenzia Fides dopo la sua elezione “purtroppo si sente qualcuno che dice: sono più armeno che cristiano, più assiro che cristiano, più caldeo che cristiano. E persiste qua e là una mentalità tribale, per cui ogni villaggio punta a avere il 'suo' Vescovo o il 'suo' Patriarca. In questo modo si spegne il cristianesimo. Noi, come Vescovi, dobbiamo essere vigilanti contro queste forme malate di vivere la propria identità”.

26 marzo 2013

Kurdistan, mons. Warda: Europa non dimentichi i cristiani del Medio Oriente


A dieci anni dalla caduta del regime di Saddam Hussein, il Kurdistan, nel nord iracheno, vive una situazione di relativa calma, lontana dalla violenza che agita ancora Baghdad e le altre città. E’ a Erbil, capitale ma anche provincia del Kurdistan, che si trova la comunità cristiana più grande dell’intero Paese, in tutto 6.000 famiglie. Nelle altre due province, quella di Sulaimaniya e quella di Dohuk, in totale se ne trovano circa 4.500. La maggior parte di loro si è insediata in Kurdistan negli ultimi anni, in fuga dal conflitto tutt’ora in corso in Iraq. Nonostante si viva con maggiore sicurezza, però, anche i cristiani del Kurdistan lasciano le loro case.
Lo conferma l’arcivescovo caldeo di Erbil, mons. Bashar Warda, intervistato da Francesca Sabatinelli:

Il problema in Iraq dipende dall’instabilità politica, che pregiudica la vita quotidiana non solo dei cristiani, ma di tutti gli iracheni. Le persone soffrono per tutto questo, ovviamente, in quanto minoranza gli effetti negativi sono più visibili sui cristiani. Non c’è la percezione della sicurezza, questo è ciò che vive ogni cristiano, la maggior parte delle famiglie sono dovute emigrare tre volte negli ultimi 40 anni. Certo, la situazione in Kurdistan è migliore, non c’è paragone con il resto dell’Iraq. Qui, si vive con la sensazione di essere in sicurezza, in una comunità come Ankawa (quartiere cristiano di Erbil - N.d.R.), che è a maggioranza cristiana, con cinquemila famiglie ci si sente a proprio agio. Si può viaggiare, si può andare nel resto del Kurdistan ogni volta che si vuole. In ogni caso, però, questo grande conflitto politico contamina tutti gli iracheni. E se parliamo dei cristiani, in quanto minoranza vengono colpiti più degli altri.
Qui, in Kurdistan, come vivono i cristiani? C’è discriminazione ad esempio sotto il profilo lavorativo?
Non voglio parlare di discriminazione contro i cristiani. La mancanza di lavoro dipende anche dal fatto che, arrivati qui perché fuggiti dall’Iraq, non parlano il curdo, ecco perché noi come Chiesa abbiamo cercato di sostenerli aprendo corsi di lingua curda. La situazione è diversa per coloro che sono più qualificati, che hanno una laurea: il governo regionale del Kurdistan cerca di incentivarli, di non farli partire.
Sappiamo che molti cristiani iracheni sono arrivati in Kurdistan negli ultimi anni, in molti però ora lo stanno lasciando, proprio a causa delle difficoltà di cui parla lei…
Il Kurdistan è nel cuore del Medio Oriente e sappiamo che si tratta di una zona instabile. Confiniamo con la Siria, con tutta la sua violenza. I cristiani avvertono che l’area non è in sicurezza, non c’è futuro, emigrano dalla Siria, dalla Turchia, dall’Iraq, dalla Giordania. La Chiesa più di una volta ha denunciato la drammatica emigrazione dei cristiani dal Medio Oriente, più di una volta ne ha parlato come di una grande sfida. Certo, dall’Iraq emigrano più cristiani che altrove. Chi lascia il Kurdistan non è perché vive male, ma per questo senso di instabilità che attraversa tutta la regione. Anche perché sappiamo che qualsiasi cosa accadrà in Siria riguarderà tutti, non è un segreto. I cristiani me lo ripetono: siamo stanchi, ne abbiamo abbastanza di tutti questi cambiamenti. Per loro, questi cambiamenti sono forzati, li subiscono, non sono una scelta.
Quanto è difficile per lei, arcivescovo di Erbil, svolgere il suo ministero qui?
Ho vissuto a Baghdad, sono nato lì, ho visto la violenza, i miei parrocchiani erano tremila famiglie, dopo il 2005 è iniziato l’esodo. Alla fine del 2006, erano scesi a mille famiglie, oggi sono ancora di meno. E’ difficile assistere a tutto questo, assistere alle Messe senza fedeli, al catechismo senza ragazzi, alla chiusura delle Chiese alle sei del pomeriggio, all’eliminazione di qualsiasi attività pastorale... In un certo modo, vedi la tua Chiesa morire e non ti resta che accettare la realtà e restare al tuo posto. Nel 2010, sono stato nominato vescovo di Erbil. A Baghdad e a Mossul chiudevano le chiese, io qui dovevo aprirne delle nuove. Fino ad oggi, non siamo riusciti a costruirne neanche una per mancanza di soldi, su di noi pesa persino la crisi economica in Europa. Speriamo per il prossimo anno se ne possa finire almeno una, per 1.200 famiglie che oggi non hanno una parrocchia. A volte mi dico: trent’anni fa a Baghdad sono state costruite chiese che oggi sono quasi vuote e mi chiedo cosa ne sarà tra trent’anni di un complesso costruito qui e per il quale magari sono stati spesi tre milioni di dollari. Dobbiamo ripetere la stessa esperienza di Baghdad e Mossul? Guardare svuotarsi le nostre chiese? E’ anche vero che quest’anno il governo regionale del Kurdistan ha accettato di finanziare la costruzione di una chiesa a Ankawa, in un distretto dove vivono mille famiglie cristiane. Per luglio, forse, inizieranno i lavori. Quindi, posso dire che se da una parte il nostro paese presenta un’immagine triste, dall’altra ci sono anche buone notizie.

E quanto è difficile la convivenza con la maggioranza musulmana?
Devo dire che non è difficile, in Iraq come qui in Kurdistan, c’è un rapporto quotidiano, abbiamo vissuto insieme per secoli. Naturalmente, in questa situazione di caos e di precarietà, successiva al 2003, ci sono gruppi che hanno attaccato i cristiani: per ragioni politiche, economiche e sociali. Certo, non possiamo ignorare che c’è chi ha perseguitato i cristiani in quanto tali. Per quanto mi riguarda con la comunità islamica di qui ho ottimi rapporti, partecipo in moschea ai loro eventi, e stessa cosa fanno loro, per Natale, per Pasqua. L’Iraq è una maggioranza di minoranze. Ci sono le tribù, le ideologie, i partiti, qualsiasi governo al potere deve avere come obiettivo il mantenimento del dialogo tra le differenti comunità. Qui, in Kurdistan, hanno una strategia in questo senso, incoraggiano il dialogo e la tolleranza, sia a parole che con i fatti. Da parte mia, io sollecito i Paesi europei e le istituzioni europee a tenere alta l’attenzione sui cristiani del Medio Oriente: c’è bisogno della diversità in questa area, e non perché noi cristiani siamo storicamente qui, ma perché un Medio Oriente fatto di una o due comunità sarebbe un disastro. Io incoraggio l’Europa a impegnarsi fortemente per il Medio Oriente, non soltanto a parole durante circostanze ufficiali. Il Medio Oriente deve entrare nella loro agenda. Ci sono comunità che sono andate via, che stanno diminuendo sempre più, sarebbe troppo duro accettare una totale evacuazione dal Medio Oriente.

23 marzo 2013

Aspettiamo il Papa in Iraq

By SIR

La commozione del Pontefice per le persecuzioni: 950 martiri e 57 chiese attaccate. Louis Raphaël I Sako, Patriarca di Babilonia dei Caldei (Baghdad): ''I cristiani iracheni hanno bisogno della sua presenza per essere confermati nella fede e nella speranza''
“L’udienza è durata venti minuti. In questo tempo ho potuto constatare come Papa Francesco sia veramente un padre gentile, vicino alla gente, un pastore ricco di bontà. Venti minuti, volati in un attimo”.
Così Louis Raphaël I Sako, Patriarca di Babilonia dei Caldei (Baghdad), racconta al Sir l’udienza del 21 marzo con Papa Francesco. Un colloquio “cordiale” nel quale il patriarca di Baghdad ha descritto al Pontefice la situazione irachena, quella dei cristiani locali ed espresso la necessità di raggiungere quanto prima “sicurezza e stabilità”. Dopo dieci anni dalla seconda guerra nel Golfo, scoppiata il 20 marzo del 2003, infatti, il Paese non ha ancora ritrovato del tutto la strada della completa rinascita e ricostruzione.
Al termine dell’udienza, Daniele Rocchi, per il Sir, ha posto alcune domande al patriarca Louis Raphaël I Sako.

Patriarca, cosa ha detto a Papa Francesco?
“Gli ho parlato della Chiesa perseguitata in Iraq, dei suoi 950 martiri e delle sue 57 chiese attaccate. E mentre parlavo gli ho visto le lacrime scendere sul suo volto e sentito la sua voce che ripeteva ‘perché, perché?’. Abbiamo parlato dell’importanza del dialogo islamo-cristiano, specialmente per noi che viviamo in Paesi a maggioranza musulmana. Il Papa mi ha detto che il dialogo è difficile ma possibile. Al termine dell’udienza l’ho invitato in Iraq…”.
Invito fatto al Papa anche dal ministro dell’Ambiente iracheno, il cristiano Sargon Lazar, che ha partecipato alla celebrazione di inizio pontificato…
“Mi ha risposto che verrà volentieri. Noi lo aspettiamo. L’Iraq ha bisogno di lui, i cristiani iracheni hanno bisogno della sua presenza per essere confermati nella fede e nella speranza. Ho detto al Papa: ‘Lei dona senso e speranza alle nostre vite nonostante le difficoltà. Preghi per l’Iraq’”.
Dopo essere stato ricevuto in udienza e dopo averlo seguito in questi primi giorni di pontificato che idea si è fatto di Papa Francesco?
“Di un uomo ricco di cuore e di grandi motivazioni. Francesco è un padre che porta il Vangelo alla gente di oggi. Quello che sto vedendo in questi primi giorni è una continua catechesi fatta di gesti e parole semplici, come usava fare Gesù che parlava diretto al cuore degli uomini con termini come servizio, tenerezza, misericordia, accoglienza, aiuto, perdono. Questa è l’essenza del Vangelo. Il Pontefice sente la preoccupazione di portare il Vangelo alla gente di oggi e di come parlare di pace e di amore”.
Sono molti coloro che da questo pontificato si aspettano un rinnovamento della Chiesa, è d’accordo?
“Certamente. Il suo esempio e la sua guida mi aiuteranno anche nel tentativo di rinnovare la Chiesa caldea. Sarà necessario molto impegno. Il messaggio della Chiesa deve essere incarnato nei tempi presenti”.
Tempi presenti ancora carichi di ombre per l’Iraq. Sono passati dieci anni dallo scoppio della Seconda guerra del Golfo, 20 marzo 2003. Cosa è cambiato nel suo Paese?
“Oggi abbiamo tanta libertà, ma mancano ancora la sicurezza, sebbene sia migliorata, e la stabilità. Ciò che serve al nostro Paese è la riconciliazione fra i politici, un passo essenziale per garantire stabilità. Altrimenti il rischio divisione è dietro l’angolo”.
Come favorire questo passo fondamentale per le sorti irachene?
“Ho detto al Santo Padre della mia intenzione di favorire questa riconciliazione fra gruppi politici, fra Governo e Opposizione, fra Governo centrale e quello curdo. Urge un dialogo sincero e coraggioso. Erano tutti presenti a Roma alla cerimonia di intronizzazione del Papa. Il primo Ministro, Nuri al-Maliki, ha ripetuto quello che io stesso avevo detto in precedenza nel mio insediamento, ovvero dell’urgenza della riconciliazione. Andrò a trovare il premier per parlare di questa necessità. Se ci saranno iniziative volte al bene comune il popolo avrà più rispetto per la politica”.
Quale eredità lascia questa guerra al suo Paese? Forse la democrazia?
“Una guerra non è mai positiva. Mai. La guerra distrugge e uccide. La democrazia non si può imporre con le armi ma con l’educazione e la formazione del popolo. Ma ci vuole tempo così come richiede tempo fare riforme e cambiamenti. In Iraq abbiamo avuto una brutta esperienza ed ora la stessa cosa sta accadendo in Siria e in Egitto. Questi Paesi devono imparare dalla esperienza irachena. Le riforme non si fanno con le armi, ma con il dialogo”.
Che Pasqua sarà, quella prossima, per l’Iraq?

“Pasqua è la festa della speranza, della vittoria sulla morte. Pasqua vuol dire anche passaggio: io spero che sia la festa del passaggio a una vita migliore per l’Iraq, senza i problemi che oggi l’attanagliano. La mia preghiera è che sia per noi cristiani un motivo forte per riscoprire la nostra identità. Cristiano significa essere testimone di gioia e di speranza, di fiducia e di servizio. Da questo punto di vista auspico un maggiore coinvolgimento dei nostri fedeli nella vita pubblica. Devono restare in Iraq e contribuire al suo sviluppo”.

Mons. Sako: ho invitato il Papa in Iraq, abbiamo bisogno della sua forza spirituale


Un invito a venire in Iraq e la certezza di una piena partecipazione alla difficile situazione dei cristiani che vivono in quel Paese. È ciò che il nuovo Patriarca di Babilonia dei Caldei, mons. Louis Sako, ha riportato dell’udienza avuta due giorni fa con Papa Francesco in Vaticano.
Al microfono di Helen Destombes, il presule descrive l’incontro col Pontefice e le aspettative legate al suo ministero :

Ho sentito la sua bontà, una bontà molto grande, e uno spirito che si impone, che si riflette, senza bisogno di parlare. Io sono andato per chiedergli soltanto se nel suo discorso avrebbe menzionato i musulmani, perché questo ci aiuta a vivere insieme, a cambiare le cose come pastori, che vivono le stesse preoccupazioni, le stesse aspirazioni. Già il suo nome mi diceva molto e allora gli ho detto che San Francesco è venuto in Medio Oriente e ha incontrato i musulmani. Quindi ho aggiunto: “Io la invito a fare la stessa cosa. Noi abbiamo bisogno di lei, della sua vicinanza, del suo incoraggiamento per rimanere lì a testimoniare i valori evangelici”. E lui ha detto: “Certo, certo, verrò”. Poi, mi ha rivolto delle domande sulla situazione dei cristiani in Medio Oriente, anche in Iraq.

Ascoltandola si ha la sensazione che ci sia stato uno scambio di estrema fraternità, di estrema vicinanza…
Sì. Ci sono delle similitudini. E’ stato chiamato dall’Argentina e subito ho pensato: “Ha un’esperienza con i poveri; il nostro è un Paese ricco, ma è stato sfruttato come l’America Latina. La guerra ha lasciato molti poveri, orfani, vedove…”. Quindi, gli ho detto che abbiamo avuto molti martiri. E lui ha espresso tutto il suo dolore. Io gli ho detto: “Noi siamo perseguitati, ma siamo molto forti. Dentro di noi abbiamo la pace e la gioia”. E lui: “Questa è la fede”. Gli ho anche espresso che essere Papa non è soltanto avere una carica, ma credo che sia anzitutto una vocazione, una chiamata del Signore. Mi ha detto: “Sono pienamente d’accordo”. Alla fine mi ha detto di pregare per lui e io di rimando: “Anche io ho bisogno della sua preghiera. Noi pregheremo tutti per lei, affinché resti sempre com’è: un uomo che porta la luce di Dio, la parola del Vangelo, un uomo profetico. Noi abbiamo bisogno di un uomo che sia profeta per il nostro tempo, per la gente, che dia un senso alla vita e soprattutto tanta speranza.

Un uomo che viene dall’America del Sud, un argentino, per evangelizzare in particolare l’Europa
Non so se sia solo l’Europa. Credo anzitutto per evangelizzare la Chiesa cattolica: quando la Chiesa cattolica è evangelizzata, può allora aiutare gli altri a rivedere il senso della loro vita e riscoprire la propria identità: chi sono? Cosa cerco? Questo è molto importante e Papa Francesco in questo ci può aiutare. E’ necessario rivedere con molta sincerità la nostra vita, entrare in noi stessi in profondità e vedere cosa facciamo, chi siamo: perché siamo qui come preti, come vescovi, come patriarchi o cardinali? Che cosa Dio si aspetta da noi e cosa la gente si aspetta da noi? Questo per ritrovare, per riscoprire la nostra missione che è molto dinamica e molto esigente.

22 marzo 2013

Guerra in Siria. Caritas a sostegno dei civili, mons. Audo: la pace è possibile


La guerra in Siria rischia di contagiare il vicino Libano: in scontri tra opposte fazioni nella città di Tripoli del Libano sono morte oggi almeno 5 persone. Ieri, in Siria, un attentato kamikaze ha colpito la moschea di Iman, nel distretto di Mezzeh, al centro di Damasco, causando almeno 15 vittime, tra cui un importante capo religioso legato al regime. Intanto, un'inchiesta sul presunto utilizzo di armi chimiche in Siria, dopo le accuse rivolte martedì scorso dal regime ai ribelli per il lancio di un razzo armato con sostanze chimiche vicino ad Aleppo, è stata annunciata dal segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, che ha chiesto ''un accesso al Paese senza restrizioni'' per poter condurre le indagini.
E per chiedere a Dio la pace in Siria, si è tenuta ieri sera, nella Basilica di Santa Maria in Trastevere a Roma, una veglia di preghiera. A promuoverla è la Caritas Internationalis che in Siria coordina gli aiuti alla popolazione in collaborazione con le Caritas nazionali.
Il collega Jean Pierre Yammine ha sentito in proposito mons. Antoine Audo, vescovo caldeo di Aleppo e presidente di Caritas Siria, presente all'evento:
 
Io sono stato invitato dalla Caritas Internationalis per vedere, insieme ai nostri collaboratori nel mondo, come poter organizzare gli aiuti in Siria. Come sa, le Caritas di Europa, degli Stati Unti e del Canada sono molto interessati al nostro lavoro e ci aiutano in diversi programmi in Siria, che Caritas divide in sei regioni. In ogni regione abbiamo un centro Caritas che è organizzato per portare aiuti ai differenti gruppi.
Materialmente che tipo di aiuti riuscite ad offrire?

In questa crisi la gente non lavora. Posso dire che i siriani sono ormai divenuti tutti poveri: questa è la verità! E’ necessario quindi, prima di tutto, organizzare gli aiuti alimentari per le famiglie in ogni regione. Questo rappresenta la prima emergenza. Poi c'è tutto l’aspetto medico-sanitario: quindi l’aiuto medico per i bambini, per i malati, per le donne e per le persone anziane. Anche qui, in ogni regione, ci sono programmi di aiuto. Abbiamo poi fatto il programma per l’inverno, per aiutare la gente a sopportare il freddo. Ci sono programmi per i bambini nelle scuole. Cerchiamo poi di aiutare a cercare una casa per coloro che sono profughi in Siria.

Se vogliamo chiudere con una parola di speranza, cosa può dirmi?

La speranza, prima di tutto, è quella di andare avanti perché la pace è possibile. Dobbiamo fare tutto quello che possiamo, ma anche pregare e chiedere ai potenti di scegliere la pace al posto della violenza e degli interessi politici e economici.

Syrian bishop says war saddens him, but he does not despair

by Cindy Wooden

Ministering in a time of war in his hometown, the Chaldean Catholic bishop of Aleppo, Syria, said: "Deep down, I'm not frightened, I'm not scared. I'm sad.
"Syria was, is and will be a beautiful country," he said. "Please help us."
Chaldean Catholic Bishop Antoine Audo said that, just two years ago, Syria was considered a land of plenty, a welcoming Middle Eastern country that offered shelter to refugees fleeing conflicts in neighboring countries, particularly Iraq.
"Syrians are now poor," he said at a meeting March 21 after celebrating a Mass for peace in Syria at Rome's Basilica of Santa Maria in Trastevere. The Mass and a reception afterward were part of a meeting of Catholic charities funding aid projects in Syria through Caritas Internationalis, the umbrella group for national Catholic charities.
Bishop Audo, president of Caritas Syria, thanked the Catholic aid agencies -- including the U.S. bishops' Catholic Relief Services and the Canadian Catholic Organization for Development and Peace -- for their "prayers, generosity and constant efforts to put an end to this fratricidal war."
According to the United Nations, more than 70,000 people -- mostly civilians -- have been killed and more than 3 million Syrians have been displaced inside the country since the uprising against President Bashar Assad began in March 2011. In addition, some 1.1 million people have taken refuge in Lebanon, Jordan and Turkey.
In his homily, Bishop Audo said Syrian Christians want to be "instruments of forgiveness and reconciliation" in their country. They are "respected and loved because they have not taken sides, they do not seek power, they don't have vengeance in their hearts."
"Gazing on the disfigured face of the crucified Christ"
on the faces of the aged, the children and the many young people who have been killed, he said, Christians have placed themselves at the service of all, without regard for religious belonging.
Speaking at the reception afterward, Bishop Audo repeatedly referred to the war as a "confessional conflict" between the minority Alawite Shiites and the country's Sunni Muslim majority.
He insisted Christians have not been targeted as Christians, except in some kidnapping cases, because Christians are thought to have more money.
Bishop Audo said many of his fellow Syrians are saying the fighting will go on and on, "but I harbor trust in Syria."
"I await a future for Syria with greater democracy and the rediscovery of the art of living together peacefully" with people of other ethnic and religious backgrounds, he said.
In the meantime, Syrians, "who are all in the same boat, so to speak," are helping each other.
Bishop Audo told the story of five priests who are working with about 100 Muslim families from the outskirts of Aleppo who have taken refuge in two public schools near his house.
The priests, he said, knew they could have been accused of trying to proselytize Muslims or of siding with the anti-Assad militias, because the families come from a strongly pro-militia neighborhood.
"Doing anything or everything in this situation requires true balance, because everything can be read as religiously or politically motivated," he said.
Still, Bishop Audo said, with support and counsel from the Maronite Archbishop Youssef Abi-Aad of Aleppo, a Lebanese who had experienced war in his home country, assistance to the families at the schools has continued. He said the two bishops now fondly refer to the schools as "our Muslim parishes."

21 marzo 2013

Il Patriarca caldeo Sako, a 10 anni da "Iraqi Freedom": la guerra fu un "male"


E’ stata rivendicata da Al Qaida l’ondata di attacchi anti-sciiti che nelle ultime 48 ore hanno insanguinato l’Iraq, con un bilancio di circa 60 morti e oltre 200 feriti. Nel Paese la violenza, seppur diminuita rispetto agli anni passati, continua a mietere vittime, a dieci anni dall’intervento degli americani per rovesciare il regime di Saddam Hussein. Proprio ieri infatti si è ricordato l’avvio delle operazioni militari a guida statunitense, ma nel Paese non si è svolta nessuna celebrazione, a causa delle stragi. Intanto negli Stati Uniti, i sondaggi dimostrano che per oltre la metà degli statunitensi quella guerra fu “un’idiozia”, non fu una “guerra moralmente giustificata” e in molti pensano di essere stati ingannati dall’ex presidente del tempo, George W. Bush.
Cos’è l’Iraq di oggi?
Francesca Sabatinelli lo ha chiesto a Mons. Louis Sako è il neo Patriarca di Babilonia dei Caldei, arrivato a Baghdad da Kirkuk dove era arcivescovo:
 C’è libertà ma non c’è sicurezza, dunque manca l’essenziale. Ci vuole tempo.
 Però, in attesa ci sono tante persone che continuano a morire. Come si fa a fermare questa violenza?
Io penso che abbiamo bisogno di un dialogo coraggioso, sincero, fra gruppi politici. Nel governo ci deve essere armonia e buona intesa.
Quindi, se lei dovesse pensare all’eredità lasciata dall’intervento degli americani di dieci anni fa, lei che cosa potrebbe dire? Doveva accadere?
No, no. La guerra è sempre male e noi abbiamo un’esperienza molto brutta con le guerre: sempre ci sono state guerre in Iraq. Non sono venuti per realizzare la democrazia, per imporre la democrazia, perché è un qualcosa che non può essere imposta dall’alto, con un decreto. Bisogna formare la gente! Non sono venuti per salvare gli iracheni dalla dittatura. Come sta accadendo anche adesso nella primavera araba: loro predicano la democrazia, ma vendono armi o danno armi a tutti, anche l’America. Hanno cambiato l’Egitto e ora è la volta della Siria, dove c’è una guerra quasi civile. Le riforme non si fanno con le armi, ma con il dialogo. Se volevano cambiare le cose in Iraq, potevano farlo in altro modo, senza la guerra.
Lei di che cosa ha paura? Che cosa teme in questo momento per il suo Paese?
Ho paura di due cose: anzitutto che il Paese venga diviso, ma ho anche paura che non ci sia libertà, non ci sia sicurezza. La gente ha perso la fiducia nel futuro e nei responsabili. Se questo continuerà, i cristiani andranno via. La comunità internazionale ha una responsabilità molto grande nei confronti di tutti questi Paesi: prima c’è bisogno di capirne la mentalità, la cultura e anche la religione, e soprattutto cosa pensa la gente.
E’ vicina la Pasqua e quest’anno lei la trascorrerà a Baghdad: in che modo?
Sarò a Baghdad e per me sarà una nuova esperienza. La gente a Baghdad ha più paura rispetto ai fedeli che vivono in Kirkuk o anche in Kurdistan. Sarò molto vicino a loro. Presenterò anche una iniziativa per la riconciliazione nel governo iracheno: bisogna che il governo sia riconciliato, che vi sia armonia. Questo avrà un impatto sulla gente, perché quando la gente ha fiducia in loro, quando loro servono la causa della gente, quindi della pace e della sicurezza, tutti possiamo guadagnarci. Dunque, incoraggerò i cristiani a rimanere e anche a contribuire allo sviluppo del Paese, partecipando alla vita politica, entrando nei partiti politici. Adesso l’ambiente è più adatto e aiuta di più.

L’Iraq è un Paese economicamente in gravi difficoltà, nonostante l’impennata del prezzo del petrolio e nonostante abbia scalzato l’Iran al numero due della classifica dell’Opec, l’Organizzazione dei Paesi produttori di Petrolio. Il tasso di disoccupazione è molto alto, soprattutto nel sud del Paese, i redditi delle famiglie sono depressi. La corruzione dilaga al pari della violenza e delle violazioni dei diritti umani.
Il parere di mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad:
Noi non vogliamo ricordare, noi aspettavamo altre cose. Il popolo iracheno aspettava la liberazione vera dalla dittatura. Invece, abbiamo sperimentato tante altre cose e non buone. L’amarezza delle autobombe, ieri, erano più di dieci. L’amarezza dei kamikaze, l’amarezza nel vedere le mine disseminate in terra, che ammazzano innocenti. Noi volevamo avere la libertà, ma a questa libertà non si è stati educati, è stata imposta, ma è impossibile obbligare chiunque ad essere libero. Prima è necessario educarlo. Noi abbiamo pregato tanto e preghiamo ancora per avere la vera libertà, la vera democrazia. Perciò, vogliamo chiedere a tutto il mondo di non vendere le armi a nessuno, le armi producono orfani e vedove. Quindi noi preghiamo per avere la vera libertà, quella che ci ha dato Cristo morendo per noi. Perché la libertà che c’è ora uccide. E’ una libertà interessata, perché l’occupazione dell’Iraq è avvenuta per interessi grandi, interessi del petrolio. Noi vogliamo la vera democrazia, la vera libertà. Chiedo che questa Pasqua sia una Pasqua di pace, veramente una resurrezione della vera vita spirituale, affinché tutti si avvicinino a Dio per il bene dell’uomo.

Patriarca Sako: Il Papa venga in Iraq seguendo l'esempio di S. Francesco


È l'invito di Mar Louis Raphael I Sako, Patriarca della Chiesa caldea, al nuovo pontefice. L'incontro fra il prelato e papa Francesco è avvenuto questa mattina in Vaticano. La commozione del Santo Padre di fronte alle sofferenze dei cristiani iracheni. La priorità del dialogo con i musulmani.
Come San Francesco ha viaggiato in Oriente e ha incontrato il sultano Malik al-Kamil, così oggi speriamo che papa Francesco "possa venire in Iraq, per confermarci nella fede e donare alla nostra piccola comunità nella terra di Abramo il coraggio e la speranza".
È l'invito lanciato da sua Beatitudine Mar Louis Raphael I Sako al pontefice - nel corso dell'udienza di questa mattina in Vaticano - al quale papa Bergoglio "ha risposto con gioia di sì". A raccontarlo ad AsiaNews è lo stesso Patriarca della Chiesa caldea irakena, che questo pomeriggio tornerà a Baghdad dopo aver partecipato alla messa di inaugurazione del pontificato celebrata il 19 marzo scorso in piazza San Pietro.
Il porporato confessa di essere "molto colpito dalla semplicità e spontaneità" del papa, che durante il colloquio si è commosso di fronte alla dramma dei cristiani dell'Iraq: "Sono al cospetto di un padre e di un pastore di prima classe. Quando ho raccontato che la nostra terra ha avuto 950 martiri e 57 chiese attaccate, con le lacrime agli occhi mi ha detto: 'mi sento addolorato per voi'".
Il patriarca racconta che Francesco ha chiesto notizie sulle diocesi, sulle vocazioni nel Paese martoriato da 10 anni da continui attentati e dalla lotta fra sciiti e sunniti. "Mi ha chiesto di pregare per lui - afferma - io l'ho invitato a farci visita in Iraq e il pontefice si è detto desideroso di visitare la nostra terra, che è anche il luogo da cui partì Abramo e la sua visita infonderebbe in noi coraggio e speranza". Nel colloquio sua Beatitudine Mar Luis Raphael I ha chiesto al papa di parlare anche ai musulmani, incontrandoli come fece S. Francesco, sottolineando l'importanza del dialogo interreligioso perché "quando il capo della Chiesa parla al mondo islamico, noi cristiani siamo apprezzati e la gente ci rispetta". 
"Abbiamo infine pregato insieme - aggiunge il patriarca - recitando il Padre Nostro e l'Ave Maria per l'Iraq. Il papa ha dato la sua benedizione a tutti gli iracheni preti, religiosi, religiose e laici". 

20 marzo 2013

Iraq: ondata di attentati nel decimo anniversario della seconda Guerra del Golfo


Nel decimo anniversario della caduta di Saddam in Iraq, ieri nel Paese 15 autobombe hanno provocato oltre 60 vittime soprattutto tra gli sciiti. E’ l’ultimo di una serie di attacchi che negli ultimi giorni hanno sconvolto il Paese, tanto da indurre il governo a rinviare, per motivi di sicurezza, le elezioni provinciali in programma il 20 aprile. Mentre l’ex premier britannico Blair ha difeso l’intervento militare di 10 anni fa da parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti ma alla quale diversi Paesi non parteciparono in assenza di un mandato da parte delle Nazioni Unite, il presidente americano Obama in un messaggio ha reso omaggio ai circa 4.500 soldati uccisi.
Servizio di Francesca Sabatinelli:

Dieci anni dopo, attentati, sangue e morti non abbandonano l’Iraq. L’intervento americano doveva portare alla democrazia un Paese massacrato dal regime di Saddam Hussein, quel Paese oggi è ben lontano dall’immagine disegnata dall’allora guida della casa bianca, George W. Bush. Dieci anni in cui almeno 112mila civili sono morti. E’ lo stesso governo di Baghdad a fornire cifre raccapriccianti, tra gennaio e febbraio di quest’anno sono morte oltre 450 persone, uccise da bombe o attacchi armati. E a più di un anno dalla partenza degli ultimi soldati americani, era il dicembre 2011, i suoi abitanti sono stremati, la maggior parte dei cristiani sono fuggiti per cercare riparo altrove. La lotta fratricida tra sunniti e sciiti, maggioranza nel Paese, è senza esclusione di colpi. L’eredità di quella guerra iniziata dieci anni fa è ben visibile, testimoniata dai fori di proiettili sui muri, dagli edifici colpiti dai bombardamenti americani e non ancora ricostruiti. Chiunque in questo Paese ha perduto qualcuno di caro negli anni che hanno seguito l’invasione americana. L’ amministrazione Bush sperava con l’attacco del 20 marzo 2003 di sbarazzarsi delle armi di distruzione di massa, peraltro mai trovate, e di disfarsi di un regime brutale per rimpiazzarlo con una leadership in odore di democrazia di stampo occidentale. Dieci anni dopo, quest’ultimo punto è ancora aperto, e l’Iraq è un paese che ancora non conosce pace, con un premier Al Maliki che più che a Washington guarda a Teheran. Non mancano tuttavia i segnali di progresso, l’Iraq ha rimpiazzato l’Iran al secondo posto nell’Opec, Organizzazione dei paesi produttori di petrolio. Nella capitale, Baghdad, si cerca di dare vita a nuove attività, sorgono nuovi centri commerciali, lussuosi hotel vengono edificati in diverse parti del paese. C’è un cambiamento, ma non veloce quanto i cittadini, i giovani soprattutto, si aspetterebbero. Eppure loro per primi testimoniano che per quanto grandi corruzione e distruzione possano essere, le mani degli iracheni che lavorano per costruire un futuro sono tante.  
 

Papa: ministro Iraq invita Francesco a Baghdad, appello a dialogo tra fedi


Un invito a visitare l'Iraq e un appello affinche' il dialogo tra le religioni sia al centro del ministero papale. Questo il contenuto del messaggio che il ministro dell'Ambiente iracheno, il cristano Sargon Lazar, ha rivolto ieri a Papa Francesco al termine della messa inaugurale a piazza San Pietro. "Ho avuto l'onore di partecipare alla celebrazione dell'inizio del pontificato di Papa Francesco, in rappresentanza del mio paese e come cristiano", ha detto il ministro Lazar ad Aki - Adnkronos International.
A capo della delegazione del governo iracheno a Roma, Lazar ha detto che "nel ricevimento dopo la cerimonia ho inoltrato a Sua Santita' un messaggio da parte dal popolo iracheno, nel quale cristiani e musulmani lo invitano a visitare l'Iraq e in particolare la citta' storica di Ur".
Inoltre, il ministro ha espresso a Papa Francesco ''l'auspicio che il dialogo tra le religioni e le civilta' sia il tema principale del suo ministero".
Infine, "la terza richiesta era personale: ho espresso a Sua Santita' il desiderio di avere un cardinale del e per l'Iraq", ha concluso Lazar.

Iraq: 10 anni dopo, non e' qui il 'nuovo MO'

di Alberto Zanconato

Il caos che regna nell'Iraq di oggi, con il rischio di essere risucchiato nel conflitto siriano, e' molto diverso da quell'esempio di democrazia per tutto il Medio Oriente che i 'neocon' americani immaginavano alla vigilia dell'invasione che dieci anni fa fece cadere il regime di Saddam Hussein.
Da quel 20 marzo del 2003 almeno 110mila iracheni - secondo le stime piu' prudenti - sono morti nelle violenze, in gran parte civili. A questi vanno aggiunti i 4.486 militari statunitensi che hanno perso la vita. E 15 mesi dopo la partenza degli ultimi soldati americani, nel dicembre 2011, gli attentati continuano a mietere vittime. Secondo i dati del governo iracheno, nei mesi di gennaio e febbraio di quest'anno 466 persone sono morte nell'esplosione di bombe o a causa di attacchi armati. Al Qaida, che raccoglie miliziani sunniti e rivendica i piu' gravi attacchi terroristici, rimane forte in un Paese di cui ha fatto una delle sue principali basi in seguito alla caduta di Saddam Hussein. Sull'altro fronte l'Iran, grande potenza sciita confinante che in Saddam aveva il suo piu' pericoloso nemico, gode ora di una forte influenza nel Paese. Conseguenze che certo l'ex presidente americano George W. Bush non immaginava quando lancio' i suoi soldati nell'avventura irachena. La voglia di rinascita e' visibile a Baghdad, dove giovani gruppi musicali sono tornati a suonare nelle strade e la gente ricomincia ad andare a concerti o a teatro. La citta', che lo scorso anno ha ospitato il primo vertice della Lega Araba dopo 22 anni, e' stata scelta per il 2013 come 'Capitale della cultura araba'.
Ma, oltre ai pericoli per la sicurezza, pesano sul Paese la difficile situazione economica, la carenza di infrastrutture e la corruzione. Nella stessa capitale l'elettricita' e' disponibile soltanto alcune ore al giorno. Un settore in cui il Paese sta facendo passi da gigante c'e': quello petrolifero. Lo scorso anno l'Iraq ha prodotto una media di tre milioni di barili di greggio al giorno, superando l'Iran come secondo esportatore dell'Opec dopo l'Arabia Saudita. L'Agenzia internazionale dell'energia prevede che la produzione irachena possa raddoppiare, o addirittura triplicare, entro il 2020. Uno sviluppo a cui sta contribuendo l'Eni, che ha gia' investito 4-5 miliardi di dollari, ma su cui pesano ancora difficolta' burocratiche, le scarse infrastrutture per le esportazioni e le incertezze politiche.
Poco noto in Occidente e' il dramma dei cristiani iracheni.
Si calcola che almeno la meta' del milione e mezzo che viveva nel Paese sia partita per sfuggire alle violenze.
Ma lo scontro pericoloso per la stabilita' del Paese e' oggi quello tra sciiti, maggioranza nel Paese, e sunniti, che si inserisce nella guerra sotterranea in corso nella regione. Il premier Maliki appare schierato con l'Iran, che sostiene in Siria il presidente Bashar al Assad, della branca sciita degli Alawiti. I sunniti tendono a sostenere il fronte guidato da Turchia, Arabia Saudita e Qatar, che sta con l'opposizione siriana. Il presidente del Parlamento, il sunnita Osama al Nujaify, ha visitato recentemente Doha su iniziativa personale e Maliki lo ha attaccato definendolo "un settario che vuole la rivolta". Il segnale piu' inquietante di queste tensioni e' stato l'attacco dei sunniti di Al Qaida del 4 marzo contro il convoglio militare che riportava in Siria soldati governativi riparati in Iraq nel corso di scontri con i ribelli lungo la frontiera. Combattimenti durante i quali due soldati iracheni sono stati uccisi da proiettili da oltre confine e secondo alcune fonti locali l'esercito di Baghdad ha aperto il fuoco contro miliziani dell'Esercito libero siriano.

19 marzo 2013

20 mars 2003. Dix ans après. Je me souviens de toi, Bagdad!

By Baghdadhope*



J’ai vécu heureuse
Dans mes palais
D’or noir et de pierres précieuses
Le Tigre glissait
Sur les pavés de cristal
Mille califes se bousculaient
Sur mes carnets de bal
On m’appelait La Cité pleine de grâce
Dieu Comme le temps passe
On m’appelait Capitale de lumière
Dieu Que tout se perd

Je m’appelle Bagdad
Et je suis tombée
Sous le feu des blindés
Sous le feu des blindés
Je m’appelle Bagdad
Princesse défigurée
Et Shéhérazade M’a oubliée

Je vis sur mes terres
J’ai vécu heureuse
Dans mes palais
D’or noir et de pierres précieuses
Le Tigre glissait
Sur les pavés de cristal
Mille califes se bousculaient
Sur mes carnets de bal
On m’appelait La Cité pleine de grâce
Dieu Comme le temps passe
On m’appelait Capitale de lumière
Dieu Que tout se perd

Je m’appelle Bagdad
Et je suis tombée
Sous le feu des blindés
Sous le feu des blindés
Je m’appelle Bagdad Princesse défigurée
Et Shéhérazade M’a oubliée

Je vis sur mes terres
Comme une pauvre mendiante
Sous les bulldozers
Les esprits me hantent
Je pleure ma beauté en ruine
Sous les pierres encore fumantes
C’est mon âme qu’on assassine

On m’appelait Capitale de lumière
Dieu Que tout se perd
Je m’appelle Bagdad
Et je suis tombée
Sous le feu des blindés
Je m’appelle Bagdad
Princesse défigurée

People turned on Christians': Persecuted Iraqi minority reflects on life after Saddam

By NBC News
by Annabel Roberts
LONDON -- Rana stepped out of church in Baghdad in December 2006 to find an envelope wedged against her car windshield. Inside was a bullet -- a message that meant she and her family were next on an assassin’s list.
They fled the city the next day, leaving behind a business, a home -- everything. 

"I didn't like Saddam Hussein, but he didn't bother the Christians," said Rana, 29, after a church service in London. "He was a dictator. When he went, the gangs came from everywhere."

Rana isn’t alone: Bombings, kidnappings and generalized violence unleashed by the 2003 U.S.-led invasion of Iraq that toppled Hussein caused hundreds of thousands of Christians to flee their homeland.

While there is no centralized source of information on the number of Christians who have left Iraq, it is estimated that there were 2 million there in the 1990s. That number has fallen to between 200,000 to 500,000 today, according to church leaders.

Rana, who like others interviewed would not give her last name because of fear for the safety of relatives still in Iraq, is now part of a congregation that worships at Holy Trinity Brook Green, a Roman Catholic church in West London.

The congregants -- Syriac Catholics whose services are conducted in Aramaic, the language spoken by Jesus -- are part of the estimated 2,500 Iraqi Christians thought to live in the U.K.

In a pew near Rana sat Wasseem, a 26-year-old who arrived in the U.K. five months ago. The murder of his friend Rariq haunts him, Wasseem said through a translator. Rariq, also a Christian, was a driver for American forces in Baghdad and was kidnapped on his way to meet Wasseem. Rariq’s dismembered body was returned to his family five days later.

Wasseem received a handwritten death threat himself. Terrified, he decided to stay in his village in northern Iraq, he said. While safe, the predominantly Christian area offered no jobs, and he soon fled the country.

Extremists haven't targeted only individual Christians and their families. On Oct. 31, 2010, gunmen stormed Our Lady of Salvation Church in Baghdad during Sunday Mass, taking more than a hundred hostages. When security forces tried to free those held, the attackers detonated explosives. At least 58 people were killed, including two priests.

A singer at Holy Trinity Brook Green lost her father in the bombing. Rev. Nizar Semaan, chaplain to the Syriac Catholic  community in the U.K., knew both of the murdered priests well."They were very courageous people. It is not easy to do their job. And not easy to be a martyr," he said.
Semaan’s support for Christians who have fled to the U.K. goes beyond the spiritual.

"I try to help them find accommodation, I ask people to help in any way," he said.  "I call people to help them find a job."
Semaan said that he and his fellow priests refused to contemplate the extinction of the Christian community in Iraq, despite its falling numbers.
"Christianity can flourish again. It will grow back as an important part of the region," he said.
Warina, who also attends Mass at Holy Trinity, is more downbeat. Like many of her fellow worshipers, she said life for Christians was better under Saddam Hussein.
"Our neighbors were Muslims. Our relations were friendly. We would visit them," said the dentist who fled Iraq in 2007. "Now it is just fighting. There are lots of churches and monasteries and places to worship in Baghdad -- but they are all empty."
This week marks the 10th anniversary of the start of the Iraq War. ITV's John Irvine in Baghdad assesses a country that, 10 years on, remains gripped by the violence of its sectarian divide.
"We love Iraq. It's our country, the origin of Christianity. But it is not safe," she added.
As Christians, Warina said, they are doubly vulnerable -- not only are they a minority, but they are perceived by some as having colluded with the invading American forces.
"After Saddam's death, people turned on Christians because they think the Christians encouraged the Americans to come to Iraq. Month after month, more and more are killed," she said.

Still, Semaan said he thinks a newly elected Pope Francis will act to support his threatened community.
"The pope will see the persecution and he will take care of us. He will not forget the church in the Middle East," Semaan said. "He is not a politician and he has no army, but he has good will and can encourage dialogue and maybe this can bring about a better situation."
Besides, Iraq needs its Christians, Semaan added.
"The Middle East without Christians would be a country without light," he said. "The future would be very dark." 

We have betrayed Iraqi Christians twice

by Mardean Isaac

The travails Iraq has undergone in the decade since the invasion in 2003 have largely played out among, and between, the country’s major ethno-religious groups: Sunni and Shia Arabs, and Kurds. But Iraq’s Christians have suffered disproportionately since the fall of Saddam. Their numbers have fallen from at least 800,000 on the eve of the war to fewer than 400,000 today. Those who have been displaced internally continue to struggle to find a future in Iraq or Iraqi Kurdistan, and those who have fled the country have encountered little support from their western host countries.
Iraqi Christians are culturally and linguistically distinct from other Iraqi communities. They are ethnically Assyrian: non-Arab, non-Kurdish peoples who trace their heritage to the ancient Assyrian empire. They speak a colloquial dialect of Aramaic, though the majority of the liturgy and literature of the Iraqi churches is in Syriac, the classical form of middle Aramaic which produced a wealth of seminal Eastern Christian texts.
Persecuted extensively under the Baathist regime because of their ethnicity, the war and its aftermath exposed Iraqi Assyrians to the horrors of violence and criminality unleashed by Islamist groups, who subjected Christians to an extensive campaign of kidnapping, ransom and murder. As Iraq descended into civil war, Christians – having no militias or security forces of their own, and unprotected by a national security apparatus heavily tied to the sectarian gangs involved in the conflict – were cleansed from their neighbourhoods, either killed or intimidated with threats of murder. The most extreme culmination of the campaign came on October 31 2010, when an al-Qaeda affiliate calling itself the “Islamic State of Iraq” stormed the Our Lady of Salvation church in Baghdad during evening Mass, killing almost 60 people and injuring 80 more in the worst single attack on Iraqi Christians since 2003. Church bombings have become a habitual occurrence in Iraq: 72 have been attacked since 2004.
Thousands of internally displaced Christians fled from urban centres to stay with relatives or to attempt to establish themselves among Christian communities elsewhere in Iraq. Iraqi Kurdistan has been a prominent destination. The autonomous region has been spared the upheaval the rest of the country has gone through since 2003, and the consequent security and stability, coupled with Kurdistan’s considerable oil reserves, have attracted economic investment and development. But the incoming Christians have been largely unable to make lives for themselves there. The journalist Matteo Fagotto interviewed some of them on his recent trip to Iraq. He found a community “who don’t feel they have a future in their own country”, struggling to find employment and housing.
The gravity of the problems faced by Christians in Kurdistan is reflected in the work of the International Organisation for Migration (IOM). They have noted that the number of displaced families in Kurdistan has been dropping starkly, as they seek to move to neighbouring countries or the West. In a recent publication of the IOM, details emerge of exorbitant house prices, rising with the demand incurred by the large numbers of new arrivals, and difficulties with finding employment and schooling.
Resilient and dignified nations, whose tribes have long inhabited the same lands, Kurds and Assyrians have had a complex history, which has witnessed both camaraderie and betrayal. Many Assyrian militias fought alongside Kurdish ones against Saddam, and Assyrian villages and churches were destroyed in the Anfal campaign. Today, however, Assyrians and Kurds find themselves on very different ends of Iraqi politics. The Kurdistan Regional Government (KRG), the ruling body of Kurdistan, has expanded its authority and territory of jurisdiction since the war, while Assyrian politics remains ineffectual.
The Kurdish theft of Assyrian land, which began under the auspices of the no-fly zone, has continued unabated. In late 2011, a group of Kurds rioted unimpeded in Zakho, a northern Iraqi town, burning down defenceless Christian shops and homes. The KRG, which has been criticised heavily for arbitrary detention and freedom of speech and assembly violations, has intimidated Christian voters and political leaders seeking to assert the rights of Christians in northern Iraq, such as Bassim Bello, the governor of Tel Kippe, a largely Christian area in the Nineveh province. Bello and others wish to establish – under terms of ethnic self-determination according to demographics in the Iraqi constitution – a semi-autonomous governorate in the province in order to provide a safe haven for minorities.
The Nineveh region is a crucible of Assyrian civilisation and the only one in Iraq composed primarily of minorities, Christians around half of them. The KRG flooded the area with militiamen in the aftermath of the invasion, securing a presence in the territories, which belong to Iraq proper, and continues to refuse to allow minorities to train their own security forces to replace the occupying Kurdish forces. Bids in parliament for a referendum over control of the region have been vetoed by the Kurdish government, which hopes that an exodus of minorities and a continuing influx of Kurds to the area will swing the vote, and the control over oil and gas that will accompany it, their way.
The Assyrian-Swedish journalist Nuri Kino recently wrote a report on the horrors faced by the Iraqi Christians who fled violence in their own country for Syria, where anti-Christian violence has become increasingly common. He told me that while many are returning to Iraq, the Nineveh Plains in particular – almost all those who fled their homes in Baghdad have since had them occupied, and have no legal recourse to reclaiming prior residences – their focus is on migration to the West. But western states have been sending large numbers of refugees back in recent years: even Sweden, once the European country most receptive to those fleeing Iraq, has deported hundreds of Christian families in the past few years, back to peril, if not doom. So the extirpation of Assyrian Christians from their ancient lands continues: from old homes to new ones and back again, finding repose in none.

Mardean Isaac is a writer and graduate of the MSt programme in Syriac Studies at Oxford University

«Noi cristiani di Bassora cittadini di serie B»

By Avvenire, 19 marzo 2013
by Laura Silvia Battaglia

Emad Al-Banna, patriarca caldeo * di Bassora, mostra con compiacimento una targa regalatagli dalla comunità sunnita di Bassora per l’ultima festa del compleanno del Profeta, il Mawlid, che cade il dodicesimo giorno del mese di Rabi’ al-awwal. Sorride, ma non può fare a meno di sottolineare l’amara verità: «La diaspora è un cancro, una malattia che non si ferma».
Qui, a Bassora, la chiesa caldea dedicata alla Vergine è una struttura protetta da mura e telecamere, dietro una traversa che sbuca diretta sull’arteria principale lungo lo Shatt al-Arab, la confluenza di Tigri ed Eufrate. Ma la croce romana è scolpita in bassorilievo sulle mura bianche ed è in bella vista. Il quartiere è tranquillo, non ci sono check-point nelle vicinanze. «Le famiglie cristiane rimaste in città lavorano negli uffici del governo o gestiscono ristoranti. Alcuni cristiani sono medici o insegnano nelle università. Ma sono pochi: 200 persone per 54 famiglie».
A Bassora, prima del 2010, 17 cristiani sono stati uccisi dalle milizie estremiste: erano proprietari di negozi in cui si smerciava alcol. «Il Consiglio locale di Bassora nel 2010 ha deciso di chiudere ufficialmente tutti i negozi di questo genere, per evitare il ripetersi degli attacchi».
Uccisi perché cristiani o perché commercianti di un prodotto «haram», impuro? Il patriarca la mette su questo piano: «Per il secondo motivo. Attualmente i cristiani sono tollerati. Non ci sono problemi di convivenza reale con i musulmani ma la vita sociale è conservativa. Le donne non possono uscire dal nostro quartiere senza coprirsi il capo con l’hijab».
La diaspora dei cristiani è iniziata, a Bassora, con la guerra Iran-Iraq, nel 1980. Durante questo periodo, la città ha visto l’esodo di 1.800 famiglie cristiane. «Prima della guerra le famiglie erano 2500. La diaspora di quel tempo si è diretta in Inghiterra. Ma dall’occupazione americana del 2003 gli altri cristiani si sono trasferiti in Kurdistan, Turchia, Giordania, Siria, Libano. Prima di quel tempo i negozi di alcol a Bassora erano ben 563».
Nonostante l’esodo, i rapporti tra le chiese e le religioni sono salvi. Emad Al-Banna va fiero del dialogo che è riuscito a intessere con l’ayatollah di Bassora. «L’anno scorso abbiamo organizzato insieme una conferenza di pace e abbiamo invitato tutti gli altri religiosi locali, sciiti e sunniti, e anche gli anglicani. L’obiettivo era quello di collaborare tutti insieme per arginare gli estremismi».
Ma al di là del buon vicinato, i problemi della minoranza restano. «A Bassora ci sono 14 chiese di tutte le confessioni cristiane ma solo cinque sono aperte. Un po’ si deve alla diaspora, un po’ i fedeli evitano di uscire allo scoperto». Il fatto è che in Iraq i cristiani sono, in fin dei conti, cittadini di serie B. Come in Iran. «Sono gli ultimi a ricoprire ruoli governativi, hanno più difficoltà a trovare lavoro, non hanno diritto ad alcune forme di assistenza». Ad esempio, non possono usufruire, a parità di basso reddito, delle assegnazioni di edifici abitativi.
Il patriarca vorrebbe spezzare una lancia in favore dei diritti delle minoranze: «Sto organizzando una conferenza con la società civile e le ong affinché il governo non ci tratti più in questo modo. Non è un’iniziativa da poco, in una realtà in cui siamo semplicemente ospiti».

* Il Corepiscopo Monsignor Emad al Banna non è il patriarca caldeo (Mar Louis Raphael I Sako) ma l'amministratore patriarcale caldeo della diocesi di Bassora. 
Nota di Baghdadhope

"Custodiamo Cristo"

By Sir
by M. Michela Nicolais
La messa di inizio del ministero petrino del vescovo di Roma conserva la sua solennità, pur nella sobrietà voluta dal Pontefice. Nell'omelia incentrata sulla figura di Giuseppe l'invito alla responsabilità fondata sulla fiducia in Dio e sull'apertura al suo progetto

Inizia con un “fuori programma” - Papa Francesco che scende dalla “papamobile” per accarezzare un ammalato - la Messa di inizio del ministero petrino del vescovo di Roma, che inaugura il suo pontificato. Due ore in tutto. L’omelia su san Giuseppe e la “tenerezza”. Il saluto alle delegazioni provenienti da ogni parte del mondo. Prima della Messa - alle 8 ora italiana, circa le 4 in Argentina - Papa Francesco si era collegato telefonicamente con Plaza de Mayo, rivolgendosi alle migliaia di fedeli che affollavano la Plaza de Mayo, di fronte alla cattedrale, dove c’è la residenza di Papa Bergoglio da cardinale .“Vi chiedo un favore”, ha detto loro Papa Francesco: “Camminiamo tutti insieme, prendiamoci cura gli uni degli altri. Non facciamoci danno. Proteggiamo la vita, la famiglia, la natura, i bambini, gli anziani. Che non ci sia odio, liti. Lasciate l’invidia, dialogate tra di voi. Che questo desiderio di prendersi cura cresca nel cuore. Avvicinatevi a Dio”. Ecco la cronaca, minuto per minuto, della Messa.

Ore 8.50. È iniziata con un lungo giro intorno a piazza S. Pietro, gremita di fedeli, la Messa di inizio del ministero petrino del vescovo di Roma. Il Papa ha lasciato Casa Santa Marta poco prima di salire sulla “Papa-mobile”, scoperta per l’occasione, visto l’azzurro del cielo di Roma. Poi andrà in sagrestia per prepararsi alla celebrazione. La cerimonia incomincerà alla tomba di San Pietro, nel centro della Basilica, sotto l’altare centrale, e si svolgerà sulla piazza che, secondo la tradizione, è anche il luogo del martirio di San Pietro. Sono 180 i concelebranti con Papa Francesco, a partire da tutti i cardinali che sono presenti a Roma. Oltre ai cardinali, concelebrano con il Papa i patriarchi e gli arcivescovi maggiori delle Chiese orientali: Isaac Sidrak, patriarca di Alessandria dei Copti; Gregorio III Laham, patriarca greco-melkita di Antiiochia; Ignace Youssif III Younan, patriarca di Antiochia dei Siri; Nerses Bedros Xix Tarmouni, patriarca di Cilicia degli Armeni; Luois Raphael Sako, patriarca di Babilonia dei Caldei; Sviatoslav Shevchuk, arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica ucraina; Fouad Twal, patriarca latino di Gerusalemme. Gli altri concelebranti sono mons. Lorenzo Baldisseri, segretario della Congregazione per i vescovi; padre José Rodriguez Carbalho, presidente dell’Unione Superiori Generali; padre Alfonso Nicols, generale della Compagnia di Gesù.

Ore 9.05. Non è neanche finito il giro con la “Papamobile”, che il Papa regala alla folla festante dei fedeli un “fuori programma”. Dopo aver stretto mani, quasi slanciandosi sulla folla che si accalca lungo le transenne, il Papa è sceso dalla jeep scoperta per andare ad accarezzare un ammalato in carrozzella. Una carezza tenera e prolungata, sul viso. Gli uomini della sicurezza vaticana hanno già dovuto essere “operativi”. E ancora la “Papa mobile” indugia nella piazza, circondata da bandiere e striscioni multicolori. La piazza è gremita fino all’inverosimile, tanto che già stamattina alle sette era problematico muoversi nei dintorni del colonnato del Bernini. Tra le 150 e le 200mila persone, il numero che poi verrà diffuso dalla sala stampa vaticana.

Dalla sagrestia al sagrato, accompagnato dei patriarchi e arcivescovi maggiori delle Chiese orientali cattoliche. Dopo l’omaggio e la preghiera alla tomba di Pietro, presso la quale sono conservati l’anello e il pallio, i due segni del ministero petrino che poi verranno consegnati al Pontefice, il Papa e i patriarchi, in processione con tutti i cardinali e tutti i concelebranti, si sono mossi dal centro della basilica verso la porta e sono usciti dal sagrato, luogo dove secondo la tradizione è stato martirizzato Pietro. Durante la processione, il Coro della Cappella Sistina e il Coro del Pontificio Istituto di musica sacra hanno intonato il “Laudes Regiae”, un canto sulle Lodi del Re. Un canto fatto di litanie e invocazioni in onore di Cristo, durante il quale si invocano molti santi, e alla fine , dopo gli apostoli, anche esplicitamente i “Santi Papi”: il più recente è San Pio X.

Lo stesso pallio di Benedetto XVI, l’anello del pescatore in argento dorato. I primi riti, ancor prima che incominci la messa, sono la consegna del pallio e dell’anello al Papa, che rappresentano i due segni del ministero petrino. Il pallio è stato consegnato e imposto al Papa dal cardinale protodiacono, Jean-Louis Tauran, lo stesso che ha annunciato l‘“Habemus Papam” dalla Loggia. Si tratta dello stesso pallio che aveva Benedetto XVI. Dopo la consegna del pallio c’è stata una preghiera fatta dal cardinale protopresbitero, cioè il primo dell’Ordine dei presbiteri, Godfried Daneels. A consegnare l’anello è stato il cardinale decano, Angelo Sodano, che è il protoepiscopo, cioè il primo dell’Ordine dei vescovi. Quindi, i cardinali Re, Bertone, Meisner, Tomko, Martino e Marchisano (due per ogni Ordine), hanno prestato obbedienza a nome di tutto il Collegio. Il Papa metterà al dito un anello del pescatore opera di un famoso artigiano italiano, Enrico Manfrini. Si tratta di un modello presentato al Papa dal maestro delle cerimonie liturgiche pontificie monsignor Guido Marini, che lo ha ricevuto da uno dei segretario di Paolo VI, monsignor Macchi. Sull’anello, in argento dorato, è rappresentato San Pietro con le chiavi. L’anello non era mai stato fuso in metallo, e Paolo VI non lo aveva mai utilizzato.

Alle ore 9. 50, dopo i riti specifici dell’inizio del pontificato, Papa Francesco ha dato avvio alla celebrazione eucaristica. Prima il “Confiteor” in latino, poi il canto del Kyrie e del Gloria. Le letture in inglese, italiano e spagnolo, il Vangelo cantato in greco, per sottolineare l’unità tra le Chiese d’Oriente e le Chiese d’Occidente, visto che ampie parti della messa sono in latino. Le letture della messa sono quelle della solennità della festa di san Giuseppe, che si celebra oggi. La prima lettura è tratta dal secondo libro di Samuele, il salmo, anch’esso cantato da un salmista della Cappella Sistina, è il Salmo 88, la seconda lettura è tratta dalla lettera di San Paolo ai Romani. Il Vangelo è il brano di Matteo che racconta di Giuseppe, “uomo giusto”, e del sogno in cui l’angelo del Signore lo chiama a prendere con sé Maria come sua sposa.

“Cari fratelli e sorelle! Ringrazio il Signore di poter celebrare questa Santa Messa di inizio del ministero petrino nella solennità di San Giuseppe, sposo della Vergine Maria e patrono della Chiesa universale”. Queste prime parole di Papa Francesco nell’omelia - una ventina di minuti in tutto - che inaugura ufficialmente il suo pontificato, e come è tradizione ne delinea i tratti portanti. “È una coincidenza molto ricca di significato, ed è anche l’onomastico del mio venerato predecessore: gli siamo vicini con la preghiera, piena di affetto e di riconoscenza”, il primo pensiero del Papa, che ha ricevuto immediatamente il primo applauso della folla. Poi ha salutato i presenti “con affetto”: “i fratelli cardinali e vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i religiosi e le religiose e tutti i fedeli laici. Ringrazio per la loro presenza i rappresentanti delle altre chiese e comunità ecclesiali, come pure i rappresentanti della comunità ebraica e di altre comunità religiose. Rivolgo il mio cordiale saluto ai capi di Stato e di governo, alle delegazioni ufficiali di tanti Paesi del mondo e al corpo diplomatico”.

Giuseppe è “custos”, il “custode di Maria e di Gesù”, ma la sua è “una vocazione che si estende poi alla Chiesa”. Ha citato Giovanni Paolo II, Papa Francesco, per spiegare ai fedeli la figura di san Giuseppe, delineato quale esempio del credente. “Come esercita Giuseppe questa custodia?”, si è chiesto il Papa: “Con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende”. “Dal matrimonio con Maria fino all’episodio di Gesù dodicenne nel Tempio di Gerusalemme - ha ricordato il Papa a proposito di San Giuseppe - accompagna con premura ogni momento. È accanto a Maria sua sposa nei momenti sereni e in quelli difficili della vita, nel viaggio a Betlemme per il censimento e nelle ore trepidanti e gioiose del parto; nel momento drammatico della fuga in Egitto e nella ricerca affannosa del figlio al tempio, e poi nella quotidianità della casa di Nazaret, nel laboratorio dove ha insegnato il mestiere a Gesù”.

“Come vive Giuseppe la sua vocazione di custode di Maria, di Gesù, della Chiesa?”, si è chiesto ancora il Papa: “Nella costante attenzione a Dio - la sua risposta - aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio: ed è quello che Dio chiede a Davide, come abbiamo ascoltato nella prima Lettura: Dio non desidera una casa costruita dall’uomo, ma desidera la fedeltà alla sua Parola, al suo disegno: ed è Dio stesso che costruisce la casa, ma di pietre vive segnate dal suo Spirito”. Giuseppe è “Custode”, ha spiegato il Papa, “perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge”. In lui, secondo Papa Francesco, “vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana; Cristo!”. “Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!”, l’invito del Santo Padre ai fedeli.

“Siate i custodi dei doni di Dio”, ha esortato il Papa nell’omelia, dopo aver spiegato che “la vocazione dl custodire non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi; è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo. È il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. È l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. È il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti”. “E quando l’uomo viene meno a questa responsabilità, quando non ci prendiamo cura del creato e dei fratelli - ha ammonito il Papa - allora trova spazio la distruzione e il cuore inaridisce. In ogni epoca della storia, purtroppo, ci sono degli Erode che tramano disegni di morte, e distruggono e deturpano il volto dell’uomo e della donna”.

“Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo custodi della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente. Non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo!”. È il forte appello al centro dell’omelia del Papa, che ha suscitato l’applauso immediato della piazza. “Ma per custodire dobbiamo anche avere cura di noi stessi!”, ha proseguito il Papa: “Ricordiamo che l’odio, l’invidia la superbia sporcano la vita!”. Custodire vuol dire, allora, “vigilare sui stri sentimenti, sul nostro cuore, perché è da lì che escono intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono”.
“Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce; deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli, quelli che Matteo descrive nel giudizio finale sulla carità; chi ha fame, sete, è straniero, nudo malato, in carcere”. È il passo più applaudito, a più riprese, dell’omelia del Papa, e quello più significativo del modo in cui il 266° successore di Pietro intende esercitare il suo ministero, che inizia ufficialmente oggi.
“Solo chi serve con amore sa custodire!, ha esclamato il Santo Padre. “Anche oggi davanti a tanti tratti di cielo grigio, abbiamo bisogno di vedere la luce della speranza e di dare noi stessi speranza. Custodire il creato, ogni uomo e donna, con uno sguardo di tenerezza e amore è aprire l’orizzonte della speranza, è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nuvole, è portare il calore della speranza!”.

Pregate per me. E per il credente, ha ricordato il Papa, “per noi cristiani, come Abramo, come san Giuseppe, la speranza che portiamo ha l’orizzonte di Dio che ci è stato aperto in Cristo, è fondata sulla roccia che è Dio”. Poi la definizione del ministero petrino: “Custodire Gesù con Maria, custodire l’intera creazione, custodire ogni persona, specie la più povera, custodire noi stessi: ecco un servizio che il vescovo di Roma è chiamato a compiere, ma a cui tutti siamo chiamati per far risplendere la stella della speranza”. “Custodiamo con amore ciò che Dio ci ha donato”, l’invito finale del Papa, che ha chiesto “l’intercessione della Vergine Maria, di san Giuseppe, dei santi Pietro e Paolo, di san Francesco, affinché lo Spirito Santo accompagni il mio ministero”. “E a voi tutti dico; pregate per me, Amen”, la conclusione dell’omelia, scandita dagli applausi.

Durante l’offertorio, nella Messa di inizio del ministero petrino del vescovo di Roma non c’è stata la processione per le offerte, il pane e il vino sono stati semplicemente portati all’altare. 500 i sacerdoti che hanno distribuito la comunione in tutta la piazza, mentre il Papa si è limitato a distribuirla ai diaconi. Un atmosfera di grande raccoglimento e preghiera ha caratterizzato il momento immediatamente successivo, immagine del popolo di Dio stretto intorno al suo pastore.

Sono 132 le delegazioni provenienti da ogni parte del mondo, che il Papa ha salutato oggi all’altare centrale, dopo essere rientrato in basilica e aver deposto le vesti liturgiche, al termine della Messa. L’ordine delle delegazioni dei diversi Paesi e organizzazioni internazionali viene stabilito dal protocollo: prima i sovrani, poi i capi di Stato, quindi quelli di governo e così via. “In prima fila” la delegazione dell’Argentina, con la presidente Kirchner e altre 19 “alte cariche” al seguito, e dell’Italia, rappresentata dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, con la consorte e altre 16 persone tra cui il presidente del Consiglio, Mario Monti, e signora, insieme ai nuovi presidenti del Senato e della Camera. Presenti in piazza, oggi, anche 33 delegazioni di Chiese e confessioni cristiane e rappresentanti di altre religioni, che saranno ricevuti dal Papa domani alle 11, nella Sala Clementina. Tra le “personalità” presenti, il patriarca Bartolomeo del Patriarcato ecumenico, il catholicos armeno di Echmiadzin, Karekin II, il metropolita Hilarion per il Patriarcato di Mosca. La delegazione ebraica è composta da rappresentanti sia della Comunità ebraica di Roma, sia dei diversi comitati ebraici internazionali, a cominciare dal Gran Rabbinato di Israele. Presenti, inoltre, anche delegazioni di musulmani e buddisti.

18 marzo 2013

Communities For exiled Chaldeans, Iraq war is far from finished

by Roxana Popescu

They come for the fish, they come for the Arabic music, but mostly they come for the memories. Nahrain Fish and Chicken Grill, in a sun-parched strip mall in El Cajon, is one of the only places in San Diego where you can get masgouf, the Iraqi style of fish wood-fired in a clay oven.
The restaurant on El Cajon’s Main Street, next to a Middle Eastern bakery, is thriving these days.
East County is home to the country’s second largest Iraqi immigrant community, after Detroit. At least 40,000, and perhaps more than 50,000, Iraqis live in El Cajon. More than 13,000 of them have moved here since the Iraq War began in 2003, according to the State Department.
San Diego’s Iraqis have different feelings about the 10th anniversary of the start of the war, which falls this week. Some say it caused their diaspora. Some are grateful because it led to Saddam Hussein’s death. Some are angry because of the aftermath: the Shia government takeover, Christian persecution, the rampant corruption and lawlessness.
The U.S.-led invasion was “the worst day of Iraq’s life. A million people left their country, where everybody was comfortable, and now they are on Main Street looking for a dime,” said a man eating at Nahrain, who called himself Naz.
Another man in the restaurant said the war had one good result: “There was no other way of being able to remove Saddam Hussein from power, except this intervention.”
A few things Iraqi immigrants and refugees agree on: the war may be over from an American perspective, but it continues in Iraq. For anyone with relatives there or a dream of going home, the pain and struggle are far from over. And in the new country, it helps to stick together.
Most of the Iraqi immigrants are Chaldeans, an ancient branch of Catholicism persecuted under Iraq’s Shia government. St. Peter Chaldean Catholic Cathedral in El Cajon is a robust center of resettlement activity.
A few days ago, women were reciting prayers in Aramaic in a side room of the cathedral. Their soft, rhythmic murmurs filled the air as a lone worshipper sat near the altar.
From an office next to the church, Noori Barka runs a dual-language newspaper with neighborhood, national and Iraqi news, and a Chaldean Internet TV station — the only one in the United States, he says.
Barka is president of the Chaldean American Institute, a research and advocacy nonprofit. He lists the church’s activities: Aramaic classes for 600 children, a separate collection at services that has rendered almost half a million dollars since 2008.
When he’s not there, Barka, an immunologist, runs a biotech company. He left Iraq in 1980. Why, after more than 30 years, is he helping Chaldeans in America? “It’s in my blood.”

Three waves
Why did so many Iraqis end up living in East County? Tight family bonds and the weather.
Besma Coda, co-founder of Chaldean Middle Eastern Social Services, said the very first Iraqi is believed to have come to the United States in 1890. A community sprouted in Michigan, where jobs were easy to find and winters were hard.
In the late 1970s and early 1980s, a wave came to San Diego from Iraq and from Michigan. El Cajon, the city of broad, flat avenues stretched between dusty hills, reminded them of home. It was sunny and it was cheap.
Most in that early group were educated professionals, and 20 percent ended up running businesses in San Diego, Barka said. A few of those seminal families brought their relatives.
A second wave, mostly Muslims targeted by Hussein, came during the Gulf War.
Most Chaldeans came after 2007, when the State Department made it easier for them to seek refugee status. San Diego has the country’s fastest growing Iraqi refugee population. Other refugees include Assyrians, Kurds and Mandaeans.
This last resettlement is colored by the devastation of a homeland, a cultural climate that resulted in bias against Middle Easterners, and the economic downturn that makes it hard for U.S.-born workers, let alone refugees, to find jobs.
“Most of these people came at the worst time, because our economy was a tragedy,” said Bob Montgomery, executive director of the San Diego branch of the International Rescue Committee, a nonprofit that serves refugees.
Tony Yousif, a Chaldean who moved to the U.S. when he was 14, tells the story of a job hunter over a plate of fish at Nahrain: “I was talking to this newcomer a couple months ago. The guy broke my heart. He said, ‘Listen. Please find me a job. I’ll work for $2 an hour. I’ll work for one day, and the second day is free.’” He repeated that line, flabbergasted. “They’re so desperate. They’ll do anything. You would do anything if you had kids.”
Mohammed, 46, moved to San Diego three months ago. He and his hijabbed mother, Saad, shared a fish that covered the width of their table. In the same breath, he talked about the big bucks he was earning in Iraq as an engineering supervisor and the savagery he faced. A conflict with a neighbor about landscaping escalated to threats on his life. He couldn’t count on the police for safety. He sought refuge in America. “I had a big position. All my dreams are broken. Now I need to start over,” he said.

A different kind of hope
Starting over in a new country is hard. Starting over in a new country when your homeland is destroyed is harder.
Montgomery offered a surprising insight about the lack of hope for Iraqi refugees: their grim awakening has made it somehow easier to dive in head first and commit. This is especially true for Chaldeans, he said. “At some point, they have to say, it’s not realistic to think (of going back) any more. … Now we have to look forward. We have to look for opportunities for ourselves and our children, because our future may not be in Iraq.”
At the downtown El Cajon offices of Chaldean-Middle Eastern Social Services last week, the hallways and meeting rooms were packed with families in limbo. A volunteer translator who asked to share only his first name, Ayman, said he was a lawyer in Iraq. He’s been in the U.S. for 10 months and he’s still looking for a job. He has given up hope of finding equivalent work but said he may take paralegal courses.
But he and others said they’re confident knowing the U.S. is a country with rules. Follow those rules, work hard, get ahead. There’s a transparent system here, and that’s worth a lot.
Everywhere they go, these newcomers stumble across reasons to hope things will improve for them: a cousin’s college graduation here, a parent’s stable job there. The tens of thousands who came before them, who run markets and doctor’s offices, are more evidence.
Look at the diners at Nahrain, feasting on red snapper and tilapia. This is not the tilapia used as generic filler for fishsticks and other processed abominations. This fish is roasted whole, its flesh white as ivory, its crisp, caramelized skin the color of honey or a Mesopotamian sunrise.
Globally, the Iraqi diaspora created hubs in Germany, the Netherlands, Sweden and Australia. Source: United Nations Human Rights Commission.

Iraq dispatch: ten years on from Saddam's fall, his home town of Tikrit still mourns him


As head of a tribe whose roots stretch back to Iraq's Ottoman times and beyond, it is Sheikh Hassan al Nasseri's bad luck to have been in charge during one of his family's most turbulent periods.
During the three-decade rule of the Nasseri tribe's most infamous son, Saddam Hussein, Sheikh Hassan and the rest of Iraq's extended First Family enjoyed unparalleled luxury in their home town of Tikrit, in the sun-baked Sunni heartlands north of Baghdad.
What was previously a poor provincial backwater became a gaudy, mansion-lined Henley-on-Tigris. And on trips to Baghdad, just mentioning the Nasseri name was enough to get better service in shops, tables at the best restaurants, and well-paid jobs in the police and army.
Then, ten years ago this week, it all ended as the operation to unseat Saddam began from the sky. As Cruise missiles decimated Tikrit's hulking Ba'ath Party buildings, his elite Republican Guard melted away, and far from being the centre of his last stand, his home town fell with barely a fight. Nine months later, on farmland just a few miles down the Tigris, Saddam himself gave up in similar fashion, surrendering meekly to the US soldiers who plucked him from his "spider-hole".
Today, all the Nasseri tribe's blessings have turned to curses.
Property in their ancestral village of al-Owja, just outside Tikrit, remains subject to US-imposed asset freeze orders, while in Baghdad, their name slams as many doors as it used to open. And Sheikh Hassan, 62, who boasts that his 7,000 strong tribe killed many US troops during the 2003-11 occupation, now complains that they are routinely harassed by the security forces of the Shia-dominated Iraqi government.
"At any time we usually have around 50 men in jail – I think we have our own special reserved wing," he told The Sunday Telegraph over tea at the Nasseri tribal meeting house in al-Owja, where a tribal family tree adorns one wall. "Right now as we talk, someone from my tribe is probably being tortured."
Yet while he admits that Saddam himself could be equally "cruel and unjust" at times, Sheikh Hassan still grieved bitterly when the Iraqi leader's body was brought to al-Owja for burial in 2006, fresh from a Baghdad gallows. He is now in a mausoleum just down the road, which the Iraqi government closed off last year for fear it was becoming a Ba'athist pilgrimage site.
"How would you feel if France invaded Britain and executed the Queen?" asked Sheikh Hassan, to nods from fellow tribesmen, some of whom share Saddam's thick-set features. "At least he gave us development and security. The British and Americans said they would make things better, but ten years later it's still a mess."
For all the ease with which Saddam's Iraq fell, building a new one in its place has proved far harder, as the chaos, terrorism and sectarian slaughter of the last ten years have proved. And it is not just beneficiaries of the old regime, such as Sheikh Hassan, who yearn for the old days.
During a tour round the country last month - almost a decade from when I first reported here - my question to the Iraqis I met was whether would turn the clock back to the Saddam era if they could. Many, despite the horrors of that time, said they would.
Among them was Riyadh al-Obeid, a greengrocer on Tikrit's main drag, where the odd scratched-out mural is all that is now left of Saddam's omnipresent personality cult. A former army officer, Mr Obeid deserted during the war, and has found himself on the losing side of every fight that has come his way since. In 2004, he was arrested as a suspected insurgent after US troops found a pistol in his house, and spent 18 months in prison. He then joined the Iraqi police, only to be kidnapped by Sunni extremists in 2006, who threatened to kill him as a "traitor" and then let him buy his life back for a $15,000 ransom.
Then, having quit law enforcement for the safety of the fruit and veg business, he was kidnapped again while in Baghdad in 2008, this time by a Shia militia targeting Sunnis during the sectarian conflict. Once more, a ransom payment saved him. He still considers himself among the luckier in his family. In 2007, militants abducted his cousin along with 13 other men and beheaded them, demanding $5,000 apiece for the return of their heads in cardboard boxes.
"All that has happened since the Americans came is that security has got worse," he said. "I do not long for Saddam particularly, just someone who rules with justice - an American, an Iraqi, whoever."
Mr Obeidi's tale - a snapshot of the mayhem of the last decade - is extreme, but not exceptional. Nearly Iraqi I have met tells of similar ordeals - sometimes at the hands of coalition forces, but more often courtesy of fellow countrymen, be they religious militias, criminal gangs, or a mixture of both. For any country, this would be traumatic. For a country used to police state security - arguably the one benefit of Saddam's totalitarian regime - it has been doubly so, hence the nostalgia for the tyrant now lying in al-Owja's parched soil.
True, there is less much less bloodshed now than there was at the height of the sectarian war of 2006, when nearly 3,000 people died a month. But carbombs and other terrorist acts still claim regularly claim 50 lives a week or more, a level of violence that makes international news when it happens other countries, but not here.
Such is the continued danger that Britain and most other nations still caution their citizens against visiting Iraq without armed bodyguards, robbing the country of much-needed foreign investment and expertise. And the few foreigners who do visit Baghdad today find a city that looks almost as much of a police state as it was in Saddam's time, with troops and APCs at nearly every major street junction.
Thanks to the parlous security situation, many of the fruits that Iraq's liberators promised ten years ago are only just beginning to arrive. It was only two weeks ago, for example, that Iraqi Airways flew its first London-Baghdad flight, connecting the Iraqi capital with one of its largest diasporas. Grid electricity in one of the world's most-energy rich lands is still only around 12 hours a day in most areas, thanks to delays in rebuilding power plants and insurgent sabotage of power lines.
Meanwhile, the much-awaited construction boom that should have turned Baghdad's crumbling, Arab-Brutalist architecture into a gleaming new Dubai is still yet to start. Smart new shopping malls and luxury apartment blocks are still mainly at the planning stage, and the nearest thing to a five-star hotel is the gloomy 1980s-style Ishtar Sheraton.
Instead, the most notable construction is the miles of 12-foot high concrete anti-blast walls that snake everywhere across the city. Some are built to keep warring Sunni and Shia neigbhourhoods apart, others are defences to the hundreds of suicide bombers who have struck here since summer 2003, when attacks on aid agencies and the United Nations building marked the start of al-Qaeda's campaign to derail reconstruction by any means possible.
Yet despite such murderous nihilism, progress has been made. The Iraqi security forces, who used to roam the city in packs of nervous, balaclava-clad men, now seem relaxed and in control. Shops that used to shut at 4pm, if they opened at all, now do brisk business till midnight.
And down by the Tigris, where restaurants once stopped serving local fish because of the numbers of corpses dumped in the river, new family pleasure parks are setting up. True, visitors are sometimes frisked for weapons, but the fact that families finally feel safe to bring their children out at night tells its own story.
"We opened just four months ago, and security is improving day by day," beamed Amjad al Kuzahi, 40, an investor in the Utafiyya Harbour complex, which has smart restaurants, a fairground and free wifi. "Besides, things couldn't have got any worse than they were."
If that sounds like grudging praise, Balsam al-Hill, a Baghdad businesswoman who has also lived in Britain, points out that many things now taken for granted were forbidden in Saddam's time, such as cellphones, the internet, and, of course, the right to moan.
"Iraqis may still complain about electricity and security, but they are earning far more and can buy what they want," she said. "In the old days, even something like a can of Coke was a luxury. Iraqis do tend to focus on the negative, but the fact is that now they can vent their feelings and complain about the government. This is what democracy is."
Admittedly, democracy's reputation here has been tarnished somewhat by the calibre of legislator that three elections since 2005 have produced. In Saddam's time, most competent politicians were either killed or fled abroad, and the lawless years afterwards have favoured those with guns and money rather than talent. The result has been parliaments of sectarian warlords, holymen and corruptibles, many of whom fail to meet their basic briefs as parliamentarians, never mind overcome Iraq's complex divisions of religion and creed.
Today, the Kurdish north is more of a breakaway state than ever, infuriating Baghdad by signing its own private oil drilling contracts with foreign majors. And in ex-Ba'athist strongholds like Tikrit and Fallujah, the Arab Spring has inspired huge crowds to take to the streets in recent months, claiming that Iraq's Shia-dominated government now treats them like second-class citizens. So far they have stuck to peaceful protest, but already there are fears that Sunni militias may use it as an excuse to take up arms again. As Michael Knights, a fellow with the Washington Institute for Middle East policy puts it: "The toxic political environment is functioning as a life support machine for militant groups that should be on the verge of extinction by now."
But while the political class squabbles, the country's cultural and intellectual life is blossoming. Take for example, Baghdad's national theatre, which, in the manner of Glasgow and Liverpool, is spearheading a "capital of culture" programme this year.
Here, talk of acting as a profession that challenges the status quo is no Thespian affectation: many of the theatre's actors have been threatened by religious conservatives over the years, and it is as fortified as most Baghdad police stations.
Today, though, it is packed with performers of all ages, some sporting patched corduroy jackets and equally threadbare ponytails, others part of the new generation who were just children during the war.
Young and old though, they all talk of a new, secular, liberal Iraq: the one that Tony Blair and George W Bush promised, and which only now, ten hard years later, looks like finally being on its way.
"Iraq went from political extremism under Saddam to religious extremism during the sectarian time", said Emmanuel George Tomi, 52, a film maker from a Christian opposition family, who fled Iraq for London aged 17 and who returned in 2005. "I wept when I first came back. What I remembered as a civilised, European-style city was just in ruins, and it has been so ever since.
"But I wouldn't go back to the Saddam era. People here are turning away from religious extremism and towards a secular, liberal society: we're on the way now."
With that, he turned back to discussing his new movie project with his companions in the cafe of the theatre, where on the gates outside, a pair of traditional stage masks show two faces - one happy, one sad.
Ten years on, it is an apt symbol of the Iraqi mood.