"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

31 marzo 2008

L’amore può annullare le differenze. Anche a Baghdad

By Baghdadhope

Mercoledì pomeriggio, 26 marzo 2008. Un razzo Katiusha cade su una casa di Baghdad. Fortunatamente non ci sono vittime ma solo molti danni materiali.
Quante sono le case che in questi anni a Baghdad sono state colpite? Nessuno le ha contate e nessuno lo farà. La notizia, quindi, non avrebbe niente di speciale. Solo una tra le tante. Eppure speciale lo è. Perché ad essere stata colpita non è una casa qualunque o un edificio governativo, un covo di terroristi o la base di una milizia. E’ “Casa Beyt ‘Ania”.

Nella Baghdad degli orrori quotidiani e delle fazioni in lotta è stata colpito uno dei pochi luoghi dove c’è posto per una sola cosa: l’amore. L’amore verso il prossimo che non conosce differenze se non quella che rende tutti coloro che vi abitano “speciali”.
La prima volta che ho visitato Beyt Ania è stato grazie ad un sacerdote di Baghdad che ogni tanto vi celebrava una messa nella piccola cappella ricavata in una delle stanze. Ricordo un cancello di ferro con il nome Beit ‘Ania scritto in arabo con vernice rossa, la volontaria che ci venne ad aprire dopo essersi assicurata della nostra identità, il piccolo giardino, alcune sedie di legno davanti la statua della Vergine, l’odore.
L’odore penetrante, terribile, acre della malattia e del dolore che però svanì dal mio olfatto nel momento in cui incontrai le prime ospiti di Beit ‘Ania, tre donne che ai piedi di una scala giocavano a carte e che mi accolsero con un sonoro “Good afternoon,” tre delle dieci donne che all’epoca vi erano ospitate.
Dieci donne che le infermità, o anche solo gli acciacchi della vecchiaia, avevano reso un peso per le famiglie piagate dalla povertà materiale e morale che l’embargo ancora imponeva al paese, e che come mi disse una di loro “erano rinate il giorno in cui erano entrate a far parte della famiglia di Beyt Ania.”
Beyt Ania è una casa di assistenza per disabili e persone senza famiglia nata nel 2000 per la ferrea volontà della sua direttrice, Alhan, una giovane ragazza cristiana che decise di dedicare la sua vita a Dio attraverso la cura dei più sfortunati. “Il nostro interesse è rivolto all’Uomo e la sua dignità, senza riguardo alla sua situazione, alla sua nazionalità ed alla sua religione.” Ecco il motto che ha guidato in questi anni fatti di embargo e poi di guerra coloro che hanno seguito Alhan nella sua missione e che sono diventati sempre di più. In realtà la storia di Beyt Ania cominciò nel 1994 quando Alhan decise di dare conforto morale ai malati negli ospedali e nelle case. Ad ella si unirono altri giovani, e quell’esperienza rivelò loro una realtà fatta non solo di malattia ma anche, e soprattutto, di abbandono. Presto essi si resero conto della necessità di dare una risposta concreta al problema e iniziarono così a cercare una sistemazione per quei loro sfortunati fratelli. “Con l’aiuto di Dio” come mi raccontò Alhan durante quella prima visita, e più materialmente con quello di Mr. Karim Al Rayyes, un benefattore che si accollò la spesa dell’affitto di una casa, e con quello dei volontari che lavorarono alla sua ristrutturazione, il primo maggio del 2000, alla presenza di Monsignor Matti Shaba Mattoka, vescovo siro cattolico di Baghdad, dell’allora nunzio apostolico in Iraq, Monsignor Giuseppe Lazzarotto, di sacerdoti, suore ed amici laici, “Casa Beyt Ania” accolse le sue prime quattro ospiti. Ma la Divina Provvidenza guardava con benevolenza all’iniziativa e nell’autunno di quello stesso anno la famiglia di Mr. Michael Lazare che viveva ormai all’estero da tempo concesse ai “Servi di Anya” l’usufrutto a titolo gratuito del pianterreno della loro casa nel quartiere di Karrada Al Sharqiya che con una cerimonia ufficiale diventò la sede definitiva il primo maggio del 2001. La terribile situazione in cui l’Iraq già versava a causa dell’embargo presto rese la casa l’unica ed ultima risorsa per chi non sembrava avere più speranza. Così le ospiti, dapprima solo donne, aumentarono, ma fu presto chiaro che l’abbandono riguardava anche gli uomini. Fu così che dopo aver ottenuto il permesso dai proprietari della casa nel 2003 fu costruita in giardino una seconda, piccola, unità abitativa. Nonostante ciò però i locali presto si rivelarono insufficienti e fu deciso quindi di prendere in affitto un’altra casa nello stesso quartiere per ospitare le pazienti più anziane. Questa nuova sede, inaugurata nel novembre del 2006 fu però sostituita, per il non rinnovo della locazione, da quella tuttora operante dall’ottobre dello scorso anno.
Attualmente Casa Beyt Anya è costituita quindi da un corpo centrale che può ospitare 34 donne a fronte di 30 presenze, da un corpo distaccato destinato ad ospitare 5 uomini ed attualmente interamente occupato, e dalla sede distaccata che, a fronte di una capacità di 25 posti, ospita 23 pazienti anziane. In questi anni, nonostante i pericoli e le sofferenze che l’embargo e la guerra hanno aggiunto a quelli di curare coloro di cui né la società né le famiglie possono farsi carico, i “Servi di Anya” hanno pensato non solo alle cure mediche dei propri “ospiti” come chiamano i membri di questa nuova loro famiglia, ma anche a quelle dello spirito. Nella casa esiste ancora quindi la piccola cappella a cui è stata aggiunta una stanza per piccoli attività manuali ed una per il computer. Le ospiti che sono in grado di farlo impiegano il loro tempo in diverse attività che, è questa la convinzione che muove chi le stimola a farlo, servono loro a riconoscere il proprio valore e l’importanza dell’integrazione della propria vita con quelle delle altre. Così ad esempio una di esse ha tradotto dall’inglese delle brevi storie di argomento religioso che sono state pubblicate per poter essere usate come testo di catechismo, un’altra cuce o rammenda i vestiti, un’altra dà una mano in cucina, un’altra assiste un’ospite più sfortunata di lei.
Così sia gli ospiti della casa, sia i malati che i “Servi di Ania” assistono a domicilio, vengono coinvolti in incontri con sacerdoti e terapisti ed in conferenze culturali con relatori specialisti in diversi campi.
Così nessun compleanno viene dimenticato e tutte le feste vengono celebrate, Natale e Pasqua, ma anche, ovviamente, Eid Al Fitr, la festa che annuncia la fine del Sacro Mese di Ramadan, e Eid Al Adha, quella che celebra l’obbedienza di Abramo alla volontà divina di sacrificare il proprio figlio Ismaele (Isacco nella tradizione giudaico-cristiana).
Natale ed Aid Al Fitr? Già, mi rendo conto solo ora di non averlo scritto: gli ospiti di Beyt Ania sono cristiani e musulmani, ma soprattutto sono sorelle e fratelli tra loro nel dolore che hanno provato e nell’amore che li circonda. Non era chiaro? Non ho forse scritto che sono “speciali”? “Simile ad un granello di senape che, quando viene seminato nella terra, è il più piccolo di tutti i semi. Ma poi, quando è stato seminato, cresce e diventa la più grande di tutte le piante dell’orto, e mette dei rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra” (Marco 4:31-32)
Nella Baghdad dell’odio e della violenza si può, si “deve”, sperare che quell’albero possa ancora crescere, che la sua ombra possa allargarsi, che sempre più uccelli possano trovare riposo sui suoi rami, e che la fede all’ombra di quelle fronde non diventi mai un problema ma, come dovrebbe essere, una risorsa, una gioia.
Si può, e si “deve”, sperare che l’appello che i “Servi di Ania” lanciano attraverso le parole di Matteo trovi riposta: "La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!".

Love can cancel the differences. Even in Baghdad

By Baghdadhope

Wednesday afternoon, March 26, 2008. A Katiusha rocket falls on a house in Baghdad. Fortunately there are no victims but only material damages. How many houses in Baghdad have been hit in these last years? No one counted them and no one will do in the future.
The piece of news, therefore, would not be special. Only one of the many. Yet it is special. Because to be hit was not a normal house or a government building, a base of terrorists or that of a militia. It is "Beyt ‘Ania House".

In the city of the daily horrors and of the factions fighting each other it was hit one of the few places where there is room for only one thing: love. Love for the neighbour that knows no differences if not the one that makes all those who live there "special". The first time I visited Beyt ‘Ania it was thanks to a Baghdadi priest who occasionally celebrated mass in a small chapel in one of its rooms. I remember an iron gate and the name “Beit 'Ania” written in Arabic with red paint, the volunteer who let us in after making sure of our identity, the small garden, some wooden chairs in front of the statue of the Virgin, the smell. The pervasive, terrible, sour smell of illness and pain that I stopped perceiving when I met the first guests of Beit 'Ania, three women sitting at the foot of a staircase who were playing cards and who greeted me with a loud "Good afternoon," three of the ten women who were lodged there by then. Ten women that infirmity, or only the ailments of the old age, had made a burden for families suffering from the material and moral poverty that the embargo had imposed on the country, and, as one of them told me "were born again the day when they joined the family of Beyt ‘Ania. "

Click on “leggi tutto” for the article by Baghdadhope
Beyt Ania is a house where assistance is granted to disabled and homeless people and that was founded in 2000 by the iron will of its director, Alhan, a young Christian girl who decided to devote his life to God through the care of the most unfortunate. "Our interest is the human being and his dignity, regardless of his situation, his nationality and his religion." That is the motto that in the years of embargo and war guided those who followed Alhan in his mission. In fact the story of Beyt Ania began in 1994 when Alhan decided to give moral comfort to sick peoples in hospitals and homes. Other young people joined her and that experience showed them a reality of disease but also, and above all, of abandonment. Soon they realized the need of giving a concrete answer to the problem and began to seek an accommodation for those unfortunate brethren of them. "With God's help" as Alhan told me during that first visit, and more materially with the help of Mr. Karim Al Rayyes, a benefactor who took upon himself the rent of a house, and the help of the volunteers who worked to its restructuring, on the first of May 2000, in the presence of Archbishop Matti Shaba Mattoka, the Syriac Catholic Bishop of Baghdad, and of the apostolic nuncio in Iraq, Mgr. Giuseppe Lazzarotto, priests, nuns and lay friends "Beyt ‘Ania House " welcomed its first four guests.
But Divine Providence looked to the initiative with favour and in the autumn of the same year the family of Mr. Michael Lazare who lived abroad granted to the "Servants of ‘Anya" the free of charge use of the ground floor of their house in the district of Karrada Al Sharqiya that with an official ceremony became the permanent seat on the first of May 2001. The terrible situation Iraq was already living because of the embargo soon made the house the only and last resort for those who did not seem to have other hope. So the guests, only women in the beginning, increased, but it was soon clear that the abandonment concerned men also. Thus, after having obtained the permission by the owners of the house, in 2003 a second, smaller, unit was built in the garden. Despite this, however, premises soon proved inadequate and it was decided to rent another house in the same district to accommodate older patients. This new house, opened in November 2006 was then replaced for the non-renewal of the lease, by the now operating unit since last year.
Currently Beyt ‘Anya House is constituted by a central body that can accommodate 34 women with 30 guests currently living in, a second body intended to accommodate 5 people and currently fully occupied, and the detached house that, against a capacity of 25 patients houses 23 elderly patients. In recent years, despite the dangers and sufferings that the embargo and the war added to those to cure patients who neither society nor the families can take care of, the "Servants of Anya" thought not only of taking care of their "guests", as they called the members of their new family, from a medical point of view, but also from the spiritual one. So in the house still exists then small chapel, a room for small manual tasks and one for the computer.
Some of the guests spend their time in different activities because - this is the belief that stimulates those who move them to do so - they need to act to recognize their value and the importance of the integration between their life with those of the others. One of them, for example, translated from English some short stories of religious argument that have been published to be used as a text of catechism, another sews or darns clothes, another helps in the kitchen, another assists the other guests.
The guests of the house, and those that the "Servants of ‘Ania" assist at home, are also involved in meetings with priests and therapists and in cultural conferences held by speakers specialists in different fields. So no birthday is forgotten and all holidays are celebrated, Christmas and Easter, but also, of course, Eid Al Fitr, the feast that announces the end of the Holy Month of Ramadan, and Eid Al Adha, that celebrates the obedience of Abraham to the Divine will to sacrifice his son Ishmael (Isaac in the Judeo-Christian tradition). Christmas and Aid Al Fitr? Right, I realize now I didn’t write it before: the guests of Beyt ‘Ania are Christians and Muslims, but above all they are brothers and sisters in the sorrow they felt and in the love that surrounds them. Was it not clear? Didn’t I write that they are "special"?
“It is like a mustard seed, which is the smallest seed you plant in the ground. Yet when planted, it grows and becomes the largest of all garden plants, with such big branches that the birds of the air can perch in its shade.” (Mark 4:31-32)
In the city of hatred and violence we can, we "have to" hope that that tree can still grow, that his shadow will expand, that more and more birds can find rest on its branches, and that faith, in the shadow of those leaves, will never become a problem but, as it should be, a resource, a joy.
We can, and "have to" hope that the appeal the Servants of ‘Ania’s made using Matthew’s words "The harvest is plentiful but the workers are few. Ask the Lord of the harvest, therefore, to send out workers into his harvest field" will be listened to.

30 marzo 2008

Cristiani a Bartella, Al Qosh, Baghdad e Bassora

Fonte e foto: Ankawa.com

By Baghdadhope


Ogni occasione è buona per tenere vivo il ricordo di Monsignor Faraj P. Rahho. Alle marce silenziose che in questi giorni gli iracheni cristiani stanno tenendo nei villaggi del nord ed all’estero diverse manifestazioni si stanno aggiugendo. Così, per esempio, al vescovo scomparso è stato dedicato nel villaggio di Bartella il campionato per l’elezione dell’ “uomo più forte” che ha visto cimentarsi in prove di forza diversi giovani del paese che si sono sfidati sollevando tronchi e sacchi, spostando enormi pneumatici da camion e trainando enormi fuoristrada. Per la cronaca il primo classificato è risultato Basam Abdelhad e l’intera gara è stata seguita da un folto pubblico e dal vescovo siro cattolico di Mosul, Monsignor George Qas Musa.

Ad Al Qosh, invece, alla presenza del vecovo caldeo Mikha P. Maqdassi è stata inuagurata la “Casa degli Angeli”, una scuola materna che accoglie 100 bambini di età inferiore ai sei anni divisi in 4 classi: fiori, passerotti, usignoli e farfalle. La scuola è affidata a Padre Emile Nouna ed è diretta da Sorella Esperance coadiuvata da 9 maestri.

Diversa atmosfera invece a Baghdad e Bassora dove la battaglia tra forze governative e milizie e tra le stesse milizie infuria. Sone molte infatti le zone della capitale dove la popolazione è costretta a barricarsi nelle case per paura degli scontri, specialmente quelle più vicine a Sadr City, l’enorme quartiere/città roccaforte dei miliziani dell’esercito del Mahdi fedele a Muqtada As Sadr contro al quale il governo guidato da Nuri Al Maliki ha dichiarato guerra. E’ il caso, ad esempio, del quartiere di Habibiya dove, secondo quanto riferito a Baghdahope da un sacerdote operante nella zona, l’esercito del Mahdi ha il controllo delle strade dalle quali non solo sono scomparse le forze governative, quanto non è più attivo il sistema della “fawha” che, in collaborazione con le forze giovernative ed americane, prevedeva la presenza ed il controllo dei check points da parte di forze armate di quartiere.
Proprio nella capitale si è registrata la morte di un giovane cristiano, Sargon Zahir Oshana, ucciso mentre tornva a casa dopo aver assistito ai riti pasquali nella chiesa di Mar Eliya a Baghdad Jadida.

A Bassora intanto è stata colpita la chiesa caldea di Mar Faram. Fortunatamente non ci sono state vittime ed il parroco, Padre Emad Aziz Banna, in segno di pace e speranza per una comunità sempre più ridotta ha adornato le pari della chiesa colpite con il simbolo di pace per eccellenza: dei rami di olivo.

Christians in Bartella, Al Qosh, Baghdad and Basra

Source and photos: Ankawa.com

By Baghdadhope
Every opportunity is good to keep alive the memory of Mgr. Faraj P. Rahho: silent marches of the Iraqi Christians in the villages of the north and abroad and other kind of events. Thus, for example, in the village of Bartella the championship for the election of the "strongest man" was dedicated to the memory of the death bishop. The championship saw different young men competing in various tests of strength such as trunks and sacks lifting, moving huge tyres and dragging huge jeeps. For the record, the winner was Basam Abdelhad and the race was followed by a large audience and by the Syriac Catholic bishop of Mosul, Archbishop George Qas Musa.











In Al Qosh, in the presence of the Chaldean bishop, Mgr. Mikha P. Maqdassi the "House of Angels" was inaugurated. It is a nursery school that enrolls 100 children under the age of six who are divided into 4 classes: flowers, little sparrows, nightingales and butterflies. The school is entrusted to Father Emile Nouna and is headed by Sister Esperance who is assisted by 9 teachers.

The atmosphere in Baghdad and Basra, where the battle between government forces and militias and among the same militias rages, is rather different. In many areas of the capital the population is forced to stay at home for fear of clashes, especially in those closer to Sadr City, the huge district/city stronghold of the Mahdi army loyal to Muqtada As Sadr on which the government led by Nuri Al Maliki has declared war. It is the case, for example, of the Habibiya district where, according to what referred to Baghdahope by a priest working in the area, the Mahdi army took control of the streets from which the government forces disappeared, and where it is no longer active the "fawha" system that, in collaboration with the Iraqi and American forces, provided the presence and control of the check points by armed forces of the same district. Precisely in the capital it has been registered the death of a young Christian man, Sargon Zahir Oshana, killed while was going back home after having attended the Easter rites in the church of Mar Eliya in Baghdad Jadida.

In the meantime in Basra the Chaldean church of Mar Afram has been hit. Fortunately there were no victims and the parish priest, Father Emad Aziz Banna, as a sign of peace and hope for the little community adorned the walls and the windows of the church that were hit with the peace symbol par excellence: olive branches.

29 marzo 2008

Cortei nei villaggi cristiani: giustizia per la morte di mons. Rahho

Fonte: Asia News

In silenzio, tutti i giorni da quasi una settimana, nei villaggi cristiani della piana di Niniveh si svolge una marcia pacifica per chiedere verità sul caso del sequestro e dell’uccisione dell’arcivescovo caldeo di Mosul. Mons. Paulos Faraj Rahho è stato trovato morto il 13 marzo dopo 14 giorni di prigionia. Nell’agguato in cui lo hanno rapito, dopo la celebrazione della Via Crucis il 29 febbraio, sono rimasti uccisi i tre uomini che erano con lui.
Ora i cristiani iracheni chiedono giustizia. Rispondendo ad un appello lanciato a Pasqua dal Consiglio dei vescovi di Niniveh (che riunisce i leder religiosi di tutte le comunità cristiane presenti nella zona) si sono fatti coraggio e ogni giorno sfilano per le strade di Bartella, Karamles, Qaraqosh, al Qosh, con in mano i ritratti dei loro “martiri” (vedi foto): dal vescovo Rahho, a p. Ragheed e p. Paul Iskandar, tutti uccisi negli ultimi tre anni dal terrorismo islamico. Senza contare i numerosi laici, morti per scampare a un sequestro, perché rifiutavano di convertirsi o solo perché gestivano negozi di alcolici (vietati dall’islam). L’appello del Consiglio dei vescovi, diffuso in tutte le chiese il 23 marzo scorso, cita le parole di una delle ultime omelie di mons. Rahho: “Siamo iracheni, vogliamo costruire la pace, costruire l’Iraq, l’Iraq è anche nostro, siamo per l’Iraq. Restiamo qui, non abbiamo nemici, non odiamo nessuno”. Il messaggio chiedeva chiaramente: di cancellare ogni segno di festività (a breve sarà Pasqua per gli ortodossi) tranne quelli liturgici; di digiunare il 24 e il 26 marzo; e di organizzare manifestazioni pacifiche, perché sia fatta giustizia sulla morte di Rahho.
La vicenda dell’arcivescovo di Mosul è ancora poco chiara. L’autopsia sul suo corpo non rivela segni di violenza, facendo presumere che il prelato sia morto almeno cinque giorni prima del ritrovamento del cadavere e probabilmente in seguito a complicazioni del suo stato di salute, già precario. Le autorità irachene dichiarano di aver arrestato un gruppo di persone, tra cui quattro fratelli, coinvolti nel rapimento; si tratterebbe di ex membri del regime di Saddam, che avrebbero venduto il religioso ad al Qaeda. Inizialmente si era parlato di confessioni, in cui i responsabili raccontavano di torture sul religioso, poi la versione è cambiata con il soffocamento, metodo utilizzato per non lasciare tracce sul corpo. Ultimo particolare: esisterebbe un filmato dell’uccisione, ma finora la polizia dice di non averlo trovato. Il quadro solleva dubbi sulla corretta e trasparente gestione del caso da parte del governo iracheno. Che forse sta solo cercando il modo meno screditante per uscire da una vergognosa vicenda che lo ha esposto per l’ennesima volta sotto i riflettori di media e opinione pubblica mondiale.

Marches in the Christian villages: justice in the death of Archbishop Rahho

Source: Asia News

In silence, every day for almost a week, in the Christian villages of the plain of Nineveh peaceful marches have been held to call for truth in the case of the kidnapping and killing of the Chaldean archbishop of Mosul. Archbishop Paulos Faraj Rahho was found dead on March 13, after 14 days in captivity. Three men who were with him were killed in the ambush during which he was kidnapped, after the celebration of the Via Crucis on February 29.
Now Iraqi Christians are asking for justice. Responding to an appeal launched on Easter by the Nineveh bishops' council (which includes the religious leaders of all the Christian communities present in the area) they have taken courage and each day have walked through the streets of Bartella, Karamles, Qaraqosh, al Qosh, holding the portraits of their "martyrs" (see photo): from Archbishop Rahho to Fr Ragheed and Fr Paul Iskandar, all killed in the last three years by Islamic terrorists. Without counting the many laypeople killed while resisting kidnapping attempts, because they refused to convert or only because they owned shops that sold alcoholic beverages (banned by Islam). The appeal of the bishops' council, announced in all the churches last March 23, cites the words of one of Archbishop Rahho's last homilies: "We are Iraqis, we want to build peace, to build Iraq, Iraq is ours too; we are for Iraq. We are staying here, we have no enemies, we do not hate anyone". The message clearly asked: to suspend all outward celebrations (it will soon be Easter for the Orthodox) except for liturgical ones; to fast on March 24 and 26; and to organise peaceful manifestations, so that justice may be done over the death of Archbishop Rahho.
The events surrounding the death of the archbishop of Mosul are still unclear. The autopsy revealed no signs of violence, and showed that the prelate probably died at least five days before his body was recovered, probably following complications with his already precarious health. The Iraqi authorities say they have arrested a group of people, including four brothers, who were involved in the kidnapping; they are thought to be former members of the regime of Saddam Hussein, who are believed to have sold the bishop to al Qaeda. Initially, there were said to have been confessions, in which those responsible recounted torturing the bishop, but then the story changed to suffocation, a method used to leave no traces on the body. A last detail: it is thought that there is a video recording of the killing, but so far the police say they have not found it. The information released is raising doubts over the proper and transparent handling of the case on the part of the Iraqi government. This may be doing nothing more than seeking the least discrediting way to leave behind a shameful incident that has exposed it yet again to media attention and world public opinion.

28 marzo 2008

El dilema de la Iglesia en Irak

By Baghdadhope


Il mio articolo:
"Il dilemma della chiesa in Iraq" è stato gentilmente tradotto in spagnolo da María Isabel sul blog temas de interés católicos

My article
: "The Church dilemma in Iraq" has been kindly translated into Spanish by María Isabel on temas de interés católicos blogspot.

27 marzo 2008

Il dilemma della Chiesa in Iraq

By Baghdadhope

La proposta francese di accogliere 500 rifugiati iracheni di religione cristiana sta suscitando aspre polemiche in patria. Secondo quanto riportato da PRESS TV l’iniziativa ha ricevuto l’approvazione di Mons. Marc Stenger, il vescovo di Troyes e presidente di Pax Christi Francia che a febbraio ha guidato la visita di un gruppo franco-italiano nel Kurdistan. Il vescovo, pur riconoscendo il fatto che tutti gli iracheni stiano vivendo una situazione difficile ha aggiunto che essa lo è ancora di più per i cristiani.
Di parere contrario si è dichiarato invece Pierre Henry, a capo dell’associazione francese Terre d’Asile che ha sottolineato il rischio insito nel garantire il rifugio sulla base dell’appartenza religiosa.
A sostenere l’opinione di Pierre Henry c’è anche la dichiarazione rilasciata ad Inter Radio dal vescovo siro di Mosul (non viene citato il nome ed è quindi incerto se si tratti del vescovo cattolico, Mons. Qas Mousa o di quello ortodosso, Mor Gregorious Saliba Shamoun, nota di Baghdadhope) che sottolinea come la comunità irachena cristiana sarebbe portata a favorire l’emigrazione dei giovani che invece potrebbero in futuro aiutare la ricostruzione del proprio paese.
La questione della fuga degli iracheni cristiani dal paese tiene ormai banco sui media da anni, da quando cioè si è trasformata in un’emorragia apparentemente inarrestabile cui la morte di Monsignor Rahho ha dato nuovo impulso.
Le dichiarazioni a proposito però sono praticamente unanimi, e sostenute dal Vaticano: “bisogna fermarla”. Ad esprimersi così sono i vescovi, gli alti prelati cui i media danno voce, coloro che, giustamente nella loro posizione, difendono la millenaria presenza cristiana in Iraq appellandosi ad una sorta di “precedenza temporale” che la fa risalire a ben prima dell’arrivo dell’Islam. Coloro che vedono nella diaspora la perdita dei valori, delle tradizioni, della lingua ancestrale che sempre hanno unito una comunità dal suo divenire minoritaria.
Ma che opinione ha la gente? Non c’è bisogno di leggere dichiarazioni a proposito. Molti iracheni cristiani l’hanno espressa con i fatti, con il loro diventare profughi. Il contrasto tra gli appelli al restare e la realtà del partire è netto.
E questo sarà uno dei molti problemi che la chiesa in Iraq dovrà affrontare. Perchè, anche se ciò può risultare blasfemo alle orecchie di molti, potrebbero essere più di quanti si pensa coloro che ai valori, alla tradizione, alla lingua oppongono semplicemente la possibilità di vivere. E’ doloroso ma realistico ammettere che essere cristiani non per tutti significa necessariamente sacrificare se stesso o i propri cari. Che le parole del Santo Padre dedicate ai missionari martiri la cui opera deve essere considerata come uno stimolo a testimoniare con coraggio la fede e la speranza in Cristo che “sulla Croce ha vinto per sempre il potere dell’odio e della violenza con l’onnipotenza del suo amore” possano non toccare il cuore di coloro che con quell’odio e quella violenza sono costretti a convivere da anni. Che ancora oggi, ed è la testimonianza di Mons. Luis Sako
, Arcivescovo caldeo di Kirkuk, molti cristiani sono costretti a scegliere se pagare la tassa di protezione (jizia) di 10,000 dollari, se vedere la propria casa distrutta o un familiare ucciso. Che ci siano madri cui della ricostruzione del paese non importa nulla perchè non ci credono e che considerano il lacerante dolore che la separazione da un figlio sempre comporta preferibile alla sua morte o ad un destino incerto.
Questa è la realtà in Iraq. Un’ennesima sfida per una Chiesa già molto provata.

The Church dilemma in Iraq

By Baghdadhope

The French proposal to accept 500 Iraqi Christian refugees is provoking a bitter controversy at home. According to PRESS TV the initiative received the approval of Mgr. Marc Stenger, the bishop of Troyes and president of Pax Christi France who in February led the visit of a Franco-Italian delegation to Kurdistan. The bishop, while acknowledging that all Iraqis are experiencing a difficult situation, added that it is worse for Christians.
Opposite is the opinion of Mr. Pierre Henry, head of the French Terre d'Asile organization who underlined the risk inherent in ensuring the refugee status on the base of religion. To support the view of Pierre Henry is also the statement that Inter Radio reported by the Syriac bishop of Mosul (the name of the bishop is not mentioned and it is so uncertain if he is the Catholic bishop, Mgr. George Qas Mousa or the Orthodox one, Mor Gregorious Shamoun Saliba, note by Baghdadhope), who underlined that the Iraqi Christian community would encourage the emigration of young people who, instead, could in the future help the reconstruction of their country.
The issue of Iraqi Christians fleeing the country has been a major issue for the media since years ago, when it became an apparently unstoppable haemorrhage to which the death of Mgr. Rahho gave new impetus. With regards to such a situation, however, the statements are practically unanimous, and supported by the Vatican: “we must stop it".
To speak so are the bishops, the senior prelates to whom the media give voice, those who, rightly in their position, defend the millennary Christian presence in Iraq appealing to the "temporal precedence" which dates back to well before the arrival of Islam. Those who see in the diaspora the loss of values, traditions, and ancestral language that always kept united the community since it became a minority.
But what is people’s opinion? There is no need to read statements about it. Many Iraqi Christians have expressed it through facts, by their becoming refugees. The contrast between the appeals to remain and the reality of leaving is clear. And this will be one of the many problems the church will have to face in Iraq. Because, even though this may sounds as blasphemous to the ears of many, those who oppose to values, tradition, language the simple chance to live could be more than we think.
It is painful but realistic to admit that being a Christian does not necessarily mean for anyone to sacrifice himself or his loved ones. That the words of the Holy Father dedicated to missionary martyrs whose work should be seen as an incentive to testify boldly the faith and the hope in Christ who "on the Cross won forever the power of hatred and violence with the omnipotence of His love" may not touch the hearts of those who since years ago have been obliged to live with that hatred and violence. That still today, and it is the testimony of Mgr.Luis Sako, the Chaldean archbishop of Kirkuk, many Christians are forced to choose whether to pay the 10000 dollars tax for protection (jizia), to see their homes destroyed or a relative killed. That there are mothers who don’t care about the reconstruction of the country because they don’t believe in it and who consider the agonizing pain of the separation from a son always preferable to his death or to an uncertain future.
This is the reality in Iraq. Another challenge for a Church already exhausted.

Iraq: Sako (Kirkuk) "in gioco il petrolio". Ancora attacchi ai cristiani

Fonte: SIR

“C'è uno scontro in atto fra i vari gruppi politici per il potere e il controllo del petrolio, scontro alimentato anche dall’esterno. Nei mesi prossimi, poi, ci saranno le elezioni dei membri del Consiglio delle province. Quanto sta avvenendo a Bassora si fonda proprio su questi fatti: chi governerà e controllerà la città petrolifera?”
. E’ il parere del vescovo di Kirkuk, mons. Louis Sako, sugli scontri a Bassora e a Baghdad tra le milizie sciite dell'imam radicale Moqtada a-Sadr e l’esercito iracheno col sostegno di elicotteri e aerei americani. “La sicurezza – dichiara al Sir – non è stabile anche perché i membri della polizia e dell'esercito appartengono a partiti e milizie. Ci sono voci che secondo cui gli scontri in atto Bassora, città sciita, sono il preludio a quelli di Mossul, roccaforte sunnita”.
In questa situazione, denuncia il vescovo caldeo “a Mossul, dopo la morte di mons. Rahho, prosegue la fuga dei cristiani verso il nord, Kirkuk e la Siria. I mujahidin hanno inviato una lettera alle famiglie cristiane chiedendo una tassa di protezione (jizia) di 10,000 dollari pena la distruzione dell’abitazione o la morte di un familiare”. “Fortunatamente – aggiunge – ci sono anche tanti musulmani che hanno espresso indignazione per la tragica morte di mons. Rahho e apprezzamento per l’opera di riconciliazione e di dialogo portata avanti dalle comunità cristiane. I cristiani sono per l’Iraq un grande fattore di equilibrio e la morte di mons. Rahho è oggi uno stimolo per i fedeli a restare nel Paese, dove abitano ben prima dell’arrivo dei musulmani. Tuttavia le chiese e la comunità internazionale hanno il dovere di aiutare l'Iraq nella riconciliazione e i cristiani a sopravvivere”. Non manca anche un monito alle truppe della coalizione presenti in Iraq: “se andranno via il Paese cadrà in una guerra civile senza fine. Esse possono far tornare tutto alla calma, aiutare la ricostruzione, la riconciliazione, creare lavoro e migliorare i servizi allontanando così l’idea, diffusa tra gli iracheni, che non vogliono adoperarsi per questi scopi”.

Iraq: Sako (kirkuk) "Oil at stake": More attacks aginst Christians

Source: SIR

“There is a fight going on between the political groups for power and control over oil, a fight that is also fuelled by external parties. Then, in the next few months, there will be the election of the members of the Council of the Provinces. What is happening in Bassora is actually fuelled by this: who is going to rule and control the oil-producing city?”.
This is the opinion of the bishop of Kirkuk, mgr. Louis Sako, about the fights going on in Bassora and Baghdad between the Shiite militias of the radical imam Moqtada a-Sadr and the Iraqi army with the support of US helicopters and aircrafts. “Security – he states to SIR – is not stable partly because the members of the police and army belong to the parties and militias. Rumour has it that the fights going in Bassora, a Shiite city, are the prelude to those of Mossul, a Sunni stronghold”.
In this predicament, denounces the Chaldean bishop, “in Mossul, after the death of mgr. Rahho, the Christians keep fleeing north, to Kirkuk and Syria. The mujahidins sent a letter to the Christian families asking them to pay a protection tax (jizia) of 10,000 dollars, otherwise their homes will be destroyed and one of their relatives will be killed”. “Luckily – he adds – there are also so many Muslims who have expressed outrage for the tragic death of mgr. Rahho and praise for the reconciliation and dialogue carried out by the Christian communities. Christians are for Iraq a great balancing factor and the death of mgr. Rahho is now spurring the devotees to remain in the country in which they lived well before the Muslims ever came. However the Churches and the international community have a duty to help Iraq in its reconciliation and the Christians to survive”. He also made a warning to the coalition troops in Iraq: “if they go away, the Country will fall into an endless civil war. They can make everything go back to normal, help rebuild country, help reconciliation, create work and improve services, thus dispelling the idea, which is widespread amongst the Iraqis, that they do not want to work for such purposes”.

20 marzo 2008

Vive la France! Ma... l'Italia che fa?

Viva Francia....pero Italia, que está haciendo?
Gracias a María Isabel de "Temas de interés católicos" blogspot.

By Baghdadhope

Mentre ad Ankawa molte delle celebrazioni pasquali saranno cancellate o si svolgeranno in tono minore per il recente e gravissimo lutto che ha colpito la comunità irachena cristiana con la morte di Monsignor Faraj Paulus Rahho, c’è chi denuncia il fatto che l’unica possibilità di sopravvivenza per i cristiani della zona di Mosul, - “una culla del fondamentalismo fuori dal controllo del governo” sono le parole dell’Arcivescovo di Kirkuk, Monsignor Luis Sako – sia quella di nascondersi, ritornare alle catacombe come fu già nei primi secoli della nostra era.
A parlare così è Suha Rassam che a Londra dirige l’associazione caritatevole Iraqi Christians in Need. Parole non esagerate perchè confermate da chi in quella zona vive ed opera da cristiano, il domenicano Padre Najeeb Mikhail che in un’intervista a Compass Direct News h
a dichiarato: “Potremmo chiudere le chiese a Mosul per proteggerci e dire a tutti che non accettaimo questa situazione, o possiamo tenere tutte le celebrazioni e forse saremo attaccati”
Il pericolo a Mosul non è cessato. Padre Mikhail riporta infatti i casi di un giovane ucciso in città, di una donna rapita a Bartella, e di un altro tentativo di rapimento terminato con il ricovero di un altro giovane cui i rapitori hanno sparato mentre fuggiva. Le cose non vanno meglio, come la morte di Monsignor Rahho ha ampiamente dimostrato, per i religiosi. E’ sempre Padre Mikhail infatti a denunciare che essi vengono continuamente spostati di sede per evitare che diventino bersagli.
In una tale situazione gli iracheni cristiani non sanno più come vivere, come comportarsi.
Ad iniziare dalle gerarchie religiose che, attribuendo gli eventi che colpiscono la comunità alla diffusa criminalità di una nazione praticamente ingovernata, e ricordando sempre quanto non solo i luoghi di culto cristiani, ma anche quelli islamici siano stati colpiti, ridimensionano il fenomeno da molti considerato persecutorio al semplice risultato della guerra che ha distrutto l’Iraq.
Nel caso di Monsignor Rahho era stato richiesto un riscatto e di conseguenza la semplice mano criminale non potrà mai essere esclusa. Ma come dobbiamo considerare la morte di Padre Ragheed Ghanni? Nessun riscatto fu chiesto per lui e per i tre suddiaconi che lo accompagnavano. Ci fu solo un brutale assassinio a sangue freddo. Criminali comuni?
In questi giorni fiumi di parole sono state spese a condanna del rapimento di Monsignor Rahho. Ma per quanto ancora l’opinione pubblica sarà interessata alle sorti degli iracheni cristiani? E poi, servono davvero le parole dei leaders? O la realtà è quella dipinta da Nuri Kino, uno scrittore assiro che da anni vive in Svezia: “Che importanza ha se il Papa condanna il rapimento? Agli assassini non importa un accidente di ciò che i leaders cristiani in occidente dicono e credono.”
Allora non resta che sperare che le parole di solidarietà e vicinanza diventino fatti. Che l’annuncio fatto mercoledì dal Ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner
, di voler concedere il rifugio a 500 iracheni cristiani perchè, ha affermato, se la Francia non lo rifiuterà ai musulmani è anche vero che nessun paese si sta facendo carico degli iracheni cristiani, sia vero.
Certo, una mossa del genere risulterà particolarmente sgradita a chi, nonostante tutto, sta cercando di evitare la fuga degli iracheni dall’Iraq nel nome della loro millenaria tradizione di vita e sopravvivenza in quel paese, ma altrettanto certamente se quell’annuncio risulterà vero saranno in molti a desiderare di ricostruirsi una vita in Francia, molti di quelli che ormai dicono: “Sono straniero a casa mia!” Perchè straniero per straniero ognuno di loro, come tutti nel mondo, vuole vivere libero, ma soprattutto vuole vivere.

Ed allora, per loro: “Vive la France!”
Ma... l’Italia, che sta facendo?

Vive la France! But... what's Italy doing?

By Baghdadhope

While in Ankawa many of the Easter celebrations will be cancelled or held in lesser tone for the recent and serious grief that struck the Iraqi Christian community with the death of Mgr. Faraj Rahho, there is someone who denounces that the only possibility of survival for Christians in the area of Mosul - "a cradle of fundamentalism out of the control of the government" are the words of the Archbishop of Kirkuk, Mgr. Luis Sako - is to hide, to go back to the catacombs as already was in the early centuries of our era. To say so is Dr. Suha Rassam who runs the charity Iraqi Christians in Need based in London. Words not exaggerated because confirmed by who in that area lives and works as a Christian, as the Dominican Father Mikhail Najeeb who in an interview to Compass Direct News said: "We could close our churches in Mosul to protect ourselves and say to everyone that we don't accept the situation.. or we can hold all the celebrations, and maybe we will receive some bombs or attacks."
The danger in Mosul is not ceased. Father Mikhail reported the cases of a young man killed in the city, of a woman kidnapped in Bartella, and of another attempt of kidnapping ended with the hospitalization of another boy whom the kidnappers shot while he was trying to flee. Things are not better, as the death of Mgr. Rahho has amply demonstrated, for the priests. Father Mikhail, infact, denounces that they are constantly moved from a place to another to avoid becoming targets. In such a situation the Iraqi Christians no longer know how to live, how to behave. Beginning with religious hierarchies who, attributing the events that affect the community to the widespread criminality in a practically ungoverned nation, and always recalling that not only Christian places of worship were hit but also Muslims ones, resize the phenomenon, considered by many as persecutory, to the simple result of the war that has destroyed Iraq. In the case of Mgr.Rahho a ramson was requested and consequently a simple criminal action will never be ruled out. But how can we consider the death of Father Ragheed Ghanni? No ransom was requested for him and for the three subdeacons who accompanied him. It was just a brutal cold-blooded murder. Common criminals?
In these days floods of words of condemnation of the kidnapping of Mgr.Rahho were spent. But for how long the public opinion will be interested in the fate of Iraqi Christians? And then, do the words of the leaders really serve? Or the reality is that painted by Nuri Kino, an Assyrian writer who has been living in Sweden since many years ago: "Of what importance is it that the Pope condemns kidnapping? The murderers don't give a damn what the Christian leader in the west says or believes."
Then the hope is that the words of solidarity and closeness can become facts. That the announcement made on Wednesday by the French foreign minister, Bernard Kouchner, of the decision to give refuge to 500 Iraqi Christians because, as he said, if France will not refuse it to Muslims is also true that no country is taking care of Iraqi Christians, can be true.
Such a move of course will be particularly unwelcome by those who, despite everything, are trying to prevent the flight of the Christians from Iraq in the name of their thousand-year tradition of life and survival in that country, but equally certainly if the announcement will come true many will desire to rebuild their lives in France, many of those who now say: "I feel a foreigner in my country!"
Because if they have to feel foregneirs they, as everyone in the world, want to live in freedom, but above all they want to live.

And so, for them: "Vive la France!"
But ... what’s Italy doing?

18 marzo 2008

Iracheni cristiani: "Potranno ancora trovare la forza?"




By Baghdadhope

Sono le 7.15 quando arrivo a Piazza San Pietro. Roma è ancora deserta. Passo attraverso il colonnato che porta all'emiciclo ed al suo centro, proprio sotto l'obelisco, una macchia di colore nero mi fa capire di aver trovato chi cerco. I sacerdoti, i monaci, i diaconi ed i seminaristi caldei stanno provando un'altra volta gli inni che canteranno durante la messa che di lì a poco si terrà a suffragio di Mons. Faraj Paulus Rahho
Alle 7.45 in punto, dopo essere passati al vaglio dell’Ufficiale delle Guardie Svizzere in possesso della lista dei nomi dei circa 50 invitati alla cerimonia varchiamo la Porta di Bronzo che conduce ai Palazzi Apostolici e raggiungiamo la seconda loggia dove si trova la cappella "Redemptoris Mater"
destinata ad ospitare la cerimonia.
La visione è a dir poco stupefacente, 600 metri quadri di mosaici che esprimono, come nelle parole usate da Papa Giovanni Paolo II nel descriverla: “un segno dell'unione di tutte le Chiese da voi rappresentate con la Sede di Pietro…[che]… rivestirà inoltre un particolare valore ecumenico e costituirà una significativa presenza della tradizione orientale in Vaticano".
Ecumenica è infatti la presenza a questa messa. Ci sono i caldei, è ovvio, sacerdoti e suore che vivono a Roma ma anche in altre città, ma anche rappresentanti, religiosi e non, della chiesa Assira dell’Est e della chiesa Siro Cattolica.
Gli sguardi sono meravigliati da tanta ricchezza di decorazioni, le figure dei santi e le rappresentazioni del sacro convergono l'attenzione all'altare, sovrastato dall'immagine della Madre Celeste. Prendiamo posto ed il cerimoniere, con una logica che a tutti sfugge ma che avrà una sua ragione, dà gli ultimi ritocchi: una suora qui davanti, un sacerdote da questa fila all'altra. Alla luce intensa e dorata della cappella si aggiunge quelle dei flashes delle tante macchine fotografiche.
Alle 8.00 in punto la porta a destra dell'entrata della cappella si apre e preceduto dai concelebranti e dal Vangelo entra Papa Benedetto XVI accompagnato dalla melodia che il coro caldeo intona. Sono alcuni versetti tratti dal Breviario Caldeo della liturgia del "Venerdì dei martiri", come mi spiega Padre Fadi Lion, che dirige il coro, e che parlano del sangue dei martiri che diventa seme da cui fiorisce il futuro della chiesa. Alle parole del coro caldeo fanno eco quelle in latino che danno inizio alla celebrazione. La liturgia, tranne le Letture e l'omelia è in latino, e ci; crea un-atmosfera particolare, di chiesa antica ma viva.
Ma sono le parole del Papa che tutti aspettano ed ascoltano con attenzione. Il forte appello che domenica ha lanciato all'Angelus: "Basta stragi, basta violenza, basta odio in Iraq" ha rincuorato molti, ha dato speranza, anche se minima, che qualcuno ascolti la sua voce e che la persecuzione degli iracheni cristiani possa finire perchè, come diceva lo stesso Monsignor Rahho: " i cristiani non sono nemici di nessuno, e nel loro cuore devono sempre ricordare le parole che Cristo disse sulla Croce " ma allo stesso tempo devono vedere i propri diritti riconosciuti perché, sono sempre le parole del vescovo defunto, "questa è , la nostra terra".
Le parole del Papa, che ripercorrono l'agonia di Monsignor Rahho fino a parlare della sua "indegna sepoltura", rivolte a tutti i membri della Chiesa Caldea che "in Iraq soffre, crede e prega" sono di "saluto e di incoraggiamento" perchè essi "sappiano trovare la forza per non perdersi d’animo nella difficile situazione che stanno vivendo."
Esse quindi, anche se specificamente legate al particolare evento luttuoso, si legano simbolicamente al passo del Vangelo di Giovanni (12:1-11) letto dal diacono e prossimo sacerdote caldeo Robert Said, in cui Gesù, rispondendo a Giuda Iscariota che chiedeva ragione dell'uso che Maria aveva fatto dell'olio profumato cospargendo i piedi del Signore invece di venderlo destinando il ricavato ai poveri dice: «Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me».
Le parole del Vangelo quindi, e quelle dello stesso Papa, che ha concluso la sua omelia con l'invito ai cristiani d'Iraq perché "sappiano perseverare nell’impegno della costruzione di una società pacifica e solidale sulla via del progresso e della pace." sono la risposta cui coloro che subiscono sulla propria pelle il pericolo di essere cristiani in Iraq devono guardare.
"Saper trovare la forza", "Saper perseverare nell'impegno".
Mai come in questi ultimi anni gli iracheni cristiani hanno dimostrato di saper essere cristiani. La domanda però è: seppure hanno "saputo" trovare la forza e perseverare, "potranno" ancora farlo?

Alcuni partecipanti alla cerimonia:
Per la Chiesa Caldea:
Mgr. Philip Najim, Procuratore della Chiesa Caldea presso la Santa Sede e Visitatore Apostolico in Europa
Mgr. Yousif I. Sarraf,
Vescovo Caldeo del Cairo
Diacono Robert Said Jarjis (Lettura delVangelo di Giovanni)
Padre Ghazuan Baho (Lettura dal Libro di Isaia)

Mgr. Cardinal Leonardo Sandri,
Prefetto della
Congregazione per le Chiese Orientali
Mgr. Cardinal Tarcisio Bertone, Segretario di Stato Vaticano
Mgr. Fernando Filoni, Sostituto del Segretariato di Stato ed ex Nunzio Apostolico in Iraq
Mgr. Jean Luis Tauran, Presidente del
Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso
Mgr. Dominique Mamberti, Segretario per le Relazioni con gli stati
Mgr. Antonio Maria Vegliò, Segretario della Congregazione per le Chiese Orientali


Per il testo dell'omelia del Santo Padre clicca su "leggi tutto"


OMELIA DEL SANTO PADRE NELLA SANTA MESSA DI SUFFRAGIO PER L’ARCIVESCOVO DI MOSSUL DEI CALDEI, S.E. MONS. PAULOS FARAJ RAHHO , 17.03.2008

Venerati e cari Fratelli,
siamo entrati nella Settimana Santa portando nel cuore il grande dolore per la tragica morte del caro Monsignor Paulos Faraj Rahho, Arcivescovo di Mossul dei Caldei. Ho voluto offrire questa santa Messa in suo suffragio, e vi ringrazio di avere accolto il mio invito a pregare insieme per lui. Sento vicini a noi, in questo momento, il Patriarca di Babilonia dei Caldei, Cardinale Emmanuel III Delly, e i Vescovi di quella amata Chiesa che in Iraq soffre, crede e prega. A questi venerati Fratelli nell’Episcopato, ai loro Sacerdoti, ai Religiosi ed ai fedeli tutti invio una particolare parola di saluto e di incoraggiamento, confidando che nella fede essi sappiano trovare la forza per non perdersi d’animo nella difficile situazione che stanno vivendo.
Il contesto liturgico in cui ci troviamo è il più eloquente possibile: sono i giorni in cui riviviamo gli ultimi momenti della vita terrena di Gesù: ore drammatiche, cariche di amore e di timore, specialmente nell’animo dei discepoli. Ore in cui si fece netto il contrasto tra la verità e la menzogna, tra la mitezza e la rettitudine di Cristo e la violenza e l’inganno dei suoi nemici. Gesù ha sperimentato l’approssimarsi della morte violenta, ha sentito stringersi attorno a sé la trama dei persecutori. Ha sperimentato l’angoscia e la paura, fino all’ora cruciale del Getsemani. Ma tutto questo Egli ha vissuto immerso nella comunione con il Padre e confortato dall’"unzione" dello Spirito Santo.
Il Vangelo odierno ricorda la cena di Betania, che allo sguardo pieno di fede del discepolo Giovanni rivela significati profondi. Il gesto di Maria, di ungere i piedi di Gesù con l’unguento prezioso, diventa un estremo atto di amore riconoscente in vista della sepoltura del Maestro; e il profumo, che si diffonde in tutta la casa, è il simbolo della sua carità immensa, della bellezza e bontà del suo sacrificio, che riempie la Chiesa. Penso al sacro Crisma, che unse la fronte di Mons. Rahho nel momento del suo Battesimo e della sua Cresima; che gli unse le mani nel giorno dell’Ordinazione sacerdotale, e poi ancora il capo e le mani quando fu consacrato Vescovo. Ma penso anche alle tante "unzioni" di affetto filiale, di amicizia spirituale, di devozione che i suoi fedeli riservavano alla sua persona, e che l’hanno accompagnato nelle ore terribili del rapimento e della dolorosa prigionia – dove giunse forse già ferito –, fino all’agonia e alla morte. Fino a quella indegna sepoltura, dove poi sono state ritrovate le sue spoglie mortali. Ma quelle unzioni, sacramentali e spirituali, erano pegno di risurrezione, pegno della vita vera e piena che il Signore Gesù è venuto a donarci!
La Lettura del profeta Isaia ci ha posto dinanzi la figura del Servo del Signore, nel primo dei quattro "Carmi", in cui risaltano la mitezza e la forza di questo misterioso inviato di Dio, che si è pienamente realizzato in Gesù Cristo. Il Servo è presentato come colui che "porterà il diritto", "proclamerà il diritto", "stabilirà il diritto", con un’insistenza su questo termine che non può passare inosservata. Il Signore lo ha chiamato "per la giustizia" ed egli realizzerà questa missione universale con la forza non violenta della verità. Nella Passione di Cristo vediamo l’adempimento di questa missione, quando Egli, di fronte a un’ingiusta condanna, rende testimonianza alla verità, rimanendo fedele alla legge dell’amore. Su questa stessa via, Mons. Rahho ha preso la sua croce e ha seguito il Signore Gesù, e così ha contribuito a portare il diritto nel suo martoriato Paese e nel mondo intero, rendendo testimonianza alla verità. Egli è stato un uomo di pace e di dialogo. So che egli aveva una predilezione particolare per i poveri e i portatori di handicap, per la cui assistenza fisica e psichica aveva dato vita ad una speciale associazione, denominata Gioia e Carità ("Farah wa Mahabba"), alla quale aveva affidato il compito di valorizzare tali persone e di sostenerne le famiglie, molte delle quali avevano imparato da lui a non nascondere tali congiunti e a vedere Cristo in essi. Possa il suo esempio sostenere tutti gli iracheni di buona volontà, cristiani e musulmani, a costruire una convivenza pacifica, fondata sulla fratellanza umana e sul rispetto reciproco.
In questi giorni, in profonda unione con la Comunità caldea in Iraq e all’estero, abbiamo pianto la sua morte, e il modo disumano in cui ha dovuto concludere la sua vita terrena. Ma oggi, in questa Eucaristia che offriamo per la sua anima consacrata, vogliamo rendere grazie a Dio per tutto il bene che ha compiuto in lui e per mezzo di lui. E vogliamo al tempo stesso sperare che, dal Cielo, egli interceda presso il Signore per ottenere ai fedeli di quella Terra tanto provata il coraggio di continuare a lavorare per un futuro migliore. Come l’amato Arcivescovo Paulos si spese senza riserve a servizio del suo popolo, così i suoi cristiani sappiano perseverare nell’impegno della costruzione di una società pacifica e solidale sulla via del progresso e della pace. Affidiamo questi voti all’intercessione della Vergine Santissima, Madre del Verbo incarnato per la salvezza degli uomini, e perciò, per tutti, Madre della speranza.
[00434-01.01] [Testo originale: Italiano]
[B0189-XX.01]

Iraqi Christians:" Will they still be able to find the strenght?"



By Baghdadhope

It’s 7.15 when I arrive in St. Peter's Square. Rome is still deserted. I pass under the colonnade that leads to the hemicycle and in its center, just below the obelisk, a black stain makes me understand that I found whom I was looking for. The Chaldean priests, monks, deacons and seminarists are rehearsing the hymns that they will sing during the mass that soon will be held in suffrage of Mgr. Faraj Paulus Rahho.
At 7.45 o'clock, after the check by the officer of the Swiss Guards in possession of the list of the names of the about 50 persons invited to the ceremony, we cross the Bronze Door leading to the Apostolic Palace, and reach the second balcony where the chapel "Redemptoris Mater" intended to host the ceremony is.
The sight is astonishing, to say the least. 600 square meters of mosaics that express, as in the words used by Pope John Paul II in describing it: "a sign of the unity between all the Churches which you represent and the See of Peter ...[that has] … a particular ecumenical value and ... an important presence of the Eastern tradition in the Vatican”.
And really ecumenical is the mass. There are Chaldeans, it is obvious, priests and nuns who live in Rome but also in other cities, but also representatives, religious or not, of the Assyrian Church of the East and of the Syriac Catholic Church.
The eyes are surprised by such richness of decorations, the figures of saints and the representations of the sacred converge the attention to the altar, dominated by the Heavenly Mother. We sit down and the master of ceremonies, with a logic that escapes to all but that surely has a reason, gives the finishing touches: a nun here in the front, a priest from this row to the other. The lights of the flashes of the the cameras adds to the golden light of the chapel.
At 8.00 o’clock the door to the right of the chapel opens and, preceded by the concelebrants and the Gospel, enters Pope Benedict XVI accompanied by the melody that the Chaldean choir intones. They are some verses taken from the Chaldean Breviary from the liturgy of the "Friday of the martyrs", as Father Fadi Lion, who directs the choir, explains to me. They are about the blood of martyrs that becomes the seeds from which the future of the church blooms. The words of the Chaldean choir are echoed by those in Latin that start the celebration. The liturgy, apart from the Readings and the homily is in Latin, and this creates a special atmosphere, of an old but alive church.
But are the Pope’s words that everyone expects and listens carefully. His strong appeal launched on Sunday: "Stop massacres, stop violence, stop hate in Iraq" heartened many, gave hope, even if minimal, that someone will listen to his voice and that the persecution of Iraqi Christians can finish because, as the same Archbishop Rahho said: "Christians are not enemies of anyone, and their hearts must always remember the words that Christ said on the Cross " but at the same time, they should have their rights recognized because, always the words of the deceased bishop, "this is , our land". The words of the Pope, who retrace the agony of Archbishop Rahho and speak of his "unworthy burial", are addressed to all members of the Chaldean Church that in "Iraq suffers, believes and pray" and are of "greeting and encouragement" because they can "know how to find the strength to not lose heart in the difficult situation they are experiencing." Therefore, even if specifically related to the mournful event, they are symbolically linked to the passage of the Gospel of John (12:1-11) read by the deacon and next Chaldean priest Robert Said Jarjis, in which Jesus, in response to Judas Iscariot, who asked why Mary had used the perfumed oil by pouring it on our Lord feets rather than sell it and allocate the proceeds to the poor said, "Leave her alone. It was intended that she should save this perfume for the day of my burial. You will always have the poor among you, but you will not always have me."
The words of the Gospel and those of the Pope, who concluded his homily with an invitation to Iraqi Christians to be "able to persevere in building a peaceful society on the path of progress and peace" are the answer that those who suffer on their skin the danger of being Christians in Iraq should look at.
"Being able to find the strength," "Being able to persevere in". Never, as in recent years, Iraqi Christians have shown that they know how to be Christians.
But the question is: although they "knew" how to find the strength and how to persevere, will they still “be able” to do it?

For a report of the ceremony by Vatican News Service click here

Some participants to the ceremony:
For the Chaldean Church
Mgr. Philip Najim, Procurator of the Chaldean Church to the Holy See and Apostolic Visitor in Europe
Mgr. Yousif I. Sarraf, Chaldean Bishop of Cairo
Deacon Robert Said Jarjis (Reading of the Gospel of John)
Father Ghazuan Baho (Reading from the Book of Isaiah)

Mgr. Cardinal Leonardo Sandri,
Prefect of the Congregation for the Oriental Churches
Mgr. Cardinal Tarcisio Bertone, Secretary of the Vatican State
Mgr. Fernando Filoni, Substitute for the Secretariat of Vatican State and former Apostolic Nuncio in Iraq
Mons. Jean Luis Tauran, President of the Pontifical Council for Interreligious Dialogue
Mgr. Dominique Mamberti, Secretary for Relations with States
Mgr. Antonio Maria Vegliò, Secretary of the Congregation for the Oriental Churches

16 marzo 2008

Commovente ricordo di Mons. Faraj Rahho. Le parole di Padre Amer Najman Youkhanna, sacerdote dell'Arcidiocesi di Mosul dei Caldei

By Baghdadhope

Nella raccolta atmosfera della cappella del Collegio Urbano di Roma si è svolta l'altro ieri una santa messa ristretta alla comunità cristiana orientale a Roma e dedicata alla memoria di Monsignor Faraj P. Rahho.
A celebrare è stato Monsignor Philip Najim, Procuratore Caldeo presso la Santa Sede e Visitatore Apostolico in Europa che ha riportato alcune delle parole pronunciate dal Patriarca Caldeo Mar Emmanuel III Delly durante il funerale di Mons. Rahho, svoltisi due giorni fa a Karamles. Presenti erano, tra gli altri, il Cardinale Daoud I Ignace Moussa, Patriarca Emerito della Chiesa Siro Cattolica e Prefetto Emerito della Congregazione per le Chiese Orientali, Monsignor Mikhail Jamil, Procuratore presso la Santa Sede e Visitatore Apostolico in Europa per la stessa chiesa, Padre Khaled Bishayi, Minutante per la chiesa caldea presso la Congregazione per le Chiese Orientali, Padre Jibrail, Superiore Generale dei Monaci Caldei, Don Graziano Borgonovo, Rettore del Seminario Filosofico Teologico Internazionale “Giovanni Paolo II” e, naturalmente, il Rettore del Pontificio Collegio Urbano che ha ospitato la cerimonia: Padre Fernando Domingues mccj.

Commovente è stato il momento in cui, terminato l'intervento di Mons. Najim, l'omelia è stata pronunciata da Padre Amer Najman Youkhanna, studente presso il Pontificio Collegio Irlandese di Roma ma, soprattutto, sacerdote dell'Arcidiocesi dei Caldei di Mosul ed in quanto tale particolarmente toccato dalla morte di Mons. Rahho, che non era solo il suo vescovo ma era stato anche il suo parroco: "uno dei punti principali che mi hanno fatto scoprire la vocazione al sacerdozio", come ha detto.
Di seguito il testo dell'omelia di Padre Amer Najman Youkhanna, commovente testimonianza di un giovane sacerdote addolorato che trova però, nel martirio di Mons. Rahho, una ulteriore spinta a continuare a testimoniare Cristo nella martoriata terra d'Iraq.

Per Te ogni giorno siamo messi a morte[1],

Cari fratelli e sorelle, le letture che abbiamo scelto per questa santa messa ci mostrano una realtà che non riguarda solo i primi secoli del cristianesimo, ma che è anche oggi tragicamente presente. La prima lettura ci racconta il martirio di Eleazaro
[2], che con le sue stesse parole oggi ci dice come abbia voluto testimoniare la sua fede nel Dio onnipotente, “soffrendo nel corpo atroci dolori sotto i flagelli, ma nell’anima sopporto volentieri tutto questo per il timore di Lui.” Eleazaro avrebbe potuto fuggire, ma preferì morire per dare gloria al nome del Signore, e non vivere nella vergogna di aver trascurato la Sua legge. Nella lettera ai Romani, poi, si dice “che né morte né vita, né angeli né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore.” La lettura del Vangelo di Luca ci mostra infine come anche il Signore abbia detto lo stesso: “ vi perseguiteranno … a causa del mio nome.” E continua: “Questo vi darà occasione di rendere testimonianza.”
Oggi siamo radunati per celebrare un evento importante, una gioia grande: il fatto che Mons. Paolo Faraj Rahho abbia dato testimonianza con il proprio sangue per dare gloria al nome di Gesù Signore nostro. Sì, cari fratelli, non siamo qui per piangere un morto, siamo qui per gioire insieme perché l’eparchia di Mosul dei Caldei ha da oggi un altro intercessore in cielo, un altro martire che continua a scrivere la storia della nostra chiesa non con l’inchiostro, ma con il proprio sangue.

Clicca su "Leggi tutto" per l'intera omelia di Padre Amer Najman Youkhanna
Mi pare quindi molto importante ricordare oggi ed insieme la vita di questo martire.
Mons. Rahho nasce il 20 dicembre, 1942, ultimo di otto figli: cinque maschi e tre femmine. Frequenta la scuola elementare di S. Simon Pietro a Mosul, e completa la scuola media inferiore e superiore al seminario minore del Patriarcato caldeo di S. Simon Pietro (1954-1960). Prosegue gli studi a Baghdad e nello stesso seminario termina gli studi teologici e filosofici. Viene ordinato sacerdote il 10 gennaio del 1965. Dal 1974 al 1976 è a Roma, dove ottiene la licenza in teologia pastorale all’Angelicum. Tornato in Iraq guida diverse parrocchie: Mar Isaia, Madonna del Perpetuo Soccorso e in fine S. Paolo, che è la mia parrocchia, che lui fondò e costruì e dove trascorse gli anni più significativi della sua vita conseguendo grandi successi nell’ambito della pastorale. Nominato vescovo dal Sinodo della Chiesa caldea, viene ordinato arcivescovo dell’eparchia di Mosul il 16 febbraio del 2001.
Mons. Rahho era molto conosciuto per il suo zelo pastorale. Essendo il mio parroco, infatti, il suo esempio ha rappresentato uno dei punti principali che mi hanno fatto scoprire la vocazione al sacerdozio. Vorrei in questo giorno ricordare alcune di quelle attività, movimenti e fraternità da lui personalmente fondate. Nel 1986 dà vita, nella parrocchia di S. Paolo, alla “Fraternità della Carità e Gioia” per l’assistenza ai fratelli disabili. Per lui il disabile era un dono del Signore per farci ricordare chi ha bisogno di noi; per lui lavorare con i fratelli disabili era un modo di scoprire il vero senso dell’umanità facendoci diventare più simili all’immagine del Signore, che è presente dentro ognuno noi. La Fraternità crebbe e si diffuse in tutto il Paese, nelle chiese cattoliche e non cattoliche, diventando un fulgido esempio di ecumenismo. Ben presto nasce anche la casa “Oasi della Carità e Gioia” per ospitare i fratelli disabili che per le loro famiglie rappresentavano un peso. Tra le altre iniziative del vescovo, inoltre, c’è la “Fraternità degli amici della Sacra Famiglia di Nazareth”, per le coppie appena sposate, ed i “Fratelli di Gesù”, che iniziarono ad assistere le famiglie più povere sotto l’embargo degli anni ’90 e che tutt’ora continuano le loro attività. Notevole è il ruolo che Mons. Rahho ha avuto con i giovani che, in tutta la diocesi, lo hanno amato profondamente. Da parroco, nel 1993, egli diede infatti inizio all’attività della “Settimana dei giovani”, durante la quale, due volte all’anno, i giovani si riuniscono per pregare e ascoltare alcuni relatori che intervengono su un argomento scelto ogni volta tra i più vicini alla vita delle nuove generazioni. Un’iniziativa che con il tempo si è estesa a tutta l’arcidiocesi.
Negli ultimi anni di guerra e di invasione americana Mons. Rahho ha mostrato un grandissimo coraggio dando testimonianza di fede e di speranza, insistendo sulla presenza dei cristiani in Iraq e specialmente nella sua diocesi: Mosul. Chiaramente egli aveva espresso il proprio rifiuto del modo in cui gli americani hanno voluto portare la democrazia nel nostro paese, ed in vari incontri ed interviste aveva dichiarato come gli americani non avessero fatto nulla di buono, ma avessero, anzi, solo distrutto l’Iraq. Con coraggio Mons. Rahho ha sempre voluto che tutte le chiese a Mosul rimanessero aperte, e sempre a causa della sua coraggiosa testimonianza di fede aveva ricevuto tantissime minacce e lettere di condanna a morte da vari gruppi terroristici che oggi purtroppo controllano la situazione a Mosul. La prima violenza che subì sulla propria pelle fu l’attentato terroristico contro il palazzo della curia arcivescovile, il 7 dicembre 2004. Un’azione terribile perché i terroristi avevano posto, senza nessun ostacolo, le bombe dentro il palazzo, e dopo l’esplosione avevano impedito ai vigili del fuoco di portare soccorso. Da allora Mons. Rahho aveva capito che gli americani non possono garantire la sicurezza per nessuno, e quando, come sempre in ritardo, erano arrivati, li aveva mandati via. In seguito, e più volte, le chiese a Mosul hanno subito diversi attentati, e dopo ogni attentato, forte del suo coraggio Mons. Rahho rimetteva tutto a posto in tempo brevissimo, riapriva le porte ai fedeli, e sfidando tutti i terroristi annunciava che “noi non andremo mai via da qui, perché questa è la nostra terra”. Dopo questi attentati, e per sferrare un colpo mortale al vescovo, il 3 giugno 2007 i terroristi uccisero a sangue freddo il suo braccio destro, Padre Rageed Ganni con altri tre suddiaconi, dopo che egli aveva celebrato la Santa messa nella parrocchia del Santo Spirito.
Dopo quel’episodio Mons. Rahho aveva dichiarato in diverse interviste ed articoli che i cristiani a Mosul sono davvero perseguitati, e dopo quelle dichiarazioni aveva ricevuto molte minacce da diversi gruppi che non rivelavano il loro vero nome, ma si limitavano a dire “noi siamo Mujahidin”, una parola tanto conosciuta da non aver bisogno di traduzione. Mons. Rahho non si è mai arreso, anzi, quelle minacce gli davano maggior coraggio per continuare. Ed è proprio quel coraggio che lo spingeva a continuare a celebrare le messe nella parrocchia di Santo Spirito, pur sapendo che lì i terroristi sono forti e molto presenti.
Finché non si è arrivati al giorno del suo rapimento, avvenuto dopo la Via Crucis nella stessa parrocchia. All’agguato in cui sono morti il suo autista e due guardie del corpo. Persone non erano con lui per guadagnare dei soldi, come se fosse un lavoro come un altro, quanto perché lui era il loro pastore. Mons. Rahho è stato ucciso in modo disumano, per la mancanza dei farmaci che gli erano necessari, e che i rapitori non hanno mai voluto che gli facessimo pervenire. “Saydna” tu avevi sempre detto e dichiarato: “sono nato a Mosul, e voglio morire a Mosul,” ed ecco, oggi ottieni la corona del martirio e noi siamo radunati a celebrare questo grande evento. Sei stato un vero esempio del buon pastore che dà la vita per il suo gregge. Cari fratelli e sorelle, non vogliamo ricevere condoglianze per un morto, ma siamo qui per ricevere i vostri auguri, perché in cielo abbiamo un nuovo intercessore: il Martire Monsignor Paolo Faraj Rahho.

Sia lodato Gesù Cristo,
sempre sia lodato

Padre Amer Najman Youkhanna

Sacerdote dell’arcidiocesi di Mosul dai Caldei 14/marzo/2008 Roma

[1] Salmi. 44,23
[2] 2Macc. 6,18-31


15 marzo 2008

Touching remembrance of Mgr. Faraj Rahho. The words of Father Amer Najman Youkhanna, priest of the Archdiocese of Mosul of the Chaldeans

By Baghdadhope
Two day ago, in the cosy atmosphere of the chapel of the Pontifical Urban College in Rome was held a mass restricted to the Eastern Christian community in Rome in memory of Mgr. Faraj P. Rahho. The officiant was Mgr. Philip Najim, Chaldean Procurator to the Holy See and Apostolic Visitor in Europe who reported some of the words spoken by the Chaldean Patriarch, Mar Emmanuel III Delly, during Mgr.Rahho’s funeral mass held in the same morning in Karamles. Present were, among the others, Cardinal Daoud I Ignace Moussa, Patriarch Emeritus of the Syriac Catholic Church and Prefect Emeritus of the Congregation for Oriental Churches, Mgr. Mikhail Jamil, Procurator to the Holy See and Apostolic Visitor in Europe for the same church, Father Khaled Bishayi, Official for the Chaldean church to the Congregation for Oriental Church, Father Jibrail, Superior General of Chaldean monks, Don Graziano Borgonovo, rector of the International Theological and Philosophical Seminary "John Paul II" and, of course, the rector of the Pontifical Urban College that hosted the ceremony: Father Fernando Domingues mccj.

Moving was the moment when, after the words by Mgr. Najim, the homily was delivered by Father Amer Najman Youkhanna, student at the Pontifical Irish College in Rome, but above all, a priest of the Archdiocese of Mosul of the Chaldeans and, as such, particularly touched by the death of Mgr. Rahho who was not only his bishop but also his pastor: "one of the main points that made me discover my vocation to the priesthood," as he said.
Below is the text by Father Amer Najman Youkhanna, moving testimony of a young priest who is saddened but, however, finds in Mgr. Rahho’s martyrdom a further incentive to continue to witness Christ in the tormented land of Iraq

Yet for your sake we face death all day long [1]

Dear brothers and sisters, the readings we have chosen for this mass show us a reality that does not concern only the first centuries of Christianity, but that is also now tragically present. The first reading tells us about the martyrdom of Eleazar [2], who, by his words tells us today how he wanted to testify his faith in God Almighty, "enduring terrible pain in my body from this scourging, but also suffering it with joy in my soul because of my devotion to him.". Eleazar could escape, but preferred to die to give glory to the name of the Lord, and not live in shame for having neglected His law. In the letter to the Romans, then, it is said " neither death, nor life, nor kings, nor governments, nor armies; neither those that shall rise, nor that are destined,neither height, nor depth, and neither any creatures can separate me from the love of God who is our Lord Jesus Christ.” The reading of the Gospel of Luke finally shows us how the Lord himself said the same:" they shall… persecute you for my name's sake, and “it shall turn to you for a testimony." Today we are gathered to celebrate an important event, a great joy: Mgr. Paul Faraj Rahho bore witness by his own blood to give glory to the name of Jesus our Lord. Yes, dear brothers, we are not here to mourn a dead, we are here to rejoice together that the eparchy of Mosul of the Chaldeans now has another intercessor in heaven, another martyr who continues to write the history of our church not with ink, but with his own blood.

Click on "leggi tutto" for the whole homily by Father Amer Najman Youkhanna

I think therefore that it is very important today, and all together as we are, to remember the life of this martyr. Mgr. Rahho was born on December 20, 1942, the last of eight children: five males and three females. He attended the primary school of St. Simon Peter in Mosul, and completed the middle and the high school in the minor seminary of the Chaldean Patriarchate of St. Simon Peter (1954-1960). He continued his studies in Baghdad and at the same seminar he completed the philosophical and theological studies. He was ordained priest on 10 January 1965. From 1974 to 1976 he was in Rome where he obtained the license in pastoral theology at the Angelicum University. Once back in Iraq he was parish priests of different churches: Mar Isaiah, Our Lady of Perpetual Help and, finally, S. Paul, my parish church, that was founded and built by him and where he spent the most important years of his life and achieved great successes in the pastoral field. Appointed bishop by the Synod of the Chaldean Church, he was ordained archbishop of Mosul on 16 February 2001.

Mgr. Rahho was well known for his pastoral zeal. As my pastor, in fact, his example was one of the main points that made me discover my vocation to the priesthood. I would like on this day to remember some of the activities, movements and fraternities founded by him. In 1986, in the parish church of St. Paul, he founded the "Fraternity of Charity and Joy" to assist the disabled brothers. They were to him a gift from the Lord to make us remember those who need us, to work with them was for him a way to discover the true meaning of humanity, making us become closer to the image of the Lord, present inside each of us. The fraternity grew and spread across the country, in Catholic and non-Catholic churches, becoming a shining example of ecumenism. Soon after he founded also the "Oasis of Charity and Joy" to accommodate the disabled brothers felt as a burden by their families. Among the other initiatives of the bishop there is also the "Fraternity of Friends of the Holy Family of Nazareth," for newly married couples, and the "Brothers of Jesus", who began to assist the poorest families under the embargo in the 90s and that still continue their activities.

Remarkable is the role that Mgr. Rahho had among young people who, throughout the diocese, loved him deeply. As a priest, in 1993, he created the "Youth Week", during which, twice a year, young people gather to pray and listen to some speakers discussing on a topic each time chosen among the closer to the lives of the new generations. An initiative that over time extended throughout the Archdiocese.
In the last years of war and American invasion Mgr. Rahho shown a great courage giving witness of faith and hope, insisting on the presence of Christians in Iraq and especially in his diocese: Mosul. He openly expressed its rejection of the way in which the Americans had wanted to bring democracy in our country, and in various meetings and interviews he declared as the Americans had not done anything good, but had, indeed, only destroyed Iraq. With courage Mgr. Rahho always wanted that all the churches in Mosul remained open, and always because of his courageous witness of faith he received many threats and letters of death sentence by various terrorist groups that now unfortunately control Mosul. The first act of violence he suffered was the terrorist attack against the archiepiscopal see palace on December 7, 2004. A terrible action as terrorists had placed, without any obstacle, the bombs inside the building, and after the explosion had prevented firemen to bring help. Since then Mgr. Rahho had understood that the Americans cannot guarantee the security, and when, as always late, they arrived, he sent them away.

After then, and several times, churches in Mosul have been object of attacks, and after each one of them, strong in his courage, Mgr. Rahho got things straight in a very short time, reopened their doors to the faithful, and in defiance of all the terrorists announced that "we will never go away from here because this is our land". After these attacks and as a mortal blow to the bishop on June 3, 2007 the terrorists killed in cold blood his right arm, Father Ganni Rageed and three subdeacons, after he had celebrated mass in the parish church of the Holy Spirit. After that event Mgr. Rahho stated in various interviews and articles that Christians in Mosul are truly persecuted, and after those statements he received many threats from various groups not revealing their true name, but merely saying "we are Mujahedin", a word so known that does not need to be translated.
Mgr. Rahho never gave up, indeed, those threats gave him more courage to go on. And it is precisely that courage that led him to continue to celebrate mass in the parish of the Holy Spirit, even though he knew that in that area terrorists are strong and present.

Then it came the day of his kidnapping that took place after the Via Crucis in the same parish, the day of the ambush when his driver and his two bodyguards died. People who were not with him to make money, as if it were a regular job, but because he was their pastor. Mgr. Rahho was killed in an inhumane way, for the lack of medicines that were necessary, and that the kidnappers never wanted us to make him have. "Saydna" you always said and declared: "I was born in Mosul, and I want to die in Mosul," and so, now you get the crown of martyrdom and we are gathered to celebrate this great event. You have been a true example of the good shepherd who gives his life for his flock. Dear brothers and sisters, we do not want to receive condolences for a dead, we are here to get your wishes, because we have a new intercessor in heaven: the Martyr Bishop Paul Faraj Rahho.

[1] Psalms. 44.23
[2] 2Macc. 6,18-31

Praised be Jesus Christ,
Always praised

Father Amer Najman YOUKHANNA
Priest of the Archdiocese of Mosul of the Chaldeans

March 14, 2008. Rome
Translated by Baghdadhope