"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

30 novembre 2014

Papa Francesco: "Voglio andare in Iraq, ma ora creerei problemi"

By Ansa
Fausto Gasparroni

Spiega che quella nella Mosche Blu di Istanbul era "una vera preghiera", e "sincera", diretta in particolare al tema della pace. Chiede a tutti i leader islamici che "condannino chiaramente il terrorismo", spiegando con forza che "quello non è l'Islam". Ribadisce di voler andare in Iraq, ma che in questo momento lo sconsiglia il fatto di creare "seri problemi" alle autorità. Percorre tanti temi papa Francesco nell'ampia conferenza stampa - oltre 45 minuti di risposte ai giornalisti - durante il volo di ritorno dalla Turchia. "E' stato un momento di preghiera, sincera", dice su quei due minuti dinanzi al "mihrab" nella Moschea Blu. "Ho pregato per la Turchia, per la pace, per il Muftì, per tutti, per me, che ne ho bisogno. Ho pregato davvero e ho pregato per la pace soprattutto: 'Signore, finiamola di guerre'". "Io sono andato in Turchia come pellegrino, non come turista - spiega - e il motivo principale era per la festa di oggi, Sant'Andrea, per condividerla col patriarca Bartolomeo, quindi per un motivo religioso". "Poi quando sono andato in moschea - prosegue - non potevo dire no, il viaggio era religioso. Ho visto quella meraviglia. Il Muftì mi spiegava bene tante cose, anche con grande mitezza, col Corano dove si parlava di Maria, di Giovanni Battista. Allora ho sentito il bisogno di pregare. Lui mi ha detto, preghiamo un po'? E io ho detto sì". "Ho detto al presidente Erdogan: sarebbe bello che tutti i leader islamici, i leader politici, religiosi, accademici, condannino chiaramente il terrorismo e dicano che quello non è Islam", racconta. "Abbiamo bisogno di una condanna mondiale, che gli islamici dicano chiaramente, noi non siamo quello, questo non è il Corano". Rispondendo a una domanda sull'islamofobia di cui ha parlato Erdogan, Francesco osserva che "è vero che davanti a questi atti terroristici che ci sono in questa zona, ma anche in Africa, c'è una reazione: si dice, ma se questo è l'Islam mi arrabbio.
E tanti islamici sono offesi, tanti tanti, dicono: noi non siamo questo, il Corano è un libro di pace, è un libro profetico di pace, questo non è l'Islam". "Io capisco questo. Credo - rimarca - che non si possa dire che tutti gli islamici sono terroristi, come anche non si può dire che tutti i cristiani sono fondamentalisti". A proposito di Iraq, afferma poi, "io voglio andare. Ho parlato col patriarca Sako, ho inviato il cardinale Filoni, e per il momento non è possibile. Non perché io non voglia. Se in questo momento andassi creerei un problema abbastanza serio alle autorità. Di sicurezza. Ma mi piacerebbe tanto". E' "una terza guerra mondiale a pezzi, a capitoli, dappertutto", afferma che "dietro questo ci sono inimicizie, problemi politici, problemi economici", collegati al fatto di "salvare questo sistema dove il Dio denaro è al centro, non la persona umana. E anche problemi commerciali: il traffico delle armi è terribile, è uno degli affari più forti in questo momento. Si moltiplicano i conflitti perché si danno le armi". "L'anno scorso a settembre - ricorda - alla Siria si diceva che aveva le armi chimiche: io credo che la Siria non era in grado di fare le armi chimiche. Chi le ha vendute? Forse alcuni degli stessi che la accusavano di averle. Su questo affare delle armi c'è tanto mistero". E in tema di armi atomiche, il Papa sottolinea che "da Hiroshima e Nagasaki l'umanità non ha imparato nulla". Bergoglio si sofferma anche sul fatto che in Turchia voleva andare in un campo di rifugiati: "Ho fatto tutti i calcoli, ho fatto di tutto e ci voleva un giorno in più, ma non era possibile. Non era possibile per ragioni non solo personali". Sulle prospettive dei rapporti col Patriarcato di Mosca, dopo la grande dimostrazione di fraternità col patriarca Bartolomeo a Istanbul, rivela: "Al patriarca di Mosca Kirill ho fatto sapere, e lui era d'accordo, la voglia di trovarci. Tu mi chiami e io vado, gli ho detto. E lui anche ha la stessa voglia. Ma in questi ultimi tempi col problema della guerra e con tanti problemi che ci sono, l'incontro col Papa è passato in secondo piano. Ma tutti e due vogliamo incontrarci, vogliamo andare avanti". Infine, in vista del centenario del genocidio armeno che ricorre l'anno prossimo, esprime una speranza: "Una cosa che a me sta molto a cuore è la frontiera turco-armena: se si potesse aprire quella frontiera!". "So che ci sono problemi geopolitici che non facilitano l'apertura - conclude - ma dobbiamo pregare e aiutare che questo si faccia. L'anno prossimo si faranno tante cose per celebrare il centenario, ma è importante che si vada avanti anche con piccoli gesti".

28 novembre 2014

The Assyrian Fighters in North Iraq

By AINAPeter Henderson

Since the formation of Dwekh Nawsha, an Assyrian Christian paramilitary force operating in the Ninawa Plains area of northern Iraq, on 11 August 2014, there have been a number of news articles about the group: in the National Geographic on 27 August, from the AFP on 27 September, in MintPress News on 8 October, my article in Al-Monitor on 30 October, by Aymenn Jawad al-Tamimi on 6 November, and from AP on 13 November. The group was also briefly mentioned by Robert Fisk in an article from 16 November.


Media Articles on the Dwekh Nawsha

The first article, by Rania Abouzeid in the National Geographic, described the Dwekh Nawsha being formed on 11 August. Referred to as 'Dukha' rather than 'Dwekh Nawsha', the group comprised 40 men, and was founded by the Assyrian Patriotic Party (APP) with the aim of cooperating with the Peshmerga in the fight to reclaim the Ninawa Plains from the Islamic State (IS). (In an aside, the article mentions Arab Christians, an inappropriate appellation given the identification of many of Iraq's Christians, including Dwekh Nawsha's members, as Assyrians rather than Arabs.)
The AFP article, by Camille Bouissou and published in various places (the link above is to the Lebanese Daily Star), is problematic in that the distinction between Dwekh Nawsha, an APP-founded group which is pro-KRG and which seeks to work with the Peshmerga, and the paramilitary force of the Assyrian Democratic Movement (ADM) in Alqosh which is anti-KRG and pro-federal government in its outlook, is poorly drawn. An assertion is made that "2,000 men have already volunteered to fight ISIS", presumably with the ADM. The ADM has maintained armed men since the late 1970's which has long numbered around 2,000 men; furthermore, the ADM force in Alqosh restricts its activities to guarding the town, far from the front lines. While Alqosh's residents were evacuated the group patrolled the town, when they came back the group restricted its activities to keeping watch over the plains from its office. Either way, the group has never sought to fight IS, and if anyone had volunteered for the ADM with that aim, they would have been disappointed. Both Dwekh Nawsha and the ADM force in Alqosh numbered 100 men, according to the article; when I visited both groups in early October, the ADM had 40 men in Alqosh and Dwekh Nawsha had between 50 and 100.

Photo by Peter Herderson
The MintPress News article is a flattering portrayal of Dwekh Nawsha, giving the impression that the group is more militarily savvy that it is, and that it plays a larger role than is actually does. "Each day consists of patrolling several villages on the Mosul Dam frontline, looking out for ISIS explosives that have been planted and keeping a close eye on the militants who lie in wait just a couple of kilometers away." The Mosul dam is far from Dwekh Nawsha's area of operations, and while Dwekh Nawsha do patrol, it must be stressed that they do so behind the Peshmerga. I won't describe my own article here on the grounds that this piece draws on it, being the result of visits to the Alqosh ADM force and Dwekh Nawsha on 01 and 04 October, and to Dwekh Nawsha on 15 November. One issue is worth mentioning: like the AFP article, I failed to mention a third group, a militia force apparently of around 30 men in Alqosh belonging to the Iraqi Communist Party (ICP), which I was later told performed a role similar to that of the ADM force: patrolling the town while the inhabitants were evacuated.
Aymenn Jawad al-Tamimi's article, published on his website and by the Assyrian International News Agency (AINA), has good background information on Iraq's Christians and their situation between the Baghdad and Erbil governments, but suffers for being the result of internet research instead of fieldwork. He asserts that "the group's role seems to be primarily defensive, and evidence does not point to Dwekh Nawsha as a vital military force to coordinate with the Kurdish Peshmerga"; the group does try to coordinate with the Peshmerga, but its role is more focussed on guarding and patrolling, and the term 'defensive' perhaps oversells their role as they do not generally play a role on the front line. Al-Tamimi accepts the figure of 200 men; on 15 November the group told me they had a total of around 250 volunteers but on a rotating pattern, and only weapons for 50 men; their effective force is therefore not more than 50 men. In terms of the photos published with the article, three are worth mentioning: in one, Dwekh Nawsha members hold an APP flag, it should be emphasised that most Dwekh Nawsha members are not APP members despite the group being founded by the APP. In other photos, members are shown in front of a Humvee, and using a truck-mounted machine gun: Dwekh Nawsha has neither of these vehicles, which probably belong to the Peshmerga.
The AP article (the link above is to the Daily Mail's publication) also overstates Dwekh Nawsha's activities. The piece tells us that the "men of Dwekh Nawsha now patrol Bakufa round-the-clock, in the hope that the village stays free long enough so their families can return"; this is true, but Baqufa also has a Peshmerga presence. Baqufa, like the town of Telisqof a few kilometres to the north, was occupied by IS around 6 August, and retaken by the Peshmerga on 16-17 August; Dwekh Nawsha has only recently been allowed by the Peshmerga to base themselves there instead of in the village of Sharafiyya just south of Alqosh. Most Dwekh Nawsha members are not local to Baqufa or Telisqof. Furthermore, it captions a photo of the white, blue and red Assyrian flag as being the APP flag. It also refers to the Assyrians and the Chaldeans as separate groups. While the terms 'Assyrian' and 'Chaldean' are used at various times with either ethnic or religious connotations, the APP uses 'Assyrian' to mean the entire ethnic group, including the adherents of both the Assyrian and Chaldean churches, and Dwekh Nawsha membership is open to any (Chaldo-)Assyrian man regardless of church affiliation.
On 16 November Robert Fisk mentioned Dwekh Nawsha very briefly in his column: "I was intrigued to visit Syria's National Defence Forces (NDF) in Qamishli, far to the north-east of the country, which includes -- like the newly formed anti-Isis Dwekh Nawsha (Self-Sacrifice) group in the Iraqi village of Bakufa -- Christians as well as Muslims." The implication that Dwekh Nawsha includes non-Christians is wrong. (The entire article is slightly odd in that it talks about north-east Syria and the Christian militias there without mentioning the Kurdish YPG forces.)

Dwekh Nawsha's Current Position

At present, Dwekh Nawsha is found in the villages of Baqufa and Sharafiyya, and in Alqosh. They do not yet have weapons for more than 50 men, although the total number of members is higher with groups rotating between Dwekh Nawsha and in many cases their jobs in other areas of Iraq and the Kurdistan Region. Some members are local -- for example, one is a farmer from Baqufa, others come from different regions, both in the KRI and in the IS-occupied areas. By their own estimate, around 70% of Dwekh Nawsha members have some military or police expertise, with some being serving members of the Iraqi military or police. Most are not APP members, and the group is open to any Assyrian man -- the group thinks in ethnic and Assyrian nationalist rather than religious terms. (On 15 November the group said that they had contacted the ADM force in Alqosh with a suggestion to collaborate but that they had not received a favourable reply.)
Until recently, Dwekh Nawsha was based in the village of Sharafiyya just south of Alqosh. The Peshmerga in the area have now allowed the group to base themselves, and to patrol, in Baqufa, just a few kilometres north of the front line. IS occupied the area, including Telisqof, on 6 August, and was pushed out by the Peshmerga on 16-17 August; the frontline has been stationary since then, with two major IS attacks and a number of skirmishes. The Peshmerga there say that they are able to go on the offensive but that orders to do so have not yet been issued. Dwekh Nawsha's leadership is keen to be more involved in the fight against IS, but the extent of their activities depends on the Peshmerga, which have not yet enabled a regular front-line role for the group.
Dwekh Nawsha is clearly a group with big aims, and the capacity to expand. Their activities should not be belittled, however, it is also important not to overstate their current role. With more funding the group could easily increase its reach. What they can do is limited as well by the attitude of the Peshmerga towards them, and the group is keen to expand its coordination and collaboration with the Kurdish military with a view to becoming an effective fighting force rather than a behind-the-lines auxiliary.

Iraq e Siria, «le minoranze religiose patiscono violenze disumane»

By Vatican Insider - La Stampa
Andrea Tornielli

Al di là dei confini della Turchia le minoranze religiose, in particolare i cristiani e gli yazidi, «patiscono violenze disumane». C'è bisogno di più dialogo, di rispetto reciproco e di amicizia tra i leader religiosi, come «messaggio» indirizzato alle rispettive comunità. Il secondo importante appuntamento della giornata di Papa Francesco nella capitale turca avviene nel pomeriggio alla «Diyanet», il Dipartimento per gli Affari Religiosi, la più alta autorità religiosa islamica del paese, che si trova in una grande moschea di nuova costruzione alla periferia di Ankara.
Bergoglio viene ricevuto dal presidente della Dyanet, Mehmet Görmez. Nel suo discorso di saluto, il leader islamico gli dice: «Coloro che si comportano in modo contrario al messaggio di pace dell'Islam, coloro che diffondono violenza e brutalità seguendo una via errata, non importa con quale nome si identificano, sono ribelli a Dio». Görmez ha criticato Israele per il trattamento del popolo palestinese, e i media  che «spargono messaggi su scenari di violenza» fomentando «l'odio contro i musulmani». «Rifiutiamo ogni genere di violenza - conclude - e cerchiamo di costruire il nostro futuro comune».
Senza l'apertura all'incontro e al dialogo, «una visita papale non risponderebbe pienamente alle sue finalità», osserva nel suo intervento il pontefice. «Le buone relazioni e il dialogo tra leader religiosi» esprime che «il mutuo rispetto e l'amicizia sono possibili, nonostante le differenze». Francesco allarga lo sguardo poco oltre i confini del Paese: «Vi sono guerre che seminano vittime e distruzioni; tensioni e conflitti inter-etnici e interreligiosi; fame e povertà che affliggono centinaia di milioni di persone; danni all'ambiente naturale». In particolare, aggiunge, «veramente tragica è la situazione in Medio Oriente, specialmente in Iraq e in Siria. Tutti soffrono le conseguenze dei conflitti e la situazione umanitaria è angosciante».
Il Papa pensa «a tanti bambini e alle sofferenze di tante mamme, agli anziani, agli sfollati e ai rifugiati, alle violenze di ogni tipo». Particolare «preoccupazione» desta il fatto che «soprattutto a causa di un gruppo estremista e fondamentalista, intere comunità, specialmente - ma non solo - i cristiani e gli yazidi, hanno patito e tuttora soffrono violenze disumane a causa della loro identità religiosa. Sono stati cacciati con forza dalle loro case, hanno dovuto abbandonare ogni cosa per salvare la propria vita e non rinnegare la fede. La violenza ha colpito anche edifici sacri, monumenti, simboli religiosi e il patrimonio culturale, quasi a voler cancellare ogni traccia, ogni memoria dell'altro».
«In qualità di capi religiosi - scandisce il vescovo di Roma davanti ai dignitari islamici - abbiamo l'obbligo di denunciare tutte le violazioni della dignità e dei diritti umani. La vita umana, dono di Dio Creatore, possiede un carattere sacro. Pertanto, la violenza che cerca una giustificazione religiosa merita la più forte condanna, perché l'Onnipotente è Dio della vita e della pace. Da tutti coloro che sostengono di adorarlo, il mondo attende che siano uomini e donne di pace, capaci di vivere come fratelli e sorelle, nonostante le differenze etniche, religiose, culturali o ideologiche».
La denuncia non basta, «occorre far seguire il comune lavoro per trovare adeguate soluzioni. Ciò richiede la collaborazione di tutte le parti: governi, leader politici e religiosi, rappresentanti della società civile, e tutti gli uomini e le donne di buona volontà». «Noi, musulmani e cristiani - dice ancora Francesco - siamo depositari di inestimabili tesori spirituali, tra i quali riconosciamo elementi di comunanza, pur vissuti secondo le diverse tradizioni: l'adorazione di Dio misericordioso, il riferimento al patriarca Abramo, la preghiera, l'elemosina, il digiuno... elementi che, vissuti in maniera sincera, possono trasformare la vita e dare una base sicura alla dignità e alla fratellanza degli uomini». E il dialogo, si augura il Papa, deve essere «creativo».
Una comunanza spirituale da «riconoscere e sviluppare», perché «ci aiuta anche a difendere nella società i valori morali, la pace e la libertà. Il comune riconoscimento della sacralità della persona umana sostiene la comune compassione, la solidarietà e l'aiuto fattivo nei confronti dei più sofferenti». Francesco non ha mancato di esprimere il suo apprezzamento «per quanto tutto il popolo turco, i musulmani e i cristiani, stanno facendo verso le centinaia di migliaia di persone che fuggono dai loro paesi a causa dei conflitti. È questo un esempio concreto di come lavorare insieme per servire gli altri, un esempio da incoraggiare e sostenere». Il Papa ha concluso il suo intervento dicendosi «grato per le vostre preghiere che avrete la bontà di offrire per il mio servizio» e augurandosi che il dialogo interreligioso diventi creativo e trovi nuove forme.

Padre Rami Simun: i cristiani in Iraq

By Vitae Fratrum blog

Padre Rami è un frate dominicano iracheno. In questi giorni è in visita in Francia e ha rilasciato un'intervista radiofonica sulla situazione dei cristiani in Iraq, che ho tradotto e trascritto. Eccola:


Foto Vitae Fratrum blogspot
Fin dall'antichità i cristiani sono presenti in Iraq. Secondo la tradizione, la Chiesa irachena è stata fondata dall'apostolo Tommaso e soprattutto dai suoi discepoli. Quindi fin dai primi secoli della cristianità la buona novella è arrivata in Mesopotamia, e cièoè nell'Irak attuale. La Chiesa irachena è costituita da diverse chiese. La maggior parte è cattolica, divisa in diversi riti: gli armeni, i caldei, i siriaci. Il siriaco e il caldeo sono lingue che derivano dall'aramaico, la lingua che parlava Gesù. E poi ci sono i siriaco-ortodossi, le chiese siriane d'Oriente, e c'è anche qualche chiesa evangelica protestante che è arrivata più di recente.
I cristiani iracheni sono perseguitati da molti anni, anche se non si è mai creduto loro davvero. Ora lo sanno tutti e tutti devono fare il loro meglio affinché la situazione migliori. Negli ultimi mesi sono stati spinti a lasciare tutti i loro beni e le loro case, sono stati scacciati. Sono partiti portando con sé null'altro che i loro vestiti, nemmeno il denaro. I fanatici hanno derubato perfino le loro carte d'identità. Di colpo, la Chiesa ha visto un arrivo in massa di immigrati, circa 120.000 persone, che non avevano assolutamente nulla con loro, se non i vestiti che indossavano. E' una tragedia umanitaria che si cerca di affrontare, nonostante tutto. Ma è da diversi anni che i cristiani sono scacciati dai fanatici e ci sono migliaia di famiglie rifugiate nei paesi limitrofi, in Siria, in Giordania, in Turchia e anche in Libano.
I fanatici vogliono o convertire i cristiani all'islam o ucciderli. I cristiani rifiutano la conversione e sono costretti a fuggire e così vengono spogliati dei loro beni. Eppure rimangono attaccati alla loro fede, a Gesù, nonostante le loro difficoltà e la loro attuale povertà.
Non sono tutti i musulmani  a voler scacciare i cristiani, ma i fanatici, che purtroppo hanno la meglio in Iraq e in molti altri paesi. I nostri fratelli musulmani che sono tolleranti non riescono ad arginarli. I fanatici vogliono ripulire queste regioni da ogni presenza non musulmana, soprattutto gli yazidi, che sono stati uccisi e che hanno visto le loro donne e le loro figlie violentate. Anche alcune cristiane hanno subito violenza e sono state vendute al mercato come schiave. Queste cose ci ricordano tempi antichi, anche se siamo nel XXI secolo.
A Baghdad, per fortuna, la situazione è differente. Da molti anni ci sono persecuzioni, ma hanno un aspetto differente. Ci sono dei rapimenti, soprattutto di cristiani e di altre minoranze, a cui si possono aggiungere le difficoltà della vita quotidiana. I funzionari cristiani, i commercianti, le donne, le ragazze che vanno a scuola subiscono una pressione diretta. Sono davvero perseguitati per la loro fede. Ciascuno è perseguitato in modo differente, a seconda della sua posizione, del suo lavoro. Allora si cerca di rimanere vicini alla popolazione, perché i religiosi e i sacerdoti rappresentano ancora qualcosa davanti alle autorità e possono rassicurare i cristiani di non essere soli davanti alle difficoltà.
La Chiesa è un'istituzione pacifica, che porta il vangelo a tutti. Le autorità cristiane invitano i nostri fratelli, i nostri compatrioti a perseguire il dialogo, a insistere molto sul dialogo e a risolvere i nostri problemi in modo pacifico. Fanno anche degli appelli ai politici iracheni e cercano soprattutto di sensibilizzare il mondo intero l'opinione pubblica internazionale, affinché facciano pressione sul governo iracheno perché si prenda cura delle minoranza in Iraq.
Politica e religione sono mischiate. La politica approfitta di certi problemi, ma il terreno è preparato dalla religione. La religione si deve mettere in discussione e capire qual è il suo ruolo nelle violenze che oggi colpiscono i cristiani. I nostri fratelli musulmani devono fare un lavoro enorme su loro stessi, sul loro sguardo sulla modernità, sulla vita, sull'altro. Se questo lavoro non viene fatto, ci saranno sempre dei problemi.
I cristiani francesi possono fare molto con la loro generosità e il loro aiuto per i loro fratelli e sorelle iracheni, che non hanno più nulla, che sono rifugiati. Molti di loro sono assistiti dalla Chiesa, ma bisogna dare loro da mangiare, dei vestiti, delle medicine. Bisogna dare loro molta speranza e forse aiutarli anche a proseguire gli studi. Invito tutti ad essere generosi per salvare queste famiglie dal prossimo rigido inverno. L'associazione Aiuto alla Chiesa che soffre ha un grande progetto per acquistare delle case prefabbricate affinché queste famiglie passino almeno quest'inverno in pace. Poi si vedrà.
L'esilio non è una fatalità, ma è una delle soluzioni che vanno considerate. C'è una massa di persone enorme che non si riesce a gestire. Molti di loro - non tutti - non credono al ritorno né alla convivenza con coloro che li hanno scacciati, né di avere un futuro in Irak. A loro bisogna davvero dare la possibilità di lasciare il paese e di essere accolti dignitosamente dove possano vivere la loro fede. Portano con loro un calore di fede che è ardente. Allo stesso tempo bisogna sostenere i cristiani che vogliono restare. Bisogna sostenerli, aiutarli a mantenere la fede in situazioni difficili. Ma i giovani che vogliono raggiungere un paese occidentale, soprattutto in Francia, bisogna accoglierli bene. E quelli che vogliono restare bisogna sostenerli, affinché possano mantenere una presenza in questa terra difficile.
La pace è un desiderio della maggior parte degli esseri umani. Questa è una verità che si imporrà, anche se ci vorrà molto tempo. Allora bisogna dare una mano. Le potenze occidentali hanno un ruolo importante da giocare perché la pace arrivi nella nostra regione.

Cristiani d'Irak perseguitati come gli ebrei sotto Hitler

Il Giornale
Fausto Biloslavo

Non solo cacciati dalle proprie case, ma pure costretti a cederle a prezzi stracciati, come capitò agli ebrei in Germania alla vigilia della seconda guerra mondiale. «I cristiani iracheni in fuga, nella speranza di un visto per l'Europa, vendono le loro case nella piana di Ninive occupata dallo Stato islamico - rivela padre Zoher Naser ad Erbil, capitale del Kurdistan - Si approfittano della tragedia».
La secca denuncia della speculazione sulla pelle dei rifugiati arriva, in perfetto italiano, da un religioso costretto a fuggire con il suo gregge da Qarakosh, davanti all'avanzata del Califfo. «È una specie di indiretta pulizia demografica per cancellare la nostra presenza millenaria - spiega il prete rogazionista -. Una famiglia cristiana media nella piana di Ninive possedeva casa e terreno per un valore di 200mila euro. Adesso è costretta a cederli per 50mila ad agenzie che comprano in massa. E non sappiamo chi ci sia dietro».
La lista delle nefandezze sulla pelle dei cristiani è lunga. «Un'ambulanza per i nostri confratelli è ferma da tempo al confine turco. Sabato scorso hanno bloccato mezza tonnellata di medicinali e attrezzature della Lega biblica libanese all'aeroporto di Erbil», sottolinea padre Naser. I curdi vogliono che gli aiuti umanitari passino attraverso le loro maglie «beneficiando chi preferiscono. Ed i medicinali per i cristiani potrebbero finire venduti sottobanco» rincara la dose il rogazionista.
Solo la Francia sta concedendo un po' di visti ai cristiani in fuga. Chi vende la casa a prezzo stracciato e ha qualche soldo da parte cerca di «comprare» un visto legalmente come quello spagnolo. Tanti scelgono la via più breve ed incerta.
Patrick Enwyia è un volontario dell'organizzazione americana «Save Iraqi Christian», responsabile di uno dei centri «abitativi», simili a grandi loculi, dove sono ammassati i rifugiati in Kurdistan. «Intere famiglie cristiane esasperate stanno scegliendo la via dell'ingresso clandestino in Europa pagando anche diecimila dollari ai trafficanti di uomini», rivela il giovane.

Dopo l'intervento del patriarca il presidente del Kurdistan, Massoud Barzani, ha ordinato ai suoi di «proteggere i cristiani come fratelli». Nelle strade desolate del villaggio fantasma si incontra qualche sfollato che recupera sedie, tavoli e un frigorifero con un'immaginetta di Cristo scampati alle razzie. In una zona di casette a schiera le macerie testimoniano le ferite della guerra, ma non mancano cancelli divelti di abitazioni saccheggiate con la croce sulla porta. All'interno, la razzia ha buttato tutto all'aria. Un rosario appeso al muro sovrasta il caos dell'armadio svuotato alla rinfusa per cercare qualcosa di valore. A casa dell'ingegnere hanno spezzato in due un crocefisso ed i cristiani in fuga si sono lasciati alle spalle pure le ciabatte sulle scale.
Per non parlare della sorte dei villaggi cristiani sul fronte. Telleskef, ad una trentina di chilometri da Mosul, ospitava 1500 famiglie. Per quasi un mese è stato occupato dallo Stato islamico che ha portato via tutto il bestiame. Poi sono arrivati i combattenti curdi e molti denunciano che è pure peggio. «Il Califfato aveva rubato in qualche casa. I peshmerga le hanno saccheggiate tutte», protesta Rustam Shamoon Sheya, un ingegnere che ha una villa a Telleskef. Testimoni oculari li hanno visti andarsene con il bottino. «I terroristi si sono portati via il televisore al plasma, ma i curdi hanno depredato sette volte casa mia», denuncia il poveretto.  
«Ogni volta che torniamo a casa per prendere qualcosa notiamo nuovi furti
- spiega l'ingegnere - Le autorità ammettono che ci sono mele marce fra i peshmerga, che non controllano.»

"Imbracciamo i kalashnikov per non lasciarci sterminare"

By Il Giornale
Fausto Biloslavo

Video: "Si approfittano dei cristiani"
Video: Cristiani in armi
Video: Il villaggio cristiano saccheggiato


Foto: Il Giornale



Tre cristiani in armi presidiano il viottolo con alle spalle il campanile. Yousef Toma, il tarchiato e occhialuto comandante di 58 anni, è un veterano delle infernali paludi di Fao durante la guerra Iraq-Iran degli anni Ottanta. Il suo primo nome, Aodesko significa «servo di Cristo». La dozzina di cristiani in mimetica cachi e armi leggere pattuglia il villaggio di Bakufa, nella piana di Ninive, dove vivevano 500 famiglie prima di venir cacciate dal Califfato. «Vogliamo dimostrare al mondo che in Iraq combattiamo in nome della nostra civiltà millenaria - annuncia il comandante Toma -. Siamo stati vessati per secoli e abbiamo subito genocidi come quello degli armeni. Non permetteremo che si ripetano».
L'11 agosto, quattro giorni dopo la tremenda avanzata dello Stato Islamico in Iraq, è nata la milizia cristiana Dwekh Nawsha, che significa letteralmente «sacrifichiamo noi stessi». Una costola armata del Partito patriottico assiro con un centinaio di uomini, secondo il comandante. Pochi e senza armi pesanti, ma decisi «a morire per liberare i villaggi cristiani occupati» dal Califfato nella piana di Ninive. Nella chiesa di San Giorgio hanno salvato crocifissi e antichi volumi del vecchio e nuovo testamento scritti a mano, che i seguaci della guerra santa avevano gettato nella polvere. Altri tre movimenti politici stanno stringendo un patto per formare un «esercito» cristiano composto da 700 uomini. A dare man forte dovrebbero arrivare, autorità curde permettendo, 150 veterani cristiani della guerra in Siria.
Le armi sono pronte a venir inviate da Samir Geagea delle Forze libanesi.
Ad Al Qosh, roccaforte cristiana del Kurdistan, opera un altro gruppo armato di volontari assiri. «Il kalashnikov è l'unico vero amico, dopo che le forze irachene si sono dissolte ed i curdi spariti in una notte davanti alle truppe del Califfo», sostiene l'ex insegnante Athra Mansoor Kado. La «forza di protezione» cristiana conterebbe su migliaia di potenziali reclute, comprese decine di volontari pronti a partire dall'Europa e dagli Usa «ma non abbiamo abbastanza armi e munizioni» ammette il giovane comandante.
La missione è proteggere le famiglie cristiane di Al Qosh ed organizzare l'evacuazione se arrivassero le truppe jihadiste. La sede della milizia del Movimento democratico assiro, con due parlamentari a Bagdad, è una specie di fortino con il grande simbolo assiro sulla facciata. Sul tetto, una casamatta per le sentinelle domina le vie di accesso alla città. Il problema è che ogni volontario ha un fucile mitragliatore, 120 proiettili e niente altro.
Le mimetiche, i giubbotti antischegge e le giberne sono spesso comprati con collette realizzate all'estero. «Sappiamo che arriverà in Kurdistan un gruppo di militari italiani - sottolinea il comandante assiro -. Non chiediamo di combattere per noi, ma di aiutarci a farlo con armi e addestramento. In fondo siamo cristiani come voi».

27 novembre 2014

Il video della distruzione del convento a Mosul da parte dello stato islamico

By Baghdadhope*

Tre giorni fa la notizia del monastero del Soccorso delle suore caldee a Mosul minato e fatto esplodere dai miliziani dello stato islamico che lo occupavano ormai da tempo dopo la fuga di tutti i cristiani dalla città a causa del loro avanzare a partire dall'inizio di giugno.
Dopo il video dell'esplosione pubblicato il 28 novembre, che mostrava però solo il fumo salire al di là dei tetti delle case, oggi il sito Ankawa.com ha pubblicato il video in cui è chiaramente mostrato il monastero nel momento della sua distruzione.
Il video, (ricordiamo che gli abitanti della zona attorno al monastero erano stati avvertiti di ciò che sarebbe successo) è lungo ed ad inquadratura fissa. Il momento dell'esplosione è ad 1.44 mm  

Being a Christian refugee from Iraq in Istanbul • Bishop: I cannot resolve all the situations

By Aid to the Church in Need
Sébastien de Courtois, Istanbul (Turkey)

The Middle East is a small place. Turkey’s Eastern frontier rubs shoulders with those of Syria, Iraq and Iran. Since the beginning of the Iraq war in 2003, and since the eruption of the Syrian conflict in 2011, Turkey has found itself to be – willy-nilly – an obligatory land of passage for hundreds of thousands of refugees. Many of these are Christians from Iraq – Chaldeans and Syrian Christians from Mosul and the plain of Nineveh. Some want to travel on directly to Europe and are willing to do anything to cross the forbidden frontiers. These are usually young single people, willing to take any risk, even that of losing their lives. Only at the beginning of November a boatload of illegal migrants capsized just after coming through the Straits of the Bosporus, on their way to Bulgaria. There are so many broken lives, so many hopes in pieces, so many families destroyed. Others travel as families through Turkey and above all through Istanbul, where the immense metropolis draws in and absorbs people from all over the world.
In the Harbiye quarter, if you go to Mass in the Cathedral of the Holy Spirit on a Sunday morning, you will see all the different layers of emigration by the Eastern Christians at the 8 o’clock Mass. The church is packed. There are hundreds of Arabic speaking Christians who have ended up living in Turkey for months, and even years in the case of the more unlucky ones. They come from Iraq and Syria. Those who are actually at the Mass are no more than the tip of a much larger iceberg.
“It is difficult to know exactly how many Christians there are, since neither the UN High Commission for Refugees (UNHCR) nor indeed our own association makes any sort of head count according to religious affiliation. We welcome all those who are in need and come to us”, explains Bishop François Yakan, the patriarchal vicar for the Chaldeans of Turkey.
First and foremost Abuna François as he is respectfully called by his faithful, is the founder of a special association which provides humanitarian aid and welcomes the refugees. His organisation, KASDER was set up as long as 10 years ago. “During those years we took in and helped almost 55,000 people; that is to say, they succeeded in leaving Turkey and obtaining an entry visa for a foreign country. But that is by no means always the case; there is plenty of waiting and plenty of setbacks also…”. The sad reality is the life lived by the thousands of people still waiting here in hopes of eventually finding the magic open sesame for Europe or America. In Turkey they have no official right to work. “Sometimes they have to wait for years, and it is terrible for families who have been scattered and dispersed to the four corners of the earth. I cannot resolve all the situations…”. He works in close collaboration with the UN, the Turkish government and other humanitarian associations abroad who are helping him to supply the most immediate necessities.
His office is on the top floor of a small apartment block on the edge of the Tarlaba quarter, opposite the British Consulate and overlooking the Chaldean church. The reception office is on the ground floor. Sixteen volunteers, one interpreter and three full-time paid staff take it in turns to attend to the refugees. There is a queue of young people waiting. It is essential to have a passport in order to be recognised as a political refugee in Turkey. They are so well behaved, so humble. “On average we have around 70 visitors each day. I personally welcome as many as I can, particularly the urgent cases”, the bishop continues, rolling up his sleeves. “All the people coming from Iraq have health problems – malnutrition, no vaccinations, heart problems, nervous tensions, chronic depression… We have a special psychological counselling service for the women who have been assaulted”. The main countries offering visas are the United States, Canada and Australia. Europe has closed its doors, except in very exceptional circumstances, as happened this summer (2014) when France and Germany opened their doors to Christians and Yazidis forced out by the Islamists of ISIS from Mosul, Qaraqosh and Sindjar.
Amer Bahnan has come here from Mosul with his family. His story is a tragic one. He has been living in Istanbul for a year and a half now. “Life became impossible for my family in Iraq. I went to Syria first of all, then to Lebanon and finally came to Turkey. I have had four operations on my heart…”. He falls silent, and his wife bursts into tears: “We have been living on the road since 2008… We no longer know where to go now. In Iraq everything was taken from us, stolen; we no longer have a house; no money, no dignity, nothing”.The refugees live in the suburbs, outside the centre, crowded into rented apartment blocks shared by many families, and often in unhygienic conditions. There are no official structures intended for them.
Shortly afterwards, a mother comes in, together with her daughter:
“I am a widow, with my five children. We left Duhok 16 months ago. My application has just been rejected by the American embassy…”. She wants to go to Canada, where her brothers are already living. “There is nobody in our family still living in Iraq”, she tells me before getting up to go. Her daughter is being taught by the Salesian Sisters in Istanbul at the Don Bosco school where almost 350 refugee children are being given an education. As for Hassan, aged 27, his story is worthy of a novel. After Baghdad, where he originally came from, he went to Jordan, then to Thailand for two years to try his luck. “I had to leave when my visa expired, because I did not want to try out prison life there… I was working with Arab tourists who needed a guide. I was managing to get by, but here in Istanbul I can’t do anything worthwhile. And yet I don’t have the choice; I need to get to Europe…”.
This living in exile en masse is the fate of the Christians of the Middle East. The land that was the cradle of Christianity is being emptied little by little. “I never imagined that I would witness such a disaster”, says Father Sabah, an émigré priest, originally from northern Iraq. It looks as though, following the dramatic events of the month of August and the occupation of the Christian villages on the plain of Nineveh, the very future of these communities is now gravely at risk. They are now living abroad, in Turkey, in Istanbul, and also elsewhere, scattered right across the whole world. A new wave of refugees is expected in Istanbul. We need to sit up and take note, to learn how to listen to them, to understand their origins, in order to be able to give them a better welcome. Many are deeply traumatised.
Even though Turkey´s Christian population is barely 0.3%, the Catholic charity Aid to the Church in Need (ACN) has supported 100 projects in Turkey in the last twenty years. A significant amount of ACN´s help has gone towards Iraqi and Syrian Refugees in the Eastern part of the country. Since 2010 ACN donated a total of $190.000,- to the Iraqi refugees, mainly via the Chaldean Church and the Salesian Fathers in Istanbul. The Salesians look after families and are particularly concerned to ensure that the children continue to receive a school education.
ACN has also helped Syrian refugees in Eastern Turkey, since the Crisis in Syria began. From 2013 to 2014 ACN has donated a total of $68,000 – towards their needs.

L'Arcivescovo caldeo di Kirkuk: irrealistico e sbagliato sognare un'enclave autonoma per i cristiani nella Piana di Ninive

By Fides

Il progetto ancora accarezzato da sigle e leader politici che vogliono creare in futuro una enclave autonoma riservata ai cristiani nella Piana di Ninive, attualmente nelle mani dei jihadisti del Califfato Islamico, rappresenta “un sogno irrealistico e poco intelligente”, con cui si fomenta una spartizione del Paese su base settaria che “può solo nuocere al bene e alla condizione futura dei cristiani in Iraq”. Lo dichiara senza giri di parole all'Agenzia Fides Sua Ecc. Mons. Yousif Thoma Mirkis OP, Arcivescovo di Kirkuk dei Caldei.
I jihadisti dello Stato Islamico (IS) hanno conquistato Mosul lo scorso 9 giugno e poi hanno esteso il loro controllo sui villaggi e le città a maggioranza cristiana della Piana di Ninive, costringendo alla fuga decine di migliaia di cristiani caldei, siri e assiri. Le operazioni militari contro il Califfato Islamico, sostenute anche da una coalizione a guida Usa, puntano a riconquistare e liberare Mosul e l'intera regione, caduta sotto il controllo dei jihadisti sunniti.
Nei giorni scorsi, su Mosul sono stati fatti piovere volantini che incitano la popolazione locale a ribellarsi ai miliziani del Califfato, preannunciando come imminente l'offensiva per la liberazione della seconda città irachena. In questo contesto, alcuni militanti politici di sigle e partiti cristiani tornano a sostenere che il futuro assetto della regione, dopo l'eventuale sconfitta dei jihadisti, dovrà prevedere la creazione di una provincia “cristiana” autonoma nella Piana di Ninive.
Una prospettiva che l'Arcivescovo caldeo di Kirkuk considera foriera di nuovi problemi per le comunità cristiane autoctone. “Per 35 anni - spiega all'Agenzia Fides Mons. Yousif Thoma - ogni discussione e progetto politico in Iraq sono stati azzerati dalla dittatura del regime Baath. Quando il regime è crollato, con l'intervento dell'esercito Usa, siamo entrati in un periodo travagliato in cui sono affiorati disegni politici non fondati su una riflessione approfondita”.
In questo contesto – spiega l'Arcivescovo caldeo – “chiunque parli di una regione autonoma per i cristiani si allinea di fatto ai disegni che puntano alla spartizione dell'Iraq su base settaria, sul modello di quanto è accaduto nell'ex Jugoslavia. E questo è molto pericoloso, soprattutto per tutti i gruppi piccoli e minoritari, tra i quali rientrano anche le comunità cristiane”.
Proprio l'offensiva lanciata in Iraq settentrionale dai jihadisti sunniti conferma, a giudizio di Mons. Yousif Thoma, che “quando si innescano pretese di controllo delle aree su base settaria, non si salva nessuno, a partire dai cristiani”. L'unica prospettiva realistica che può favorire la permanenza delle comunità cristiane autoctone in Iraq consiste, a giudizio dell'Arcivescovo caldeo, nel favorire la maturazione di una coscienza politica nazionale nei gruppi maggioritari sunniti e sciiti. “Altrimenti - spiega a Fides - si innescherà fatalmente un meccanismo di spartizione. Ognuno vorrà riprendersi la sua fetta di torta, e si creeranno piccoli stati settari sempre in lotta con i propri vicini, E questo è contro il nostro bene, e contro il nostro futuro”.

Voci di speranza dall'Iraq

By News.va da Osservatore Romano 
26 novembre 2014

 «Libertà di far ritorno in sicurezza alle proprie case; garanzia di tutti diritti civili e non trattamento da cittadini di serie b; preghiera e sostegno del Papa e della Chiesa universale». Ecco «le tre priorità dei cristiani iracheni» esposte stamani al Papa dall’arcivescovo caldeo di Mossul, Amel Shamon Nona. Accanto a lui, in piazza San Pietro per l'udienza generale, c’è il suo «amico Nikodemos, arcivescovo siro ortodosso di Mossul». E «insieme — spiega monsignor Nona — vogliamo testimoniare l’unità e la speranza dei cristiani in Iraq: lavoriamo fianco a fianco senza fare distinzioni tra cattolici e ortodossi».
I due pastori hanno presentato a Francesco «la drammatica realtà del rifugiati cristiani, la nostra gente è stata costretta ad abbandonare tutto, case, terre e proprietà per provare a sopravvivere». Ma «anche le nostre chiese sono svuotate e per pregare insieme ci si trova, di volta in volta, dove è possibile».
In questa situazione così difficile, i cristiani iracheni stanno guardando con tanta speranza al Papa e «si aspettano — dice ancora monsignor Nona — la sua benedizione e il suo incoraggiamento per non sentirsi soli, abbandonati». E pure per trovare una via d’uscita che, rimarcano i due presuli, «deve prevedere soluzioni che tengano conto delle ingiustizie patite e garantiscano un nuovo quadro di riferimento sociale e politico per tutto l’Iraq». A dar voce alle complesse questioni di quella regione, era presente all’udienza anche Marzouq Ali Mohammed Al-Thunayan Ghanim, speaker dell’assemblea nazionale del Kuwait.

26 novembre 2014

Aiutiamo i cristiani iracheni. Perchè Natale è "salvare"

By Baghdadhope*

Da quando, a giugno di quest'anno, i cristiani iracheni hanno dovuto abbandonare Mosul perchè costretti dalle milizie dello stato islamico, ed ancor di più dalla notte tra il 6 ed il 7 agosto quando tutta la Piana di Ninive è stata svuotata dalla presenza cristiana, gli aiuti a quella sfortunata popolazione si sono moltiplicati.
Molte organizzazioni si sono attivate perchè i cristiani iracheni arrivati a decine di migliaia nel Kurdistan potessero avere soccorso ed aiuto.
Ora si avvicina Natale ed è quanto mai importante che essi sentano la nostra vicinanza non solo nelle preghiere che si eleveranno in molte chiese ma anche, e soprattutto, nei gesti di concreta solidarietà che compiremo nei loro confronti.
Perchè è bello sapere che qualcuno dall'altra parte del mondo ti sta pensando e ricordando, ma è ancora più bello avere un tetto sulla testa, cibo, vestiti caldi, medicine e, visto proprio che è Natale, giocattoli per i bambini.     

Chiedete alle vostre parrocchie o alle organizzazioni di volontariato che conoscete come e se intendono sostenere i cristiani iracheni, cercate su Internet o visitate questi siti per controllare che i loro progetti a proposito siano ancora attivi.
Insomma, perchè Natale sia una festa in cui donare è anche salvare, aiutiamo i cristiani iracheni!

Aiuto alla Chiesa che Soffre  
Iraq: Salviamo una generazione   
Asia News   
Adotta un cristiano di Mosul 
Avvenire  Emergenza Kurdistan: non lasciamoli soli   
Caritas      

Adotta una famiglia di profughi iracheni!    
Caritas Ambrosiana 
Emergenza Iraq 2014   
Comunità di Sant’Egidio    

Profughi cristiani in Iraq e Siria   
Focsiv  

Emergenza Kurdistan: non lasciamoli soli   
Fondazione AVSI   

Emergenza profughi in Iraq 
Movimento Shalom onlus    
Emergenza Iraq: campagna di raccolta fondi per i cristiani   
Punto Missione onlus    

Emergenza Iraq   
Un ponte per..    

Appello per salvare le minoranze irachene   
Unhcr    

 Emergenza Iraq  
Unicef 
   

Unicef in Iraq 

No letup in flight of Iraqi Christians into Lebanon

By The Daily Star (Lebanon)

“What did Daesh take from you?” Nour Astifo asked his 3-year-old daughter Sandra, sitting in his lap. “My toys,” she replied.

Astifo, a Syriac Catholic, was huddled with two other families from the community who all hail from Al-Hamdaniya, a village in Nineveh Province not far from Mosul, the city which fell to ISIS militants in June.

They were gathered in a small room in a building in the northern Beirut suburb of Dikwaneh, where they took refuge last month from the ongoing turmoil in Iraq.

Astifo’s tiny apartment is beyond modest, with no beds and just a straw mat to sleep on without protection from the concrete floor. His daughter’s toys are all borrowed, donated by Lebanese neighbors who took pity on a child who left her toys behind as she fled.

Their family is one among thousands of Iraqis who have fled to Lebanon amid unending bloodshed in their homeland – primarily Christians who feared forced conversion and enslavement by Daesh forces, Arabic for ISIS.

“When I was born there was the Iran war, then a war with Kuwait, then a siege, then the 2003 war and then sectarianism,” said Mazen Bulos, one of the Iraqi refugees living in an apartment in the building with four other family members.

“Then bombings, murder, kidnappings, and now this year we have Daesh,” he added. “I swear since we have been born we haven’t had peace, from war to war.”

The flight of Iraqi Christians into Lebanon continues – the families in this house arrived in Lebanon in early October after two months as internal refugees in the Kurdish capital of Irbil. While the U.N. High Commissioner for Refugees projects that Lebanon will have 6,100 Iraqi refugees by the end of the year, Social Affairs Minister Rashid Derbas said the number was up to 8,000 – back in August.

The Chaldean Bishop of Lebanon told The Daily Star in August that his church had assisted 1,350 Iraqi families. Most of Iraq’s Christians are Chaldeans. The Assyrian Church said at the time they had helped between 350 and 400 families.

The families that had fled Al-Hamdaniya did so twice. The first time was in late June when Mosul fell to a lightning ISIS advance, but they returned in August to their village with assurances from the Kurdish paramilitary force, the peshmerga, that they would be protected.

But days later they found themselves in an artillery crossfire barrage that lasted through the night, and news that the peshmerga was planning a retreat in the face of the ISIS assault. Those who could flee to Irbil, by car or foot, did so, fearing slaughter at the hands of jihadi fighters who saw them as infidels.

“How can you not fear a man who beheads?” Bulos said. “And we are 15 minutes away from him.”

“Who was going to protect us?” said Salar Amer Habib, a 52-year-old man who heads a family of six that fled that day.

Their fears appeared founded as stragglers, elderly men and women who were allowed to leave the village days later, told them their churches had been vandalized and desecrated.

Habib’s family stayed in tents and churches in Kurdistan, until they secured six airplane tickets to Beirut for $3,000.

The families sold their jewelry to keep up with the exorbitant rents of largely sparse homes in majority-Christian Dikwaneh, where many other Iraqi Christians live.
“We left only with our clothes,” Bulos said, holding a small wad of bills from selling his wife’s gold. “Once this is gone, we will only have these straw mats.”
The families said they have had little help – as their savings dwindle and they struggle to find employment, they receive little assistance from the UNHCR, hobbled as it is by providing for over a million Syrian refugees in Lebanon. They said the Chaldean Church asked them to seek assistance from the Syriac Church of Lebanon, which was only able to provide them with some blankets and some basic food staples like rice and oil, in addition to the occasional item from generous Lebanese neighbors.

The refugees said they hoped the U.N. would help resettle them. They fled to Lebanon because they believed the country was more moderate, and because it has a sizeable Christian community. They find it hard to contemplate going back to live with their Muslim neighbors.

“If your neighbor takes away your money, how would you live with that person? If he is cooperating with these people, and the one who eats alongside you betrays you, how?” Bulos said.

And for many of the Iraqi Christians who fled to Lebanon, the loss of their ancestral homes sting deeply.

“He had a home, I had a home, this man also had a home, and they’re all gone,” Habib said. “The toil of a lifetime.”

25 novembre 2014

Erbil, salviamo le famiglie di cristiani sfollati. Bastano 100 dollari a famiglia. L'appello di padre Benoka

By Huffington Post
Giulia Belardelli


Salviamoli dal freddo e della fame. I cristiani sfollati di Erbil hanno bisogno di cose semplici ma fondamentali: coperte, riso, fave, detersivi. L’inverno è alle porte e non c’è tempo da perdere. Per questo – rispondendo alla lettera inviata all’HuffPost dal sacerdote iracheno Behnam Benoka – abbiamo deciso di aderire alla campagna di Natale dell’associazione “Un ponte per…”, che da anni opera in Iraq. Invitiamo i nostri lettori a effettuare una donazione su uno dei due conti correnti dell’associazione. Ricordando che con l’equivalente di 100 dollari (meno di 80 euro) si può letteralmente salvare una famiglia.
Posta: ccp 59927004 intestato a: associazione Un ponte per
Banca: conto corrente n 100790 Banca Popolare Etica
IBAN: IT52 R050 1803 2000 0000 0100 790
CIN: R ABI:05018 CAB:03200 SWIFT: CCRTIT2T84A
In Iraq oggi sono 5,2 milioni le persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria. La guerra nella vicina Siria e l’avanzata dell’Isis hanno creato una situazione drammatica, con una concentrazione di sfollati che sta portando al collasso le zone del Kurdistan iracheno dove cercano rifugio sfollati e minoranze. Nel corso dell’ultimo anno il numero degli sfollati interni costretti è salito a 1 milione e 900 mila. Di questi, oltre 900 mila si sono riversati nell’area del Kurdistan iracheno, e in particolare nei governatorati di Dohuk ed Erbil, dove “Un ponte per…” opera da anni.
La guerra in Iraq rischia di provocare anche la scomparsa delle ultime comunità cristiane, yazide, shabak, turcomanne rimaste nel paese. Comunità che per secoli hanno composto quel mosaico di civiltà unico che era l’Iraq, e che oggi sono le principali vittime di persecuzioni e violenze.
Aderendo alla campagna di “Un ponte per…”, vorremo dare il nostro contribuito per aiutare le famiglie dei cristiani sfollati, che sono circa 12mila. L’elenco che ci ha inviato padre Behnam Benoka – lo stesso della “lettera in lacrime” inviata a Papa Francesco - è drammatico: serve tutto, dalle bombole del gas ai detergenti, dal riso ai fagioli. Secondo padre Behnam, con meno di 80 euro è possibile salvare una famiglia per l’inverno. Pubblichiamo la sua lettera qui di seguito, un appello a fare del Natale un momento di vera solidarietà.

“Nel governatorato di Erbil-Iraq, compresa Ankawa (cittadina cristiana sotto il governatorato di Erbil), ci sono circa 12.000 famiglie cristiane sfollate dalla città di Mosul e dalle cittadine cristiane della piana di Nineve. Sono passati diversi giorni dall'inizio dell'occupazione dell'Isis in questi posti. Siamo alla soglia dell'inverno e la gente deve prepararsi per proteggersi dal freddo. È necessario aiutarli con materiali essenziali per la vita.
Ultimamente la Chiesa, attraverso la commissione dei vescovi, ha potuto trovare alloggio per solo 600 famiglie, bisogna salvare soprattutto tutti coloro che vivono in tendopoli e strutture malfatte o posti impropri. Si devono trovare appartamenti e case per tutte le famiglie che si trovano in scuole, chiese, centri culturali e aule pubbliche e private. E a causa delle difficoltà strutturali ed economiche, non si può trovare una alloggio autonomo per ogni famiglia, perciò pensiamo di mettere 2-3 famiglie in ogni appartamento (15-20 persone). E ogni appartamento costa 600-650 dollari.
Le esigenze sono:
- La chiesa cerca di distribuire a ciascun famiglia un forno, una bombola di gas e un lavatoio per i piatti.
- Ogni famiglia ha bisogno di cibo, acqua e detersivi al pari 100 (cento) dollari al mese come segue:
10 chili riso;
10 chili Burgul (cuscus);
5 chili zucchero;
1 chilo tè;
3 chili fagioli;
3 chili fave;
5 chili lenticchie;
5 confezioni formaggio;
latte;
2 chili carne e pollo in confezioni;
Detersivi e detergenti.
La commissione dei vescovi cerca di rispondere a tutte le esigenze essenziali quali: vitto e alloggio e sanità. Ma, visto il numero delle famiglie, non ha più la capacità di tale lavoro, perciò scriviamo questa lista che contiene le esigenze più urgenti, nella quale non sono indicati vestiti e medicine affinché ciò sia affidato alla generosità dei benefattori. Oltre a questo ogni famiglia avrà, senz'altro, altre esigenze che la chiesa non può affatto dare, perciò preferiamo che sia donato un aiuto a ciascuna famiglia in occasione del prossimo Natale: 100 dollari”.

Card. Tauran: cristiani e yazidi "veri martiri" vittime di violenze

By Radiovaticana

“Non possiamo rimanere in silenzio o indifferenti di fronte all’estrema, inumana e multiforme violenza subita dai cristiani e yazidi” in Iraq. Lo ha detto il card. Jean Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, al Colloquio Interreligioso tra Cristiani e Musulmani in corso nella capitale iraniana Teheran.
Il porporato ha fatto notare che molte di queste persone soggette a persecuzione “hanno preferito la morte invece che rinunciare alla loro fede”. Dunque il sacrificio di questi “veri martiri”,  espulsi dalle loro case, spesso con i soli vestiti che avevano addosso, non deve essere dimenticato.
“Invocare la religione – afferma il card. Tauran – per giustificare questi crimini, è un crimine contro la stessa religione”. Il porporato poi richiama il fatto che “cristiani e musulmani, e nei fatti tutta l’umanità, hanno bisogno di abbondanti e concreti frutti del loro dialogo”.
D’altronde, fa notare il cardinale, tutti noi siamo consci delle necessità del dialogo tra studiosi, e dovremmo essere consapevoli di quanto sia importante portare i frutti dell’ incontro che si svolge a Teheran in tutti gli ambiti in cui musulmani, cristiani, credenti di altre religioni e non credenti, vivono, lavorano e studiano assieme.

24 novembre 2014

Prime notizie della distruzione di un monastero a Mosul da parte dell'IS

By Baghdadhope*
 
Secondo quanto riportato al sito Ankawa.com da alcuni testimoni i miliziani dello stato islamico avrebbero distrutto, utilizzando delle cariche esplosive, il monastero del Soccorso, costruito nel 1984 ed appartenenete all'ordine delle Suore caldee del Sacro Cuore.
Il monastero, che ospitava le suore e le persone in difficoltà o amnziane che esse assistevano, era stato costruito nel 1984, si trovava (le fonti di ankawa hanno riferito la sua completa distruzione ma non ci sono foto dell'accaduto) nel quartiere arabo di Mosul, e da tempo era stato utilizzato per alloggiare i miliziani dello stato islamico che ne avevano preso possesso dopo la fuga delle suore e degli ospiti.
Nessun danno è stato per ora riportato al monastero di San Giorgio che si trova davanti a quello delle suore.  
Secondo quanto riferito dalla Iraq Press Agency i miliziani dell'IS avrebbero sgombrato la zona  attorno al monastero, avvertito le persone di tenersene lontani e fatto detonare le cariche esplosive con un telecomando a distanza.


AGGIORNAMENTO:
Alle 18.20 il sito Ankawa.com ha pubblicato la prima foto del monastero. Qualche minuto dopo però Ishtar TV ha riportato che secondo alcune voci da Mosul ad essere stato distrutto con cariche esplosive sarebbe stato il Monastero di San Giorgio e non quello della suore caldee, e secondo altre addirittura tutte e due le strutture sarebbero state minate e distrutte. 


Isis in Iraq: The trauma of the last six months has overwhelmed the remaining Christians in the country

Patrick Cockburn

Two years ago Jalal Yako, a Syriac Catholic priest, returned to his home town of Qaraqosh to persuade members of his community to stay in Iraq and not to emigrate because of the violence directed against them.
"I was in Italy for 18 years, and when I came back here my mission was to get Christians to stay here," he says. "The Pope in Lebanon two years ago had established a mission to get Christians in the East to stay here."
Father Yako laboured among the Syriac Catholics, one of the oldest Christian communities in the world, who had seen the number of Christians in Iraq decline from over one million at the time of the American invasion in 2003 to about 250,000 today. He sought to convince people in Qaraqosh, an overwhelmingly Syriac Catholic town, that they had a future in Iraq and should not emigrate to the US, Australia or anywhere else that would accept them. His task was not easy, because Iraqi Christians have been frequent victims of murder, kidnapping and robbery.
But in the past six months Father Yako has changed his mind, and he now believes that, after 2,000 years of history, Christians must leave Iraq. Speaking at the entrance of a half-built mall in the Kurdish capital Irbil where 1,650 people from Qaraqosh have taken refuge, he said that "everything has changed since the coming of Daesh (the Arabic acronym for Islamic State). We should flee. There is nothing for us here." When Islamic State (Isis) fighters captured Qaraqosh on 7 August, all the town's 50,000 or so Syriac Catholics had to run for their lives and lost all their possessions.
Many now huddle in dark little prefabricated rooms provided by the UN High Commission for Refugees amid the raw concrete of the mall, crammed together without heat or electricity. They sound as if what happened to them is a nightmare from which they might awaken at any moment and speak about how, only three-and-a-half months ago, they owned houses, farms and shops, had well-paying jobs, and drove their own cars and tractors. They hope against hope to go back, but they have heard reports that everything in Qaraqosh has been destroyed or stolen by Isis. Christians who fled Mosul pray at a church in Qaraqosh
Some have suffered worse losses. On the third floor of the shopping mall in Irbil down a dark corridor sits Aida Hanna Noeh, 43, and her blind husband Khader Azou Abada, who was too ill to be taken out of Qaraqosh by Aida, with their three children, in the final hours before it was captured by Isis fighters. The family stayed in their house for many days, and then Isis told them to assemble with others who had failed to escape to be taken by mini-buses to Irbil. As they entered the buses, the jihadis stripped them of any remaining money, jewellery or documents. Aida was holding her three-and-a-half month old baby daughter, Christina, when the little girl was seized by a burly IS fighter who took her away. When Aida ran after him he told the mother to get back on the bus or he would kill her. She has not seen her daughter since.
It is not the savage violence of Isis only that has led Father Yako to believe that Christians have no future in Iraq. He points also to the failure of both the Iraqi government and the Kurdistan Regional Government (KRG) to defend them against the jihadis. Christians in Iraq have traditionally been heavily concentrated in Baghdad, Mosul and the Nineveh Plain surrounding Mosul. But on 10 June some 1,300 Isis fighters defeated at least 20,000 Iraqi army soldiers and federal police and captured Mosul. The army generals fled in a helicopter. In mid-July Christians in the city were given a choice by Isis of either converting to Islam, paying a special tax, leaving or being executed. Almost all Christians fled the city.
Kurdish peshmerga moved into Qaraqosh and other towns and villages in the Nineveh Plain. They swore to defend their inhabitants, many of whom stayed because they were reassured by these pledges. Father Yako recalls that "before Qaraqosh was taken by Daesh there were many slogans by the KRG saying they would fight as hard for Qaraqosh as they would for Irbil. But when the town was attacked, there was nobody to support us." He says that Christian society in Iraq is still shocked by the way in which the Iraqi and Kurdish governments failed to defend them.
Johanna Towaya, formerly a large farmer and community leader in Qaraqosh, makes a similar point. He says that up to midnight on 6 August the peshmerga commanders were assuring the Syriac Catholic bishop in charge of the town that they would defend it, but hours later they fled. Previously, they had refused to let the Christians arm themselves on the grounds that it was unnecessary. Ibrahim Shaaba, another resident of the town, said that he saw the Isis force that entered Qaraqosh early in the morning of 7 August and it was modest in size, consisting of only 10 vehicles filled with fighters.
At first, IS behaved with some moderation towards the 150 Christian families who, for one reason or another, could not escape. But this restraint did not last; looting and destruction became pervasive. Mr Towaya says that the Isis authorities in Mosul started "giving documents to anybody getting married in Mosul to enable them to go to Qaraqosh to take furniture [from abandoned Christian homes]."
As so many had fled, there are few who can give an account of how IS behaved in their newly captured Christian town. But one woman, Fida Boutros Matti, got to know all too well what Isis was like when she and her husband had to pretend to convert to Islam in order to save their lives and those of their children, before finally escaping. Speaking to The Independent on Sunday in a house in Irbil, where they are now living, she explained how she and her husband Adel and their young daughter Nevin and two younger sons, Ninos and Iwan, twice tried to flee but were stopped by Isis fighters.
"They took our money, documents and mobile phones and sent us home," she says. "After 13 days they knocked on our door and the men were separated from the women. Thirty women were taken with their children to one house and told they must convert to Islam, pay a tax or be killed. We told them that since they had taken all our money, we could not pay them." Four days later, some fighters burst into the house saying they would kill the women and the children if they did not convert.
Soon afterwards, Mrs Matti was taken to Mosul in a car with three other women and a guard who, she recalls, threw a grenade into a house on the way to frighten them. In Mosul they were taken first to al-Kindi prison, formerly an army camp, but did not enter it and then their guard got a phone call to bring them to a house in the Habba district of the city.
In the house, she and the three other Christian women were put in one room, next to another in which there were 30 Yazidi girls between 10 and 18 who were being repeatedly raped by the guards. Mrs Matti says that "the Yazidi girls were so young that I worried about Nevin and told the guards that she was eight years old though she is really 10".
They told her that her husband, Adel, had converted to Islam. She asked to speak to him on the phone, saying she would do whatever he did. They spoke, and agreed that they had no choice but to convert if they wanted to survive.
When they appeared before an Islamic court in Mosul to register their conversion, their three children were given new, Islamic names: Aisha, Abdel-Rahman and Mohammed. They went to live in a house in a Sunni Muslim district and from there – here the husband and wife are circumspect about what exactly happened – they secured a phone and contacted relatives in Irbil. They said that they needed to take one of their children for medical treatment in Mosul city centre, and, once there, they had a pre-arranged meeting with a driver who took them by a roundabout route through Kirkuk to the protection of the KRG.
The trauma of the last six months has been overwhelming for the remaining Christians in Iraq. The Chaldean Archbishop of Irbil, Bashar Warda, heads an episcopal commission to help displaced Christians whom he says number 125,000, or half the total remaining Christian population. Unlike other displaced people in Iraq, the Christians are mostly cared for by the churches. He says that there will always be a few Christians remaining in Iraq, but overall "they have lost their trust in the land. Some 80 or 90 are leaving every day for Turkey, Lebanon and Jordan." Others would go if they had money and visas.
Mounting persecution since 2003 and now the final calamity of Isis taking Mosul and the Nineveh Plain has convinced many that they can no longer stay. The archbishop suspects that, even if IS is driven back and Christians can return to their homes, half of them will only stay long enough to sell their property. Almost exactly a hundred years after the Armenian Christians in Turkey were slaughtered or driven into exile, the end has come for the Christian community of Iraq. "Have no doubt," concludes Archbishop Warda, "that here is massacre, here is a tragedy."

Iraq’s Christian heritage
The Christian communities in Iraq can trace their history back to the early days of their faith. Most are Chaldeans, a small sect which is autonomous from Rome but which recognises the authority of the Pope. There are an estimated 500,000 ethnic Assyrians indigenous to northern Iraq, south-east Turkey, north-east Syria and north-west Iran. This group is so ancient that some of its members still speak Aramaic, the language of the New Testament.
The country’s other major Christian community is also Assyrian, and its Ancient Church of the East, having embraced Christianity in the first century AD, is believed to be the oldest Christian denomination in Iraq.
In addition to these groups, there are small communities of Syrian Catholics, Armenian Orthodox and Armenian Catholic Christians, as  well as Greek Orthodox and Greek Catholic communities.   
Jamie Merrill

Iraq: vescovo Bagdad, sostenere i cristiani perseguitati

By AGI

"Uomini, donne e bambini di fede cristiana sono le vittime di un genocidio che si sta consumando in Iraq ad opera dell'Isis". Cosi' monsignor Shlemon Warduni, vescovo ausiliare di Bagdad, a Perugia per l'incontro: 'Sperando contro ogni speranza - la testimonianza dei Cristiani iracheni', promosso dal Centro culturale 'Maesta' delle Volte' con la collaborazione dell'Archidiocesi e del Comune di Perugia.
Il presule iracheno, accolto dal vescovo ausiliare monsignor Paolo Giulietti, ha lanciato un appello a "pregare incessantemente perche' si fermi il genocidio dei cristiani in Iraq, ma anche in Siria, Egitto, dove sono sempre piu' gli episodi di violenza contro quanti non professano la religione islamica".
"Il messaggio che ha lasciato a Perugia il vescovo ausiliare di Bagdad
- ha sottolineato il direttore della Caritas Daniela Monni - e' stata proprio la speranza fondata nella carita'. Ha parlato del 'sangue dei cristiani' che 'e' frumento', il seme dal quale deve germogliare la speranza per un futuro di pace. Cio' e' possibile anche in tutto il Medio Oriente, in quanto la gran parte dei musulmani non e' dell'Isis, perche' sono loro stessi a dire: 'se uccidi degli innocenti questo non e' Islam'".
"Nell'apprestarci a vivere l'Avvento di fraternita', che la Caritas ripropone ogni anno nell'attesa del Santo Natale, non possiamo non pensare alle tante famiglie in difficolta', famiglie vicine, qui a Perugia, famiglie piu' lontane, in Iraq, Siria, ma tutte facenti parte della piu' grande famiglia umana"

A messa coi cristiani perseguitati che non hanno perso la fede

By Il Giornale



Il Giornale
Alle spalle un piccolo crocefisso con Gesù che sanguina, come il popolo cristiano dell'Iraq. In 120mila sono scappati dalle loro case davanti all'avanzata dello Stato islamico. E adesso vivono come un popolo in fuga nel Kurdistan in condizioni estremamente precarie. Alcuni sono ancora sotto le tende nonostante l'arrivo della prima neve. Altri sono piazzati come bestie in strutture fatiscente dentro dei moduli abitativi che assomigliano a dei loculi.
Però non hanno perso la fede. Anzi si aggrappano disperatamente alle preghiere, anche se sono scappati in ciabatte e non possiedono più nulla. Ed ogni domenica si ritrovano sotto il tendone che fa da chiesa improvvisata per assistere alla messa. Le madri con i bambini piccoli in braccio, gli anziani che snocciolano il rosario ed i giovani che hanno fatto da poco la comunione. Sguardi tristi, ma fieri di chi affronta il calvario con dignità e non ha perso la speranza di tornare un giorno nelle proprie case strappate via del Califfo o di rifarsi una vita all'estero sempre facendosi il segno della croce. Per questo dedichiamo questo piccolo tributo fotografico ai nostri fratelli cristiani perseguitati, che nonostante tutto ogni domenica hanno ancora la spinta per andare a messa. Un insegnamento per tutti noi, che viviamo la fede come un optional.


Clicca sul titolo del post o qui per l'intero reportage fotografico de Il Giornale

Il vescovo di Mosul: "L'Italia ci aiuti a salvare i cristiani"


Amil Nuna è stato costretto alla fuga con i suoi fedeli davanti all'avanzata del Califfo. Prima di partire per Roma, dove incontrerà il Papa, denuncia la memoria corta dell'Occidente
I cristiani cacciati dal Califfato torneranno mai nelle loro case?
«Io sono uno di loro, come vescovo di Mosul. Bisogna tornare, ma anche avere delle garanzie per vivere in sicurezza».
Quali sono le garanzie per il ritorno dei cristiani?
«Prima di tutto liberare la zona dai militanti dell'Isis e fare giustizia dei collaborazionisti locali, i vicini di casa, che hanno cacciato i cristiani e partecipato al saccheggio delle nostre abitazioni. Poi ci vuole una forza irachena o internazionale che garantisca la sicurezza dei cristiani».
Quasi tutti i rifugiati che abbiamo incontrato vogliono emigrare. Solo la Francia, però, concede qualche visto. Ci siamo di nuovo dimenticati di voi?
«Penso che l'Europa, l'Occidente ci hanno un po' dimenticato. Dopo tre mesi di attenzione bisogna "normalizzare". Prima dello Stato islamico era uguale. Convincere un cristiano dell'Iraq a restare nella sua terra sarà molto difficile perché ha perso tutto. L'Europa ha radici cristiane. Per questo motivo dovrebbe avere la responsabilità morale di garantire una vita degna per i fratelli cristiani in Iraq o all'estero».
Dopo mesi la condizione dei rifugiati è ancora difficile per usare un eufemismo.
Come è possibile?
«Nessuno ci ha aiutato. Anche le Nazioni Unite parlano tanto e combinano poco. Non basta portare un po' di viveri e acqua. Il vero problema è l'alloggio».
Sta dicendo che la comunità internazionale non vi aiuta?
«É proprio così. Solo le Chiese stanno lavorando veramente per aiutare i cristiani».
Dall'Italia cosa si aspetta?
«La Chiesa italiana sta facendo molto, ma il governo poco niente. Un rappresentante del vostro consolato ci ha appena portato un po' di viveri, che abbiamo stoccato nel nostro magazzino per distribuirlo. Si tratta di briciole».
Con l'arrivo dell'inverno l'emergenza riguarda gli alloggi…
«Certamente. Si doveva costruire fin dall'inizio delle case prefabricate. Il governo iracheno o i rappresentanti dei paesi occidentali, che sono venuti quando è cominciata la crisi potevano farlo. Lo abbiamo detto subito che con 120mila rifugiati il grosso problema sarà l'alloggio. Nel primo mese dell'emergenza è stato presentato un nostro progetto per la costruzione di 5mila case all'Unione europea, tramite i ministri degli Esteri di tre paesi, rimasto lettera morta».
Che fine hanno fatto le chiese nelle zone sotto controllo dello Stato islamico?
«Tutte le nostre chiese ed i centri di catechismo sono occupati dai militanti islamici soprattutto dal giorno in cui gli aerei americani hanno cominciato a bombardare. Cercano rifugio nelle chiese per non venir colpiti».