"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

27 aprile 2007

Pax Christi rinnova l'appello di aiuto da parte dei vescovi iracheni

Fonte: Pax Christi

Pax Christi Italia vuole dare voce all'appello che giunge dall'Iraq, in particolare vuole gridare al mondo la tragedia che vive quel popolo e, oggi in particolare, la situazione disperata dei cristiani sempre più vittime di violenze, ricatti, minacce e uccisioni. E questo non solo a Baghdad ma anche a Mosul e in altre città. Pax Christi è un movimento cattolico che si impegna per la nonviolenza, per il dialogo tra le religioni, per la convivialità delle differenze", per il rispetto della dignità della persona e dei diritti umani, per la libertà. Pax Christi crede che ogni religione sia portatrice di Pace, perchè Dio non può che mostrarsi con un volto di pace, di giustizia, di misericordia, di perdono, di riconciliazione, di unità.

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Molte volte noi di Pax Christi siamo stati in Iraq, l'ultima volta nel dicembre 2006, a Kirkuk, e sempre abbiamo avuto modo di incontrare persone miti, pacifiche, che credono nella pace. Purtroppo molti amici e mons Louis Sako arcivescovo Caldeo di Kirkuk, impegnato per il dialogo tra le religioni, ci dicono che la situazione è tragica, invivibile per i cristiani a Baghdad, ma ora sempre di più anche in altre zone. Ci raccontano di una tragedia che vede migliaia, milioni di persone alla disperazione. Quanti profughi! Secondo alcune fonti dell''Onu, l'attuale tragedia dei profughi iracheni è la più grande del Medio Oriente, dopo quella del popolo Palestinese nel 1948.
Non possiamo più tacere!'
"I cristiani, afferma il vescovo, hanno sempre difeso l'integrità del Paese in modo coraggioso insieme ai loro fratelli musulmani. Hanno vissuto con sciiti e sunniti nel rispetto reciproco e hanno condiviso i giorni belli come quelli peggiori, da 14 secoli. Oggi vogliono continuare questa esistenza nell'amore e nel rispetto dei diritti umani." Chiediamo per gli irakeni il diritto alla libertà di vivere la propria fede.

L'Iraq è la patria di Abramo, nostro padre comune nella fede: ogni religione è per la pace, sia il cristianesimo che l'islam. Ogni manifestazione di violenza, di minaccia verso chi è di un'altra religione calpesta la libertà e la dignità umana e non rende testimonianza autentica alla propria fede. Mai la religione può portare alla violenza! La religione è per la vita, non per la morte, per la pace non per la guerra.
Basta con la violenza, basta con la guerra, basta con le uccisioni, i rapimenti, le minacce, le violenze di ogni genere. Insieme bisogna lavorare per la pace.

Vogliamo non lasciar cadere il grido di dolore e l'appello disperato che ci viene dall'Iraq, in un clima nazionale e internazionale che sembra avvolto da una colpevole indifferenza, dopo aver scatenato una guerra motivata da bugie urlate e da interessi taciuti. Lo vogliamo raccogliere noi per primi. Lo chiediamo alla Chiesa, cattolica, quindi universale! Molti cristiani in Iraq ci hanno detto che si sentono dimenticati! Lo chiediamo a tutti i credenti, alle autorità religiose, in Italia e in Iraq, cristiane e musulmane, ai responsabili della politica, alla comunità internazionale: cessi ogni forma di violenza. Solo il dialogo, l'incontro, l'ascolto, la solidarietà, il rifiuto di ogni forma di odio e vendetta può portare alla pace.
"Non possiamo più tacere" ci dicono dall'Iraq i nostri amici vescovi. E noi vogliamo unirci a loro, dare voce alla loro voce. Non lasciamoli soli.

24 aprile 2007

IRAQ Vescovo del Kurdistan: “la Chiesa in Iraq è in grande pericolo"

Fonte: ASIANEWS

Gli ultimi attentati al nord, finora zona più sicura nel Paese, fanno scattare l’allarme. Mons. Rabban Al Qas "supplica" il Vaticano: “Intervenite, ormai i cristiani sono in grande pericolo ovunque”. Bilancio aggiornato del kamikaze nel villaggio di Tell-el-skop: almeno 10 i morti, tra i 140 feriti anche due suore domenicane. A Baghdad continua il “massacro” di cristiani e sciiti nel quartiere di Dora.

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Erbil (AsiaNews) – Ci sono numerosi bambini e due suore domenicane tra i 140 feriti del kamikaze di ieri a Tell-el-skop, villaggio cristiano a nord-est di Mosul. La diffusione di attacchi suicida anche al nord dell’Iraq fa salire l’allarme tra i responsabili religiosi, che chiedono l’aiuto della Santa Sede. “Trovate una via, un modo per salvarci, la Chiesa in tutto l’Iraq è in grande pericolo, supplichiamo il Vaticano di muoversi e portare la nostra voce al mondo”. Sembra un ultimatum quello di mons. Rabban al Qas, vescovo caldeo di Amadiyah ed Erbil, che rilancia così tramite AsiaNews l’appello diffuso ieri dalle Chiese cattoliche irachene, allarmate per la feroce persecuzione dei cristiani in atto nel Paese.
Dal Kurdistan, finora oasi di sicurezza dove hanno trovato rifugio numerosi cristiani da tutto l'Iraq, il presule parla di “una situazione spaventosa” per la comunità nelle grandi città, come nei piccoli centri abitati. Ne è un primo esempio l’attentato di ieri a Tell-el-skop, dove un’autobomba è esplosa nelle vicinanze del quartier generale del Kurdistan Democratic Party, la formazione politica curda guidata da Massoud Barzani. La deflagrazione ha gravemente danneggiato il vicino convento delle domenicane, come pure la scuola elementare e l’asilo che gestiscono. I morti sono almeno 10, tra i quali due bambini; tra i 140 feriti anche due religiose. Una suora presente riferisce che lo scoppio ha terrorizzato i più piccoli, i quali finora non avevano mai vissuto simili violenze nel villaggio.
Secondo fonti cattoliche locali, i dilaganti attentati al nord hanno una matrice confessionale: “Vogliono colpire i cristiani e le minoranze religiose per affermare che non vi è piano di sicurezza o barriera difensiva eretta dagli Usa che possa proteggerli”. Non si esclude anche il fine politico-economico: “Colpire insieme ai cristiani anche i curdi, le cui rivendicazioni sul serbatoio petrolifero di Kirkuk danno fastidio alle mire di molti ambienti in Iraq e all’estero”, aggiunge la fonte.
Ad ogni modo le zone che più soffrono al momento rimangono Baghdad e Mosul. Fonti ecclesiastiche a Baghdad confermano il “massacro” nel quartiere di Dora, dove gruppi armati sunniti uccido gli sciiti, mentre ai cristiani impongono o la conversione all’islam o la fuga abbandonando ogni avere. Le chiese sono sbarrate e i sacerdoti costretti ad emigrare. Ormai anche tra i cristiani più fiduciosi in un Iraq libero e pacificato si parla di un “Paese senza speranza, almeno per i prossimi 10 anni”.


IRAQ Bishop of Kurdistan: “the Church in Iraq is in great danger”

Source: ASIANEWS

The latest attacks in the North, until now the safest area in the country, sound the alarm. Msgr Rabban Al Qas "begs" the Vatican: “Intervene, Christians are now in ranger everywhere”. The death toll from a suicide bombing of Tell-el-skop: 10 dead, among the 140 wounded two Dominican nuns. In Baghdad the ongoing” massacre” of Christians and Shiites in the Dora quarter.

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Erbil (AsiaNews) – There are numerous children and Dominican nuns among the wounded from yesterday’s suicide bombing of the Christian village of Tell-el-skop, north east of Mosul. Suicide attacks targeting the North of the country have sounded the alarm for religious leaders, who now ask the Holy See for help. “Find a way, a means to save us, the Church in all of Iraq is in great danger, we beg the Vatican to help us bring our voice to the world”. It almost seems like an ultimatum, these words expressed by Msgr. Rabban al Qas, Chaldean bishop of Amadiyah and Erbil, in his reiteration of the Iraqi Catholic Churches appeal launched yesterday through AsiaNews l’appello, following the increasingly ferocious nature of attacks carried out against Christians in the country.
The bishop speaks from Kurdistan, upon till now an oasis of calm where Iraq’s Christians could find refuge. He speaks of the “frightening situation” for the community in big cities and in the small villages. Yesterday’s attack on Tell-el-skop, where a car bomb was exploded close to the head quarters of the Kurdistan Democratic Party, the Kurdish political party lead by Massoud Balzani, was not the first such attack. The explosion seriously damaged the nearby Dominican Convent and primary school and kindergarten which the sisters run. At least 10 people were killed among them two children; among the 140 wounded there are two religious. A sister present at the time of the blast said the explosion terrorized the little ones, who up on till now had never witnessed such violence in their village.
According to local catholic sources the spreading attacks on the north have confessional origins: “they want to attack Christians and religious minorities to prove that there is neither security plan, nor protection barrier that the USA can build capable of protecting them”. Political-economic motivations are neither excluded: “We will target Kurds along with Christians, whose demands on Kirkuk’s oil reserves are intolerable to many groups both in Iraq and abroad” add the sources.
Either ways the areas suffering the most at the moment remain Baghdad and Mosul. Church sources in Baghdad confirm that the “massacre” in the Dora quarter, where armed Sunni groups kill Shiites and impose conversion or exile on the Christians, continues unabated. Even Christians hopeful of a free and peaceful Iraq now speak of “a country without hope, for at least a further ten years."

Tra i profughi iracheni a Damasco per fuggire dall’incubo iracheno

Fonte: 30 giorni

REPORTAGE DALLA SIRIA

Un milione di iracheni in fuga dal loro Paese hanno trovato rifugio nelle periferie della capitale siriana. Storie e immagini di un esodo nascosto che coinvolge decine di migliaia di cristiani. E accelera l’estinzione del cristianesimo nella terra da dove partì Abramo.

Reportage
di Gianni Valente

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Rita canta nel coro. Alle otto e mezza di mattina sale coi suoi anziani genitori sul pulmino che dal quartiere di Giaramana porta alla città vecchia. La madre, al suo fianco, si fa il segno della croce ogni volta che il trabiccolo sgangherato passa davanti a una chiesa: quella della Custodia francescana, a Tabbaleh, poi quella ortodossa, poi quella armena che si intravvede oltre le mura vicino a Bab ash-Sharqi, la porta dell’est. Scendono nella piazzetta di Bab Touma, e nella calma festiva del venerdì musulmano i loro passi veloci risuonano nel labirinto dei vicoli insieme a quelli di tutti gli altri – uomini, donne, intere famiglie, anziani soli – che si avviano come loro verso la parrocchia di Santa Teresina, dove già rintocca la campana della messa. Le moschee sparse per i suq e quella grande degli Omayyadi si riempiranno di uomini, donne velate e preghiere solo tra un paio d’ore. Qui le panche invece sono già piene, e i vecchi hanno cominciato a cantilenare le malinconiche litanie in lingua caldea. Iracheni di Baghdad e di Mossul, di Kirkuk e di Bassora, ricordano oggi i loro defunti. Lo fanno qui a Damasco, lontano dalla loro terra. Lontano da case e strade che probabilmente non vedranno più. Nel coro c’è anche Wissam, che a messa suona il violino. Lui volevano ammazzarlo solo perché è alto, ha la carnagione chiara e può sembrare un americano. Anche Malad, suonatore di liuto che adesso sbarca il lunario piazzando qua e là lezioni di musica, erano andati a cercarlo per rapirlo e chiedere il riscatto. Sono scappati con quello che avevano addosso, insieme ai genitori e alle loro tante sorelle (ne hanno cinque ciascuno), e si considerano fortunati. Quando alla fine della messa si legge la preghiera per i defunti, la chiesa crepita di singhiozzi trattenuti. Ognuno ha qualche lutto recente, qualche caro perduto da poco nel mattatoio iracheno di bombe, attentati, sparizioni. Fuori della chiesa uomini e donne si accalcano a leggere la lista delle famiglie che questa settimana possono ritirare la razione di zucchero e olio. La sacrestia è diventata un magazzino di primo soccorso per gli sfollati in fuga dal nuovo Iraq “democratico”. Latte in polvere e rosari, bombole del gas e santini di Maria, coperte e candele per i santi. «Questo è un buon tempo per assaporare la consolazione che ci dona Gesù Cristo, noi che non abbiamo più niente, e a Dio possiamo offrire solo il nostro cuore. Venga il Tuo Regno, e dacci oggi il nostro pane quotidiano», ha predicato padre Yussif dal pulpito, gli occhi spiritati di stanchezza, lui che è scappato come tutti gli altri quando gli hanno detto che il suo nome era sulla lista dei condannati a morte. Sul sagrato, distribuiscono dolci e pizzette a chi esce. Giorgio racconta come sono le guerre per esportare la democrazia viste dal basso: «Non saprei dire nulla di alta politica. Saddam era certo una persona cattiva. Ma adesso noi tutti sappiamo che c’era qualcosa di peggio».

Amici fragili

Anche la fuga degli iracheni verso la Siria rappresenta con le sue anomalie un indizio della catastrofe innescata dalla “guerra dei volenterosi”. Spiega l’olandese Laurens Jolles, rappresentante del Commissariato Onu per i rifugiati a Damasco: «Quando è caduto il regime, tutti si aspettavano un flusso di profughi improvviso e massiccio, come quelli scatenati dalle guerre africane. Ci eravamo preparati. C’erano fondi, strutture, donatori e Ong in allerta. Ma non arrivò quasi nessuno. Solo piccoli gruppi, in parte legati ai vecchi apparati, che temevano la rappresaglia e comunque avevano avuto il tempo di trasferire all’estero le proprie risorse». Negli ultimi due anni e mezzo, quando l’allerta internazionale era ormai in ribasso, il rigagnolo proveniente dall’Iraq “liberato” si è trasformato in un fiume in piena di poveri cristi, con un’escalation impressionante che mette a dura prova la stabilità sociale dello Stato ospitante. «Ne arrivano 30-40mila a settimana» conferma Jolles. Gente di tutti i gruppi etnici e religiosi e di tutte le classi, «ma anche quelli che lì erano benestanti ormai arrivano qui senza niente. Incrociando vari dati, si calcola che ormai solo qui in Siria siano almeno un milione, ma secondo il governo sarebbero molti di più». Un esodo biblico in sordina, che non inonda campi profughi ma si disperde in mille rivoli anonimi negli slums e nelle periferie caotiche di Damasco. Gente diversa che fugge dalle stesse bombe stragiste, da un mondo impazzito di squadre della morte, rapimenti, sevizie. Un orrore quotidiano che travolge tutti, ma che i cristiani sentono di pagare con moneta particolare.

A Giaramana, il piccolo ufficio della Caritas zeppo di vassoi pieni di schede e foto dà l’impressione di una generosa scialuppa di arditi travolti da una tempesta più grande di loro. Suor Antoinette sintetizza la condizione dei cristiani in fuga dall’Iraq con un’immagine forte ma efficace: «Lì adesso i sunniti rapiscono e ammazzano solo gli sciiti, mentre gli sciiti rapiscono e ammazzano solo i sunniti. Ma sia gli sciiti che i sunniti rapiscono e ammazzano i cristiani». Nella dilaniante guerra tribale scatenata in Iraq dall’intervento occidentale loro sentono di essere i bersagli più inermi, le vittime predestinate. Persone, case e cose alla mercé della barbarie. Senza quartieri-roccaforte per resistere, senza milizie e clan tribali potenti a cui chiedere protezione.

Nel quartiere di Massaken Barzi, nella palazzina riadattata a chiesa e dedicata a sant’Abramo di Ur dei Caldei, padre di tutti i credenti, la tragedia collettiva si frammenta nei racconti di fuga di ciascuno. C’è Jalal, che a nord di Baghdad lavorava in un centro sportivo e ha dovuto vendere casa e auto per pagare il riscatto ai rapitori di sua figlia. C’è il piccolo Martin, che per due anni ha perso la parola dopo che lo avevano seviziato per registrare le sue grida sull’audiocassetta da mandare al padre. C’è Nader, un omone che lavorava con le compagnie petrolifere, rapito anche lui e rilasciato solo dopo aver sborsato 20mila dollari. «A qualcuno dei nostri vicini devono aver fatto gola i nostri soldi. Rapiscono i cristiani perché sanno che molti di noi hanno parenti all’estero pronti a pagare i riscatti». Ma a scatenare invidie e odi criminali non è solo l’esposizione sociale. Il marito di Sherma, vedova trentenne, lo hanno ammazzato perché lavorava come interprete per le compagnie americane. E la matrice religiosa degli invasori ha fornito facili pretesti alla brutalità fanatica degli islamisti. «Dicevano che eravamo i servi dei crociati, imponevano alle mie figlie di indossare il velo, ci mandavano lettere di minaccia: o ve ne andate o vi sgozziamo», racconta Alisha. Dicono che negli ultimi mesi il picco di nuove violenze si è avuto dopo il discorso di Ratisbona: «Ci minacciavano: nessuno entrerà in chiesa finché il Papa non chiede perdono ai musulmani. E dicevano che per noi lì era finita: andate via, chiedete asilo al vostro Papa». Voci riportate di bocca in bocca raccontano di alcuni preti e diversi giovani cristiani ammazzati in rappresaglia dopo Regensburg. Michel, tassista scappato da Mossul, non teme di mostrarsi davanti a tutti come un nostalgico: «Credimi, amico: prima della guerra vivevamo in pace. Si lavorava, si tornava a casa tranquilli». Nessuno solleva obiezioni. Quasi tutti gli danno ragione. «Perché ogni guerra fomentata da queste parti è sempre una guerra contro i cristiani, sono sempre loro i primi a pagare», scandisce amaro e realista il siro-cattolico Robert, tour operator ad Aleppo.

Limbo siriano

Nella massa di iracheni tracimata in Siria i cristiani – caldei, siri, armeni, ortodossi – sono almeno quarantamila. La “nazione-canaglia”, da sempre nel mirino dell’amministrazione Usa, per loro è una specie di terra promessa, il posto migliore dove fuggire se sei uno che porta il nome di Cristo. Si concentrano nei quartieri damasceni di Giaramana, a Tabbaleh, a Massaken Barzi o a Dwela. «Quando ne arriva qualcuno nuovo, le famiglie salgono al santuario a ringraziare Iddio e la Madonna per il viaggio finito bene», racconta Toufic Eid, il parroco della chiesa dei Santi Sergio e Bacco a Maalula, il villaggio rupestre dove ancora parlano l’aramaico, come Gesù. «Ma poi chiedono anche che sia resa facile la loro vita di rifugiati, che facile non è».

A Massaken Barzi, Samir e i suoi, come tutti, vivono ammassati in otto in due stanze, dormono sui divani e sui materassi per terra. Pareti piene di Madonne, Sacri Cuori, foto di giorni felici, comprese quelle di quando sua figlia Yasmina è stata liberata dopo il solito rapimento-lampo («undici giorni con le mani legate, è rimasta. E noi ad aspettarla, senza riuscire né a mangiare né a dormire…»). Mucchi di panni, nipotini che piangono, gabbiette di uccelli, valigie aperte, sempre pronte per essere riempite coi frammenti di vita scampati al naufragio. Bilocali malridotti che nel 2000 si affittavano a dieci dollari al mese, ora gli iracheni li pagano da quattrocento dollari in su. Con un effetto-Iraq sul mercato immobiliare che esaspera anche i siriani. «Mio figlio grande dall’Australia mi manda ogni mese i soldi per l’affitto», dice Samir. Barcamenarsi è la scelta obbligata. Il governo siriano assicura l’ospitalità, apre le scuole ai figli dei rifugiati, garantisce un minimo d’assistenza sanitaria a chi mostra i refugee certificates distribuiti dall’Onu. Ma l’economia del Paese è in sofferenza, e gli iracheni che non possono iniziare attività in proprio devono restar fuori dal mercato del lavoro. Così, la condizione di rifugiati trasforma la vita di tanti ragazzi e tanti uomini in una sala d’attesa. Come capita a Michel, che a Baghdad stava finendo gli esami d’ingegneria e adesso – come tanti suoi coetanei – passa il giorno stravaccato da un divano all’altro a ingozzarsi di idiozie televisive satellitari, che anche qui sanno arrivare nei tuguri più fatiscenti grazie alla fitta foresta di parabole che avvolge la città. Intanto, per tante donne – e magari sono giovani vedove piene di figli, che hanno seppellito i mariti prima di scappare – la fatica per tirare avanti diventa un piano inclinato che fa scivolare nella prostituzione. Mentre anche tra i bambini l’alta percentuale di defezioni dalla scuola (il 30 per cento secondo statistiche Onu 2006) nasconde un crescente fenomeno di sfruttamento del lavoro minorile. Se a questi elementi si aggiungono i casi sempre più frequenti di delinquenza che hanno avuto come protagonisti dei rifugiati iracheni, si capiscono anche i crescenti sintomi d’insofferenza e di allarme sociale registrati tra i siriani nei confronti dell’ingombrante immigrazione irachena post-Saddam.

Anche per questo, a metà febbraio, il governo siriano – lasciato da solo a fronteggiare un’emergenza umanitaria economicamente e politicamente destabilizzante – è sembrato sul punto di dare una stretta alla generosa ospitalità a cui lo spinge la sua ideologia panarabista. Si ventilava una drastica riduzione della durata dei permessi di soggiorno, con obbligo per tutti i rifugiati di lasciare la Siria per un lungo periodo di tempo prima di poterne richiedere un altro. Poi l’allarme è rientrato. Sono state rafforzate solo le misure di registrazione e di controllo dei rifugiati. Passata la paura, è tornata per tutti – cristiani compresi – la quotidiana irrequietezza di una vita sospesa.

C’è chi nella terra di nessuno dei rifugiati si muove con leggerezza, dispensando sorsate di carità e misericordia alla città di naufraghi nascosta nelle pieghe della città reale. Suor Thérèse del Buon Pastore ogni giorno fa il giro di Massaken Barzi, distribuisce rosari e stufette, minifrigoriferi e crocifissi, e poi ascolta – e soccorre, per quello che può, nella quasi totale latitanza di iniziative anche da parte degli organismi assistenziali ecclesiali – le pene di tutti. Soprattutto delle giovani madri rimaste vedove, che solo qui sono novanta sulle cinquecento famiglie da lei conosciute. A qualcuno dei sessanta bambini a cui fa catechismo ogni tanto deve pagare la giornata, quando per poterseli portare in gita o a giocare li sottrae per un giorno ai “lavori” da tre dollari a settimana che hanno rimediato presso barbieri e magazzini. Coi più grandi ha messo in piedi una specie di cooperativa. Si fanno chiamare “quelli di Domenico Savio”, bravi ragazzi allegri come il santo salesiano che organizzano lezioni d’inglese, corsi di computer e di maquillage. Tentando ogni giorno la scommessa di una vita “normale” nel presente, il piccolo miracolo di raccogliere quaderni ordinati di appunti da studiare anche dentro condizioni così fuori norma. Mentre quasi tutto, intorno a loro, racconta di un senso di vuoto e di vertigine che consuma giorni inutili.

Fine di una cristianità

«Gruppi iracheni cristiani hanno definito le politiche dell’amministrazione Bush in Iraq come una “perfida cospirazione”. È probabile che questa perfidia condurrà all’estinzione di una delle più antiche nazioni cristiane nel mondo nella sua stessa terra madre».
Così scriveva il politologo analista statunitense Glenn Chancy già nell’aprile 2004. A giudicare dai sogni e dai progetti dei rifugiati caldei in Siria, tale processo di estinzione si va realizzando a ritmi accelerati.

Secondo sondaggi dell’Onu realizzati nel marzo 2006 l’80 per cento dei fuoriusciti dall’Iraq non aveva alcuna intenzione di rientrare nel proprio Paese dilaniato. Una percentuale che di certo tra i profughi cristiani è ancora più alta, con buona pace di tutti i capi delle Chiese che dai loro pulpiti ripetono di non scappare. Robert, ad esempio, faceva anche lui il tassista a Baghdad. Mostra senza enfasi lo squarcio che una scheggia gli ha lasciato dietro al collo. Adesso lo fanno andare avanti poche certezze: che la sua sposa Rania è di nuovo incinta, che la madre e i fratelli di lei stanno nel Michigan e che loro faranno di tutto per raggiungerli. «Con l’Iraq», dice, «abbiamo chiuso. Basta. Finito. Se vogliamo vivere, dovremo vivere altrove. Prima le cose filavano liscie. Ma adesso, se sei cristiano, non sei più buono per vivere a Baghdad».

Non possono tornare in Iraq. Non possono iniziare a lavorare per rifarsi una vita in Siria. Ma gli rimangono sbarrate anche le porte di altri Paesi, soprattutto quelli occidentali, con le loro politiche sempre più blindate all’immigrazione. Che anche qui costringono i rifugiati iracheni a frustranti quanto inutili giri tra ambasciate e consolati, dove i funzionari traccheggiano, prendono tempo, trascinando le pratiche per la concessione dei visti di rinvio in rinvio.

Susan anche stamattina è stata all’ambasciata australiana. Un altro buco nell’acqua. Guarda coi suoi occhi dolenti di bambina suo figlio Semir, un ragazzone di 15 anni, primogenito di quattro figli, e racconta di suo marito, che adesso è tornato a Baghdad a rischiare la pelle per provare a vendere la casa, la macchina e tornare con un po’ di soldi. Più di qualche padre di famiglia non è più tornato da questi ultimi viaggi fatti con l’intenzione di chiudere i conti col passato. I nuovi “occupanti” delle case hanno tagliato sul nascere ogni contesa facendo fuori gli sgraditi proprietari e le loro “pretese”. Quanto stiano in pena lei e il suo ragazzo lo si intuisce dalle facce, e anche dal tono incalzante con cui ripete domande senza risposta: «Perché all’ambasciata non ci danno il visto? Quanto potrà durare tutto questo? Ma c’è ancora, da qualche parte, un futuro per noi?».

La comunità caldea in Austria ha un nuovo sacerdote

Fonte: Ankawa.com

Il 15 aprile scorso a Vienna è stata celebrata la Santa Messa con rito caldeo da Padre Ra'ad Washan Sawa, il nuovo sacerdote assegnato da Sua Beatitudine Mar Emmanule III Delly alla guida spirituale della comunità caldea austriaca.
Il 17 luglio del 2006 Padre Ra'ad era stato rapito a Baghdad dove era parroco della Chiesa Caldea della Sacra Famiglia. Il sequestro era durato fortunatamente solo un giorno, ma aveva segnato l'inizio della serie di rapimenti di sacerdoti che hanno segnato la chiesa caldea nel 2006.
A Padre Ra'ad i migliori auguri di una serena permanenza in Austria.

Leggi gli articoli sui sacerdoti rapiti in Iraq nel 2006

Aggiornamenti sull'attentato suicida di Tellesqof

In tarda serata è arrivata dall'Iraq la notizia secondo la quale i feriti dell'attentato suicida di questa mattina nel villaggio di Tellesqof sono 140, e che tra essi vi sono due suore domenicane del convento che si trova a pochi metri dal luogo dell'esplosione

23 aprile 2007

Corsi di lingua curda per i cristiani del nord dell'Iraq

La spaventosa situazione di vaste zone dell'Iraq ha spinto molti cristiani a trasferirsi nel nord, nella regione governata e controllata dal governo regionale curdo che gode per ora di una maggiore tranquillità, e dove molte famiglie stanno cercando di ricostruirsi una vita, magari partendo da zero, dalle poche cose che sono riusciti a portare con sè nell'abbandono frettoloso delle proprie case e delle proprie attività. Per quanto fortunati nell'essere sopravvissuti - un lusso nell'Iraq odierno - queste persone sono ancora lontane dal potersi dire tranquille. Uno dei problemi che devono affrontare ad esempio è quello del lavoro. Malgrado la regione del Kurdistan stia vivendo un vero e proprio boom economico * l'afflusso di emigrati è di tale portata che trovare un impiego non è facile, tenendo anche conto che in una regione a carattere prevalentemente rurale molti ex-cittadini trovano difficile reinventarsi una vita da contadini senza averlo mai fatto prima. Un altro ostacolo è quello della lingua. Sebbene molti cristiani siano originari proprio delle zone settentrionali dell'Iraq essi non sono curdi, e non avendo mai vissuto in quelle zone perchè magari emigrati a Baghdad 40 o 50 anni fa non conoscono il curdo, la lingua necessaria per trovare lavoro nei maggiori centri cittadini. Per aiutare alcune queste persone la Parrocchia Caldea del Sacro Cuore di Erbil ha inaugurato oggi un corso di lingua curda.

Ecco cosa ha dichiarato il parroco, Padre Rayan P. Atto, durante una breve intervista telefonica rilasciata a Baghdadhope:
"Con questo corso cerchiamo di aiutare i fedeli arrivati da Baghdad che non parlano curdo. Forse sarà più facile per loro trovare lavoro e ricominciare una vita normale"
D: Il corso è gratuito?
"Si. Gli studenti non pagano perchè il costo del corso è sostenuto dal Governo Regionale Curdo"
D: Quante persone frequentano il corso?
"Sono 60 studenti, uomini e donne, la maggior parte sono giovani ma ci sono anche degli ultracinquantenni"
D: Ci saranno altre iniziative per favorire l'integrazione di questi nuovi emigrati nelle zone del nord?
"Certamente, non si fa mai abbastanza per questi nostri fratelli che hanno sofferto tanto"
D: A cosa sta pensando?
"E' presto per dirlo, la situazione non è facile, ma certamente l'aiuto di Dio, e le preghiere di tutti, saranno per noi preziose."

*
E' ad Erbil, infatti, che dal 10 al 13 giugno prossimi si terrà l'Italian Expo Iraq, l'esposizione delle industrie e delle tecnologie italiane.

Articolo ed intervista di Baghdadhope

Autobomba fa strage a Tellesqof, nei pressi di Mosul















Fonte: Ankawa.com

Il villaggio cristiano di Tellesqof, 25 kilometri a nord-est di Mosul, è stato scosso questa mattina alle 9.30 da una potente esplosione. Un attentatore suicida si è fatto esplodere mentre con la sua auto si trovava nelle vicinanze del quartier generale del Kurdistan Democratic Party, la formazione politica curda guidata da Masoud Barzani. Lo scoppio, avvenuto nei pressi di una scuola elementare e di un asilo, ha provocato la morte di almeno 10 persone ed il ferimento di altre 60, tra cui molti bambini, ed ha terrorizzato – come ha riferito una suora della scuola – proprio i più piccoli che fino ad ora non erano stati testimoni di atti di simile violenza a Tellesqof.
L’esplosione ha anche danneggiato una sala per incontri pubblici ed un centro internet. I feriti sono stati ricoverati presso gli ospedali di Dohuk e Shaykhan.

Appello dei vescovi: Salvate i cristiani irakeni

Chiese chiuse, autobombe, conversioni forzate, rapimenti, non solo a Baghdad, ma anche a Niniveh. Il vescovo di Kirkuk, mons. Sako, lancia un appello sulla tragica situazione dei cristiani, da sempre parte del mosaico irakeno.
“In Iraq i cristiani stanno morendo, la Chiesa sta scomparendo sotto i colpi di persecuzione, minacce e violenze da parte di estremisti che non danno scelta: o la conversione o la fuga”. È l’appello urgente che mons. Louis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk ha inviato ad AsiaNews, mentre giungono notizie di autobomba e uccisioni di cristiani anche nelle zone curde, finora risparmiate dalle violenze confessionali.

Clicca su "leggi tutto" per l'articolo di Asia News
Il presule, che è presidente del Comitato per il dialogo interreligioso del Consiglio delle Chiese cattoliche in Iraq, ha firmato una dichiarazione sulla “tragica situazione dei cristiani a Baghdad”, denunciando gruppi che sotto la minaccia delle armi chiedono ai cristiani l’immediata conversione all’islam o la fuga e la confisca dei beni. A Mosul succede lo stesso, ma imponendo un’altra scelta: pagare un tributo in denaro al jihad se non si vuole essere uccisi.
Da tempo la comunità cristiana irachena, in patria e all’estero, aspettava una presa di posizione della Chiesa locale, soffocata da rapimenti, ricatti e intimidazioni, ormai senza più protezione né da parte del governo né da parte delle forze di coalizione. E mentre si fa più concreto il controverso piano di istituire una regione sicura per i cristiani nella zona della Piana di Niniveh, proprio qui i terroristi hanno colpito negli ultimi due giorni. “quasi un gesto politico – ipotizza mons. Sako – come a dire: ‘possiamo arrivare ovunque, nessuna regione è sicura’”.
Gli attacchi su base confessionale avvengono ormai non solo a Baghdad e a Mosul, ma anche in piccoli centri abitati del Nord. Ieri un gruppo di fondamentalisti ha giustiziato 23 yazidi sulla strada da Mosul a Ba’ashika, un villaggio a maggioranza cristiano: hanno fermato l’autobus di linea e dopo aver fatto scendere arabi e cristiani hanno ucciso i fedeli di questa religione molto antica, basata su un forte dualismo Bene-Male. Oggi un’autobomba è esplosa vicino ad una scuola a Tell-el-skop, villaggio completamente cristiano: sono morte 9 persone, fra cui 2 bambini; 60 sono rimasti feriti. Il convento delle suore domenicane, che si trova nelle vicinanze, ha subito danni gravissimi.
“Non possiamo più tacere – spiega mons. Sako raggiunto al telefono da AsiaNews – bisogna ricordare alla comunità musulmana in Iraq e a tutto il mondo l’importanza della presenza cristiana nel Paese, per il bene di tutti”. “I cristiani sono una delle componenti più antiche della popolazione irachena – si spiega nella dichiarazione – fin dall’inizio si sono fusi con altre realtà come gli arabi, i curdi, i turcomanni e gli yezidi; hanno fatto da pionieri nella civilizzazione dell’Iraq. Inoltre hanno sempre difeso l’integrità del Paese in modo coraggioso insieme ai loro fratelli musulmani. Testimoniano lealtà, fedeltà, onestà e la volontà di vivere in pace e fratellanza con gli altri. I cristiani hanno vissuto con sciiti e sunniti nel rispetto reciproco e hanno condiviso i giorni belli come quelli peggiori. Per 14 secoli hanno fatto parte della cultura islamica, generalmente senza problemi. Oggi vogliono continuare questa esistenza nell’amore e nel rispetto dei diritti umani”.
Nell’attuale situazione i cristiani sono presi di mira come un capro espiatorio, da sfruttare o da eliminare. Non possono professare la loro fede liberamente, alle donne viene imposto il velo e le croci vengono tolte dalle chiese, su tutti pende la minaccia di rapimenti e ricatti. Mons. Sako fa un elenco delle violenze: “Oggi i cristiani in certe zone dell’Iraq soffrono per emigrazione, stupri, rapimenti, pagamenti di riscatti, minacce e uccisioni perpetrate con moventi religiosi. Questo comportamento inusuale contraddice i valori umanitari del popolo iracheno e quelli morali della religione islamica. È necessario capire che un Iraq senza cristiani sarà disastroso per tutti gli iracheni!...Costringere i cristiani alla fuga porta al deterioramento del concetto di coesistenza e alla distruzione culturale, civile e religiosa di un mosaico di etnie e religioni di cui l’Iraq è considerato la culla”.
Nell’appello firmato, mons. Sako chiede a tutte le autorità religiose e politiche e a tutti i cittadini iracheni di rimanere uniti, perché “non esiste salvezza senza la nostra unità e il nostro venirci incontro. Lasciate che gli elementi esterni in Iraq vadano via o restino in modo che il pericolo della morte e il rischio di una divisione scompaiano per lasciare posto al ritorno della vita”.

Bishops appeal: Save Iraq’s Christians!

AsiaNews reports on an appeal made by msgr. Sako, on behalf of the Christian communities, on the unsustainable situation of Christians in the country: “We cannot remain silent any longer, people must be made aware that an Iraq without Christians is of no benefit to the nation, we need unity between people, otherwise there will be no escape”. Attacks in Niniveh plain underline that nowhere is safe.

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In Iraq Christians are dying, the Church is disappearing under continued persecution, threats and violence carried out by extremists who are leaving us no choice: conversion or exile”. This is the urgent appeal sent to AsiaNews by msgr. Louis Sako, Chaldean Archbishop of Kirkuk, while reports arrive of car bombs and the death of Christians in the Kurdish area, until now untouched by the confessional violence.
The bishop who is president of Iraq’s Council of Catholic Churches’ Committee for inter religious dialogue , signed a declaration regarding the “tragic situation of Baghdadis Christians”, denouncing militant groups which under the threat of armed violence ask Christians to convert immediately to Islam or to consign their property and leave the country. The same thing happens in Mosul, but with a different “choice”: pay a monetary tribute to the Jihad if they want to avoid their death.

The Iraqi Christian community, at home and abroad, has long urged the local Church to take a stand against the forced evacuation, rape, kidnap, paying a ransom, blackmail, scarring and killing they suffer and the complete lack of protection from the local government and coalition forces. And in the last two days, as the controversial plan to install a secure zone for Christians in the Niniveh plain begins to take shape, the terrorists have begun targeting the zoned area. “It’s almost a political gesture – observes msgr Sako – as if to say: “we can hit anywhere, nowhere is safe”.

The confessional based attacks are no longer just restricted to Baghdad and Mosul, but now target small centres in the North. Yesterday a group of fundamentalists executed 23 yazidi on the road linking Mosul to Ba’ashika, a majority Christian village: they stopped a bus and after having made Arabs and Christians alight they killed the faithful of this ancient religion, based on the strong Good-Evil dualism. Today a car bomb close to a school in Tell-el-skop, a Christian village, and 9 people died including 2 children; 60 were wounded. A convent of Dominican nuns, which is nearby, was badly damaged in the blast.
“We can no longer be silent –explains Msgr. Sako by phone to AsiaNews – we have to remind the world of the importance of the Christian presence in Iraq, for the good of Iraq”. “Christians are one of the oldest constituents of the Iraqi people –he explains in his statement– Since the beginning they have incorporated with its other constituents like the Arabs, Kurds, Turkmen, Sabea, and Yazedis; playing a pioneering role in the building of the civilization of Iraq. In addition they defended their adherence to the soil and integrity of Iraq courageously and together with their Moslems brothers. Everybody witnesses their loyalty, honesty, wisdom and their desire to live in peace and brotherhood with others. Christians have long lived with Moslems whether Sunnis or Shias in mutual respect and shared the good and the bad days together with them. They have been part of the Islamic culture for the last 14 centuries, by large without problems. Today they want to continue this existence in the spirit of love and under the charter of human rights”.
However in the current situation Christians are targeted as chief conspirators to be exploited or eliminated. They cannot openly profess their faith, the veil is imposed on the women and the crosses are taken down from their churches, threats of kidnappings and extortion weigh heavily over all of them. Msgr Sako lists the violence to which they are submitted on a daily basis: “now a days Christians are suffering in certain areas and cities in Iraq from forced evacuation, rape, kidnap, blackmail, scarring and killing. This unfamiliar behaviour contradicts the Iraqi humanitarian and Islamic morals. Let everybody realize that emptying Iraq of Christians will be disastrous not only for the Christians but for all Iraqis!... Forcing Christians to leave their homes indicates deterioration in the concept of conviviality and furthermore it destroys the cultural, civil and religious mosaic of which Iraq is considered to be the very cradle”.
The appeal signed by Msgr. Sako urges all of the political, religious and cultural communities of Iraq to remain united, because “there is no salvation without our unity. Let the outsider whoever is he, leave and stay away so that the danger of death and the risk of division disappear and vanish and thus permitting life to return to what it once was; a river which flowed in harmony, a river of brotherhood and close unity”.

20 aprile 2007

Bambini a Baghdad: una tragedia dei nostri giorni. Intervista ad un medico iracheno.


di Luigia Storti

Il 20 aprile dello scorso anno più di 200 iracheni, su quattro autobus, partirono alla volta di Amman, in Giordania. Non era un’allegra comitiva, anche se la speranza animava tutti. 110 di loro erano bambini e ragazzi affetti da gravi malformazioni al volto che, accompagnati da un genitore e da personale medico e paramedico iracheno, stavano per ritrovare la speranza di una vita normale grazie all’organizzazione internazionale Operation Smile che dal 1982 ha ridato il sorriso a più di 100.000 bambini nel mondo, e che dal 2003 ha prestato cure mediche a 292 bambini provenienti dall’Iraq intervenendo chirurgicamente su 250 di loro.
Lasciata Baghdad il convoglio di autobus si diresse ad ovest e presto si ritrovò a viaggiare sull’autostrada che taglia in due il deserto siriaco nella sua parte irachena.
I cellulari avevano smesso di funzionare appena lasciato il territorio della capitale, e fino all’arrivo al confine giordano non sarebbe più stato possibile comunicare con qualcuno, neanche per riferire di un eventuale pericolo, che puntualmente si materializzò nei pressi della cittadina di Ramadi, ormai conosciuta come una delle “roccaforti sunnite” della guerra intestina e contro l’occupazione che sta divorando l’Iraq. Un fuoristrada pieno di uomini armati sbarrò la strada al convoglio. Uno dei suoi occupanti ne discese e fece segno all’autista del primo autobus di aprire la portiera e farlo salire. Una volta a bordo l’uomo chiese agli ormai terrorizzati passeggeri di mostrare i documenti di identità, ma mentre essi si apprestavano a farlo un altro uomo, con il viso coperto ed armato dell’immancabile AK47, salì sull’autobus e ordinò al primo di far scendere tutti gli sciiti per poterli uccidere. Immediatamente l’autobus si riempì di urla e pianti. Riflettendo la composizione demografica del paese la maggior parte dei passeggeri erano infatti sciiti, e ben sapevano di star andando incontro a morte certa.

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A volte però, sebbene raramente, la fortuna volge lo sguardo anche verso gli iracheni, ed in quel caso essa si presentò loro sotto forma di una colonna di mezzi americani che sopraggiungendo da est costrinse gli assalitori alla fuga. Neanche con la più fervida immaginazione potremmo capire appieno la sensazione di sollievo che quelle persone provarono prima di riprendere il viaggio ormai salvi. Una sensazione che fu rivissuta ore dopo quando, in attesa di poter entrare in Giordania, al posto di confine di Karameh, quelle persone ascoltarono la storia che un autista stava narrando: non protette dal provvidenziale quanto inconsapevole aiuto che i mezzi americani avevano fornito al convoglio di autobus, quindici persone erano state uccise a sangue freddo dallo stesso gruppo tornato a pattugliare la strada per “ripulire” la zona dagli sciiti.
Questo è ormai diventato l’Iraq: un paese dove guerra e violenza hanno cancellato in molti ogni residuo di sentimento umano, sacrificato sull’altare di un Dio che è “mio” e non “tuo,” e dove anche i più innocenti ed indifesi possono morire per il nome che portano e che, di volta in volta, li qualifica come amici o nemici.
Nonostante quella brutta avventura, comunque, i quattro autobus arrivarono ad Amman ed in una settimana, su cinque tavoli operatori, e con 40 tra medici e paramedici volontari di Operation Smile che si alternavano in turni massacranti dalle 8.00 del mattino alle 22.00 di ogni sera, per 98 dei 110 bambini la vita ritornò a sorridere proprio attraverso i loro stessi visi ormai liberi da malformazioni.
Da quel 20 di aprile molti altri bimbi iracheni hanno ricevuto le stesse cure. Una cosa sola è cambiata: il loro trasporto all’estero avviene ormai tramite aerei militari americani per ovvie ragioni di sicurezza!
Chi ci ha raccontato questo episodio lo ha fatto con gli occhi lucidi dall’emozione e dalla felicità: lui era in quel primo autobus in qualità di medico, ed in quanto tale ha seguito quei bambini in quell’occasione ed ancora nel successivo mese di settembre, li ha visti guarire e tornare nel proprio paese con una nuova speranza.
Alla fine di ottobre del 2006 quel medico, che chiameremo con le sole iniziali J.T. per ragioni di sicurezza, era di nuovo a Baghdad con il compito di preparare il viaggio di altri bambini bisognosi di interventi di chirurgia plastica per malformazioni ed esiti di ustioni, questa volta per Roma.
Grazie ad un accordo tra la Direzione Generale per i Paesi del Mediterraneo e Medio Oriente/Task Force Iraq del Ministero degli Affari Esteri e la Fondazione Operation Smile Italia Onlus, infatti, i piccoli pazienti provenienti dalle province di Bassora e Dhi Qar (il cui capoluogo è Nassiriya) erano attesi in Italia agli inizi di novembre. L’attività di controllo dei documenti e di triage dei pazienti in collaborazione con i medici romani, organizzata in una località conosciuta solo a pochi, era frenetica, ed il Dottor J.T. lavorava a pieno ritmo quando ricevette la telefonata che tutti gli iracheni temono e che sempre si traduce o con la morte del minacciato o con la sua fuga: “tu lavori con gli americani, stai attento, ti uccideremo.”
Fu così che dopo avere accompagnato e seguito, come già programmato, i primi 31 bambini ricoverati ed operati presso le strutture sanitarie Ospedale San Pietro-Fatebenefratelli e Villa Flaminia di Roma, il Dottor J.T. ha chiesto ed ottenuto lo status di rifugiato politico in Italia, dove ora vive in attesa di sostenere gli esami per il riconoscimento della laurea in medicina conseguita a Baghdad, e magari di poter frequentare i corsi di specializzazione in chirurgia plastica per i quali l’esperienza certo non gli manca.
In questi giorni a Torino il Dottor J.T. ci ha parlato della sua vita, della situazione sanitaria in Iraq e dei suoi desideri. Cominciamo proprio da questi ultimi e cerchiamo di capire cosa hanno a che fare con la nostra città.
Dopo Roma, Torino. Cosa l’ha portata qui Dottor J.T.?
Per due anni, dal giugno del 2003 al giugno del 2005, ho lavorato con i medici italiani dell’Ospedale della Croce Rossa a Baghdad, e per quasi due mesi con l’equipe di medici e paramedici proveniente da Torino con i quali ho stabilito un buon rapporto. All’epoca, dopo essermi laureato in medicina a Baghdad, avevo frequentato due anni di specializzazione in chirurgia plastica, e lavorare con i medici italiani mi ha dato la possibilità di imparare molto, anche delle tecniche e dei materiali che fino ad allora in Iraq non avevamo potuto utilizzare a causa dell’embargo che aveva trasformato il nostro sistema sanitario, una volta il migliore del Medio oriente, in uno dei peggiori del mondo.
Per questa ragione sono venuto a Torino. Il mio desiderio è continuare a studiare e specializzarmi nel mio campo, e qui ho trovato un ambiente aperto e pronto a capire i problemi di un medico che è stato costretto a lasciare il suo paese ma che non vuole smettere di essere utile al prossimo, specialmente ai bambini con cui ho lavorato così tanto negli ultimi anni.
Che possibilità ci sono per lei di inserirsi a Torino?
E’ presto per dirlo. Ci sono degli esami da sostenere ed un iter burocratico da rispettare, ma ho avuto occasione di esporre il mio caso ad alcuni colleghi ed anche al Professor Giovanni Pacchiotti, Direttore dell’Istituto di Chirurgia Plastica dell’Ospedale San Vito, cui ho anche confessato un mio sogno: che qualche bambino iracheno che necessiti di un intervento di chirurgia plastica possa essere operato a Torino.
Lavorando per Operation Smile, lei si è occupato principalmente di chirurgia plastica per gravi malformazioni. Ci può parlare di questi piccoli bisognosi di cure?
L’opera svolta da Operation Smile riguarda quasi esclusivamente bambini affetti da palatoschisi e labbro leporino, malformazioni che nella maggior parte dei casi non mettono a repentaglio la vita dei pazienti ma hanno gravissime conseguenze, specialmente in campo psicologico. Un bambino non operato soffrirà la pietà o addirittura l’esclusione da parte della società, avrà difficoltà a nutrirsi ed anche a parlare, e per questa ragione è importante intervenire entro i primi due anni di vita.
L’incidenza di casi come quelli da lei illustrati è alta in Iraq?
In Iraq, a causa di ciò che sta accadendo, è difficile compilare delle statistiche. Per esperienza e per i contatti con gli altri medici che si occupano di questi casi posso parlare di almeno 3000 bambini affetti da queste patologie. Un’incidenza senza dubbio più alta che nei paesi europei dove tali malformazioni congenite vengono subito curate.
Che possibilità ci sono per questi bambini di essere operati in Iraq?
Pochissime, purtroppo, e per molte ragioni diverse legate alla situazione in cui versa il paese. Per prima cosa gli specialisti sono sempre di meno. Prima della guerra del 2003 i chirurghi plastici specializzati in questo tipo di chirurgia erano 45, tutti laureati all’Università di Baghdad che era anche l’unica dove era possibile specializzarsi nel campo. Ora sono tra 20 e 25, di cui 10 nella capitale. Le minacce cui i medici sono - siamo - stati sottoposti in questi anni solo per il fatto di voler continuare ad esercitare la nostra professione senza distinguere tra pazienti e colleghi di diversa appartenenza etnica o confessionale, e perchè la nostra stessa presenza è malvista da chi vuole spogliare il paese dei suoi cervelli, ci ha costretto alla fuga. Dal 2003, infatti, l’Iraq ha perso circa 15.000 medici, un numero enorme specialmente se consideriamo che proprio la situazione di violenza in cui una buona parte del paese vive renderebbe più che mai necessaria la nostra presenza.
Il numero ridotto di specialisti vuol dire minori possibilità per i pazienti di ricevere le cure adeguate. In alcune province del paese, ad esempio, come quelle di Dhi Qar, Diyala e Maysan, non ci sono chirurghi in grado di eseguire questi interventi che non vengono neanche considerati prioritari.
In questi casi i genitori di un bimbo che necessita di intervento devono recarsi a Baghdad?
Si, per loro è l’unica possibilità ma, anche se arrivati a Baghdad o anche se “di” Baghdad, l’intervento non è mai certo.
Poniamo che si tratti di un ricovero in un ospedale pubblico. In alcuni di essi - Al-Kindi, Wasyt e Medical City - è teoricamente possibile intervenire su questi pazienti, e gratuitamente, ma è davvero difficile. Per prima cosa questi ospedali sono costretti a dare la priorità agli interventi di urgenza che purtroppo a Baghdad sono nell’ordine delle decine se non centinaia al giorno. A volte poi mancano i farmaci, specialmente gli anestetici ed i salvavita. In quel caso si cercano negli ospedali vicini sperando che ne abbiano in eccedenza, o si manda una macchina a prendere le scorte presso il Ministero della Salute che però molte volte è impossibile da raggiungere a causa delle strade bloccate, con o senza preavviso, dei checkpoints, delle bombe che esplodono e che paralizzano il traffico, del coprifuoco. Tutte situazioni che molte volte impediscono allo stesso personale degli ospedali di arrivare al lavoro. E’ ovvio, anche se crudele quindi, che questo tipo di chirurgia venga molte volte posposto o addirittura annullato rendendo vani i ricoveri dei bambini. Migliore, anche se non di molto, è la situazione nelle poche cliniche private ancora funzionanti che magari sono meglio equipaggiate ma che sono ben lontane, malgrado gli elevati costi – anche 2.000 $ per un intervento di palatoschisi – dal poter porre rimedio ad una simile tragedia.
E per la chirurgia necessaria nei casi di ustioni?
La situazione se si vuole è ancora peggiore. In questo campo la chiusura dell’Ospedale della Croce Rossa Italiana ha rappresentato un netto peggioramento della situazione. Se si potesse fare una media direi che in ogni attentato con autobomba per ogni vittima c’è un paziente ustionato che non può ricevere cure adeguate malgrado si tratti molte volte di interventi salvavita. Alcuni ospedali hanno dei piccoli reparti ma non sono adeguati perchè necessiterebbero di camere di isolamento, di impianti e procedure di sterilizzazione, di efficaci sistemi di ricambio dell’aria, di attrezzature e presidi sanitari specifici. Tutte cose impossibili da ottenere oggi in Iraq.
Il quadro che ci ha descritto è senza dubbio peggiore di ciò che apprendiamo quasi quotidianamente dai mezzi di informazione, specialmente per quanto riguarda i bambini che vengono sempre genericamente conteggiati tra le “vittime.” Che speranze ci sono che questa tragedia possa finire?
Sinceramente non lo so.
E lei, Dottore, che speranze ha?
Per adesso rimanere qui a studiare per diventare un medico migliore, provare ad essere di aiuto almeno a qualcuno di quei bambini, e poi, se un giorno potrò, ritornare nel mio paese che avrà bisogno di tutte le energie necessarie per ricostruire il proprio presente ed il proprio futuro che, come ovunque nel mondo, è nei nostri bambini.

18 aprile 2007

La Chiesa Caldea tratta con gli americani per la restituzione del Babel College trasformato in base militare

Fonte: SIR

Dopo le notizie dell’imposizione ai cristiani di Baghdad e Mosul da parte di milizie islamiche del pagamento di una “tassa” come contributo al jihad e della pulizia religiosa nel distretto di Dora è di ieri la testimonianza di fonti, anonime per ragioni di sicurezza, che parlano di elementi di Al-Qaeda trasferitisi a Dora dalla regione occidentale di Anbar. Secondo un osservatore di Baghdad, riportato dall’agenzia Aina, la zona non è presidiata né dall’esercito Usa né da quello iracheno ed appare completamente abbandonata. Nel quartiere di Hay al-Mechaneek agli abitanti sarebbe stato ordinato di rimuovere le parabole satellitari perché proibite dall’Islam, “haram”, mentre nei quartieri di Hay al-Mu’allimin e di al-Athorieen, - dove vivono prevalentemente i cristiani – questi sarebbero spinti a convertirsi, ad abbandonare le case ed a pagare la tassa per il jihad.
“Sembrerebbe così – dichiara al Sir il vescovo ausiliare di Baghdad, mons. Shlemon Wardunifamiglie di questi quartieri parlano di vessazioni continue. Si tratterebbe di integralisti islamici. L’Islam rispetta il Cristianesimo, i suoi fedeli, i suoi preti e religiosi. Chi compie questi gesti violenti mostra di non sapere. Ci stiamo attivando per stemperare il clima di astio verso la minoranza cristiana. Da duemila anni beviamo la stessa acqua del Tigri e dell’Eufrate e mangiamo i frutti della stessa terra con i nostri fratelli musulmani. Perché tutto questo ora? Nonostante tutto siamo per il bene dell’Iraq e degli iracheni”. Un’altra testimonianza di un abitante di Dora, rilanciata anche dal blog Baghdadhope, conferma che il distretto di Dora è stato abbandonato dalle forze di sicurezza, e rivela che le forze americane hanno preso possesso del Babel College, l’unica facoltà teologica cristiana in Iraq, trasferita a gennaio nel nord per ragioni di sicurezza, e trasformata in una propria base “contribuendo così ad aumentare l’astio verso la popolazione cristiana considerata ancora una volta alleata delle forze di occupazione”. In merito a questa notizia mons. Warduni si limita a confermare. “Stiamo cercando di risolvere questo problema e abbiamo trattative in corso. Certamente la cosa non facilita la vita dei cristiani nel distretto e non solo”.

17 aprile 2007

Ancora brutte notizie da Dora, Baghdad


Fonte: AINA

Alla metà di marzo è apparsa la notizia secondo la quale alcune milizie islamiche imponevano ai cristiani di Baghdad e Mosul il pagamento di una “tassa” come contributo al jihad. Alcuni giorni fa notizie ancora più inquietanti sono arrivate dal distretto di Dora a Baghdad dove, riportavano le fonti, era in atto una vera e propria “pulizia religiosa” nei confronti dei cristiani che ancora vivono lì. Le notizie di oggi sono addirittura peggiori e provengono da fonti che per ragioni di sicurezza devono mantenere l’anonimato.
La prima è la testimonianza di un osservatore a Baghdad che riferisce di elementi di Al-Qaeda trasferitisi a Dora dalla regione occidentale di Anbar. Secondo questa fonte la zona non è presidiata né dall’esercito americano né da quello iracheno ed appare completamente abbandonata a se stessa. Nel quartiere di Hay al-Mechaneek agli abitanti sarebbe stato ordinato di rimuovere le parabole satellitari perché proibite dall’Islam: “haram” mentre nei quartieri di Hay al-Mu’allimin e di al-Athorieen, - dove vivono prevalentemente i cristiani – questi sarebbero spinti a convertirsi, ad abbandonare le proprie case ed a pagare la tassa per il jihad.
La seconda testimonianza è una e-mail di un abitante di Dora che non solo conferma come il distretto sia stato abbandonato dalle forze di sicurezza, quanto riporta che le forze americane abbiano preso possesso della struttura del Babel College, l’unica facoltà teologica cristiana in Iraq trasferita agli inizi di gennaio nel nord Iraq per ragioni di sicurezza, e l’abbiano trasformata in una propria base contribuendo così ad aumentare l’astio verso la popolazione cristiana autoctona considerata ancora una volta alleata delle forze di occupazione.

L’informazione relativa al Babel College, è stata confermata anche dal sito Ankawa.com e da fonti dal nord dell’Iraq.

La Caritas esorta all’azione politica nella crisi irachena

Fonte: ZENIT Codice: ZI07041705

CITTA’ DEL VATICANO/GINEVRA, martedì, 17 aprile 2007
La crisi dei rifugiati iracheni dopo il conflitto – stimati intorno ai due milioni – potrebbe destabilizzare la regione, sostiene la Caritas Internationalis. Il Presidente – Denis Viénot – e i rappresentanti di CI parteciperanno a una conferenza convocata dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) a Ginevra martedì e mercoledì, che sottolineerà la piaga dei rifugiati iracheni nei Paesi confinanti e nello stesso Iraq. L’incontro esorterà all’azione per risolvere la tragedia umanitaria irachena.
Il responsabile di Caritas Internationalis per il Medio Oriente e il Nordafrica Sebastien Dechamps sarà presente all’incontro. “Ci sono 2 milioni di rifugiati iracheni solo nella regione del Medio Oriente – ha affermato –. Siria, Giordania, Turchia, Libano e ora l’Egitto non possono sostenere per un periodo indefinito un tale fardello sociale ed economico”. “La comunità internazionale deve prendersi la responsabilità di aiutare questi Iracheni, che fuggono dalla guerra, dalla violenza e dalla disperazione. I nostri colleghi iracheni della Caritas non potranno partecipare a questo incontro, ma mi dicono ogni giorno che la loro vita è diventata un incubo”, ha aggiunto.

Clicca su "leggi tutto" per l'articolo di Zenit
Caritas Siria, Caritas Giordania, Caritas Libano e Caritas Turchia stanno assistendo migliaia di rifugiati, ma la situazione è insostenibile, perché a pochi Iracheni viene dato lo status legale nei Paesi ospiti e alla maggior parte è proibito di lavorare. I bambini devono fare spesso lavori particolari, dietro la minaccia di essere scoperti e deportati, per sostenere le famiglie. Non possono andare a scuola per motivi sia finanziari che legali, o per paura che le loro famiglie vengano rimandate in Iraq. “Ai rifugiati iracheni devono essere dati i mezzi per sostenersi, per poter lavorare e avere speranza per il loro futuro”, ha detto Najla Chahda, Direttore del Centro Migranti Caritas a Beirut, che ha accolto alcuni rifugiati.
Caritas Iraq, nel frattempo, aiuta quanti sono rimasti intrappolati nella guerra irachena. Stima che ci siano circa 1,7 milioni di persone sradicate dalla loro casa in Iraq, che cercano alloggio dove possono per sfuggire alle stragi e alla violenza. Caritas Iraq aiuta i più bisognosi, gli handicappati, gli anziani, gli indigenti, gli orfani, le ragazze madri e le minoranze. Il Well Baby Program, iniziato durante la Guerra del Golfo nel 1991, aiuta attualmente più di 40.000 bambini sotto i cinque anni, le mamme in attesa e le neomamme, occupandosi dei loro bisogni nutrizionali specifici. I tassi di malnutrizione tra i bambini sono peggiori di quando l’Iraq viveva sotto embargo. Caritas Internationalis è una confederazione di 162 organizzazioni cattoliche di assistenza, sviluppo e servizio sociale presente in più di 200 Paesi e territori.

IRAQ: RIFUGIATI, CONFERENZA SULL’EMERGENZA IRACHENA. 4 MILIONI TRA RIFUGIATI E SFOLLATI

Fonte: SIR

Si è aperta oggi a Ginevra la conferenza internazionale sulle conseguenze umanitarie della crisi irachena promossa dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr).
La conferenza, i cui lavori termineranno domani, ha visto in apertura il discorso dell'Alto Commissario Antònio Guterres e gli interventi del sottosegretario generale per gli affari umanitari e coordinatore per l'assistenza d'emergenza John Holmes, del Rappresentante speciale del Segretario generale dell'Onu per l'Iraq Ashraf Qazi e del Direttore generale del Comitato internazionale della Croce Rossa Angelo Gnaedinger. Il protrarsi della violenza in Iraq sta costringendo migliaia di persone a fuggire. Di conseguenza, afferma l’Unhcr, la comunità internazionale deve fronteggiare una crisi umanitaria più ampia e complessa di quella prevista all’inizio della guerra nel 2003. Attualmente sono oltre 4 milioni gli iracheni che hanno abbandonato le proprie abitazioni, dei quali circa 1,9 milioni si trovano all’interno del paese, mentre oltre 2 milioni hanno cercato rifugio nei limitrofi Paesi mediorientali e circa 200mila in altri Paesi di tutto il mondo. Nel 2006, gli iracheni hanno costituito ancora una volta il più numeroso gruppo di richiedenti asilo nei Paesi più industrializzati del mondo, ma il 95% delle persone fuggite si trova ancora all’interno della regione.

IRAQ: REFUGEES, CONFERENCE ABOUT THE IRAQI EMERGENCY. 4 MILLION REFUGEES AND EVACUEES

Source: SIR

The international conference on the humanitarian consequences of the Iraqi crisis, promoted by the High Commission of the United Nations for the Refugees (Unhcr), opened in Geneva today.
The conference, which is going to end tomorrow, was opened by a speech by the High Commissioner Antònio Guterres, followed by speeches by the undersecretary general for humanitarian affairs and coordinator for emergency aids John Holmes, the special representative of the Secretary General of the UN for Iraq Ashraf Qazi and the Managing Director of the International Red Cross Committee Angelo Gnaedinger. The continuation of violence in Iraq is forcing thousands of people out of the country. As a consequence, states the Unhcr, the international community has to face a wider and more complicated humanitarian crisis than the one that had been expected at the start of the war, in 2003. Currently over 4 million Iraqis have left their homes, about 1.9 million of whom are in the country, while over 2 million have sought refuge in the neighbouring Middle-Eastern countries and approximately 200 thousand in other countries across the world. In 2006, Iraqis were once again the single largest group of asylum seekers in the most industrialised countries in the world, but 95% of the refugees are still in the region.

15 aprile 2007

Despairing and disregarded - the daily quest to get out of Baghdad

Source: The Guardian

Hundred of thousands of Iraqis have packed and set off to try to join the diaspora in Jordan, Syria, and beyond

Ghaith Abdul-Ahad in Baghdad
Wednesday March 21, 2007

In the cold and filthy yard of Baghdad's Resafa passport office, hundreds of people cram in every day to attempt a Kafka-esque journey through post-Saddam bureaucracy that must be negotiated in order to leave the country.

An elderly Christian man, who had spent several hours waiting with his three daughters, had finally come face to face with an official, who studiously ignored him. "Can you write in the profession section that I was an English teacher?" he asked anxiously.

"There is no profession section in the new passport," replied the officer, without moving his eyes from the forms. "But if I apply for a visa to Australia how would they know that I am a teacher?" asked the man. "There are no professions," replied the officer.

"Don't worry haji," volunteered a young man in the queue by way of consolation, "no one is giving Iraqis visas."


Click
here for the article by The Guardian


Clicca qui per la traduzione italiana per Osservatorio Iraq di Simona Schimmenti del gruppo Traduttori per la Pace

Sempre più in pericolo i cristiani di Dora, Baghdad

Sono inquietanti le notizie che arrivano dal distretto di Dora, a Baghdad. Secondo fonti cristiane irachene in patria ed all’estero, Ankawa.com ed AINA, nel quartiere di Al- Mu’allimin è da ieri in atto una vera e propria pulizia etnica nei confronti delle famiglie cristiane che ancora vi abitano.

Un gruppo armato di cui non viene citato il nome o l’affiliazione avrebbe dato un ultimatum ai cristiani: convertirsi all’Islam o essere uccisi. Il gruppo avrebbe anche emesso una fatwa che obbligherebbe le donne cristiane ad indossare il velo, che vieterebbe di portare la croce al collo o di compiere gesti rituali legati alla religione cristiana, e che permetterebbe la confisca dei beni che le famiglie cristiane sarebbero costrette a lasciare nella fuga precipitosa verso la salvezza. Secondo AINA lo stesso gruppo avrebbe in passato rimosso la croce dalle chiese di St. John e St. George, sempre nel distretto di Dora.

Le notizie provenienti da Dora aggiungono preoccupazione sulla sorte della comunità cristiana irachena i cui simboli, dopo l'ondata di rapimenti che nel 2006 ha avuto come vittime ben sei sacerdoti, continuano ad essere colpiti. E' del due aprile scorso la notizia del rapimento lampo di un sacerdote caldeo di Baghdad, Padre Gabriel Shmami, rilasciato lo stesso giorno del sequestro, e recente è l'episodio, riferito da alcune fonti dal nord dell'Iraq, che ha visto coinvolto un prelato di Mosul che, alla minaccia di un rapimento ha reagito rifiutando di salire nell'auto dei sequestratori, prendendo così tempo e costringendo i criminali alla fuga perchè disturbati dall'arrivo di qualcuno.

Per la situazione nel distretto di Dora leggi:

Con acqua ed aceto Settimana Santa e Pasqua in un paese martoriato

Dora, il paradiso perduto dei cristiani di Baghdad

Intervista a Monsignor Jacques Isaac, Rettore del Babel College, Ankawa, Iraq

Istituzioni cristiane trasferite da Baghdad nel nord dell'Iraq: Babel College e Seminario Maggiore Caldeo di Saint Peter

Baghdad Jadida: la nuova Dora dei cristiani di Baghdad

6 aprile 2007

Scomparso Monsignor Stephane Babaqa, Arcivescovo Emerito Caldeo di Erbil

Fonte: Ankawa.com
E' scomparso oggi Monsignor Stephane Babaqa, Arcivescovo Emerito Caldeo di Erbil.
Nato nel 1919 a Karamles era stato ordinato sacerdote nel 1941 e Vescovo di Erbil nel 1969. Nel 1994 aveva rinunciato alla sua carica ed aveva assunto il titolo di Arcivescovo Emerito.
Attualmente, dopo la scomparsa nel 2005 del vescovo titolare della Diocesi di Erbil, Monsignor Yacoub Denha Scher, la stessa è amministrata da Monsignor Rabban Al Qas, Vescovo di Amadhiya.
I funerali di Monsignor Babaqa si svolgeranno domani, 7 aprile, nella chiesa caldea di Saint Joseph ad Ankawa.

La testimonianza di alcuni giovani cristiani di Erbil





In occasione della preghiera del Papa per la prossima Giornata Mondiale della Gioventù e della seguente Settimana Santa, i giovani della chiesa caldea del Sacro Cuore di Erbil si sono riuniti in ritiro spirituale in un santuario dedicato alla Vergine Maria nella stessa città.
Un gruppo di 80 giovani si è riunito nel Santuario della Vergine Maria di Erbil giovedì 29 e venerdì 30 marzo per una veglia di preghiera ed un ritiro spirituale, per ascoltare la parola di Dio e partecipare all’Adorazione Eucaristica.


Leggi la loro testimonianza
Il ritiro di preghiera, organizzato da Padre Rayan P. Atto parroco della chiesa caldea del Sacro Cuore di Erbil, ci ha permesso di essere in comunione con i nostri fratelli e le nostre sorelle riuniti a Roma per partecipare ad una cerimonia penitenziale durante la quale, per la prima volta dall’inizio del suo pontificato, Papa Benedetto XVI, ha confessato alcuni giovani.
Il nostro incontro è iniziato giovedì sera quando ci siamo riuniti nel cortile del Santuario della Vergine Maria ed abbiamo assistito, con l’ausilio di un grande schermo, alla trasmissione in diretta della preghiera di Papa Benedetto XVI. Quella è stata la prima occasione per noi di vivere una tale straordinaria esperienza e siamo fortunati di averlo potuto fare. Dopo l’incontro abbiamo preparato la cena che abbiamo condiviso.
Dopo la cena abbiamo preparato la chiesa per la Messa e per la Consacrazione Eucaristica. E stato come se Gesù stesso avesse piantato la Sua tenda tra noi, ed è con Lui che abbiamo trascorso la notte fino all’alba. Al mattino presto abbiamo continuato il nostro programma con il digiuno e con il lavoro di preparazione del santuario e dei suoi giardini. Eravamo stanchi, ma pensare alla Passione di Cristo ci ha aiutato a sopportare e superare la fatica e finire il nostro lavoro.
Ma non si è trattato di solo lavoro: le nostre anime sono state nutrite dalle parole di Padre Fadi Lion e di Padre Zeid Hababah che hanno aiutato Padre Rayan P. Atto a confessarci ed a mostrarci la via del pentimento.
A mezzogiorno di venerdì 30 ci siamo riuniti per partecipare alla Santa Messa e ringraziare Dio per il ritiro spirituale e la preziosa opportunità che avevamo appena vissuto insieme.
Durante la Santa Messa abbiamo pregato per la pace e l’amore nel mondo, e specialmente nel nostro amato paese, l’Iraq, ed abbiamo ringraziato Dio per tutti coloro che hanno contribuito al successo del ritiro spirituale, e tutti coloro che, contribuendo finanziariamente e moralmente, hanno completato la nostra felicità.
Il ritiro spirituale ci ha anche permesso di incontrare altri giovani che ora vivono ad Erbil ma che provengono da tutto l’Iraq, e di scambiare con loro le nostre esperienze. Abbiamo anche avuto l’opportunità di dividere la nostra esperienza con alcune religiose di diversi ordini: Sr. Najeebeh e Sr. Raeda, (Piccole Sorelle di Gesù) Sr. Refqa, Sr. Marina e Sr. Rosemary (Suore Caldee) e Sr. May (Suore del Sacro Cuore) che ci hanno aiutato ad organizzare il ritiro spirituale ed hanno pregato e lavorato con noi.
Guardando il Papa e tutti i giovani riuniti attorno a lui a Roma avremmo voluto essere lì tra loro, e lo eravamo, anche se con i cuori e con le anime, ma la nostra grande speranza è di partecipare alla prossima Giornata Mondiale della Gioventù che si terrà a Sydney, Australia, nel 2008.
Sarebbe meraviglioso condividere quei grandi momenti con il nostro Papa ed i fratelli e le sorelle di tutto il momdo riunti nello stesso posto allo stesso scopo: ascoltare la Parola di Dio ed adorarLo!


Sacred Heart Church Youth Center/Erbil

Tradotto da Baghdadhope

The testimony of some young christian people of Erbil
















On the occasion of the papal prayer for the next World Youth Day, and of the following Holy Week, the youth of Sacred Heart Chaldean Church of Erbil gathered for a spiritual retreat in a sanctuary dedicated to the Virgin Mary in the same city.
A group of 80 young people gathered on Thursday and Friday 29th-30th of March in the Sanctuary of Virgin Mary in Erbil for a prayer vigil and a spiritual retreat, to hear God’s word and to partecipate to the Eucharistic adoration.

Read their testimony:
The prayer retreat, organized by Fr. Rayan P. Atto, parish priest of the Sacred Heart Chaldean Church, let us be in communion with our brothers and sisters who gathered in Rome to partecipate in a penitential ceremony during which, for the first time since he became Pope, Benedict XVI, heard some young people confession.
Our gathering started on Thurday evening when we met in the Virgin Mary Sanctuary courtyard and sat in front of a big screen showing a live broadcasting of Pope Benedict XVI prayers. It was the first time for us to live such a remarkable experience and we consider ourselves very lucky for the chance we had. After the meeting we prepared and shared the dinner together.
After the dinner we prepared the place for a special Mass and for the Eucharistic consecration. It was as Jesus himself had pitched his tent among ours, and we spent all the night with Him until dawn. Early in the morning we continued our scheduled programme by fasting and cleaning and preparing the sanctuary and its gardens. We were tired, but our thinking of Christ’s passion helped us to withstand and overcome the fatigue and finish our work.
But it was not only work: our souls were nourished by the words of Fr. Fadi Lion and Fr. Zeid Hababah, who helped Fr. Rayan P.Atto in hearing our confessions and showing us the way to repentance.
By midday of Friday, 30, we gathered to partecipate to the Holy Mass and to thank God for the spiritual retreat and the precious opportunity we had just lived together.
During the Mass we prayed for peace and love in the world, and especially in our beloved country Iraq, and we thanked again God for everyone who contributed to the success of the spirituale retreat, and everyone who helped financially and morally to complete our happiness.
The spiritual retreat benefited us also because we could meet other young people coming from all Iraq and currently living in Erbil, and exchange our experiences with them. We had also the chance to share our experience with some nuns from different orders: Sr. Najeebeh and Sr. Raeda, (Little Sisters of Jesus) Sr. Refqa, Sr. Marina and Sr. Rosemary (Chaldean Nuns) and Sr. May (Sacred Heart Nuns) who helped us in the organization of the spiritual retreat and who prayed and worked with us.
While watching the Pope and all the young people gathered around him in Rome we wished to be among them, and we were, even if by our hearts and souls, but our great hope is to partecipate to the next World Youth Day in Sydney, Australia, in 2008. It would be wonderful to share those great moments with our Pope and all our brothers and sisters coming from all over the world and gathered together in the same place and with the same aim: listening to God’s word and worshipping Him!


Sacred Heart Church Youth Center/Erbil


4 aprile 2007

Mosul: bombe e proiettili vicino alle chiese, ma i fedeli non rinunciano alla Settimana Santa

Fonte: Asia News
Attentati e minacce alla parrocchia caldea del Santo Spirito, più volte nel mirino. I fedeli: “Offriamo la nostra sofferenza come segno di amore a Gesù”. I riti della Settimana Santa in un seminterrato per sfuggire alle esplosioni. Gli auguri al papa, "che tiene il popolo iracheno nel suo cuore”.

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Inizia con spari e ed esplosioni la Settimana Santa nella parrocchia del Santo Spirito di Mosul. Qui, dove le funzioni religiose si celebrano per sicurezza in un sotterraneo e le finestre non hanno più vetri, infranti dalle numerose bombe e mai più sostituiti, i fedeli non smettono di pregare e sperare; pur consapevoli che ogni messa a cui partecipano potrebbe essere l’ultima. AsiaNews ha raccolto la testimonianza di alcuni parrocchiani: i pericoli e l’insicurezza crescente non fermano il loro recarsi in chiesa e prepararsi per la Pasqua.

Lo scorso 1 aprile, Domenica delle Palme, tre autobomba sono esplose durante la celebrazione eucaristica del pomeriggio. La deflagrazione è avvenuta ad 1,5 km dalla chiesa, ma si è sentita in un raggio di 35 km. “L’edificio e le persone non hanno riportato danni o ferite – riferiscono i fedeli – tutti ci siamo molto spaventati, ma nessuno è scappato e il parroco (p. Ragheed Ganni) ha deciso di continuare la messa in un seminterrato”. Intanto sono arrivate altre 250 persone, ma poco prima delle letture la stazione della polizia irachena, limitrofa alla parrocchia, ha subito un attacco. “Piovevano proiettili da ogni parte – raccontano i presenti – ma siamo rimasti calmi, p. Ragheed ci ha consolati e invitato ad avere fiducia in Dio ad accettare queste difficoltà come una prova della nostra fede”. “A quel punto - riferisce lo stesso parroco - ci siamo sentiti simili a Gesù quando entra a Gerusalemme, sapendo che la conseguenza del Suo amore per gli uomini sarà la Croce. Così noi abbiamo offerto la nostra sofferenza come segno d’amore a Gesù”.

La stazione di polizia così vicina alla chiesa è fattore di alto rischio per la comunità caldea e la popolazione locale. Essa è frequente obiettivo di minacce e attacchi. “Già 2 settimane fa la stessa centrale della Guardia di nazionale irachena aveva ricevuto minacce, ma gli agenti non hanno fatto nulla per prevenire gli attacchi - si dice in città - sembra quasi che usino la chiesa e i civili come scudo”. La zona intorno alla parrocchia è deserta, colpita di recente da altri attentati. Il 15 marzo durante un altro attacco alla polizia, 2 bombe sono cadute sulla chiesa, e lo stesso è successo il 30 marzo.

“Attendiamo ogni giorno l’attacco decisivo alla centrale della Guardia nazionale – racconta p. Rgaheed – ma non smetteremo di celebrare messa; lo faremo sotto terra, dove siamo più al sicuro. In questa decisione sono stato incoraggiato dalla forza dei miei parrocchiani”. “Si tratta di guerra, guerra vera – continua un altro cristiano – ma speriamo di portare questa Croce fino alla fine con l’aiuto della Grazia divina”.

Infine a nome di tutta la sua parrocchia, p. Ragheed manda gli auguri di una “buona Pasqua a tutto il mondo, in particolare al Papa, che tiene il popolo iracheno sempre nel suo cuore”.

Mosul: despite bombs and gunfire near churches the faithful have not forsaken Holy Week

Source: Asia News

Attacks and threats against the often targeted Chaldean parish of the Holy Spirit continue. “We offer our suffering as a token of love for Jesus,” parishioners say. Holy Week rites take place in an underground hall to avoid explosions. Greetings are sent to the Pope, “who always holds the Iraqi people in his heart.”

Click on "leggi tutto" for the article by Asia News

Holy Week began with the sound of gunfire at Mosul’s Holy Spirit Parish Church. In this place, where religious services are held in an underground hall for security reasons because the church’s windows have all been blown out by bomb blasts and never replaced, the faithful pray and hope non-stop knowing that every time they attend mass could be their last one. Here is where AsiaNews spoke to some parishioners and heard what they had to say about the dangers and growing insecurity which despite everything have not stopped them from going to church and prepare for Easter.
Last Sunday, Palm Sunday, three car bombs exploded during the afternoon Eucharistic celebration at a distance of about 1.5 kilometres but the blast was heard in a 35 kilometre radius.
“The building suffered no damage nor did any faithful get hurt. Everyone was scared but no one ran away. And the parish priest (Fr Ragheed Ganni) continued the mass in the underground,” said some of the parishioners.
Some 250 people had come for mass that day, some of whom after the car bombs went off.
At the same time a nearby police station came under attack just before the readings.
“Bullets were flying all over the place, but we remained claim. Fr Ragheed consoled us and urged us to place our trust in God and accept these difficulties as a test of our faith,” those present said.
“At this point, we felt like Jesus when he entered Jerusalem knowing that the Cross would be the consequence of His love for man,” Fr Ragheed said. “So we offered our own suffering as a token of love for Jesus.”
The police station is so close to the church that it represents a risk factor for the Chaldean community and all local residents. It is often threatened and targeted.
“Two weeks ago the Iraqi National Guard post had received threats, but the agents did nothing to prevent the attacks. It almost seems that they are using the church and civilians as a shield,” people say in town.
The area around the parish church, which was recently hit in other attacks, has become a no-go zone. On March 15 two bombs fell on the church during an attack against the police station; the same thing happened on March 30.
“We expect a final attack against the National Guard post any day,” Fr Ragheed said. “But we won’t stop celebrating mass even if we have to stay underground where it is safer. The strength my parishioners have shown has been a source of encouragement for me in making this decision.”
“It’s war, a real war but we hope to bear the Cross until the end with God’s grace,”
said another Christian.
Finally, Fr. Ragheed on behalf of his parish sent ‘Easter Greetings’ to the rest of world, especially to the Pope, “who always holds the Iraqi people in his heart.”