"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

31 gennaio 2007

I seminaristi caldei a Shaqlawa


La Chiesa dei Martiri a Shaqlawa

Agli inizi di gennaio il Seminario Maggior Caldeo di Saint Peter è stato trasferito per ragioni di sicurezza ad Ankawa, nel nord dell'Iraq. Domenica scorsa, 28 gennaio, la visita alla Chiesa Caldea di Shuhada (Chiesa dei Martiri) a Shaqlawa è stata la prima tappa di un giro di visite che porterà i seminaristi a conoscere più da vicino la realtà delle comunità caldee nel nord dell'Iraq.



I seminaristi nella chiesa di Shaqlawa












La Santa Messa celebrata da Padre Bashar Warda, Padre Zaid Habbaba e Padre Fadi Lion









Momenti della celebrazione

29 gennaio 2007

Corsi di inglese al Babel College

Fonte: Ankawa.com

Il Babel College, l'unica facoltà teologica cristiana in Iraq, che recentemente ha trasferito la sua sede da Baghdad ad Ankawa, è ora pienamente operativo tanto da poter offrire agli studenti, oltre ai corsi di filosofia e teologia anche corsi di inglese, il primo dei quali inizierà il 5 febbraio per concludersi il 22 di marzo con frequenza obbligatoria complessiva di otto ore settimanali.

28 gennaio 2007

E' iniziato per i caldei il "Digiuno di Ninive"

Nel rispetto della tradizione liturgica cattolica caldea è iniziato questa sera il Ba-oota d' Ninevayee, il Digiuno di Ninive che precede di tre settimane quello quaresimale. Il digiuno durerà tre giorni a partire da lunedì e comporterà una totale astensione da cibo e bevande dalla mezzanotte al successivo mezzogiorno, cui seguirà la possibilità di nutrirsi escludendo però i cibi ed i condimenti di origine animale.
Nella cittadina di Ankawa l'inizio del Digiuno di Ninive sarà celebrato da una Santa Messa nella Chiesa Caldea di Saint Joseph alle 11.30 di lunedi 29. La Santa Messa sarà celebrata in aramaico mentre per la sempre più numerosa comunità caldea che è fuggita dalle violenze del resto del paese riparando nella città, e che ha minore dimestichezza con questa lingua, un'altra Santa Messa, ma in arabo, sarà celebrata alle 15.30.
A dicembre dello scorso anno il Patriarca di Babilonia dei Caldei, Mar Emmauel III Delly, aveva invitato i fedeli in Iraq e nel mondo ad osservare, nei giorni 18 e 19, il digiuno di Ninive perché il Signore concedesse il dono della pace, della sicurezza e della stabilità all'Iraq, e perchè si realizzasse un clima di fratellanza e carità tra i figli dell’Iraq”.

Per informazioni sul Digiuno di Ninive vedi: I caldei celebrano il "Digiuno di Ninive"

Iraq: Drammatica situazione dei cristiani


La disperata lotta per la sopravvivenza della comunità cristiana in Iraq è tutta nella testimonianza di Marie-Ange Siebrecht, responsabile della Sezione Africa-Asia di Aiuto alla Chiesa che soffre (ACS). Di ritorno dal suo recente viaggio nel nord del paese, Siebrecht ha segnalato che la situazione è “drammaticamente peggiorata” rispetto alla sua visita precedente che risale a maggio 2003. “I segnali di speranza sono ridotti al lumicino. La gente chiede continuamente aiuto e lo fa rivolgendosi a Dio attraverso la preghiera. Non possiamo lasciarli morire così” ha detto la rappresentante di Acs. “I seminaristi di Bagdad hanno lasciato la città e si sono trasferiti, per motivi di sicurezza, nei prefabbricati di Ainkawa (città a nord dell’Iraq ndr). Alcuni sacerdoti sono stati sequestrati lo scorso anno dopo una delle più feroci ondate di violenza” ha spiegato Siebrecht, aggiungendo che: “Nella capitale migliaia di cristiani vivono nel terrore, minacciati dagli integralisti musulmani. Superano ogni tipo di pericolo per raggiungere le chiese e partecipare alla messa”. Quasi la metà dei cristiani iracheni ha lasciato il paese (circa 600 mila), ma ACS continua ad inviare aiuti ai fedeli rimasti. L’azione dell’organismo internazionale, fondato da padre Werenfried van Straaten, si estende anche alla Siria, alla Giordania e alla Turchia. (Acs – DIONISI)

27 gennaio 2007

Nuovo Arcivescovo di Baghdad degli Armeni (Iraq)

Fonte: Zenit Codice: ZI07012609
26 gennaio 2007

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 26 gennaio 2007 (
ZENIT.org).- Benedetto XVI ha concesso il suo assenso all’elezione canonicamente fatta dal Sinodo dei Vescovi della Chiesa Armeno-Cattolica, riunitosi a Bzommar (Libano) dal 4 al 13 settembre 2006, dell’Arciprete Emmanuel Dabbaghian, finora Sincello [vicario generale di un Vescovo diocesano, ndr.] per la Georgia dell’Ordinariato per gli Armeni dell’Europa Orientale, ad Arcivescovo di Baghdad degli Armeni (Iraq). La notizia è stata confermata venerdí dalla Sala Stampa della Santa Sede. Succede all’Arcivescovo Paul Coussa, di 89 anni. L’Arciprete Emmanuel Dabbaghian è nato il 26 dicembre 1933 ad Aleppo. Dopo aver compiuto gli studi filosofici e teologici presso l’Università Gregoriana, dove ha ottenuto il Baccalaureato, è stato ordinato sacerdote il 25 dicembre 1967 come membro dell’Istituto del Clero Patriarcale di Bzommar. Successivamente gli sono stati affidati vari incarichi: direttore dell’orfanotrofio a Anjar (Libano), rettore dei piccoli seminari di Bzommar e di Aleppo, parroco della parrocchia armena cattolica di Bourj Hammoud a Beirut, poi parroco della parrocchia armena a Skhvilisi, in Georgia. E’ parroco della Parrocchia Armena Cattolica di Tbilisi in Georgia e Responsabile del Seminario, dal 23 agosto 2003. Conosce l’armeno, l’arabo, il francese, il latino, l’italiano e l’inglese. L’Arcidiocesi di Baghdad degli Armeni ha 2.000 fedeli.

Chiesa Cattolica Armena
Gli armeni che vivono in Iraq sono i discendenti degli armeni fuggiti o forzatamente deportati dopo il 1915 a causa delle violenze perpetrate dal regime dei Giovani Turchi. La Chiesa armena cattolica si ispira alla figura di San Gregorio l'Illuminatore che ha cristianizzato l'Armenia nel III secolo ed è guidata da Nerses Bedros XIX Tarmouni che ha il titolo di Patriarca di Cilicia degli Armeni e che risiede a Beirut. Nel XII secolo alcuni appartenenti alla chiesa armena apostolica divennero cattolici e formarono il regno della Piccola Armenia in Cilicia che però scomparve nel 1375. Nel 1742 Abraham Artzivian, cattolico, fu eletto patriarca e fondò la chiesa armeno cattolica.

Fonte: Dossier: Iraq, la terra di Abramo, a cura dell’Ufficio Pastorale Migranti dell’Arcidiocesi di Torino

(Chiesa Anglicana) L’Unione delle Madri di Portsmouth gemellata con quella di Baghdad


La sezione di Portsmouth della Mothers’Union (Unione delle Madri) è ora gemellata con la sezione della stessa unione a Baghdad. L’intento è quello di offrire preghiere, sostegno ed aiuti pratici.
I membri di Baghdad devono sfuggire al fuoco dei cecchini per frequentare le riunioni presso la Chiesa di St. George, circondata da barricate e filo spinato e sorvegliata da uomini armati 24 ore al giorno. L’intero personale laico della chiesa, cinque iracheni, si suppone sia deceduto dopo essere scomparso sula strada per la Giordania. Eppure i membri della Mothers’ Union di Baghdad sono passati da circa 100 al momento della sua creazione, a Pasqua del 2006, a più di 400. Gli incontri sono settimanali e l’intento è quello di tenere corsi per genitori, visitare gli orfanotrofi e costruire culle per bambini handicappati.

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L’ambiente è diverso ma i progetti sono simili a quelli della Mothers’ Union di Portsmouth che organizza vacanze per famiglie svantaggiate, collabora con una casa rifugio per donne e tesse i sudari per i bimbi nati morti dell’ospedale St. Mary. Il gemellaggio conferma la prospettiva internazionale e l’enfasi sulla famiglia della Mothers’ Union.
A rendere possibile questo gemellaggio è stato il Canonico Andrew White, il rettore della chiesa di St. George a Baghdad, che ha parlato della situazione in Iraq alla riunione della Mothers’ Union di Denmead la scorsa estate suggerendo il gelellaggio della neoneta unione di Baghdad con quella della diocesi di Portsmouth – che va da Botley ad ovest a Emsworth ad est e comprende l’intera Isola di Wight.
Il gemellaggio è stato confermato ed il Canonico White è tornato a Baghdad per lo scorso Natale. Per il nuovo anno egli ha aggiornato i membri della Unione di Portsmouth con un resoconto dettagliato del servizio, dei giochi, del bazar e della festa organizzati dall’Unione di Baghdad.
La Chiesa di St. George, l’unica chiesa anglicana in Iraq, ha più di 800 membri e ciò la rende una delle più grandi ed attive chiese del paese. I suoi membri provengono da altre confessioni cristiane: caldea, assira, evangelica e siro ortodossa.
Tradotto ed adattato da Baghdadhope

Porte chiuse per gli iracheni che fuggono dal paese

Fonte: BBC NEWS

24 gennaio 2007
By Jon Leyne

Non siedono nei campi, né vagano nel deserto. In effetti gli occidentali in visita in Giordania potrebbero anche non vederli.
Eppure questo paese ospita circa un milione di iracheni fuggiti dalla violenza nel loro paese. Un altro milione è fuggito in Siria ed un altro grosso numero verso gli altri stati vicini.
Dopo quasi quattro anni di guerra essi sanno che non torneranno presto a casa, e la crisi fino ad ora poco nota sta cominciando a chiedere l’attenzione del mondo.

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Al posto di confine con l’Iraq, nel deserto giordano, si possono vedere arrivare le famiglie irachene. I loro averi sono stipati nelle GMC, le grosse auto americane a dieci posti che attraversano l’Iraq occidentale.
Gli iracheni qui arrivati parlano del sollievo provato dopo essere sfuggiti alla morsa dei soldati americani, degli insorti iracheni e dei molti banditi che ha fatto di questa la strada più pericolosa del mondo. Il ventoso posto di confine, a molti chilometri dalla città più vicina, è per loro un porto sicuro, un rifugio.
Ma la Giordania ora ne fa entrare solo una minima parte rispetto al passato, solo 10/15 macchine al giorno.

Famiglie divise
Un uomo anziano incontrato al confine ed arrivato qui per delle cure mediche è furioso perché al nipote che viaggia con lui è stato negato l’ingresso dal personale giordano.
Quasi tutti gli iracheni con cui si parla possono raccontare storie di quanto sia difficile entrare in Giordania ora rispetto a soli pochi mesi fa. “E’ molto difficile far uscire qualcuno dall’Iraq” ci ha spiegato Lutfi, un medico iracheno che è da poco riuscito a far espatriare suo padre. “Di solito non avevo difficoltà a venire in Giordania, non c’erano problemi, ma sono cambiate molte cose. Alla maggior parte degli iracheni è proibito venire qui a meno che non possano dimostrare di avere motivi di studio o di affari”
Il governo Giordano afferma che non c’è stato nessun cambiamento, ma un portavoce ha affermato che ci sono state delle restrizioni, dovute specialmente a ragioni di sicurezza.

Passaporti preziosi
Kasra Mofarah
lavora in Giordania e coordina le agenzie di aiuto che operano in Iraq. “La maggior parte dei confini dei paesi confinanti con l’Iraq è molto difficile da passare. Ci sono problemi amministrativi, questioni di passaporti, e non sono più i benvenuti” spiega Mofarah che aggiunge: “Anche i paesi occidentali, i paesi ricchi fanno sempre più difficoltà a concedere i visti o a permettere l’ingresso agli iracheni. Sembra che le porte si stiano chiudendo loro in faccia una ad una.”
E’ persino più difficile lasciare la Giordania. La Gran Bretagna e gli Stati Uniti hanno da poco introdotto nuove regole invalidando la maggior parte dei passaporti iracheni.
Persino gli iracheni che erano riusciti ad avere uno dei preziosi nuovi passaporti della serie G potranno considerarsi fortunate se riusciranno ad avere un visto.
Ashraf ha lavorato per una compagnia americana Baghdad ed ha deciso di espatriare dopo essere stato rapito due volte. Ora è bloccato in Giordania: “Ho chiesto il visto per la Gran Bretagna e per gli Stati Uniti ed ambedue i governi hanno più volte rigettato la mia richiesta.” Eppure, aggiunge “essi hanno la responsabilità di aiutare la gente come me che ha lavorato per i soldati o per gli americani.”

“Mandato a morire”
Lina e Nasir
sono due medici iracheni che si sono trasferiti in Gran Bretagna per approfondire le proprie conoscenze nel campo delle sepolture nelle fosse comuni dove sono seppellite le vittime del regime di Saddam Hussein. Dopo essere stati identificati dagli insorti entrambi hanno iniziato a ricevere emails di minacce. Eppure è stato rifiutato loro persino il prolungamento del visto britannico, ed è stato anche detto loro che richiedere l’asilo politico sarebbe inutile. “E’ incredibile” dice Nasir, “se mi rimandano a casa mi mandano a morire. E’ una questione di vita o di morte, in mezzo non c’è nulla.”
Il numero degli iracheni cui è stato concesso lo status di rifugiato o l’asilo politico in Gran Bretagna è diminuito dall’invasione del paese nel 2003. Nel 2005 il governo britannico ha riconosciuto come rifugiati solo 5 (cinque) iracheni, e questo è il più chiaro esempio della poca importanza che il mondo da a questa crisi che invece sta peggiorando.

Scivolando nella povertà

La Giordania è stata più volte lodata per la tolleranza dimostrata garantendo l’accesso a così tanti iracheni, ma Andrew Harper, dell’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, avverte che è una situazione destinata a finire.
“Bisogna chiedersi quanto questa generosità possa durare prima di arrivare al livello di saturazione e prima che i confini vengano chiusi. Una volta chiusi cosa succederà a coloro che vorranno fuggire dall’Iraq?”
In Giordania alla maggior parte degli iracheni non è permesso lavorare, ed ad eccezione di qualche ricco uomo d’affari, essi stanno lentamente scivolando nella povertà, ed a ciò si aggiungono i problemi legati al difficile accesso all’istruzione ed alle cure mediche.
Il dottor Lutfi cerca di aiutare la sua famiglia trasferita qui ma non riesce a guadagnare nulla. Dopo il rifiuto del visto da parte degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Svezia ha deciso che l’unica scelta è quella di tornare in Iraq e cercare lavoro lì.
Un estremo rimedio per una situazione sempre più disperata.

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

22 gennaio 2007

Cristiani e musulmani fuggono da Baghdad alla volta del Kurdistan

Fonte: Reuters

L’Iraq in tumulto

By Shamal Aqrawi 22 gennaio 2007

ARBIL, Iraq (Reuters) - Adison Brikha è un negoziante cristiano claudicante che è fuggito da Baghdad dopo essere stato pestato nel suo negozio ed è arrivato ad Arbil, nel relativamente pacifico Kurdistan, dove ora, però, elemosina un lavoro. “Degli uomini armati sono entrati nel mio negozio e mi hanno pestato. E’ chiaro che i cristiani non sono più graditi a Baghdad” dice l’uomo che a stento riesce a pagare l’affitto di una piccolissima casa dove vive con la sua famiglia di cinque persone e che piangendo aggiunge: “Ero proprietario del mio negozio, ora prego la gente di darmi lavoro come cameriere o manovale, ma non mi assume nessuno perché il mio piede non funziona.”

Clicca su "leggi tutto" per il resto della traduzione dell'articolo dell'agenzia Reuters o sul titolo per l'articolo originale.
Decine di migliaia di persone sono fuggite da Baghdad, l’epicentro della violenza in Iraq. Le Nazioni unite, che hanno lanciato un appello in favore degli iracheni che hanno lasciato le proprie case o si sono trasferiti all’estero, hanno recentemente dichiarato che un iracheno su otto è sfollato, e che si tratta del più massiccio spostamento di popolazione in Medio Oriente dopo la nascita dello Stato di Israele nel 1948.
Molte persone, anche non curde, si sono rifugiate in Kurdistan – una regione largamente autonoma nella zona montuosa del nord che, dall’invasione americana del 2003, è stata rifugio dagli attacchi che hanno invece colpito il resto del paese. Ma con il crescere del numero dei rifugiati aumenta la pressione sulle autorità di Arbil, la capitale curda con una popolazione di circa un milione di abitanti.
“Nelle scorse due settimane più di 9.000 persone sono arrivate ad Arbil da Baghdad, principalmente sunniti e cristiani” ha dichiarato alla Reuters Imad Marouf, a capo del programma di aiuto ad Arbil, parte del programma della Mezzaluna Rossa Irachena.

MEZZO MILIONE DI SFOLLATI

Le Nazioni Unite affermano che circa 500.000 persone si sono spostate in altre zone dell’Iraq rispetto a quelle originarie, specialmente dopo che l’attacco di febbraio (2006) ad un santuario sciita di Samarra ha suscitato un’ondata di violenza che, sebbene abbia riguardato principalmente i sunniti e gli sciiti, non ha risparmiato gli altri. Secondo un rapporto sui diritti umani del 16 gennaio, le Nazioni Unite hanno dichiarato che del milione e mezzo di assiri che vivevano in Iraq prima del 2003, la metà ha lasciato il paese e l’altra si sta trasferendo in “zone sicure” nel nord dell’Iraq.
Il principale college cristiano caldeo ed il seminario di Baghdad – chiusi per mesi a causa delle minacce e delle violenze – sono ora funzionanti ad Arbil, secondo quanto afferma lo stesso vescovo della città, Monsignor Rabban al-Qas. Ad essere bersaglio di violenze erano i cristiani ma anche i musulmani. “Il continuo deteriorarsi delle condizioni di sicurezza a Baghdad ed il rapimento di sei sacerdoti ci ha costretto a trasferire questi istituti cristiani ad Arbil” dice il vescovo, “gli studenti non potevano frequentare le lezioni.”
Secondo Marouf il suo ufficio ha registrato più di 5000 famiglie – circa 30000 persone – fuggite ad Arbil negli ultimi due anni.

LA FUGA DEI CERVELLI

Marouf aggiunge anche che centinaia di altre famiglie – principalmente famiglie di medici, professori o uomini d’affari – non si sono registrate come rifugiate ed hanno declinato le offerte di aiuto perché hanno trovato lavoro ad Arbil.
Il vice governatore della provincia, Tahir Abdullah, ha denunciato la mancanza di fondi utili ad aiutare un così alto numero di rifugiati, ma che le autorità stanno almeno cercando di dar loro un sostegno logistico, ad esempio trasferendo le tessere per il razionamento così che le famiglie possano continuare ad ottenere il cibo ad esse assegnato.
“Abbiamo chiesto agli uffici delle Nazioni Unite nel nord di aiutare alla costruzione di un campo per coloro che non riescono a pagare l’affitto di una casa. Alcune famiglie, infatti, vivono all’aperto” dice Abdullah mentre Marouf afferma di aver sentito dire di una famiglia di 49 persone che vive in una casa di soli 100 mq: “Non sono riusciti a trovare niente di meglio.”
Preoccupate dall’afflusso di rifugiati le autorità curde hanno imposto nuove restrizioni a chi vuole stabilirsi nella zona, per esempio un garante curdo per ogni famiglia.
“L’attacco al santuario sciita di Samarra ha costretto centinaia di famiglie alla fuga verso la zona curda” dice Yazgar Raouf, capo dell’ufficio residenti di Arbil, aggiungendo che questo afflusso ha aumentato le preoccupazioni sulla sicurezza. “Abbiamo iniziato ad imporre nuove regole sull’immigrazione dal settembre 2004 per assicurare la regione curda da ogni infiltrazione terroristica che possa minarne la sicurezza.”
Tradotto ed adattato da Baghdadhope

I cristiani iracheni chiedono l’autonomia politica


By Aram Eissa with additional reporting by Darya Ibrahim

I cristiani della provincia di Mosul domandano lo stesso tipo di autonomia politica garantita ai curdi.

Alla vigilia dell’approvazione della nuova costituzione irachena e dopo la pubblicazione della bozza di costituzione per la regione curda, la gente di Bartella, Telkeif, Basheeqa ed altre zone della provincia di Mosul, in maggioranza cristiani assiri, caldei e siri chiede la stessa autonomia concessa ai curdi.

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Galawizh Shaba Jarjeez, membro del parlamento curdo, crede che la bozza di costituzione curda neghi i diritti della sua gente. Jarjeez, membro del comitato centrale dell’Assyrian Democratic Party, ha inviato al parlamento ed al comitato responsabile della stesura della bozza costituzionale un memorandum contenente le sue richieste. Le richieste sono che la costituzione rifletta la natura multietnica e multireligiosa della regione.
“Vogliamo che i caldei, gli assiri, i turcomanni e gli armeni siano menzionati nella costituzione a fianco dei nostri fratelli curdi, e credo che le nostre richieste trovino significativo sostegno all’interno del parlamento curdo” ha dichiarato la Jarjeez che ha aggiunto che il KRG (Kurdish Regional Government) dovrebbe prendere in considerazione di includere il concetto di coesistenza così come stabilito dal Trattato di Sèvres e dall’accordo di Ankara del 1926. L’Assyrian Democratic Movement chiede anche che la costituzione riconosca gli eccidi di massa dei cristiani compiuti durante la prima guerra mondiale e successivamente alla creazione dell’Iraq, nella fattispecie l’eccidio di Simele nel 1933 e quello di Suria nel 1969. Un gruppo la cui demografia fu alterata a causa della campagna di Anfal e che si è sentito preso di mira a causa del suo coinvolgimento nella “Rivoluzione di Settembre.”
Secondo Galawizh Shaba Jarjeez i cristiani iracheni stanno anche mettendo in discussione i termini stessi della costituzione. Un esempio è che nella bozza si parla di “Caldei ed Assiri” mentre, secondo la Jarjeez esistono molti nomi per indicare la nazione dei cristiani, come lei la chiama, ed includendo la congiunzione “e” l’implicazione è che si tratti di due nazioni, e non di una. Ragione per la quale i cristiani preferirebbero l’uso del termine “Caldeo-Assiro” e “Siriaco” per quanto riguarda la lingua e la cultura. Il KRG dovrebbe inoltre aggiungere alla bozza di costituzione un altro articolo a garanzia dei diritti politici, culturali, educativi ed amministrativi delle minoranze.
La bozza della costituzione afferma che Telkeif, Qaraqoah e Basheeqa fanno parte della regione curda, mentre la Jarjeez e le sue controparti affermano facciano parte della Piana di Mosul e debbano essere trattate come facenti parte di una regione speciale autonoma. Speciale a causa della sua natura religiosa e multietnica, e perché l’articolo 125 della nuova costituzione irachena la riconosce come tale. A ciò si aggiunge il molto discusso articolo 140 della costituzione irachena, normalmente associato alla questione di Kirkuk, che permette a delle zone del paese di decidere di quale regione far parte. Altre richieste avanzate dalla Jarjeez e dal suo partito riguardano la bandiera della regione curda e l’inno nazionale che dovrebbero rappresentare le differenti componenti religiose ed etniche, e che le feste dei cristiani, come il primo di aprile, che segna l’inizio dell’anno assiro, siano riconosciute come feste nazionali.
Akram Ashur, ex membro del KRG, racconta di come dopo la caduta di Saddam Hussein i Caldeo-Assiri incontrarono diversi uomini politici e diplomatici sia iracheni che stranieri e con essi discussero la speciale natura della Piana di Niniveh. “Arrivammo alla conclusione che la regione avrebbe dovuto avere una propria amministrazione. Noi, come Caldeo-Assiri crediamo che religione e nazionalità debbano essere tenute separate, e non abbiamo mai avuto problemi di religione nella Piana di Mosul, ma vogliamo che i nostri diritti siano garantiti.”
“Per riuscire bisogna trovare l’intesa con le altre nazioni nella regione”
afferma Akad Murad, membro dell’Assyrian Democratic Movement, “dobbiamo essere considerati caldeo-assiri come nazione, ma di religione cristiana.” Ed aggiunge che i caldeo-assiri hanno un problema di identità nazionale a causa alla loro storia che risale a 7.657 anni fa, anche se l’impero assiro crollò nel 612 AC. Per quanto riguarda il presente, il censimento del governo iracheno calcola la popolazione caldeo-assira in 700.000 individui che rappresentano il 3% della popolazione totale. Akad Murad mette in luce inoltre come, a causa delle traduzioni in altre lingue, i nomi e cognomi dei cristiani siano cambiati nel tempo. “Consideriamo la Piana di Mosul come la zona migliore per ottenere i nostri diritti, dopo tutto è dove vivevano i nostri antenati, dove parlavano la stessa lingua” dice, aggiungendo che sebbene i cristiani vogliano un’area autonoma essi rispettano i diritti delle altre nazione e che non è loro intenzione cambiare la composizione demografica di Mosul: “Vogliamo che la gente decida con voto democratico e senza nessuna pressione se vuole una regione autonoma.”

Tradotto ed adattato da Baghdadhope


21 gennaio 2007

L'avvocato di Tariq Aziz: sta molto male



Luogotenente di Saddam si appella alla clemenza del Papa

By Malcolm Moore in Rome, Sunday Telegraph
21 gennaio 2007

Tariq Aziz, l’ex primo ministro iracheno, si è affidato alla clemenza del Pontefice nel tentativo di essere rilasciato dagli USA che lo hanno in custodia.

Aziz, che potrebbe essere condannato a morte dopo essere stato accusato, venerdì scorso, di avere ordinato la morte di decine di migliaia di musulmani sciiti dopo la ribellione del 1991, la scorsa settimana aveva inviato un appello scritto di suo pugno al Vaticano
con la richiesta a Papa Benedetto XVI di fare da garante perché venisse rilasciato su cauzione. Il settantenne Aziz, di fede cattolica ed in custodia delle forze americane dal momento del suo arresto nell’aprile del 2003, aveva chiesto che gli fosse permesso di vivere in Italia in attesa del processo...

Clicca su "leggi tutto" per il resto della traduzione dell'articolo del Sunday Telegraph o sul titolo per l'articolo originale.
Jaafar al-Moussawi, un pubblico ministero iracheno, ha dichiarato che Aziz è tra i 102 dirigenti del regime di Saddam Hussein responsabili della repressione attuata dall’esercito iracheno dei ribelli sciiti e curdi.
In una lettera datata 12 gennaio 2007 e proveniente da Camp Cropper, nell’aeroporto di Baghdad, Aziz ha scritto: “Io, Tariq Aziz, con questa mia invio i miei auguri e felicitazioni a Papa Benedetto e chiedo alla Santa Sede ed a Sua Santità aiuto per la mia richiesta di rilascio provvisorio, e, se Sua Santità lo ritiene possibile che Egli mi faccia da garante… perché io possa vivere in pace in Italia fino al momento del processo cui sarò sottoposto da parte delle autorità irachene.”
La lettera, firmata, è stata scritta dal legale italiano di Tariq Aziz, il Dottor Giovanni di Stefano che l’ha consegnata al Segreatario di Stato Vaticano, Cardinale Tarcisio Bertone, ed ad un alto prelato della Curia romana, Monsignor Gabriele Giordano Caccia. Il Dottor Di Stefano ha dichiarato che il Vaticano avrebbe considerato la richiesta.
A differenza del resto dei componenti del governo di Saddam, Aziz è un cattolico caldeo, appartenente cioè ad una branca babilonese della chiesa che mantiene pieni legami con Roma. Alla vigilia della guerra all’Iraq, nel febbraio 2003, egli fu ricevuto da Papa Giovanni Paolo II in udienza privata.
Il Dottor Di Stefano ha dichiarato che: “Hanno detto che capiscono come si tratti di una questione umanitaria e che il Santo Padre considererà la richiesta.”
Come portavoce all’estero di Saddam Hussein per più di un decennio, Tariq Aziz era il volto più conosciuto del regime iracheno. Dopo avere assistito per televisione all’esecuzione di Saddam nel complesso carcerario dove entrambi erano stati detenuti, Aziz si è dichiarato profondamente rattristato dalla morte del dittatore. “Dopo la sua morte non c’è più gioia nella vita” ha detto al Sunday Telegraph attraverso il suo avvocato, "Saddam era un amico, un collega, un capo ed io lo amavo come persona. Non era solo un lavoro per me, amavo Saddam e la sua visione dell’Iraq. IL giorno in cui è stato ucciso l’Iraq è morto con lui.”
Dalla sua cella a Camp Cropper Aziz ha detto che, malgrado la possibilità di essere giudicato in un processo, non era preoccupato da un’eventuale esecuzione: “Non sono preoccupato per la mia vita.” Ha inoltre dichiarato che durante la sua incarcerazione solo due volte, in occasione dell’esecuzione di Saddam e dell’elezione del Parlamento iracheno, gli è stato concesso l’accesso alle informazioni.
Ad Aziz, vistito con una polo, una tuta grigio verde ed un cappello di lana, è stato concesso di fumare i suoi sigari di marca durante la sua detenzione, e il Dottor Di Stefano ha dichiarato di avergli consegnato personalemente una scatola di sigari cubani Romeo e Giulietta.
Il legale, volato a Baghdad durante il fine settimana e che incontrerà Aziz anche oggi, ha rivelato il contenuto di un atto di accusa ottenuto dall’esercito americano e firmato dal giudice Moneer Hadad, uno di quelli presenti alla morte di Saddam. L’accusa afferma che Aziz faceva parte del Consiglio di Comando Rivoluzionario che nel 1980 emise una risoluzione che “privava della nazionalità irachena i curdi feili sciiti
[1] esiliandoli dal paese” un accusa di cui lo stesso Saddam fu accusato durante il suo processo.
Il Dottor Di Stefano ha dichiarato come “inaccettabile” che Tariq Aziz sia sotto custodia dall’aprile del 2003 e da allora senza processo. “L’unica volta che Tariq Aziz è stato in un aula del tribunale in 44 mesi è stato quando ha testimoniato al processo contro Saddam Hussein. Non gli è stato neanche comunicato il motivo della sua detenzione.”
Secondo la sezione 109a della legge irachena sui procedimenti penali, risalente al 1971, i prigionieri possono essere rilasciati su cauzione se un governo straniero si fa garante per il loro ritorno per il processo. Il Dottor Di Stefano ha affermato che la legge non è stata ancora emendata o cambiata e che è stata usata per giudicare Saddam. La Russia si è dichiarata disponibile a sostenere la richiesta di Aziz di rilascio su cauzione. Konstantin Kosachyov, capo del comitato affari esteri della Duma, ha dichiarato: “Le agenzie governative dovrebbero offrire assistenza, non è una questione politica, ma puramente umanitaria.”
Il Dottor Di Stefano ha anche dichiarato che Tariq Aziz soffre di problemi cardiaci e polmonari.
“Non ha acceso alle cure mediche. Non lo condanneranno a morte, ma se non sarà curato morirà. Quando l’ho visto l’ultima volta, il 3 gennaio, ho dovuto chiamare un dottore perché sanguinava tossendo.”
Il Dottor Di Stefano ha depositato una richiesta di rilascio su cauzione per permettere ad Aziz di curarsi e si è appellato “agli specialisti britannici” per offrire volontariamente la propria opera.”
Ha inoltre dichiarato che Aziz, implicato nello scandalo oil-for-food, è già stato interrogato dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dall’amministrazione irachena, ma che “il 99% delle domande riguardavano il piano oil-for-food e George Galloway.” Galloway, ex laburista ed ora membro del parlamento britannico per il Respect Party, ha negato di aver avuto profitti dal programma oli-for-food. Il Dottor Di Stefano, ha anche rappresentato i coimputati nel processo a Saddam, Barzan al-Tikriti and Awad Ahmed Banda, giustiziati domenica scorsa, ed ha dichiarato che il fratellastro di Saddam, Barzan al-Tikriti, non aveva ricevuto le cure mediche adeguate per il cancro spinale di cui soffriva. “Ecco perché la sua testa si è staccata quando lo hanno impiccato. In ogni caso sarebbe morto nel giro di sei mesi."
Il Dottor di Stefano ha una storia controversa. Ha rappresentato Slobodan Milosevic, l’ex presidente della Yugoslavia che morì durante il processo a suo carico per crimini di guerra, Gary Glitter, la star del rock incarcerata per molestie su minori in Vietnam, e Kenneth Noye, il killer della M25
[2]. La Law Society of England and Wales ha rifiutato di riconoscerlo come avvocato.

[1] Minoranza curda di fede sciita che abita prevalentemente la zona curda irachena confinante con l’Iran
[2] http://en.wikipedia.org/wiki/Kenneth_Noye
Tradotto ed adattato da Baghdadhope

20 gennaio 2007

Stati Uniti e rifugiati iracheni: come liberarsi di una patata bollente


Gli Stati Uniti chiedono al Canada di accettare rifugiati dal’Iraq.

Canadian Press
OTTAWA — Gli Stati Uniti hanno chiesto al Canada di accettare un maggior numero di rifugiati in fuga dalla violenza in Iraq.
Ellen Sauerbrey, assistente di stato americano, ha passato due giorni ad Ottawa discutendo la questione con dirigenti responsabili degli affari esteri e dell’immigrazione che hanno dichiarato che nessuna decisione politica è stata ancora presa.
La Signora Sauerbery ha riportato di come molti iracheni fuggiti in Siria e Giordania, inclusi vittime di tortura, donne, bambini ed appartenenti alla minoranza cristiana, non potranno mai più fare ritorno al proprio paese.
“Abbiamo incoraggiato il Canada a farne un argomento prioritario nella sua politica di immigrazione perchè si tratta (l’Iraq) di un’area estremamente vulnerabile e bisognosa di aiuto” ha detto la Signora Sauerbrey, aggiungendo di aver saputo che il Canada ha già ammesso 49 rifugiati iracheni.

Piccola, grande Svezia

Rifugiati iracheni trovano rifugio e connazionali in Svezia.

16 gennaio 2007
SODERTALJE,
Svezia Chi viveva a Baghdad ed ora risiede in questa calma cittadina svedese sa perchè si fugge: “L’Iraq è finito” dice Taghredd Ewas, 34 anni, ingegnere chimico che lo ha fatto lo scorso anno dopo avere ricevuto molte minacce di morte ed essere scampato ad un rapimento.
In centinaia di migliaia gli iracheni sono fuggiti dalle violenze nei vicini paesi del Medio Oriente, ma in numero sempre maggiore essi stanno arrivando in Europa, specialmente in Svezia, una indicazione, questa, di come la guerra in Iraq stia iniziando ad avere gravi conseguenze ben al di là dei confini del paese.

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Lo scorso anno 8951 iracheni hanno chiesto asilo in Svezia, nel 2005 erano stati 2.330. Quasi 3000 sono arrivati nei soli mesi di novembre e dicembre. Coloro che scelgono questo paese relativamente piccoli e con 9 milioni di abitanti rappresentano circa la metà dei rifugiati iracheni che arrivano in Europa superano di molto in numero quelli che ogni anno vengono ammessi negli Stati Uniti.
“Noi non usiamo termini come esodo, ma un grosso aumento è evidente” dice Krister Isaksson, analista dello Swedish Migration Board. “Non crediamo che possa diminuire, piuttosto che possa continuare ad aumentare.”
La signora Ewas, fuggita con l’aiuto di trafficanti di uomini attraverso l’Iraq settentrionale e la Turchia, ha lasciato gran parte della sua famiglia ed ha poche speranze di tornare in Iraq. “Ogni giorno è peggiore di quello precedente” ha dichiarato ad un centro accoglienza per immigrati.
L’esodo di massa degli iracheni, moltiplicato dal deteriorarsi della situazione sta avendo risultato estremi sui paesi vicini. L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) stima che da 500.000 ad 1.000.000. di iracheni vivano in Siria, fino a 700.000 in Giordania, da 20.000 ad 80.000 in Egitto e fino a 40.000 in Libano.
La stessa agenzia ha avvertito che la crisi sta sorpassando i confini mediorientali. Alla fine di dicembre essa ha pubblicato delle raccomandazioni ai governi ricordando come “i richiedenti asilo provenienti dall’Iraq centrale e meridionale devono essere considerati rifugiati in virtù della Convenzione per i Rifugiati del 1951.
“Si pensava che la situazione sarebbe migliorata” ha detto Paal Aarsaether, il portavoce dell’UNHCR per i paesi nordici, “ma ora la comunità internazionale ha capito che è giunto il momento di fronteggiare la questione.”
Le leggi liberali svedesi riguardanti l’asilo e l’immigrazione hanno reso il paese la meta preferita in Europa per i rifugiati iracheni, dice la Signora Isakkson. Dei 16.261 iracheni che hanno chiesto asilo in Europa dal gennaio al novembre del 2006, circa il 45% è arrivata in Svezia. Dei 1.413 arrivati in novembre, ad esempio, solo 13 hanno fatto richiesta di asilo alla Francia, 65 alla Danimarca e 230 alla Germania.
“Diamo agli iracheni i permessi di residenza come non viene fatto nel resto dell’Europa” dice la Signora Isaksson. A differenza dei paesi che richiedono la conoscenza della lingua e garanzie economiche dice, citando la Danimarca e l’Olanda, noi non facciamo molte richieste agli immigranti.”
Un altro motivo è che già più di 80.000 iracheni vivono in Svezia, formando il secondo gruppo di immigrati nel paese dopo i finlandesi, e molti dei rifugiati vi arrivano perché hanno già dei parenti.
Sodertalje, cittadina industriale a circa 20 a sud est da Stoccolma, non è solo la città dove la fabbrica di camion Scania ha molti stabilimenti, ma anche luogo di residenza di una fiorente ed in crescita comunità di iracheni, la maggior parte dei quali cristiani. La Signora Ewas, ad esempio, ha scelto Sodertalje perché ci vive suo fratello.
Il rapido aumento di immigrati iracheni sta avendo un certo impatto sulle comunità originarie. Al centro di accoglienza per immigrati di Sodertalje, una vecchia fabbrica dove i rifugiati e gli immigrati si registrano presso le autorità locali, la situazione è vicina al caos dice Catharina Helling, direttrice del centro.
“Sentiamo la tensione” dice la Signora Helling, facendo notare che il personale è aumentato da 8 a 25 persone negli ultimi otto anni, ed aggiungendo che la municipalità comincia ad avere difficoltà nel trovare insegnanti di svedese. A dicembre, 131 nuovi immigrati si sono registrati presso il centro: tutti iracheni, ed è “un’esperienza dolorosa.”
Coloro che arrivano portano con sé ricordi strazianti del caos iracheno. Il centro ha assunto due esperti per aiutare queste persone, ma la Signora Helling ammette che ciò non è sufficiente considerando l’aiuto e la comprensione di cui gli iracheni hanno bisogno.
Una donna passata dal centro questa settimana si chiama Nooralhuda, ha 63 anni ed è arrivata a Sodertalje alla fine del 2005. Dopo aver rifiutato di dire il suo cognome ha detto di vivere ancora “nella paura.” La donna ha lasciato Baghdad dopo il rapimento della figlia e di tre dei suoi nipoti. Qualche giorno dopo la loro sparizione la donna fu attaccata nella sua casa ed i vicini la convinsero a fuggire. Ora vive con la famiglia di suo figlio a Sodertalje.
Nooralhuda non ha perso la speranza che sua figlia ed i suoi tre nipoti possano essere ancora vivi e spesso chiama i suo vicini per sapere se hanno sentito qualcosa a proposito.
“Non c’è speranza per l’Iraq” dice “il mio desiderio è sapere che mia figlia ed i miei nipoti sono vivi, e di poterli aiutare a venire qui, in Svezia.”


Tradotto ed adattato da Baghdadhope

19 gennaio 2007

Grande, generosa America

Fonte: Los Angeles Times

Partiamo dalla storia di John, un caldeo iracheno rifugiato in America, riportata dal Los Angeles Times, e facciamo un po’ di numeri: secondo le stime dell’UNHCR (Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite) e di altre organizzazioni che si occupano del problema della ricaduta della guerra all’Iraq sui civili:

2.000.000 sono gli iracheni che hanno abbandonato il paese dal 2003
1.700.000 sono gli iracheni che dal 2003 hanno dovuto lasciare le proprie case e trasferirsi in altre zone del paese
100.000 sono gli iracheni che ogni mese lasciano il paese
40.000/50.000 sono gli iracheni che ogni mese si trasferiscono in altre zone del paese rispetto a quelle originarie


700.000 sono gli iracheni fuggiti in Siria
600.000 sono gli iracheni fuggiti in Giordania


60.000.000 di dollari sono stati chiesti dall’UNHCR per fronteggiare la crisi dei profughi iracheni nel 2007
30.000.000 di dollari è quanto spendono gli Stati Uniti per la guerra in Iraq ogni giorno
20.000.000 di dollari è quanto gli Stati Uniti stanzieranno per la crisi umanitaria irachena nel 2007


70.000
sono i rifugiati ammessi ogni anno negli Stati Uniti
6.000 sono i posti riservati ai rifugiati provenienti dal Medio Oriente e dall’Asia meridionale
20.000 sono i posti riservati annualmente alle emergenze
466 sono gli iracheni ammessi negli Stati Uniti dal 2003
202 sono gli iracheni ammessi negli Stati Uniti nel 2006

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Pochi iracheni hanno trovato rifugio negli USA.
Lo scorso anno, su 50.000 rifugiati ammessi, solo 202 erano iracheni


By Nicole Gaouette, Times Staff Writer January 17, 2007


WASHINGTON - Due anni fa, un uomo iracheno caricò la moglie ed i loro sei figli su un autobus che li avrebbe portati in Turchia, lontani dai miliziani che minacciavano di ucciderlo perché consegnava acqua agli americani. Cinque paesi, quattro continenti e diciotto mesi dopo, arrivarono al confine tra gli Stati Uniti ed il Messico nella località di San Ysidro. L’uomo, un cristiano iracheno che disse di chiamarsi John consegnò alle guardie di confine un falso passaporto greco e disse loro che aveva bisogno di aiuto e che “Era uno iracheno” John e la sua famiglia hanno ottenuto l’asilo due mesi fa, ma sono tra i pochissimi iracheni che si sono stabiliti negli stati Uniti dove le leggi in vigore dopo l’11 settembre 2001 hanno reso difficile ottenere l’asilo per i rifugiati. L’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) stima che circa 2 milioni di iracheni siano fuggiti dal paese e che tra 40.000 e 50.000 lo facciano ogni mese – ma a soli 466 di loro è stato permesso l’ingresso negli USA.
Martedì scorso John ed alcuni altri hanno testimoniato davanti ad un Comitato Giudiziario del Senato il cui scopo è mettere in luce la crisi dei rifugiati iracheni, peggiorata da quando, lo scorso anno, le violenze settarie sono drammaticamente aumentate. Sebbene alcuni dirigenti del Dipartimento di Stato affermino che il problema sia tra quelli prioritari, i legislatori contestano l’impegno dell’amministrazione a riguardo, specialmente per quanto riguarda gli iracheni che hanno lavorato per gli USA.
Paragonandola al problema dei rifugiati della guerra del Vietnam i legislatori considerano la questione in termini di obbligo morale, prudenza strategica ed opportunità – specialmente riavviare i contatti con la Siria dove circa 500.000 iracheni, secondo l’UNHCR, hanno trovato rifugio.“Non dovremmo ripetere il tragico ed immorale errore dell’epoca del Vietnam ed abbandonare gli amici, senza offrire loro rifugio, alla rappresaglia” ha dichiarato il Senatore democratico del Vermont Patrick J. Leahy, presidente del Comitato Giudiziario.
“Abbiamo l’obbligo di essere fedeli agli iracheni che hanno coraggiosamente lavorato per noi – e spesso hanno pagato per questo un prezzo altissimo – dando loro un rifugio sicuro negli USA” ha dichiarato il senatore democratico del Massachussets Edward M. Kennedy, presidente del sottocomitato per l’immigrazione.
Un nuovo programma americano offre speciali visti di immigrazione agli afghani ed agli iracheni che abbiano lavorato come traduttore per le truppe americane, ma solo 50 all’anno.
Il presidente degli Stati Uniti ogni anno stabilisce la quota di rifugiati da ammettere sul territorio nazionale e che comprende un certo numero di posti per le emergenze. Per l’anno fiscale 2006, terminato il 30 settembre, la quota è stata di 70.000 ammissioni , delle quali 5.500 riservate al Medio Oriente e 10.000 alle emergenze. Dei circa 50.000 rifugiati negli USA nel 2006 solo 202 provenivano dall’Iraq.
Ellen Sauerbrey, assistente segretario del Dipartimento di Stato in materia di popolazione, rifugiati ed immigrazione, ha dichiarato che uno dei motivi per i quali la quota di iracheni ammessi è stata inferiore a quella prevista, è la mancanza di fondi.
Il Senatore Kennedy ha evidenziato come l’amministrazione abbia messo in bilancio 20 milioni di dollari per i rifugiati iracheni nell’anno fiscale 2007, mentre le spesa mensile per la gestione della guerra in Iraq è di 8 miliardi dollari.
Ellen Sauerbrey ha sottolineato come le regole imposte dopo gli attacchi dell’11 settembre obblighino il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale ad esaminare i casi dei rifugiati individualmente: “E’ una delle ragioni per le quali così pochi (iracheni) siano stati ammessi dal 2003, le regole hanno reso molto più difficili le cose.”
In una conferenza stampa separata, sempre martedì scorso, il portavoce del Dipartimento di Stato Tom Casey ha risposto ad una domanda sul basso numero di iracheni ammessi negli Stati Uniti affermando che: “la cosa importante è capire che i rifugiati iracheni non sono trattati in modo diverso da quelli provenienti dalle altre parti del mondo.”
A Capitol Hill, John, che ha usato solo il suo nome di battesimo, ha testimoniato in aramaico da dietro un paravento perché preoccupato per la sicurezza della sua famiglia. Appartenente alla chiesa caldea, la chiesa cattolica irachena di rito orientale, John ha dichiarato che le persecuzioni stanno portando all’estinzione della cristianità in Iraq, e che la sua famiglia è stata “benedetta” per aver avuto asilo negli USA. “Vi chiedo di continuare ad essere generosi nei confronti dei miei connazionali e verso i caldei che sono stati costretti a lasciare le proprie case” ha aggiunto.
nicole.gaouette@latimes.com

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

Aggiornamenti. Corsia preferenziale per un richiedente asilo? Tareq Aziz.

Fonti:

Iraq, quasi impossibile trasferire Tariq Aziz in Italia, legale

Baghdad, 17 gennaio 2007-
''Nutro seri dubbi sulla possibilità che gli americani acconsentano al trasferimento di Tariq Aziz in Italia. Se ci fosse la possibilità di trasferirlo all'estero sarebbe piuttosto mandato a Washington o Parigi, in modo da portare avanti l'interrogatorio sullo scandalo 'Oil for Food', di cui Aziz è accusato pur non avendo niente a che fare con la questione''.
Lo ha dichiarato ad AKI-ADNKRONOS INTERNATIONAL Badey Aref, avvocato dell'ex vice Primo Ministro Tareq Aziz, che ieri ha chiesto asilo al governo italiano e al Vaticano per motivi di salute.
Aref ha poi precisato che è l'altro avvocato di Aziz, l'italo-britannico Giovanni Di Stefano, ''a occuparsi della questione, ma difficilmente riuscirà a convincere le forze americane, che si rifiutano categoricamente anche solo di discutere l'argomento''.

Tareq Aziz dovrebbe essere accolto in Russia per le cure mediche

Mosca, 18 gennaio 2007
Mosca dovrebbe rispondere positivamente alla richiesta fatta dall’ex vice premier iracheno Tareq Aziz di sottoporsi a cure mediche in Russia, ha dichiarato il Presidente del Comitato Affari Internazionali della Duma, Konstantin Kosachyov all’agenzia Interfax. “Ovviamente la Russia prenderà in seria considerazione la richiesta del Signor Aziz. Penso che le agenzie governative dovrebbero offrirgli assistenza.” Un eventuale trasferimento di Tareq Aziz non interferirebbe con l’inchiesta sui crimini perpetrati da Saddam Hussein ed i suoi collaboratori, ha aggiunto Kosachyov. “Questa non è una questione politica legata alla valutazione delle attività di Tareq Aziz come capo di governo. La questione è puramente umanitaria. Secondo i media Tareq Aziz, che è gravemente malato, è anche depresso per l’esecuzione di Saddam Hussein e dei suoi complici. Se necessario i suoi legali dovranno rassicurare la Russia che il loro assistito tornerà in Iraq per il processo.”

http://www.interfax.ru/e/B/0/28.html?id_issue=11662036

16 gennaio 2007

Scompare dall’Iraq un altro pezzo del suo patrimonio artistico

Alcune frasi che hanno punteggiato questi quasi quattro anni di occupazione americana in Iraq rimarranno nella memoria, se non del mondo certo degli iracheni.

“E’ fatta!” Bush dopo la caduta del regime di Saddam Hussein
“Missione compiuta!” Bush sulla fine delle operazioni militari su larga scala in Iraq
“La dottoressa Rice ed il Segretario Rumsfeld hanno dichiarato ieri che non sono state trovate prove che l’Iraq abbia avuto qualcosa a che fare con l’11 settembre.”
“Signore e Signori: l’abbiamo preso!”
Paul Bremer sulla cattura di Saddam Hussein
“L’Iraqi Survey Group non ha trovato prove che Saddam possedesse depositi di armi di distruzione di massa nel 2003, ma esiste la possibilità che ci fossero alcune armi in Iraq, sebbene non significative dal punto di vista militare.” Charles Duelfer a capo del’ISG incaricato di trovare le armi di distruzione di massa.
“Stiamo vivendo un momento epico nella storia della libertà” Bush a proposito delle lezioni irachene del dicembre 2005
“Un capitolo orrendo della storia irachena si è chiuso ed ora parliamo di un periodo di speranza per gli iracheni.” Bush a proposito dell’impiccagione di Saddam Hussein.

Altre, invece, con il passare del tempo si annideranno nella memoria solo di alcune persone: gli archeologi di tutto il mondo e sempre tutti gli iracheni.
“Le immagini che state vedendo in televisione le vedrete ancora, ancora ed ancora, ed è sempre la stessa persona che esce da un edificio portandosi via un vaso, e lo vedete per 20 volte e vi chiedete: Mio Dio, c’erano così tanti vasi? E’ possibile che ci siano tanti vasi in un paese?”

La frase, pronunciata dall’allora Segretario alla Difesa americano Donald Rumsfeld si riferiva alle scene dei saccheggi nei ministeri e negli uffici pubblici subito dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, ma è emblematica di come gli iracheni abbiano percepito la cura e la considerazione che i nuovi padroni avevano del loro patrimonio artistico, uno dei più ricchi del mondo. Il Museo Archeologico Nazionale e la Biblioteca Nazionale di Baghdad, ma anche i siti archeologici sparsi nel paese, sono stati, malgrado gli sforzi degli scienziati e delle poche forze internazionali deputati alla loro difesa, saccheggiati, violati, distrutti e questo il popolo iracheno, fieramente attaccato alla sua storia, non lo dimenticherà facilmente. Tombaroli e ladri iracheni, ma anche soldati stranieri, hanno contribuito alla spoliazione di un patrimonio artistico che l’Unesco (L'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura ) ha dichiarato patrimonio dell’umanità a rischio.
A scomparire però non sono solo stati i preziosi manufatti artistici ma anche quegli scienziati che ad essi hanno dedicato la vita, che anche durante gli anni del regime non avevano cercato la fuga dal paese verso le prestigiose università estere, ma che erano rimasti convinti di trovarsi nel loro “paradiso.” Uno di essi è il Dr. Donny George, curatore del Museo Nazionale Iracheno, cristiano, che dopo aver resistito a lungo ha dovuto soccombere alle minacce e lasciare il paese.
Conferenze e corsi faranno sì che il suo patrimonio di conoscenze non andrà sprecato, eppure, è strano e demoralizzante sentirlo affermare che la prima lezione che terrà durante il corso sull’occupazione americana in Iraq agli studenti dell’Università Statale di New York sarà volta a spiegare la diversa composizione etnica e religiosa dell’Iraq. Forse c’è ancora qualche studente che lo ignora? Mah! Ah, sì. Sono studenti americani, di quella grande nazione rappresentata da individui che si interrogano stupiti sul numero dei vasi.
Ma è l’Iraq, signori, non il Texas!

By Baghdadhope

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Da Baghdad a New York : il viaggio di un archeologo assiro

Fonte: New York Magazine
By Nina Burleigh

Donny George, storico, aveva giurato che non avrebbe mai lasciato Baghdad dove era responsabile dell’Iraqi National Museum, il museo archeologico saccheggiato nel 2003. Ma poi suo figlio ha trovato in una busta una pallottola ed una lettera in cui lo si minacciava di tagliargli la testa perché suo padre “lavorava per gli Americani.”
Dal momento dell’invasione americana del paese si stima che circa un milione eottocentomila iracheni siano fuggiti all’estero, ma Donny George, archeologo, sua moglie Najat e suo figlio diciassettenne Martin sono tra i pochi iracheni – solo 500 all’anno – cui è stato concesso il visto degli Stati Uniti. Per questa ragione il non molto alto e robusto cinquantaseienne ora vive a Long Island, guida una Mitsubishi Galant, ascolta Shania Tewain e si prepara ad insegnare archeologia mesopotamica presso la Stony Brook University di New York nel semestre primaverile. Sua figlia Marian, 21, studentessa di medicina suo figlio Steven, 23, che lavora nell’informatica, invece, non hanno avuto il visto e sono rimasti a Damasco.
Da quando è arrivato, più o meno un mese fa, Donny George ha imparato a muoversi nel campus, ma non ha ancora preso confidenza con la moderna ziggurat rappresentata dal garage multipiano e, scusandosi, sala una rampa contro mano. Lui e la sua famiglia hanno cercato spezie e cibo a loro familiari nei negozi dei sobborghi, ed hanno spiegato ad incuriositi commessi di essere assiri cristiani e non sunniti o sciiti.
Durante gli ultimi vent’anni il Dr. George ha supervisionato alcune delle più significative opere di scavo archeologico del mondo. Nel 1987 era a capo di un scavo a Babilonia quando ricevette la visita di Saddam Hussein: “L’ho portato in giro, era molto calmo ed ascoltava ciò che gli spiegavo. In uno dei musei c’erano delle iscrizioni tradotte, ed in una Nabucodonosor diceva che uno degli dei lo aveva mandato a protezione delle 'teste nere'. A quel punto Saddam disse 'Dovreste cambiare il testo' ed io risposi: 'No, Signore, E’ scientifico, non possiamo cambiarlo, questo è esattamente ciò che fu detto. Non significa che la gente è nera ma –tutta la gente – perché se si guarda la folla irachena essa è fatta di gente con i capelli neri.' “Voleva cambiare 'teste nere' con 'di tutta la gente' ed io gli dissi di no.”
“Dopo un po’ una delle guardie del corpo di Saddam mi prese da parte e mi disse: Come hai potuto dire no al presidente? Ed io risposi: E’ la scienza. E lui: Bene. Dio ti benedica. Normalmente saresti sparito nel nulla.”
All’inizio del 2003, con l’invasione imminente, il Dr.George fece pressioni sui suoi capi al museo perché la collezione venisse protetta sigillandola nei sotterranei. “Li ho pregati - Per l’amor di Dio, per l’amore dei Profeti, si deve fare o ruberanno tutto – e la sola risposta che ebbi fu: - Sta esagerando. C’è Saddam e nessuno oserà arrivare fino a Baghdad.-”
Il Dr.George stima che il museo abbia perso 15.000 pezzi e che dai siti archeologici ne siano spariti ancora di più, “dal saccheggio dei siti abbiamo recuperato 17.000 pezzi, ma se ne abbiamo ritrovati tanti quanti non ritroveremo più?” Il Dr.George ha saputo che molti degli oggetti sono finiti nelle collezioni private di scrittura cuneiforme di New York. “E’ molto triste, ma c’è una soluzione, se il governo americano smetterà di far dedurre dalle tasse le donazioni i musei non compreranno, oggi, invece, esso incoraggia i ricchi a comprare e successivamente a fare delle donazioni.”
Dal punto di vista politico il Dr. Gorge è cauto: vuole i visti per gli altri due figli. Per questa ragione non commenta il piano del presidente Bush per un incremento delle truppe in Iraq anche se, alla fine, si lascia andare ad un commento: “La soluzione è politica e coinvolge la Siria e l’Iran.” Nei suoi incubi peggiori, dice, non avrebbe mai pensato che l’Iraq sarebbe precipitato in una guerra civile: “persino al tempo di Saddam queste differenze non c’erano. Non ho mai chiesto ai miei vicini o a miei amici se erano sunniti o sciiti, ed i musulmani non lo hanno mai chiesto a me. Non era educato chiederlo.” Nel frattempo, aggiunge, gli iraniani sono già penetrati in Iraq tanto che ha sentito dire che nei mercanti di Bassora si parla ormai arabo ma anche persiano. Prima di partire le voci che giravano erano che sarebbe stato sostituito al museo da un musulmano eppure, sebbene anche la chiesa che lui e sua moglie frequentavano sia stata fatta saltare in aria, il Dr. George è convinto che un giorno tornerà a casa. “Noi conosciamo la storia e l’archeologia. Sappiamo che non è possibile che la situazione rimanga così per sempre.”
I suoi progetti immediati sono di tenere alcuni seminari sull’occupazione americana alla Stony Brook University il prossimo inverno. La prima lezione che vuole fare è sul passato eterogeneo dell’Iraq: “Mi piacerebbe che gli americani sapessero che è un paese abitato da diversi tipi di persone – arabi, assiri, turcomanni, curdi, yazidi – e di diversa religione. Gente che ha vissuto fianco a fianco per secoli.”

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

Mar Addai II (Chiesa Antica dell'Est) negli USA

Fonte: ANKAWA.COM

E' giunto in Arizona (USA) il Patriarca della Chiesa Antica dell'Est, Sua Beatitudine Mar Addai II. Il Patriarca, in viaggio tra Europa, Canada e Stati Uniti per visitare la sua comunità di fedeli, visiterà la nuova chiesa di Mar Korkis il cui parroco, Padre Benjamin Michael era tra coloro che lo hanno atteso in aeroporto per una cerimonia di benvenuto. Tra questi anche rappresentanti di partiti politici ed associazioni cristiane come l'Assyrian Democratic Movement e l'Assyrian Aid Society.


Chiesa Antica dell'Est
Nel 1964 il Patriarca della Chiesa Assira, Mar Shimon XXIII, che già risiedeva negli Stati Uniti, decise di abbandonare l’uso del calendario giuliano a favore di quello gregoriano. Nel 1968 il Metropolita indiano della Chiesa dell’Est, Thoma Darno, si recò a Baghdad dove fu eletto patriarca da chi non aveva gradito quello ed altri cambiamenti apportati dal patriarca negli Stati Uniti. La chiesa fu riconosciuta dal governo iracheno nello stesso anno, e dal 1970 è guidata da Mar Addai II che risiede a Baghdad.

Dal dossier "Iraq, terra di Abramo" a cura dell'Ufficio Pastorale Migranti dell'Arcidiocesi di Torino

Corsia preferenziale per un richiedente asilo? Tareq Aziz


Legale di Tareq Aziz chiede all’Italia ed al Vaticano di aiutarlo a vivere in Italia in attesa del processo.

Qualche domanda e qualche considerazione:

Il legale di Tareq Aziz chiede che il suo assistito venga aiutato ad espatriare per ricevere cure mediche adeguate - Nella cittadina cristiana di Alqosh, nel nord dell'Iraq, centinaia di persone si sono ammalate a causa del'acqua inquinata, e nell'intero Iraq migliaia di ammalati cronici non riescono ad ottenere cure adeguate, per non parlare delle migliaia di feriti a causa delle violenze.

Fare in modo che Tareq Aziz, cattolico caldeo, trovi rifugio in Italia in attesa del processo, per quanto in linea con i sentimenti di pietà e perdono della nostra religione, non potrebbe rappresentare un pericolo ulteriore per i cristiani iracheni? Come potrebbero reagire le fazioni i cui leaders sono detenuti dalle forze USA ma che non sono in grado di trovare uno stato sponsor?

Legale di Aziz: "Ho chiesto al governo italiano ed al Vaticano di garantire per lui perché possa vivere in pace in Italia." "In pace." Ecco un'espressione che molti iracheni non conoscono, non solo perchè da quasi quattro anni vivono in guerra, ma anche perchè per la maggior parte di loro il periodo del regime baathista - di cui Michael Yohanna, il vero nome di Tareq Aziz, ha fatto parte, anche se a suo dire in modo marginale - tutto ha significato tranne la pace.

By Baghdadhope

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The Associated Press
16 gennaio 2007

ROMA: L’ex Vice Primo Ministro iracheno Tareq Aziz ha chiesto al governo italiano ed la Vaticano di garantire per lui perché possa vivere in Italia in attesa del processo in Iraq, ha dichiarato oggi il suo avvocato italiano
Giovanni Di Stefano ha aggiunto di volere chiedere la libertà su cauzione per Aziz che fu, in passato anche ministro degli esteri e che è ora detenuto in una base militare americana a Baghdad dopo essere stato arrestato successivamente alla caduta del regime di Saddam Husseine trattenuto dalle forze USA in virtù di un accordo fatto con il governo iracheno.
“Ho chiesto al governo italiano ed al Vaticano di garantire per lui perché possa vivere in pace in Italia” ha detto Di Stefano ai giornalisti a Roma, mostrando loro due lettere firmate da Aziz. “Non sarà condannato a morte, ma morirà in prigione se non verrà rilasciato.”
In passato anche la famiglia di Aziz si era appellata al Vaticano chiedendo a Papa Benedetto XVI di intervenire presso le autorità americane per il suo rilascio e per permettergli di ricevere adeguate cure mediche all’estero, adducendo il fatto che il suo stato di salute sia notevolmente peggiorato. Aziz, un cattolico caldeo, aveva avuto un attacco di cuore prima dell’invasione dell’Iraq da parte della coalizione a guida americana nel 2003.
“Quest’uomo ha bisogno urgente di cure mediche che non sta avendo” sono le parole di Di Stefano che ha riferito di aver incontrato Aziz venerdì scorso.
Sulla questione Aziz non è stato possibile avere un commento a caldo da parte del portavoce del governo Silvio Sircana, mentre il portavoce vaticano ha dichiarato di non essere a conoscenza delle lettere.
Aziz aveva incontrato Papa Giovanni Paolo II in Vaticano nel febbraio del 2003, alla vigilia della guerra, nel tentativo di bloccarla. E’ accusato di complicità in diverse purghe attuate dal partito (Baath, ndt) negli anni 70 ed 80 a causa delle quali trovò la morte un numero imprecisato di persone. L’accusa è stata respinta da Aziz sulla base del suo essere stato incaricato solo degli affari esteri e di trattare con i media.
L’avvocato Di Stefano ha anche affermato di avere chiesto alla Corte Internazionale di Giustizia di Hague l’incriminazione del primo ministro iracheno Nouri al-Maliki e di altri dirigenti iracheni responsabili dell’esecuzione di Saddam Hussein e di due dei suoi collaboratori.

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

Bishop of Kirkuk: Iraq will be split

Source: ASIA NEWS

Iraq moving towards division, says bishop of Kirkuk.

Mgr Louis Sako
voices his concerns over the growing split between Shiites, Sunnis and Kurds. A divided Iraq will not have peace but may confine Christians in their own ghetto.

Click on "leggi tutto" for the article by Asia News

Kirkuk (AsiaNews)

As the effects of Sunni-Shia clashes and Saddam Hussein’s execution gather momentum, Iraq is moving towards a terrible division with the US doing nothing to stop it, says Mgr Louis Sako, Chaldean Archbishop of Kirkuk.
“Internet sites and papers are already publishing the new political maps with the Kurdish north, the Shia south and the Sunni centre,” he said. The real problem lies in multiethnic areas like Kirkuk and the Church.
For Mgr Sako, natural gas-rich Kirkuk is a time-bomb, “a source of dangerous tensions”.
For Christians there is the danger of ending up in a regional ghetto, when the best solution would be to guarantee freedom of religion to everyone in every part of the country.

Mgr Sako, what kind of Iraq do you see emerging this year?
Iraq is sliding towards division. Ongoing clashes show that and the Americans are doing nothing to stop that. The north is Kurdish (Kurdistan), the south is Shia (Shiastan), and the centre is occupied by Sunnis (Sunnistan). Internet sites and papers are already publishing the new political maps! This will have serious consequences for neighbouring countries like Turkey, Syria and Iran, where the local Kurdish population is demanding autonomy or independence but where local governments are opposed. The division of Iraq is not a solution and will not bring peace and stability.

What are the consequences for the country of Saddam’s and his right-hand men’s execution?
The tragic and disgraceful execution of former President Saddam Hussein has widened the Sunni-Shia divide. For Sunnis Shia Iran is the main cause of their marginalisation and for what is happening in Iraq. Shiites have taken power but the current government has failed to achieve the desired reconciliation or to ensure peace.

In 2007 a referendum in expected to be held that might result in Kirkuk joining either Kurdistan or a Sunni province. Some observers are of the opinion that this might a time-bomb…
Huge interests and dangerous tensions gravitate around Kirkul. The city is not homogeneous, nor ethnically uniform. Residents are Muslim, Christian, Kakai, Kurdish, Arab, Turkmen, Chaldeans, Assyrians and Armenians. Will it be an independent political and administrative entity? Annexed by Kurdistan? Or by the neighbouring Sunni province? Everyone is waiting for the referendum which won’t be easy to pull off.
On January 13 rebels shot dead two businessmen and blew up a Shia mosque under construction in the Nida neighbourhood, on the city’s east side. There are thieves or people who just demand money without carrying out kidnappings. Five Christian families have paid a ransom; others are planning to move to the north or to Syria. Things are going from bad to worse and the population is living in fear and uncertainty, not knowing where they will live!

What place will there be for Christians in Iraq?
Christians are confronted with increasing difficulties. For some time, some people have been thinking of gathering them in a specific area, the Nineveh plain. They would have their own territory, but to be viable the idea of a protected zone, a safe haven, which is viewed sympathetically by the Kurds and even the Americans, needs an end to the violence and remains in any event a dangerous plan. The Nineveh plain is largely surrounded by Arabs and Christians would serve as a useful and undefended buffer zone between Arabs and Kurds. In my opinion it would be preferable to work at the constitutional level and each area to guarantee religious freedom and equal rights for believers of all faiths throughout the land, including Christians who can be found everywhere.



Vescovo di Kirkuk: l'Iraq sarà diviso

Fonte: ASIA NEWS

Vescovo di Kirkuk: l’Iraq si avvia verso la divisione.

Mons. Louis Sako
esprime le sue preoccupazioni per la crescente frattura fra sciiti, sunniti e curdi. Un Iraq diviso sarà senza pace e rischia di relegare i cristiani in un ghetto.

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Kirkuk (AsiaNews)

L’Iraq, senza ostacoli da parte degli Usa, scivola verso una terribile divisione. Gli scontri fra sunniti e sciiti, l’esecuzione di Saddam Hussein affrettano i passi verso lo sbriciolamento del Paese: è questo l’Iraq che mons. Louis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk, vede con timore delinearsi all’orizzonte: “I siti internet e i giornali – dice - pubblicano già le nuove mappe politiche”, col nord curdo, il sud sciita, il centro sunnita. Il problema più grave è per le realtà multietniche: Kirkuk e la Chiesa. Per mons. Sako, Kirkuk – ricchissima di depositi di gas naturale – è una bomba ad orologeria, “una fonte di pericolose tensioni”. Per i cristiani, invece, c’è il rischio di dover vivere in una regione-ghetto, mentre la cosa migliore sarebbe garantire uguale libertà di religione in tutte le aree del Paese.

Mons. Sako, quale Iraq vede delinearsi in questo inizio anno?
L’Iraq va verso la divisione; gli scontri attuali lo provano e gli americani non lo ostacolano: il nord è curdo (Kurdistan), il sud sciita (Sciistan), e il centro occupato dai sunniti (Sunnistan). Sui siti internet e sui giornali sono già pubblicate le nuove mappe politiche! Questo avrà gravi conseguenze sui Paesi limitrofi, quali Turchia, Siria e Iran, dove i curdi chiedono maggiore autonomia o indipendenza, ma i governi sono contrari. La divisione dell’Iraq non è una soluzione e non porterà pace e stabilità.

Che conseguenze ha sul Paese l’impiccagione di Saddam e dei suoi gerarchi?
La frattura fra sunniti e sciiti è diventata più grave per la forma tragica e irrispettosa dell’esecuzione dell’ex-presidente Saddam Hussein. Per i sunniti, la causa della loro emarginazione e il colpevole di quanto sta accadendo in Iraq è l’Iran sciita. Gli sciiti hanno preso il potere, ma il governo attuale non è riuscito a realizzare l’auspicata riconciliazione, né assicurare la pace.

Nel 2007 è in programma il referendum su Kirkuk, che potrebbe essere inglobata nel Kurdistan o nella provincia sunnita. Alcuni osservatori pensano che questo problema sia una bomba ad orologeria…
Attorno a Kirkuk gravitano enormi interessi e pericolose tensioni. La città non è religiosamente omogenea, né etnicamente uniforme. Gli abitanti sono musulmani, cristiani, kakai, sono curdi, arabi, turkmeni, caldei, assiri e armeni. Sarà una realtà amministrativa e politica a sé? Assimilata al Kurdistan, oppure alla provincia centrale sunnita? Tutti aspettano il referendum, che non sarà facile.
Il 13 gennaio scorso i ribelli hanno ucciso a colpi d'arma da fuoco due imprenditori e fatto saltare in aria una moschea sciita in costruzione, nel quartiere Nida, parte est. Ci sono tanti ladri o persone che chiedono soldi, ma senza rapire. Cinque famiglie cristiane hanno pagato un riscatto, altre pensano di emigrare ancora più a nord o in Siria. Le cose vanno peggiorando e la popolazione vive nella paura e nell' incertezza, senza sapere dove sarà la loro casa!


Quale posto troveranno i cristiani nel futuro Iraq?
I cristiani vivono con crescenti difficoltà. Da tempo si pensa a raccoglierli in una zona specifica: la Piana di Ninive. Essi avrebbero così un nuovo territorio, ma l’idea di una zona protetta, quel Safe Haven guardato con simpatia dai curdi e anche dagli americani, richiede come presupposto la fine delle violenze e rimane, comunque, un progetto rischioso. La Piana di Ninive è circondata per gran parte dagli arabi: i cristiani sarebbero così un cuscinetto comodo e indifeso fra arabi e curdi. A mio avviso sarebbe molto meglio lavorare sul piano costituzionale e dei singoli stati per garantire libertà religiosa e pari diritti per i credenti di tutte le fedi sull’insieme del territori, anche per i cristiani, presenti ovunque in Iraq.


Altri due cristiani uccisi in Iraq

Fonte: Ankawa.com

La comunità cristiana irachena piange oggi, attraverso il sito Ankawa.com, la morte di due suoi giovani componenti. A Baghdad, a tre giorni dal sequestro è stato ucciso Malik Mansour Bihnam Hanna, il cui corpo sarà seppellito a Karamlesh, suo villaggio d’origine.
Nel sobborgo di Hay Al-Uahda a Mosul è invece morto Sarkon Sabah Jacoub, ucciso da uomini armati mentre con la famiglia si stava dirigendo verso il villaggio di Bakhdida per far visita a dei parenti. Feriti nell’agguato sua moglie Najib e suo figlio Fadi ora ricoverati in ospedale in condizioni critiche.

15 gennaio 2007

Vita a Baghdad. Ma... è vita? Scambio di casa, ma non è una vacanza

Fonte: Institute for War & Peace Reporting

Nel mondo in cui programmare le vacanze è una delle preoccupazioni della vita scambiarsi la casa è un modo alternativo per conoscere altri paesi.
In Iraq, e soprattutto a Baghdad è un modo per sopravvivere.
Sempre più divisa tra una parte occidentale sunnita ed una orientale sciita, la città è scenario di traslochi forzati di famiglie di una corrente religiosa che scambiano la propria casa con quelle dell'altra per sopravvivere alle campagne di "pulizia religiosa" compiute dalle avverse milizie. In tutto questo, come al solito, i cristiani sono quelli che ci perdono di più. Fuggono all'estero o verso il nord, ma le loro case non sono merce di scambio, e quando le lasciano possono solo sperare che i vicini, sunniti o sciiti che siano, che hanno promesso di salvaguardarle per loro, vogliano o possano continuare a farlo.

Clicca su "leggi tutto" per leggere la traduzione del reportage di Zaineb Naji da Baghdad e vai al sito di ZindaMagazine (A Matter of Life or Death) per la cartina sulla situazione della divisione di Baghdad su base religiosa.

Click on the title of the post for the original article by IWPR

Scambiarsi casa a Baghdad

Con l’aumentare del numero di sunniti e sciiti costretti a sfuggire alle violenze sta emergendo un mercato legato allo scambio delle case, un mercato con tanto di agenzie e contratti a breve termine.

By Zaineb Naji in Baghdad (ICR No. 208, 12 gennaio 2007)

Sundus abdul-Fatah non sa ancora se lasciare la casa a Baquba dove lei ed il marito avevano cresciuto sette figli sia stata una buona decisione.
Residente nel quartiere a maggioranza sunnita di Yarmouk, nella cittadina a 65 km a nord-est di Baghdad, la trentenne Abdul-Fatah è fuggita nella capitale dopo l’uccisione del marito e le minacce ai suoi figli da parte degli insorti sunniti. Con solo il tempo di raccogliere qualcosa, la donna si è dapprima trasferita a casa della sorella, in attesa di trovare un posto per vivere – un problema che molti iracheni costretti a lasciare le proprie case a causa del crescente conflitto settario stanno affrontando.
“E dura lasciare la casa che hai costruito e dove hai sempre vissuto, lasciare tutti i bei ricordi. Ma la morte fa paura” dice piangendo. “Ho dovuto lasciare tutto, ma l’immagine di mio marito ucciso di fronte casa mi ha spinto a fuggire con i bambini. Avevo paura che avrebbero fatto la sua stessa fine.”
Migliaia di famiglie sono state costrette a fuggire, chi a causa degli insorti sunniti, chi di quelli sciiti. Abdul-Khaliq Zangane, vice parlamentare e membro del comitato parlamentare che si occupa degli sfollati, afferma che nel novembre del 2006 circa 100.000 famiglie sono state costrette ad abbandonare le loro case.
Il risultato è stato l’emergere di un nuovo fenomeno: quello dello scambio di case tra famiglie sunnite e sciiite, facilitato da agenzie immobiliari che forniscono le liste delle case disponibili.
Quando Abdul-Fatah seppe della possibilità di scambiare la sua casa iniziò immediatamente a cercare una famiglia sunnita fuggita dalla capitale che desiderasse alloggiare a Baquba. Dopo molte ricerche trovò un agente immobiliare nel quartiere sud orientale di Mashtal, a Baghdad, in possesso di una lista di famiglie sunnite che stavano cercando di scambiare le proprie case.
Fu così che Abdul-Fatah si accordò con una famiglia che aveva lasciato il quartiere dopo essere stata minacciata da militanti sciiti. Secondo l’accordo le due famiglie accettarono di scambiarsi le case fino al miglioramento della situazione, ma di portare con sé i propri mobili.
Ora che vive in un quartiere sciita dove i bambini possono andare a scuola Abdul-Fatah si sente sicura: “La vita non è facile a Baghdad perché all’inizio tutto era nuovo per noi, specialmente vivere in una casa che non era la nostra, ma poi ho cominciato a sentirmi più sicura perché i miei vicini sono della mia stessa setta ed alcuni sono sfollati proprio come noi.”
“Lo scambio casa funziona bene” afferma l’agente immobiliare che ha curato il contratto, “fino ad ora abbiamo trovato casa a più di un centinaio di famiglie a Baghdad e nei sobborghi, e tutte le parti sono soddisfatte.”
L’uomo, che rifiuta di dire il suo nome, rifiuta anche, adducendo motivi di sicurezza, di dire come fa a procurarsi la lista delle famiglie sfollate, ma piuttosto spiega come le famiglie si fidino perché un contratto scritto garantisce i diritti di ambo le parti.
Altre famiglie, però, dubitando di tali contratti o degli intermediari, cercano di trovare la famiglia con la quale scambiare la casa spargendo la voce tra parenti ed amici.
A Sabihe Mohammed, una pensionata cinquantacinquenne del quartiere di Shaab, i militanti sciiti ingiunsero di lasciare la casa, e visto che la famiglia di sua nuora era da poco stata uccisa proprio dai militanti non le rimase altro che obbedire.
”Non so chi ha detto ai miliziani dove abitavamo ma so che l’Esercito del Mahdi gira per i vicoli del quartiere alla ricerca delle famiglie sunnite” dice la donna che ora vive per brevi periodi a casa di parenti o amici e porta con sé solo la carta d’identità ed altri documenti ufficiali. Dopo un mese dall’abbandono della casa, attraverso i parenti con i quali viveva, le fu presentata una famiglia sciita che aveva dovuto lasciare il quartiere di al-Jamiaa.
L’accordo fu di trasferirsi nella casa dell’altra famiglia per sei mesi, ma di lasciare i propri mobili visto che molte persone erano state attaccate dai militanti proprio durante il trasloco.
Il giorno successivo al suo trasferimento nella sua nuova casa, però, Sabihe Mohammed rimase di sasso quando i miliziani le chiesero chi le aveva dato il permesso di viverci, e che cosa ne era stato della famiglia sciita. Le chiesero i documenti di identità e le dissero di farsi dare il permesso dalla moschea vicina per vivere in quella casa, anche se poi la lasciarono in pace. “Sembrava che nessuno volesse darmi una casa a Baghdad, persino nel quartiere sunnita.” Ogni giorno nel quartiere ci sono scontri e costantemente si ode vicino il suono dei colpi di mortaio, ma Sabihe Mohammed raramente parla con i vicini: “Mi sembra di avere sbagliato a prendere questa casa, ma cosa potevo fare? Non avevo altra scelta, e l’inverno ed il freddo si avvicinavano.”
Sfollate sono anche le famiglie curde e cristiane. Secondo Zangane, il parlamentare che si occupa della questione degli sfollati, esse sono state costrette a lasciare i quartieri di Dora, Shule, Amin e Sadr City. Molte di esse, dice, vanno a vivere con parenti ed amici nelle più stabili province del nord di Kirkuk, Erbil e Duhok.
Mano mano che emerge una sorta di organizzazione che aiuta le persone a ricollocarsi, molti iracheni avanzano il sospetto che ad essere coinvolti nel processo siano i partiti politici.
Molte famiglie di sfollati sciiti, ad esmpio, hanno dichiarato all’IWPR di essersi recate negli uffici del movimento di Muqtada Al Sadr perché in alcuni quartieri le case abbandonate dai sunniti sono state assegnate dall’esercito del Mahdi a sciiti senza abitazione. Allo stesso modo, nel quartiere a maggioranza sunnita di al-Jamiaa, nella parte occidentale di Baghdad, gli insorti sunniti hanno offerto ai parenti sfollati dei residenti le case abbandonate dagli sciiti o, in altri casi, esse sono state assegnate a sunniti senza casa che vivevano nelle moschee.
La consigliera ministeriale Maryam al-Rayis, insiste nel dire che lo scambio delle case non fa parte di una politica ufficiale: “Le parti politiche sunnite e sciite possono giocare un ruolo nell’ambito del fenomeno del ricollocamento delle famiglie sfollate, ma non un ruolo importante.”
Il comitato parlamentare di cui è membro Zangane aiuta gli sfollati fornendo tende per i campi in cui vivono, trovando loro casa e dando assistenza, in collaborazione con organizzazioni non governative locali ed internazionali, ma proprio Zangane riconosce che gli aiuti forniti sono ben al di sotto di quelli necessari. “E’ il risultato della situazione di insicurezza e della corruzione amministrativa. Per aiutare gli sfollati sono stati stanziati 6 milioni di dollari, ma ne occorrerebbero 20. Per le moltissime famiglie sfollate è una catastrofe, come uno tsunami.”
Zaineb Naji collabora con l’IWPR da Baghdad.

Tradotto ed adattato da Baghdadhope