By Baghdadhope
Padre Hani Abdel Ahad, parroco della Wisdom Chaldean Church a Baghdad era stato rapito mercoledì 6 giugno insieme a cinque ragazzi che lo accompagnavano. All’inizio sembrava essere solo l’ennesimo –l’ottavo, per essere precisi – rapimento di un sacerdote caldeo della capitale. Un fenomeno che al di là delle pure motivazioni economiche legate ai riscatti richiesti – e pagati – per la liberazione degli ostaggi, da subito si è connotato anche come un efficace metodo per seminare ulteriore terrore nella ormai esigua comunità cristiana della capitale. Rapire un sacerdote è conveniente perchè assicura denaro e perchè trasmette un messaggio chiaro: se i rappresentanti della chiesa, che pure ormai, visti i precedenti, sono costretti ad adottare misure di sicurezza personale, sono vittime di sequestri e violenze, che certezza c’è per il cittadino comune?
Una certezza potrebbe essere rappresentata dal fatto che nella capitale, a parte poche eccezioni, sono ormai rimasti solo quei cittadini di fede cristiana che economicamente non sono riusciti ad organizzare il proprio trasferimento in zone più sicure del paese o all’estero, e che al massimo si spostano in altre aree della capitale sfuggendo alle violenze che li vedono vittime, come ad esempio è successo per Dora, dove ormai la presenza cristiana – una volta notevole – è praticamente nulla. Questi iracheni cristiani, la “coda” della grande scia emigratoria, non sono “appetibili” per chi ha fatto del sequestro di persona la principale fonte di reddito, ed allora bisogna – con il terrore, “convincerli” a cercare di sopravvivere altrove per guadagnare terreno nella lotta che sta opponendo le diverse anime musulmane del paese che, parallelamente alle bande di delinquenti senza religione alcuna e nella più totale impunità garantita da un governo assente, si contendono il controllo della città di casa in casa, di quartiere in quartiere. Ecco quindi che ad ogni rapimento di un sacerdote una, dieci, cento famiglie in più fuggono, abbandonano la casa, magari il lavoro quando c’è, i ricordi, le speranze, e diventano profughi o come li definisce il freddo linguaggio burocratico, IDP, Internally Displaced People, un acronimo che indica coloro che hanno abbandonato il proprio luogo di origine per trasferirsi altrove ma senza varcare i confini nazionali, profughi in patria, in altre parole.
Ma convincere i civili non basta, bisogna fare pressioni sulla stessa chiesa in quanto istituzione, ed i sacerdoti rapiti servono anche a questo. Si ritorna così al “messaggio.” Perchè uccidere un sacerdote e tre suddiaconi a Mosul domenica 3 giugno se non per farsi “sentire” dal Sinodo della chiesa caldea riunitosi ad Al Qosh, il venerdì precedente? E perchè rapire Padre Hani ed i cinque ragazzi che erano con lui il mercoledi successivo?
E perchè rilasciare i ragazzi il giorno dopo e non il sacerdote?
Coincidenze nei primi due casi? Difficoltà di gestione dei sequestrati in un paese dove nessuno indaga sui rapimenti come da noi nessuno lo fa per il furto di un geranio, o “vendita” del gruppo di civili ad una banda interessata ai soldi purchè “pochi, maledetti e subito” nell’ultimo?
Molte voci sussurreranno le risposte, ma nessuno mai le darà.
Certo sin dall’inizio alcuni osservatori hanno fatto notare che tra tutti i sequestri avvenuti quello di Padre Hani, proprio perchè successivo di soli tre giorni all’omicidio di Padre Ragheed Aziz Kanni a Mosul, era quello più a rischio di una tragica conclusione.
Con il passare dei giorni poi la sensazione di pericolo aumentava, lunedi 11 era arrivata da fonte certa all’interno del patriarcato caldeo la notizia, tenuta riservata alla stampa, di un altro contatto con i rapitori. Il riscatto preteso, si diceva, era esoso, ben superiore alle richieste nei casi precedenti ma, soprattutto, la richiesta di poter sentire la voce di Padre Hani prima di iniziare una qualsiasi trattativa non era stata soddisfatta a breve, come era avvenuto le altre volte.
Si è dovuto attendere fino a domenica 17 per avere la notizia tanto sperata della liberazione del sacerdote di cui, però, non si conoscono ancora le condizioni. “Ma non sarà finita con Padre Hani” ha riferito con tono di sconforto a Baghdadhope una fonte della chiesa caldea di cui si mantiene l’anonimato.
Il pessimismo ha infatti ormai invaso l’animo di molti iracheni cristiani che, nonostante gli appelli, le manifestazioni, le pressioni internazionali, non vedono un futuro certo in Iraq. Un futuro che, come ha dichiarato Monsignor Warduni, vescovo caldeo di Baghdad, non può essere ignorato dalla comunità cristiana del mondo.