"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

15 novembre 2010

«Qui c’è la speranza, in Iraq non si può vivere»

By Avvenire, 14 novembre 2010
by Luca Liverani

Più dell’orrore vissuto nella car­neficina della cattedrale di Ba­ghdad, ciò che stupisce di queste donne irachene è la dignità e il contegno con cui lo raccontano.
Faisa Ishak non perde il controllo nemmeno quando dice che, «rien­trata incolume a casa», si è accorta «di avere la giacca sporca del sangue e dei grumi di carne delle altre vitti­me ». Nella hall moquettata della re­sidenza protetta del Gemelli, dove sono stati accolti e coccolati i 19 fa­miliari dei 26 feriti portati a Roma, il terrore della guerra civile irachena sembra lontana anni luce. Ma il cuo­re di queste donne è là: «Il martedì e il mercoledì dopo l’attentato – dice Vivian Kamal hanno assalito le no­stre case a colpi di bombe, nel quar­tiere Ghadir. In pieno giorno, nella capitale, sede del governo e delle for­ze di sicurezza. Era un quartiere cri­stiano. Ora si sta svuotando. Io tor­nerò presto, ho tre figli piccoli lì. Ma così non possiamo vivere. Possono ucciderci ogni giorno».
I 26 feriti – ar­rivati venerdì sera con un C130 del­l’aeronautica militare grazie al lavoro della Direzione generale per la coo­perazione del ministero degli Esteri – sono stati tutti ricoverati, ma non so­no in pericolo di vita. Sei hanno pro­blemi cardiaci o attacchi di panico.
Gli altri lesioni da schegge e proiettili – in molti casi ancora da estrarre do­po due settimane – qualcuno ai ten­dini o ai nervi, uno all’udito, uno agli occhi. Quattro hanno fratture. Il dottor Giorgio Me­neschincheri è il coordinatore del piano di emergenza del Gemelli. «Ho visto occhi pieni di terrore. Ma quando hanno capito che il viaggio era finito e hanno visto medici, infermieri e volontari dedicarsi a loro hanno co­minciato a sorridere. “Ora mi posso rilassare”, ha detto uno, un altro ha parlato di “viaggio della speranza”».
Ma quelle ore in balìa di un manipo­lo di terroristi islamici li hanno mar­chiati a fuoco. Samira George ha i ca­pelli grigi e il volto segnato. «Il 31 ot­tobre eravamo alla Messa delle 17 con nostra figlia. Abbiamo sentito fuori un’esplosione. Celebrava Padre Tahir, e ci ha detto “continuiamo a pregare”. Poi tre giovani, al massimo ventenni, sono entrati e hanno co­minciato a sparare, soprattutto agli uomini. Gridavano: “Lo stato irache­no è islamico”. Chi si muoveva era fi­nito. Quando si sono accorti che mia figlia aveva il cellulare, le hanno spa­rato sulla mano». Noor sarà operata nei prossimi giorni. L’incubo di san­gue dura ore ed ore. «Fuori abbiamo sentito un elicottero – continua Sa­mira – ma nessuno è arrivato per sal­varci. Le forze di sicurezza sono en­trate solo in serata. Mio marito Hik­mat Aziz l’ho trovato solo alle 3 all’o­spedale Al Kindi. È morto lì». Il croci­fisso d’oro al collo di Vivian Kamal spicca sul tailleur nero. «Mia sorella Afnan è stata colpita da un proiettile che le ha distrutto ossa e nervi della mano. Dentro la chiesa, al vespro, i terroristi hanno pregato Allah, poi hanno inneggiato al Jihad e lanciato bombe a mano gridando contro noi “cristiani miscredenti”. Uno, dopo a­vere ucciso anche l’altro prete, padre Wassim, ha avvolto la sua stola attorno al mitra. Mio figlio di 9 anni era con i miei genitori, mio padre s’è nasco­sto sotto i banchi, mia mam­ma Suhaila non ce l’ha fatta. Si sono salvati infilandosi su per i matronei». Il bambino è sotto choc: «Non va a scuola, ha paura delle armi dei soldati».
Faisa Ishak era tra le per­sone barricate in sacrestia: «Abbia­mo messo gli armadi contro la porta, 60 in una stanza. Sentivamo le raffi­che e le urla di chi moriva». I milizia­ni si accorgono di loro: «Hanno lan­ciato bombe a mano dalla finestrella sopra la porta. Mio marito è stato colpito alla testa». Aisha, la chiame­remo così perché preferisce restare anonima, è l’unica islamica del grup­po. Il marito, vigilante di guardia alla vicina Borsa, ha visto i terroristi arri­vare sgommando. «“Attenti ai bambi­ni in strada”, ha gridato. Gli hanno sparato, ha risposto al fuoco feren­done uno, poi l’hanno colpito alla te­sta ».
Padre George Jahola è sfiducia­to. «In chiesa hanno eliminato ogni traccia. Cercano di nascondere que­sta persecuzione. Non abbiamo fidu­cia nel governo, che tenta di nascon­dere la sua fragilità. Testimoni dico­no che la polizia era fuori dalla chie­sa mentre i terroristi uccidevano. Hanno aspettato che finissero le mu­nizioni? Serve una commissione d’inchiesta internazionale. Noi testi­moniamo la fede con la vita, abbia­mo bisogno della preghiera dei cri­stiani. E che la preghiera si trasformi in fatti e azioni».