Più dell’orrore vissuto nella carneficina della cattedrale di Baghdad, ciò che stupisce di queste donne irachene è la dignità e il contegno con cui lo raccontano.
Faisa Ishak non perde il controllo nemmeno quando dice che, «rientrata incolume a casa», si è accorta «di avere la giacca sporca del sangue e dei grumi di carne delle altre vittime ». Nella hall moquettata della residenza protetta del Gemelli, dove sono stati accolti e coccolati i 19 familiari dei 26 feriti portati a Roma, il terrore della guerra civile irachena sembra lontana anni luce. Ma il cuore di queste donne è là: «Il martedì e il mercoledì dopo l’attentato – dice Vivian Kamal – hanno assalito le nostre case a colpi di bombe, nel quartiere Ghadir. In pieno giorno, nella capitale, sede del governo e delle forze di sicurezza. Era un quartiere cristiano. Ora si sta svuotando. Io tornerò presto, ho tre figli piccoli lì. Ma così non possiamo vivere. Possono ucciderci ogni giorno».
I 26 feriti – arrivati venerdì sera con un C130 dell’aeronautica militare grazie al lavoro della Direzione generale per la cooperazione del ministero degli Esteri – sono stati tutti ricoverati, ma non sono in pericolo di vita. Sei hanno problemi cardiaci o attacchi di panico.
Gli altri lesioni da schegge e proiettili – in molti casi ancora da estrarre dopo due settimane – qualcuno ai tendini o ai nervi, uno all’udito, uno agli occhi. Quattro hanno fratture. Il dottor Giorgio Meneschincheri è il coordinatore del piano di emergenza del Gemelli. «Ho visto occhi pieni di terrore. Ma quando hanno capito che il viaggio era finito e hanno visto medici, infermieri e volontari dedicarsi a loro hanno cominciato a sorridere. “Ora mi posso rilassare”, ha detto uno, un altro ha parlato di “viaggio della speranza”».
Ma quelle ore in balìa di un manipolo di terroristi islamici li hanno marchiati a fuoco. Samira George ha i capelli grigi e il volto segnato. «Il 31 ottobre eravamo alla Messa delle 17 con nostra figlia. Abbiamo sentito fuori un’esplosione. Celebrava Padre Tahir, e ci ha detto “continuiamo a pregare”. Poi tre giovani, al massimo ventenni, sono entrati e hanno cominciato a sparare, soprattutto agli uomini. Gridavano: “Lo stato iracheno è islamico”. Chi si muoveva era finito. Quando si sono accorti che mia figlia aveva il cellulare, le hanno sparato sulla mano». Noor sarà operata nei prossimi giorni. L’incubo di sangue dura ore ed ore. «Fuori abbiamo sentito un elicottero – continua Samira – ma nessuno è arrivato per salvarci. Le forze di sicurezza sono entrate solo in serata. Mio marito Hikmat Aziz l’ho trovato solo alle 3 all’ospedale Al Kindi. È morto lì». Il crocifisso d’oro al collo di Vivian Kamal spicca sul tailleur nero. «Mia sorella Afnan è stata colpita da un proiettile che le ha distrutto ossa e nervi della mano. Dentro la chiesa, al vespro, i terroristi hanno pregato Allah, poi hanno inneggiato al Jihad e lanciato bombe a mano gridando contro noi “cristiani miscredenti”. Uno, dopo avere ucciso anche l’altro prete, padre Wassim, ha avvolto la sua stola attorno al mitra. Mio figlio di 9 anni era con i miei genitori, mio padre s’è nascosto sotto i banchi, mia mamma Suhaila non ce l’ha fatta. Si sono salvati infilandosi su per i matronei». Il bambino è sotto choc: «Non va a scuola, ha paura delle armi dei soldati».
Faisa Ishak era tra le persone barricate in sacrestia: «Abbiamo messo gli armadi contro la porta, 60 in una stanza. Sentivamo le raffiche e le urla di chi moriva». I miliziani si accorgono di loro: «Hanno lanciato bombe a mano dalla finestrella sopra la porta. Mio marito è stato colpito alla testa». Aisha, la chiameremo così perché preferisce restare anonima, è l’unica islamica del gruppo. Il marito, vigilante di guardia alla vicina Borsa, ha visto i terroristi arrivare sgommando. «“Attenti ai bambini in strada”, ha gridato. Gli hanno sparato, ha risposto al fuoco ferendone uno, poi l’hanno colpito alla testa ».
Padre George Jahola è sfiduciato. «In chiesa hanno eliminato ogni traccia. Cercano di nascondere questa persecuzione. Non abbiamo fiducia nel governo, che tenta di nascondere la sua fragilità. Testimoni dicono che la polizia era fuori dalla chiesa mentre i terroristi uccidevano. Hanno aspettato che finissero le munizioni? Serve una commissione d’inchiesta internazionale. Noi testimoniamo la fede con la vita, abbiamo bisogno della preghiera dei cristiani. E che la preghiera si trasformi in fatti e azioni».
Faisa Ishak non perde il controllo nemmeno quando dice che, «rientrata incolume a casa», si è accorta «di avere la giacca sporca del sangue e dei grumi di carne delle altre vittime ». Nella hall moquettata della residenza protetta del Gemelli, dove sono stati accolti e coccolati i 19 familiari dei 26 feriti portati a Roma, il terrore della guerra civile irachena sembra lontana anni luce. Ma il cuore di queste donne è là: «Il martedì e il mercoledì dopo l’attentato – dice Vivian Kamal – hanno assalito le nostre case a colpi di bombe, nel quartiere Ghadir. In pieno giorno, nella capitale, sede del governo e delle forze di sicurezza. Era un quartiere cristiano. Ora si sta svuotando. Io tornerò presto, ho tre figli piccoli lì. Ma così non possiamo vivere. Possono ucciderci ogni giorno».
I 26 feriti – arrivati venerdì sera con un C130 dell’aeronautica militare grazie al lavoro della Direzione generale per la cooperazione del ministero degli Esteri – sono stati tutti ricoverati, ma non sono in pericolo di vita. Sei hanno problemi cardiaci o attacchi di panico.
Gli altri lesioni da schegge e proiettili – in molti casi ancora da estrarre dopo due settimane – qualcuno ai tendini o ai nervi, uno all’udito, uno agli occhi. Quattro hanno fratture. Il dottor Giorgio Meneschincheri è il coordinatore del piano di emergenza del Gemelli. «Ho visto occhi pieni di terrore. Ma quando hanno capito che il viaggio era finito e hanno visto medici, infermieri e volontari dedicarsi a loro hanno cominciato a sorridere. “Ora mi posso rilassare”, ha detto uno, un altro ha parlato di “viaggio della speranza”».
Ma quelle ore in balìa di un manipolo di terroristi islamici li hanno marchiati a fuoco. Samira George ha i capelli grigi e il volto segnato. «Il 31 ottobre eravamo alla Messa delle 17 con nostra figlia. Abbiamo sentito fuori un’esplosione. Celebrava Padre Tahir, e ci ha detto “continuiamo a pregare”. Poi tre giovani, al massimo ventenni, sono entrati e hanno cominciato a sparare, soprattutto agli uomini. Gridavano: “Lo stato iracheno è islamico”. Chi si muoveva era finito. Quando si sono accorti che mia figlia aveva il cellulare, le hanno sparato sulla mano». Noor sarà operata nei prossimi giorni. L’incubo di sangue dura ore ed ore. «Fuori abbiamo sentito un elicottero – continua Samira – ma nessuno è arrivato per salvarci. Le forze di sicurezza sono entrate solo in serata. Mio marito Hikmat Aziz l’ho trovato solo alle 3 all’ospedale Al Kindi. È morto lì». Il crocifisso d’oro al collo di Vivian Kamal spicca sul tailleur nero. «Mia sorella Afnan è stata colpita da un proiettile che le ha distrutto ossa e nervi della mano. Dentro la chiesa, al vespro, i terroristi hanno pregato Allah, poi hanno inneggiato al Jihad e lanciato bombe a mano gridando contro noi “cristiani miscredenti”. Uno, dopo avere ucciso anche l’altro prete, padre Wassim, ha avvolto la sua stola attorno al mitra. Mio figlio di 9 anni era con i miei genitori, mio padre s’è nascosto sotto i banchi, mia mamma Suhaila non ce l’ha fatta. Si sono salvati infilandosi su per i matronei». Il bambino è sotto choc: «Non va a scuola, ha paura delle armi dei soldati».
Faisa Ishak era tra le persone barricate in sacrestia: «Abbiamo messo gli armadi contro la porta, 60 in una stanza. Sentivamo le raffiche e le urla di chi moriva». I miliziani si accorgono di loro: «Hanno lanciato bombe a mano dalla finestrella sopra la porta. Mio marito è stato colpito alla testa». Aisha, la chiameremo così perché preferisce restare anonima, è l’unica islamica del gruppo. Il marito, vigilante di guardia alla vicina Borsa, ha visto i terroristi arrivare sgommando. «“Attenti ai bambini in strada”, ha gridato. Gli hanno sparato, ha risposto al fuoco ferendone uno, poi l’hanno colpito alla testa ».
Padre George Jahola è sfiduciato. «In chiesa hanno eliminato ogni traccia. Cercano di nascondere questa persecuzione. Non abbiamo fiducia nel governo, che tenta di nascondere la sua fragilità. Testimoni dicono che la polizia era fuori dalla chiesa mentre i terroristi uccidevano. Hanno aspettato che finissero le munizioni? Serve una commissione d’inchiesta internazionale. Noi testimoniamo la fede con la vita, abbiamo bisogno della preghiera dei cristiani. E che la preghiera si trasformi in fatti e azioni».