"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

29 novembre 2010

Dall'Iraq a Favaro: «Siamo fuggiti e non torneremo indietro»

By Gente Veneta online 45/2010 29 novembre 2010
di Laura Campaci

«Non puoi avere nostalgia di un Paese che ti ha fatto terrore»:
con queste parole Manal giustifica oggi la sua volontà di rimanere in Italia, dopo che quattordici anni fa lasciò l'Iraq.
«Il momento più difficile qui – continua a spiegare la giovane donna irachena, che oggi vive con il marito e i figli a Favaro – è la domenica, quando c'è l'abitudine di visitare i parenti». I parenti di Manal invece sono sparsi per il mondo, e alcuni vivono ancora in Iraq. Così sono molti i viaggi programmati nel corso di un anno, per poter mantenere i contatti coi familiari. A Natale, intanto, saranno tutti in Svezia, dove vive una nipote di Manal, figlia di sua sorella, che invece risiede ancora in Iraq. La storia della fuga di Manal, e di colui che poi sarebbe diventato suo marito, Zuhair, inizia subito dopo la guerra tra Iran e Iraq. A partire dagli anni '90 la situazione dell'Iraq degenera: sia quella economica, che quella sociale. Manal non riconosce più il proprio Paese: si tratta di un popolo mescolato da ondate migratorie di vario tipo, che sembra aver perso la bussola. Le difficoltà economiche provocano le prime fughe e la criminalità dilaga al punto che anche fare shopping può risultare pericoloso. «Il popolo cercava di vivere – dice Manal – ma il reddito di un impiego qualsiasi non era sufficiente nemmeno per comprare un paio di scarpe».
Ingegneri nell’occhio del ciclone. Manal e Zuhair, entrambi ingegneri, a quel tempo lavoravano nel centro di trasmissione televisiva di Bardat, le loro condizioni di vita erano buone, anche se il regime di Saddam Hussein vietava ogni forma di disobbedienza: così quando l'attacco americano del 1991 danneggiò l'apparecchio per la trasmissione e l'embargo imposto all'Iraq impediva il rifornimento dei pezzi danneggiati, fu proprio su di loro che si riversarono le pressioni per rimettere in funzione lo strumento. Ma la cosa era impossibile, racconta Manal. Le pressioni aumentavano, ma non si poteva rispondere negativamente a ciò che veniva richiesto. Si instaurò così sempre più un clima di terrore. Manal e Zuhair oltretutto sono cristiani, anche se ancora a quel tempo non c'erano le difficoltà di oggi riguardo la religione. C'era più che altro curiosità: i colleghi facevano domande, chiedevano perché pregavano per una croce, o per le statue, ma si sentivano ancora liberi di rispondere secondo coscienza.
La fuga e l’approdo in Italia. Tuttavia i condizionamenti insistenti del regime spinserno Manal e il futuro marito a progettare la fuga. Nel 1996 lasciarono l'Iraq per la Giordania, dove rimasero due anni e proprio qui si sposarono. Il loro obiettivo era spostarsi verso il Libano, ma dovettero cambiare i propri piani quando al marito non fu concesso il visto. Il viaggio subì un'inversione di rotta, si può proprio dire, fatale: Manal e Zuhair raggiunsero l'Albania in aereo, poi un gommone li condusse in Italia, a Bari.«In gommone pensavo alla morte». Avevano lavorato a lungo e con sacrificio per mettere da parte il necessario per pagare questo viaggio: quattromila dollari a testa. «Mi ricordo la morte», confessa Manal rivivendo quell'esperienza: «Tre ore di traversata col vento che alza il gommone, e tutto ciò a cui ho pensato fu la morte». In Italia, i due coniugi ricevettero istruzioni su come raggiungere i propri parenti in Olanda: un treno da Roma e poi un taxi che dalla Germania doveva condurli a destinazione. Ma il taxi fu intercettato dalla polizia tedesca, che ritirò loro i documenti e furono costretti, a quel punto, a chiedere il diritto di asilo. I loro piani vennero nuovamente stravolti: soltanto dopo 7 mesi l'Italia rispose accettando la domanda di Manal e Zuhair, che nel frattempo erano in dolce attesa. La prima figlia aveva due mesi quando raggiunsero Venezia, che sarebbe stata la meta definitiva del loro lungo peregrinare. La prefettura diede loro ospitalità solo per un mese, poi sarebbero finiti in mezzo alla strada. Per chi chiede asilo d'altra parte non c'è nessun diritto, né di studiare né di lavorare: «Come potevamo vivere senza un lavoro?», domanda Manal.
L’aiuto di mons. Visentin. In quel frangente viene loro in aiuto mons. Giuseppe Visentin, che offri loro per un paio di mesi un posto alla casa “Betania”: Manal esprime a gran voce la sua riconoscenza per quel gesto, a tre anni dalla scomparsa del sacerdote. Nel frattempo subentra un forte shock per la neo-mamma: la condizione di rifugiata, per lei che un tempo aveva una posizione sociale elevata e stabile, la deprime fortemente, al punto che il suo malessere si riversa anche sulla figlioletta. La pediatra le suggerisce di ricoverare la bambina, che non mangiava più, in ospedale, così che possano prendere tempo. I medici si danno molto da fare anche per comunicare con il Comune, che finalmente li ospita in un'altra struttura fino a quando, nel 2000, ottengono il permesso di soggiorno. Da allora, si sono rimboccati le maniche: Manal studiando l'italiano a casa, da sola, e Zuhair diventando elettricista e facendo valere il proprio talento. In quell'anno arriva anche il secondogenito della coppia, che man mano si stabilizza e grazie al lavoro riesce a inserirsi nella società e a camminare con le proprie gambe, al punto che dal 2006 Zuhair è in grado di avviare una ditta in proprio.
La comunità di Favaro. Manal e Zuhair entrano anche in una comunità cristiana, quella di S. Pietro di Favaro, che li accoglie e impara a conoscere la loro storia, e in questi giorni prega per le persecuzioni che i cristiani subiscono in Iraq, consapevoli che alcuni parenti della famiglia ancora vi risiedono. «Oggi non esiste una famiglia irachena al completo»: dice Manal. Anche per questo non vuole tornare nel suo paese d'origine. «Il Vescovo di lì dice che dobbiamo rimanere uniti, ma è più importante fare numero o salvare la propria vita e quella dei propri figli? Un tempo eravamo tutti uguali. Dal 2003 è cominciata una guerra religiosa che attacca tutte le minoranze». E i cristiani in Iraq da due milioni e mezzo sono passati a 200mila.«Avevo promesso a mio papà che sarei tornata a casa prima o poi, ma lui nel frattempo è morto, e la prima volta che la famiglia ha potuto riunirsi è stato solo nel 2005, in Siria», continua Manal.
Le sorelle rimaste in Iraq: «Vivono nel terrore». Oggi la situazione economica in Iraq per chi lavora è ottima, ma mancano la sicurezza e la stabilità. Per questo Manal guarda con preoccupazione alle due sorelle rimaste a Baghdad: la necessità di lavorare e la loro età avanzata le tiene strette alla loro terra, ma il terrore religioso è pericoloso. Dopo la tragedia avvenuta il 31 ottobre scorso con l'attentato alla chiesa siro-cattolica di Nostra Signora della Salvezza di Baghdad, in cui hanno perso la vita oltre 50 persone, il messaggio è chiaro: «Spingono i cristiani ad uscire dal Paese, non so per quale ragione. Mia sorella non vuole parlare al telefono di quanto è successo». La vita sociale poi è molto limitata. Andare fino in centro città significa un controllo militare ogni chilometro. Uscire di casa rappresenta un rischio ogni giorno. Manal guarda con distacco all'Iraq, ormai si sente italiana e perfino i figli non hanno imparato la lingua irachena. Si legge in lei ancora la sofferenza di quanto ha vissuto, i «giorni tristissimi» di cui parla ancora attraversano il suo sguardo. Una speranza per il futuro, però, ce l'ha: «La speranza sono i figli».