di Giovanni Porzio
Fuggire o affrontare il martirio. È questa l’alternativa che resta ai cristiani iracheni dopo l’apocalisse scatenata domenica 31 ottobre a Baghdad nella chiesa di Sayidat al-Nejat, Nostra Signora della Salvezza, principale luogo di culto dei caldei nel quartiere di Karradah. Il commando dello stato islamico dell’Iraq, cellula di Al Qaeda in Mesopotamia, di cui facevano parte anche jihadisti egiziani e yemeniti, ha lasciato tra le rovine del tempio 58 cadaveri, un centinaio di feriti e un avvertimento rilanciato dai siti web della guerra santa: «I cristiani sono obiettivi legittimi. Spalancheremo su di loro le porte della distruzione e un fiume di sangue».
La strage è l’ultimo atto di una persecuzione che dopo il crollo del regime di Saddam Hussein ha costretto i cristiani a ritornare nelle catacombe. Il rais, consapevole che non costituivano una minaccia, li aveva protetti. Molti erano saliti ai ranghi superiori dell’esercito e dell’amministrazione, compreso il vicepremier Tareq Aziz, appena condannato all’impiccagione. Ma la disgregazione dello stato, il vuoto di potere, l’insicurezza endemica e l’ondata terroristica seguita all’invasione americana hanno spezzato il precario equilibrio che regolava la convivenza delle diverse confessioni.
Le bande sunnite hanno giurato morte ai «nuovi crociati». I cristiani, accusati di simpatizzare con le forze di occupazione e di blasfemia, di spacciare alcolici e di non imporre il velo alle donne, sono stati presi di mira: più di 50 chiese attaccate, 20 sacerdoti e 2 mila fedeli assassinati, migliaia di famiglie costrette all’esilio nei campi profughi in Siria e in Giordania.
«È un esodo biblico» dice Boutros Haddad, parroco della chiesa della Vergine Maria a Baghdad. «C’erano 30 sacerdoti caldei, siamo rimasti in dieci». La gente ha paura. I fedeli si nascondono, preparano i bagagli e attraversano le frontiere. Come ha fatto tre anni fa Andraos Oraha, dopo che una mattina gli fu recapitato un volantino con i versetti del Corano, il suo nome e la sentenza di morte. A Baghdad era l’interprete e il fidato collaboratore di molti giornalisti italiani. Ma il quartiere cristiano dove abitava si è rapidamente svuotato. E ha dovuto arrendersi.
È sbarcato con la moglie, quattro figli e sei valigie in una casa d’accoglienza di Magenta. Si è poi stabilito a Legnano, ha ottenuto lo status di rifugiato politico e a 52 anni ha ricominciato da zero. «La nostra vita» racconta «era diventata un inferno. Non uscivamo più e i ragazzi non andavano più a scuola. Amo l’Iraq, è il mio paese, ma ho dovuto pensare al futuro dei miei figli. Gli appelli alla riconciliazione lanciati dal patriarca caldeo Mar Emmanuel Delly e dal sinodo dei vescovi sono caduti nel vuoto. Dopo la strage di Baghdad ci sentiamo ancora più soli, abbandonati al nostro destino».
In casa la televisione è sintonizzata sui canali iracheni e al telefono arrivano notizie e messaggi da Baghdad. In linea c’è Pios Qasha, vicario del vescovo siriaco cattolico della capitale irachena. «Questa è la fine del Cristianesimo in Iraq» dice a Panorama. «Stamattina in chiesa c’erano solo 12 fedeli terrorizzati. Nessuno ci protegge. Per otto mesi non abbiamo avuto un governo. E gli americani, dopo avere distrutto l’Iraq, stanno a guardare».
Anche Morin, 22 anni, il maggiore dei figli maschi di Andraos, punta il dito contro l’indifferenza dell’Occidente: «Sentiamo solo belle parole. Il Vaticano, l’Ue e Washington si mobilitano per salvare la vita di Tareq Aziz, ma cosa fanno per difenderci? In questo modo si rendono complici dell’annientamento di una civiltà millenaria».
Ad aggravare la situazione dopo il 2003, afferma l’arcivescovo caldeo di Kirkuk Louis Sako, ha contribuito l’afflusso di missionari protestanti al seguito delle truppe d’occupazione: «Armati di bibbie e di dollari hanno aperto numerose chiese e hanno cercato di convertire i musulmani. Un’inutile provocazione».
Il disimpegno militare americano ha fatto il resto. Al Qaeda in Mesopotamia, che il Pentagono riteneva «strategicamente sconfitta», si sta dimostrando una forza temibile: a poche ore dal massacro della chiesa di Nostra Signora della Salvezza ha investito con mortai e autobombe i distretti sciiti di Baghdad facendo 63 morti e 300 feriti in 11 attentati simultanei. Polizia ed esercito iracheno, nonostante i progressi ottenuti nell’addestramento, non sono in grado di sostenere la sfida. L’inclusione delle milizie sunnite nelle forze armate procede a rilento. E gli insorti, che hanno tutto l’interesse a fomentare l’instabilità, hanno approfittato di otto mesi di paralisi politica per riorganizzarsi e seminare il terrore.
I cristiani non sono perseguitati soltanto in Iraq. Lo scorso Natale sette cristiani copti sono stati assassinati in un villaggio vicino a Luxor, in Egitto, dove le correnti islamiche fondamentaliste continuano a rafforzarsi. In Pakistan i seguaci di Cristo (3 milioni su 160 milioni di abitanti) sono a stento tollerati, segnati dal disprezzo, oggetto di violenze, stupri e tentativi di conversione forzata. In India si susseguono i pogrom dei fanatici hindu contro le minoranze cristiane. Negli scontri interreligiosi nelle Molucche sono andate a fuoco 500 chiese. Nel sud delle Filippine i sacerdoti sono il principale obiettivo del gruppo Abu Sayyaf, legato ad Al Qaeda. In Nigeria si contano a migliaia i caduti nelle ricorrenti stragi di cristiani (e musulmani) che insanguinano il paese. E persino nel tollerante Marocco 130 missionari sono stati espulsi per «proselitismo».
Nella Turchia che aspira a entrare in Europa Islam e nazionalismo esasperato concorrono a esacerbare l’intolleranza religiosa, di cui sono stati vittime due sacerdoti italiani: Andrea Santoro, ucciso nel 2006 a Trebisonda, e il vescovo Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia, accoltellato a morte lo scorso giugno a Iskenderun. Quarant’anni fa a Istanbul i fedeli erano 300 mila, ora sono meno di 5 mila. Le chiese diventano moschee. I seminari hanno chiuso i battenti.
In Medio Oriente armeni, siriaci, greci e cattolici sono oggi comunità in via di estinzione. Il Cristianesimo sta morendo nella culla dov’è nato.