Si aprano gli occhi e si trovi la voce
di Luigi Geninazzi
C’è qualcosa di tragicamente emblematico nell’attacco terroristico a una chiesa cattolica di Baghdad culminato con il massacro di decine di fedeli. All’orrore di una violenza feroce che da anni colpisce i cristiani in Iraq questa volta s’è aggiunta la rivendicazione esplicita e farneticante di un gruppo legato ad al-Qaeda che si fa portavoce della «collera islamica», in azione contro un luogo di culto cristiano definito «osceno rifugio dell’idolatria».
È il manifesto di un’assurda guerra di religione lanciata non solo contro la piccola e sempre più ridotta comunità di fedeli iracheni, ma in generale contro i cristiani che vivono in Medio Oriente. In un certo senso è la risposta dell’islam radicale al Sinodo dei vescovi che si è tenuto dieci giorni fa in Vaticano. È il segno del profondo e misterioso legame che ancora oggi, così come già nella Chiesa delle origini, esiste fra la parola ed il sangue, tra l’annuncio e il martirio.
Ed è emblematico che tutto questo avvenga in Iraq dove i cristiani rappresentano l’anello debole di un sistema politico, etnico e religioso dilaniato da contese sempre più aspre. L’odio anticristiano di gruppi fanatici sta provocando l’esodo e la ghettizzazione di una comunità che affonda le sue radici nella Chiesa delle origini ed è sempre stata sinonimo di cultura, prosperità e armonia sociale. Oggi è quella che paga il prezzo più alto dell’instabilità e del caos iracheno.
«Siamo come i fiori di un giardino di cui nessuno si prende cura e tutti pensano di poter calpestare a proprio piacimento», ci siamo sentiti ripetere dai cristiani perseguitati di Mosul e di Baghdad. In effetti, al di là di tante belle parole, il governo iracheno non fa nulla per garantire protezione e sicurezza alla minoranza cristiana che si trova nel mirino dei fondamentalisti.
Se rivediamo il film del sequestro di massa c’è da rimanere sgomenti: di fronte all’irruzione di un gruppo armato in una chiesa gremita di fedeli per la messa, le autorità di Baghdad hanno optato per un’azione immediata e sconsiderata, un blitz finito in un orribile bagno di sangue. Avrebbero agito allo stesso modo se gli ostaggi nelle mani di al-Qaeda fossero stati deputati del Parlamento o alti esponenti politici? Qualche dubbio l’abbiamo. «Una rapina finita male», così sembra che un funzionario americano abbia laconicamente definito quel che è successo domenica sera a Baghdad, riferendo il tentativo compiuto dai terroristi d’assaltare gli uffici della Borsa. Come se la cattura degli ostaggi nella vicina chiesa siro-cattolica e la strage finale non fossero che una tragica catena di circostanze non volute. Eppure, per la prima volta, i terroristi hanno voluto "firmare" la loro azione, presentandosi come l’avanguardia dello "Stato islamico d’Iraq" in lotta contro la cristianità.
Oltre al dolore non possiamo nascondere la nostra profonda indignazione. È così difficile prendere atto che a finire nel buco nero creato dalla «guerra sbagliata e assassina» in Iraq (sono parole del messaggio finale del Sinodo sul Medio Oriente) è soprattutto la minoranza dei cristiani? La comunità internazionale dovrebbe mobilitarsi per tutelare la loro presenza in un Paese dove l’Occidente ha investito molto, non solo in termini economici. In particolare gli Stati Uniti non possono far finta di niente, ignorando le persecuzioni dei cristiani là dove pretendevano di esportare democrazia e libertà. È questo il senso dell’«accorato appello» lanciato ieri da Benedetto XVI affinché «gli uomini di buona volontà e le istituzioni nazionali e internazionali» uniscano le loro forze per mettere fine alla violenza più terribile: quella che colpisce persone inermi raccolte in preghiera.
C’è qualcosa di tragicamente emblematico nell’attacco terroristico a una chiesa cattolica di Baghdad culminato con il massacro di decine di fedeli. All’orrore di una violenza feroce che da anni colpisce i cristiani in Iraq questa volta s’è aggiunta la rivendicazione esplicita e farneticante di un gruppo legato ad al-Qaeda che si fa portavoce della «collera islamica», in azione contro un luogo di culto cristiano definito «osceno rifugio dell’idolatria».
È il manifesto di un’assurda guerra di religione lanciata non solo contro la piccola e sempre più ridotta comunità di fedeli iracheni, ma in generale contro i cristiani che vivono in Medio Oriente. In un certo senso è la risposta dell’islam radicale al Sinodo dei vescovi che si è tenuto dieci giorni fa in Vaticano. È il segno del profondo e misterioso legame che ancora oggi, così come già nella Chiesa delle origini, esiste fra la parola ed il sangue, tra l’annuncio e il martirio.
Ed è emblematico che tutto questo avvenga in Iraq dove i cristiani rappresentano l’anello debole di un sistema politico, etnico e religioso dilaniato da contese sempre più aspre. L’odio anticristiano di gruppi fanatici sta provocando l’esodo e la ghettizzazione di una comunità che affonda le sue radici nella Chiesa delle origini ed è sempre stata sinonimo di cultura, prosperità e armonia sociale. Oggi è quella che paga il prezzo più alto dell’instabilità e del caos iracheno.
«Siamo come i fiori di un giardino di cui nessuno si prende cura e tutti pensano di poter calpestare a proprio piacimento», ci siamo sentiti ripetere dai cristiani perseguitati di Mosul e di Baghdad. In effetti, al di là di tante belle parole, il governo iracheno non fa nulla per garantire protezione e sicurezza alla minoranza cristiana che si trova nel mirino dei fondamentalisti.
Se rivediamo il film del sequestro di massa c’è da rimanere sgomenti: di fronte all’irruzione di un gruppo armato in una chiesa gremita di fedeli per la messa, le autorità di Baghdad hanno optato per un’azione immediata e sconsiderata, un blitz finito in un orribile bagno di sangue. Avrebbero agito allo stesso modo se gli ostaggi nelle mani di al-Qaeda fossero stati deputati del Parlamento o alti esponenti politici? Qualche dubbio l’abbiamo. «Una rapina finita male», così sembra che un funzionario americano abbia laconicamente definito quel che è successo domenica sera a Baghdad, riferendo il tentativo compiuto dai terroristi d’assaltare gli uffici della Borsa. Come se la cattura degli ostaggi nella vicina chiesa siro-cattolica e la strage finale non fossero che una tragica catena di circostanze non volute. Eppure, per la prima volta, i terroristi hanno voluto "firmare" la loro azione, presentandosi come l’avanguardia dello "Stato islamico d’Iraq" in lotta contro la cristianità.
Oltre al dolore non possiamo nascondere la nostra profonda indignazione. È così difficile prendere atto che a finire nel buco nero creato dalla «guerra sbagliata e assassina» in Iraq (sono parole del messaggio finale del Sinodo sul Medio Oriente) è soprattutto la minoranza dei cristiani? La comunità internazionale dovrebbe mobilitarsi per tutelare la loro presenza in un Paese dove l’Occidente ha investito molto, non solo in termini economici. In particolare gli Stati Uniti non possono far finta di niente, ignorando le persecuzioni dei cristiani là dove pretendevano di esportare democrazia e libertà. È questo il senso dell’«accorato appello» lanciato ieri da Benedetto XVI affinché «gli uomini di buona volontà e le istituzioni nazionali e internazionali» uniscano le loro forze per mettere fine alla violenza più terribile: quella che colpisce persone inermi raccolte in preghiera.
di Camille Eid
Cristiani a rischio estinzione in Iraq. «Un solo sacerdote – scriveva tre giorni fa The New American citando il vescovo caldeo di Erbil, monsignor Bashar Warda – ha registrato l’esodo di 70 famiglie nei dieci giorni scorsi». Non che nel passato siano mancate nel Paese persecuzioni ed eccidi a danno dei cristiani. Ma l’esodo di caldei, assiri, siro-cattolici e siro-ortodossi, armeni e latini è diventato oggi così quotidiano che l’antichissima comunità mesopotamica, per la prima volta nella sua storia, rischia davvero di sparire.
I fedeli delle varie denominazioni rappresentavano sino al 2003 quasi 800.000 persone, ossia il 3 per cento dell’intera popolazione irachena (25 milioni di abitanti). Oggi non si sa con esattezza quanti ne manchino all’appello, ma stime prudenti ritengono che oltre 350.000 cristiani abbiano lasciato il Paese in questi ultimi anni. Con la "Grande fuga", così chiamata da Fulvio Scaglione nel titolo di una sua recente pubblicazione, rischia di perdersi per sempre sia un patrimonio preziosissimo di cui tali comunità sono depositarie, sia il ruolo di intermediazione che esse hanno svolto nel contesto musulmano.
Stime, queste, confermate dalle autorità irachene. Parlando lo scorso settembre al giornale arabo al-Sharq al-Awsat, il direttore del Dipartimento per i cristiani del ministero per gli Affari religiosi ha affermato che «almeno la metà dei cristiani iracheni che vivevano nel Paese sono emigrati negli ultimi anni». «Sappiamo – ha aggiunto Abdullah al-Nawafel – che il 40 per cento degli iracheni che si trovano attualmente in Siria sono cristiani». Il funzionario iracheno ha sottolineato inoltre che numerosi cristiani «sono dati per dispersi perché sono stati rapiti dai terroristi e uccisi in questi anni, ma non si hanno cifre esatte».
La vera emorragia di cristiani dal Medio Oriente, come hanno avuto modo di confermare i padri sinodali a Roma negli ultimi giorni, riguarda l’Iraq. La "prassi" è quasi sempre la stessa. Una prima tappa in un Paese vicino, il tempo di ottenere un visto – ma l’attesa può durare anni – e poi il viaggio verso la loro destinazione finale: Australia, Stati Uniti, Canada o Svezia.
Dietro ogni viso incontrato a Damasco, a Beirut, a Konye o ad Amman si nasconde una brutta avventura. Con una voce balbuziente, Samer rievoca i particolari del suo sequestro da parte di uomini mascherati che gli hanno bendato gli occhi e lo hanno portato via. Racconta della sua paura e del suo costante rifugio nella preghiera, delle frustate inflittegli per registrare le sue urla su una cassetta da mandare ai familiari a fini di estorsione. Samer non è un ex dirigente del partito Baath, né un interprete al soldo degli americani, ma un ragazzo di 15 anni. La sua colpa? Appartiene a una famiglia cristiana di Baghdad. O, meglio, che risiedeva nella capitale. Perché, dopo questa dura prova, i suoi genitori e quelli di altri ragazzi sequestrati come lui hanno ritenuto che in Iraq la vita fosse diventata insostenibile per i cristiani. «Qui abbiamo tanti problemi, ma almeno non corriamo simili rischi», dicono. Per loro, «qui» vuol dire la Siria dove sono affluite negli ultimi anni, e in diverse ondate, migliaia di famiglie cristiane irachene. Una delle più consistenti è stata all’indomani degli attentati del 1° agosto 2004 contro diverse chiese di Baghdad e Mosul. Secondo il governo iracheno ben 40 mila cristiani avrebbero lasciato il Paese solo nelle due settimane successive alle esplosioni.
Dopo la storica emigrazione degli assiri negli anni Trenta, gli Stati Uniti registrano un nuovo boom di arrivi cristiani iracheni: oggi si calcola a oltre 260 mila il numero degli assiro-caldei residenti nel Paese. La "Chaldean Town", come è stata battezzata ufficialmente l’area metropolitana di Detroit, è diventata una moderna Babilonia, con chiese sempre stracolme alla domenica e in cerca continuamente di nuovi spazi per rispondere alla crescita della comunità. In Canada sono presenti almeno sei comunità assiro-caldee, che totalizzano circa 40 mila fedeli. Altrettanto ampio il numero degli iracheni cristiani finiti in Australia o in Nuova Zelanda, che sono in continuo aumento.
Un’identica crescita si registra in Europa dove si stima attorno a 100 mila persone il numero degli assiro-caldei. A Sodertalje, vicino a Stoccolma, è normale sentire parlare la lingua aramaica propria dei rifugiati che rappresentano ormai il 35 per cento della popolazione, ben 22 mila persone. Le altre aree di maggiore insediamento si trovano a Sarcelles, alla periferia di Parigi, e in Germania. I nuovi arrivi seguono un percorso già battuto da migliaia di loro predecessori, arrivati da Mosul, Baghdad e Telkaif. I caldei rimasti in quest’ultima località sono probabilmente il 2 per cento di quelli chi vi abitavano e se ne sono andati.
Cristiani a rischio estinzione in Iraq. «Un solo sacerdote – scriveva tre giorni fa The New American citando il vescovo caldeo di Erbil, monsignor Bashar Warda – ha registrato l’esodo di 70 famiglie nei dieci giorni scorsi». Non che nel passato siano mancate nel Paese persecuzioni ed eccidi a danno dei cristiani. Ma l’esodo di caldei, assiri, siro-cattolici e siro-ortodossi, armeni e latini è diventato oggi così quotidiano che l’antichissima comunità mesopotamica, per la prima volta nella sua storia, rischia davvero di sparire.
I fedeli delle varie denominazioni rappresentavano sino al 2003 quasi 800.000 persone, ossia il 3 per cento dell’intera popolazione irachena (25 milioni di abitanti). Oggi non si sa con esattezza quanti ne manchino all’appello, ma stime prudenti ritengono che oltre 350.000 cristiani abbiano lasciato il Paese in questi ultimi anni. Con la "Grande fuga", così chiamata da Fulvio Scaglione nel titolo di una sua recente pubblicazione, rischia di perdersi per sempre sia un patrimonio preziosissimo di cui tali comunità sono depositarie, sia il ruolo di intermediazione che esse hanno svolto nel contesto musulmano.
Stime, queste, confermate dalle autorità irachene. Parlando lo scorso settembre al giornale arabo al-Sharq al-Awsat, il direttore del Dipartimento per i cristiani del ministero per gli Affari religiosi ha affermato che «almeno la metà dei cristiani iracheni che vivevano nel Paese sono emigrati negli ultimi anni». «Sappiamo – ha aggiunto Abdullah al-Nawafel – che il 40 per cento degli iracheni che si trovano attualmente in Siria sono cristiani». Il funzionario iracheno ha sottolineato inoltre che numerosi cristiani «sono dati per dispersi perché sono stati rapiti dai terroristi e uccisi in questi anni, ma non si hanno cifre esatte».
La vera emorragia di cristiani dal Medio Oriente, come hanno avuto modo di confermare i padri sinodali a Roma negli ultimi giorni, riguarda l’Iraq. La "prassi" è quasi sempre la stessa. Una prima tappa in un Paese vicino, il tempo di ottenere un visto – ma l’attesa può durare anni – e poi il viaggio verso la loro destinazione finale: Australia, Stati Uniti, Canada o Svezia.
Dietro ogni viso incontrato a Damasco, a Beirut, a Konye o ad Amman si nasconde una brutta avventura. Con una voce balbuziente, Samer rievoca i particolari del suo sequestro da parte di uomini mascherati che gli hanno bendato gli occhi e lo hanno portato via. Racconta della sua paura e del suo costante rifugio nella preghiera, delle frustate inflittegli per registrare le sue urla su una cassetta da mandare ai familiari a fini di estorsione. Samer non è un ex dirigente del partito Baath, né un interprete al soldo degli americani, ma un ragazzo di 15 anni. La sua colpa? Appartiene a una famiglia cristiana di Baghdad. O, meglio, che risiedeva nella capitale. Perché, dopo questa dura prova, i suoi genitori e quelli di altri ragazzi sequestrati come lui hanno ritenuto che in Iraq la vita fosse diventata insostenibile per i cristiani. «Qui abbiamo tanti problemi, ma almeno non corriamo simili rischi», dicono. Per loro, «qui» vuol dire la Siria dove sono affluite negli ultimi anni, e in diverse ondate, migliaia di famiglie cristiane irachene. Una delle più consistenti è stata all’indomani degli attentati del 1° agosto 2004 contro diverse chiese di Baghdad e Mosul. Secondo il governo iracheno ben 40 mila cristiani avrebbero lasciato il Paese solo nelle due settimane successive alle esplosioni.
Dopo la storica emigrazione degli assiri negli anni Trenta, gli Stati Uniti registrano un nuovo boom di arrivi cristiani iracheni: oggi si calcola a oltre 260 mila il numero degli assiro-caldei residenti nel Paese. La "Chaldean Town", come è stata battezzata ufficialmente l’area metropolitana di Detroit, è diventata una moderna Babilonia, con chiese sempre stracolme alla domenica e in cerca continuamente di nuovi spazi per rispondere alla crescita della comunità. In Canada sono presenti almeno sei comunità assiro-caldee, che totalizzano circa 40 mila fedeli. Altrettanto ampio il numero degli iracheni cristiani finiti in Australia o in Nuova Zelanda, che sono in continuo aumento.
Un’identica crescita si registra in Europa dove si stima attorno a 100 mila persone il numero degli assiro-caldei. A Sodertalje, vicino a Stoccolma, è normale sentire parlare la lingua aramaica propria dei rifugiati che rappresentano ormai il 35 per cento della popolazione, ben 22 mila persone. Le altre aree di maggiore insediamento si trovano a Sarcelles, alla periferia di Parigi, e in Germania. I nuovi arrivi seguono un percorso già battuto da migliaia di loro predecessori, arrivati da Mosul, Baghdad e Telkaif. I caldei rimasti in quest’ultima località sono probabilmente il 2 per cento di quelli chi vi abitavano e se ne sono andati.
Fedeli uccisi, folla ai funerali. Attentati a Baghdad: 57 morti
Centinaia di persone si sono radunate a Baghdad per partecipare ai funerali delle vittime dell'assalto terroristico di domenica sera nella cattedrale siro-cattolica. La messa, preceduta da una processione, è iniziata alle 13 (le 11 in Italia) nella chiesa di San Giuseppe, nel quartiere di Karrada, non lontana dalla cattedrale. I fedeli uccisi sono 46 e i feriti 60. «Sono venuti in chiesa per pregare Dio e per assolvere al proprio dovere religioso, ma la mano del diavolo è entrata in questo luogo di culto per uccidere» ha detto nell'omelia il cardinale Emmanuel III Delly, Patriarca di Babilonia dei Caldei. «Noi non abbiamo paura della morte e delle minacce - ha aggiunto il prelato - siamo i figli di questo Paese e resteremo in Iraq con i nostri fratelli musulmani per glorificare il nome dell'Iraq».
LA CONDANNA DI SISTANI
L'ayatollah Ali Al-Sistani, guida spirituale degli sciiti iracheni, ha condannato «fortemente» l'attacco di domenica sera e ha chiesto di «rafforzare la protezione dell'incolumità degli iracheni», come ha comunicato un portavoce dell'autorità religiosa.
L'ALLARME IGNORATO
La strage poteva forse essere evitata: lo ha detto il ministro di stato per la sicurezza nazionale Sherwan al Waili, rivelando che il suo ministero aveva diffuso dieci giorni fa alle forze di sicurezza informazioni di intelligence secondo cui al Qaida stava pianificando di attaccare alcune chiese. L'allarme, secondo Waili, sarebbe stato però ignorato.
LA CONDANNA DI SISTANI
L'ayatollah Ali Al-Sistani, guida spirituale degli sciiti iracheni, ha condannato «fortemente» l'attacco di domenica sera e ha chiesto di «rafforzare la protezione dell'incolumità degli iracheni», come ha comunicato un portavoce dell'autorità religiosa.
L'ALLARME IGNORATO
La strage poteva forse essere evitata: lo ha detto il ministro di stato per la sicurezza nazionale Sherwan al Waili, rivelando che il suo ministero aveva diffuso dieci giorni fa alle forze di sicurezza informazioni di intelligence secondo cui al Qaida stava pianificando di attaccare alcune chiese. L'allarme, secondo Waili, sarebbe stato però ignorato.