Iraq sempre più instabile, dopo la conquista del nord del Paese da parte dei jihadisti sunniti dell’autoproclamato Stato Islamico. Il governo iracheno ha informato le Nazioni Unite che gli estremisti hanno rubato 40 chili di uranio dall’Università di Mosul, ma l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica ha escluso che il materiale possa diventare una minaccia. Intanto è allarme umanitario per i cristiani iracheni, molti dei quali sono scappati da Mosul dopo l’attacco degli estremisti. Ma qual è la situazione nel Paese?
Michele Raviart lo ha chiesto a mons. Giorgio Lingua, nunzio apostolico in Giordania e Iraq, raggiunto telefonicamente a Baghdad:
La principale preoccupazione in questo momento è quella di fornire acqua potabile alla gente che si è trasferita da Mosul; so che stanno scavando dei pozzi ma non è una cosa immediata. L’altro problema è la mancanza di elettricità anche nei villaggi abitati dai cristiani, che prima erano serviti da Mosul che ora ha tagliato il rifornimento.
Le varie comunità cristiane che rischi corrono?
Dal punto di vista psicologico stanno vivendo con grande paura e incertezza. È chiaro che molti pensano di poter trovare una porta d’uscita per lasciare il Paese. Dal punto di vista umanitario si sono dati molto da fare - anche lodevolmente - nell’accogliere i musulmani aprendo scuole, case per dare la possibilità agli sfollati di trovare almeno una sistemazione provvisoria.
Quali sono le zone più a rischio? Quali sono le zone più sicure adesso per i cristiani in Iraq?
La zona più a rischio è senz’altro quella al confine, controllata dallo “Stato islamico”, perché non si sa fino a dove si accontenti e dove vogliano fermarsi. Le zone sicure sono quelle controllate dalle forze curde.
Dal suo punto di vista, quale futuro si sta prospettando?
È veramente difficile dirlo. Secondo me, dipende molto da quanto riescono, a livello di governo centrale, ad affrontare la situazione nel modo giusto, in un modo inclusivo, aprendosi a tutte le rappresentanze del Paese. È necessario che ci sia un parlamento che funzioni, un governo che funzioni; solo allora si potrà vedere che cosa fare. Io credo che sia urgente anche una presa di coscienza da parte della società civile che non può rimanere a guardare aspettando che i politici si diano da fare, perché spesso i politici sono mossi da interessi di parte, mentre la società civile potrebbe essere più orientata al bene comune.
E come può la società civile aiutare il Paese ad affrontare quella che è stata una vera e propria invasione?
Se c’è la volontà di includere tutti nel progetto di un futuro per l’Iraq, allora anche quelli che hanno invaso perderanno il sostegno locale; sono entrati così con una grande facilità perché c’era tanto malcontento, nel momento in cui tutte le forze si sentono rappresentate a livello centrale allora anche queste forze perderanno il sostegno locale.
Che appello si sente di lanciare come nunzio apostolico in Iraq?
Io credo che in questo momento occorre pregare: c’è bisogno di un miracolo perché la situazione non precipiti ulteriormente e non si arrivi ad uno scontro armato, che potrebbe parzialmente risolvere o portare ad una riconquista di una parte del territorio, provocando però nuove vittime e nuovi malcontenti. Bisogna scongiurare che si arrivi ad uno scontro armato crudele.
Michele Raviart lo ha chiesto a mons. Giorgio Lingua, nunzio apostolico in Giordania e Iraq, raggiunto telefonicamente a Baghdad:
La principale preoccupazione in questo momento è quella di fornire acqua potabile alla gente che si è trasferita da Mosul; so che stanno scavando dei pozzi ma non è una cosa immediata. L’altro problema è la mancanza di elettricità anche nei villaggi abitati dai cristiani, che prima erano serviti da Mosul che ora ha tagliato il rifornimento.
Le varie comunità cristiane che rischi corrono?
Dal punto di vista psicologico stanno vivendo con grande paura e incertezza. È chiaro che molti pensano di poter trovare una porta d’uscita per lasciare il Paese. Dal punto di vista umanitario si sono dati molto da fare - anche lodevolmente - nell’accogliere i musulmani aprendo scuole, case per dare la possibilità agli sfollati di trovare almeno una sistemazione provvisoria.
Quali sono le zone più a rischio? Quali sono le zone più sicure adesso per i cristiani in Iraq?
La zona più a rischio è senz’altro quella al confine, controllata dallo “Stato islamico”, perché non si sa fino a dove si accontenti e dove vogliano fermarsi. Le zone sicure sono quelle controllate dalle forze curde.
Dal suo punto di vista, quale futuro si sta prospettando?
È veramente difficile dirlo. Secondo me, dipende molto da quanto riescono, a livello di governo centrale, ad affrontare la situazione nel modo giusto, in un modo inclusivo, aprendosi a tutte le rappresentanze del Paese. È necessario che ci sia un parlamento che funzioni, un governo che funzioni; solo allora si potrà vedere che cosa fare. Io credo che sia urgente anche una presa di coscienza da parte della società civile che non può rimanere a guardare aspettando che i politici si diano da fare, perché spesso i politici sono mossi da interessi di parte, mentre la società civile potrebbe essere più orientata al bene comune.
E come può la società civile aiutare il Paese ad affrontare quella che è stata una vera e propria invasione?
Se c’è la volontà di includere tutti nel progetto di un futuro per l’Iraq, allora anche quelli che hanno invaso perderanno il sostegno locale; sono entrati così con una grande facilità perché c’era tanto malcontento, nel momento in cui tutte le forze si sentono rappresentate a livello centrale allora anche queste forze perderanno il sostegno locale.
Che appello si sente di lanciare come nunzio apostolico in Iraq?
Io credo che in questo momento occorre pregare: c’è bisogno di un miracolo perché la situazione non precipiti ulteriormente e non si arrivi ad uno scontro armato, che potrebbe parzialmente risolvere o portare ad una riconquista di una parte del territorio, provocando però nuove vittime e nuovi malcontenti. Bisogna scongiurare che si arrivi ad uno scontro armato crudele.