Francesco Semprini
«Questo è nuovo genocidio, la nostra denuncia deve essere forte». Il
drammatico appello è di Monsignor Amel Nona, arcivescovo di Mosul, la
città dalla quale stanno fuggendo migliaia di cristiani dopo la nuova
persecuzione da parte dei jihadisti dello Stato islamico. A poche ore
dall’inizio della nuova ondata repressiva Nona si è incontrato ad
Ankawa, qualche decina di chilometri al di là del confine del Kurdistan
iracheno, con gli altri leader religiosi cristiani del centro e del nord
dell’Iraq, Bashar Matiwardah, arcivescovo di Erbil, e Nichodemus Daoud
Matti Sharaf, della chiesa ortodossa siriaca di Mosul, Kirkuk e
Kurdistan. L’obiettivo è di unire le forze per mostrare al mondo intero
quanto sta accadendo in quelle zone, «l’ennesimo episodio di quella
persecuzione dei cristiani che prosegue dal 1913».
«Le cose – spiega – sono precipitate venerdì, abbiamo iniziato a ricevere una enorme quantità di telefonate da Mosul e dintorni di persone che chiedevano aiuto e consigli, la polizia islamica e l’Isis avevano fatto scattare una caccia al cristiano, una volta intercettato gli concedevano due opzioni: fuggire o morire». L’alto prelato racconta inoltre che gli jihadisti hanno fatto irruzione nelle case portando via tutto, passaporti, documenti, denaro, gioielli e cellulari. «Centinaia di famiglie sono state spogliate di tutti i loro beni prima di essere cacciate dalla città, altri sono stati picchiati ai check-point degli islamisti mentre stavano fuggendo».
E poi quelle scritte sulle porte della case dei cristiani: «Nazraniy», un modo per identificarli in maniera dispregiativa: «Ecco perché nuovo genocidio». Il primo passo è denunciare al mondo quanto sta accadendo quindi procedere subito all’aiuto degli sfollati, la prima ondata dei quali dovrebbe essere di 2500 persone. «Abbiamo già accolto circa 50 famiglie in una delle nostre chiese di Al Qosh», poco sopra Tall Kayf, la cosiddetta terra di confine, quella della linea del fuoco dove la distanza tra l’ultimo check-point Peshmerga e il primo dello Stato islamico è di solo un chilometro. È da lì che fuggono i cristiani grazie ai corridoio di sicurezza creati dai «Guerrieri che guardano la morte» e dall’Unicef.
Ed è proprio il responsabile Unicef in Iraq, Marzio Babille, che ha voluto subito incontrare Nona, «per coordinare le operazioni di primo soccorso e mettere al sicuro i perseguitati». Babille spiega che già entro oggi fino a 900 sfollati potrebbero giungere ad Ankawa, enclave cristiana a nord di Erbil. «Tragedia nella tragedia», prosegue l’arcivescovo di Mosul. «Il 4 giugno sono andato a celebrare messa in una parrocchia fuori da Mosul, il giorno dopo ho tentato di rientrare in città, ma si è scatenato quello che abbiamo visto». E che non si è ancora concluso. Da allora Nona non è più tornato a Mosul, e aiuta i suoi concittadini da fuori accogliendoli nella fuga: «Allora dissi che il peggio doveva ancora venire, e infatti».
«Le cose – spiega – sono precipitate venerdì, abbiamo iniziato a ricevere una enorme quantità di telefonate da Mosul e dintorni di persone che chiedevano aiuto e consigli, la polizia islamica e l’Isis avevano fatto scattare una caccia al cristiano, una volta intercettato gli concedevano due opzioni: fuggire o morire». L’alto prelato racconta inoltre che gli jihadisti hanno fatto irruzione nelle case portando via tutto, passaporti, documenti, denaro, gioielli e cellulari. «Centinaia di famiglie sono state spogliate di tutti i loro beni prima di essere cacciate dalla città, altri sono stati picchiati ai check-point degli islamisti mentre stavano fuggendo».
E poi quelle scritte sulle porte della case dei cristiani: «Nazraniy», un modo per identificarli in maniera dispregiativa: «Ecco perché nuovo genocidio». Il primo passo è denunciare al mondo quanto sta accadendo quindi procedere subito all’aiuto degli sfollati, la prima ondata dei quali dovrebbe essere di 2500 persone. «Abbiamo già accolto circa 50 famiglie in una delle nostre chiese di Al Qosh», poco sopra Tall Kayf, la cosiddetta terra di confine, quella della linea del fuoco dove la distanza tra l’ultimo check-point Peshmerga e il primo dello Stato islamico è di solo un chilometro. È da lì che fuggono i cristiani grazie ai corridoio di sicurezza creati dai «Guerrieri che guardano la morte» e dall’Unicef.
Ed è proprio il responsabile Unicef in Iraq, Marzio Babille, che ha voluto subito incontrare Nona, «per coordinare le operazioni di primo soccorso e mettere al sicuro i perseguitati». Babille spiega che già entro oggi fino a 900 sfollati potrebbero giungere ad Ankawa, enclave cristiana a nord di Erbil. «Tragedia nella tragedia», prosegue l’arcivescovo di Mosul. «Il 4 giugno sono andato a celebrare messa in una parrocchia fuori da Mosul, il giorno dopo ho tentato di rientrare in città, ma si è scatenato quello che abbiamo visto». E che non si è ancora concluso. Da allora Nona non è più tornato a Mosul, e aiuta i suoi concittadini da fuori accogliendoli nella fuga: «Allora dissi che il peggio doveva ancora venire, e infatti».