By Tracce.it
di Alessandra Stoppa
Non stanno preparandosi alle feste. Non sanno cosa sarà di loro domani. «Ma la nascità di Gesù non è un momento, è quello che ci fa vivere».
Non stanno preparandosi alle feste. Non sanno cosa sarà di loro domani. «Ma la nascità di Gesù non è un momento, è quello che ci fa vivere».
Intervista a padre Mukhles, parroco nella chiesa della Domenica di Sangue
È il parroco della chiesa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso. Quella dell’attentato del 31 ottobre. La domenica che ha segnato per sempre la vita dei cristiani di Baghdad. Padre Mukhles Quriaqos, sacerdote da quattro anni, non sa dire che cosa sarà il domani. Né per sé, né per la sua gente. Questo per loro è «il Natale del parto», dove la nascita è mischiata alla morte.
È il parroco della chiesa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso. Quella dell’attentato del 31 ottobre. La domenica che ha segnato per sempre la vita dei cristiani di Baghdad. Padre Mukhles Quriaqos, sacerdote da quattro anni, non sa dire che cosa sarà il domani. Né per sé, né per la sua gente. Questo per loro è «il Natale del parto», dove la nascita è mischiata alla morte.
«Ma quando il dolore si mescola alla gioia crea una speranza».
Come stanno vivendo i suoi fedeli?
Ci chiedono cose materiali, per affrontare la vita, ma noi non possiamo rispondere a questo, possiamo solo dare la fede. I fedeli hanno bisogno di stabilità, sicurezza e pace, ma noi sacerdoti siamo i primi a vivere in modo non stabile.
Come vi state preparando al Natale?
Il Natale dopo il massacro ha un altro gusto. Ma la comunità non lo sta "preparando": il Natale non è solo un momento, è quello per cui possiamo vivere. Per queste festività non ci sono tanti segni, simboli, come di solito prima, e proprio per il fatto che la nostra chiesa è ferita non lo festeggiamo come le altre volte, perché la comunità non vive la pace. Però può vivere il Natale, che è il fondamento delle feste: il Natale "si fa" nella fede, è un fondamento di fede. Di certo possiamo esprimere la nostra fede in modo più visibile, ma è difficilissimo farlo attualmente.
Che cosa significa per voi «vivere la fede»?
Il cristianesimo in Iraq ha delle radici forti, è una presenza dal primo secolo dopo Cristo. Ora, dopo quello che è successo, la fede è messa alla prova, ma così si chiariscono tante cose: se siamo veri cristiani - cristiani di fede - o cristiani solo di una religiosità esteriore. Il cristiano di fede è quello che sfida tutto con la sua fede, è proprio quello che cerca di costruire la sua famiglia dal di dentro, e non solo di cercare di uscire. Ed oggi la nostra identità come cristiani cade nella paura per tutto quello che viviamo: sia per gli attacchi alle chiese, che per l’azione degli uffici governativi che si dimostrano contro i cristiani. Ai miei fratelli accade di non poter lavorare, e nelle scuole i loro figli si sentono dire: «Siete miscredenti e impuri». Poi le prediche dei capi religiosi musulmani, ogni venerdì, riempiono la testa dei loro credenti di odio contro l’Occidente e contro i cristiani.
Come affrontate tutto questo?
Le condizioni dell’Iraq sono condizioni molto difficili. Il cristianesimo qui non ha vissuto il riposo, è stato sempre perseguitato, sia dall’interno che da fuori, perciò il nostro servizio è per Cristo: oggi togliamo il male con la nostra presenza e perseveranza e non sappiamo del domani, forse saremo uccisi. Ma per i cristiani, il sangue di Cristo salva gli uomini, anche attraverso il sangue dei nostri fratelli martiri, e crediamo che salverà tanti altri e forse salverà anche l’Iraq. Il sacrificio di Cristo è sacrificio vivo.
Ma che cosa vuol dire per voi vivere questo sacrificio?
Oggi il sacrificio non ha bisogno solo di parole, ma di vita da dare. Se abbiamo collegato il dolore con la croce, allora il dolore non rimane dolore, ma avrà un altro significato e la croce è per la Resurrezione. Ed oggi il nostro dolore è collegato al dolore di Gesù: oggi noi sentiamo sangue e dolore perché Gesù sale più di una volta sulla croce della chiesa in Iraq, allora noi superiamo il dolore affinché possiamo continuare quello che ha voluto Gesù Cristo e così il sangue non sia per la morte, ma per la vita. Oggi il nostro sangue è molto prezioso, ma non è più prezioso del sangue di Gesù che è stato versato per noi, perciò il nostro sangue lo diamo non per il male ma per il bene, con il nostro sangue coltiviamo il bene.
Qual è la vostra speranza?
La promessa di Cristo è che non ci lascerà mai, in ogni momento, e oggi sentiamo che non Dio ci ha lasciati, ma che noi lo abbiamo lasciato: per questo il nostro dolore è tanto, e chiediamo che ci tenga sotto la Sua cura. Infine, spero una cosa, che tutti quelli che leggeranno questa intervista, oltre a pregare, possano fare anche altro per salvare i cristiani dell’Iraq. Ogni giorno i nostri giovani soffrono e i nostri bambini e le donne vivono una grande paura, perciò oggi abbiamo bisogno di un forte aiuto da parte di tutti per passare alla riva della pace: abbiamo bisogno di uno sguardo serio verso la nostra comunità cristiana in Iraq, ma anche un sguardo vero e concreto verso il Cristianesimo nel mondo intero.