By Avvenire
Luca Geronico
«Per chi suona la campanella a Erbil?». Difficile dirlo. Ma questo primo giorno di scuola nel Kurdistan iracheno sarà una festa solo per pochi bimbi privilegiati. Una campanella – questo almeno è certo – che oggi suonerà indistintamente per i ragazzi e le famiglie curde, ma anche per rifugiati iracheni e sfollati siriani. Un tintinnio di festa, ma a segnare, pure, inevitabili disparità e acuire tensioni. Accolti con generosità, in due ondate successive, dalle autorità locali, le centinaia di migliaia di profughi ora paralizzano l’intero sistema scolastico.
L’ondata del 9 giugno, con la caduta di Mosul in mano all’Is e poi quella del 6 agosto, dai villaggi dalla piana di Ninive e dal Sinjar: centinaia di migliaia di uomini in una fuga dal genocidio a cui per due volte le autorità non hanno esitato ad aprire i check point di un incerto confine. Un’ondata che oggi presenta il primo, pesantissimo prezzo, alla società curda.
In una riunione a inizio mese l’Unicef ha convocato agenzie umanitarie oltre che rappresentanti del governo di Baghdad, del governo regionale del Kurdistan e dei cinque governatorati più colpiti. Uno sforzo di coordinamento senza precedenti in cui è stato delineato un piano di intervento dai contenuti a dir poco allarmanti. Le scuole, assieme ai centri commerciali e ai numerosi edifici in costruzione, sono diventati da agosto dei campi profughi spontanei nel centro abitato di Erbil come di Duhok. L’impegno di autorità locali, Onu e Chiese cristiane ha garantito sinora cibo e prima assistenza, ma ora 33 scuole ad Erbil e ben 1.300 nel solo governatorato di Duhok devono essere sgomberate per consentire l’istruzione e ridare una normale socialità sia a chi è fuggito come a chi ha aperto le porte di casa. Inutile dire che per queste scuole oggi la campanella della prima lezione suonerà a vuoto. E, fatto con evidenti pesanti ricadute psicologiche su minore i famiglie, rischia di farlo a lungo.
Ad Erbil in questi giorni sono stati individuati cinque siti in cui dovranno sorgere o essere sviluppati dei campi profughi: il primo sarà l’“Agricultural center”, interamente da costruire presso un terreno della scuola di agraria appena fuori dall’abitato. Il “Brasilian center”, un ex centro sportivo, già stipato all’inverosimile e con un sistema fognario al collasso, dovrà essere ristrutturato e ampliato. Un intervento analogo è previsto per il “Bahrka camp”, di proprietà del governo, che già ospita il doppio della sua capienza. Un po’ meglio va nel quartiere cristitano di Ankawa dove si dovranno riconvertire a strutture di accoglienza i cantieri di due centri commerciali: l’“Ankawa mall” e l’“Ankawa church mall”. Quest’ultimo, proprio di fronte alla cattedrale di St. Joesph, da nudo scheletro in muratura a metà agosto ha iniziato ad essere suddiviso in micro-camerette di circa tre metri per lato. Una situazione che garantisce un minimo di dignità. L’unica soluzione che pare essere accettata dalle famiglie sinora in rifugi di fortuna e concordi solo nel dire: «Di qua non ci muoviamo».
O forse, altro elemento di incertezza, potrebbe muoversi solo per rientrare a casa. «Con protezione internazionale», precisano tutti i cristiani. Oppure muoversi, ma per espatriare. Per questo progetti, stime e cifre sono quanto mai incerte. Nessuno, pero, vuole finire in una tendopoli fuori dall’abitato e senza servizi. Intanto tutte le autorità glissano sulle modalità del trasferimento degli sfollati nei campi: l’allerta ordine pubblico è a dir poco evidente. Ma problemi di convivenza potrebbero scoppiare ancora prima. Se il governatorato di Erbil accetta due mesi di ritardo nell’apertura delle scuole, alcuni sindaci avrebbero annunciato una sola settimana di disagio in un evidente rimpallo di responsabilità. Il malumore serpeggia, mentre avanza l’emergenza umanitaria: fra i bambini nei campi più isolati e già comparsa la scabbia. L’inverno, proibitivo in particolare sulle montagne di Duhok, è un altro incubo.
Per lottare contro il degrado, in primo luogo psicologico, sui bambini, la Focsiv sta studiando un progetto di animazione per i ragazzi dai 6 ai 12 anni. Una sorta di super oratorio ampliando il lavoro che padre Ialil Jako, rogazionista iracheno, e suor Ibbtisan Torghis, francescana egiziana, stanno già facendo. «Una presenza concreta con giochi, mini sceneggiature, canti che dà un enorme sollievo a bambinio e famiglie», spiega Terry Dutto appena rientrato da Erbil.
Intanto l’Onu prevede di attivare 26 campi in tutto il Kurdistan per 240mila degli 850mila profughi censiti e sono già stati spesi metà dei 500 milioni di dollari donati all’Onu da Riad. Una corsa contro il tempo, prima che suoni la campanella della rivolta.
Luca Geronico
«Per chi suona la campanella a Erbil?». Difficile dirlo. Ma questo primo giorno di scuola nel Kurdistan iracheno sarà una festa solo per pochi bimbi privilegiati. Una campanella – questo almeno è certo – che oggi suonerà indistintamente per i ragazzi e le famiglie curde, ma anche per rifugiati iracheni e sfollati siriani. Un tintinnio di festa, ma a segnare, pure, inevitabili disparità e acuire tensioni. Accolti con generosità, in due ondate successive, dalle autorità locali, le centinaia di migliaia di profughi ora paralizzano l’intero sistema scolastico.
L’ondata del 9 giugno, con la caduta di Mosul in mano all’Is e poi quella del 6 agosto, dai villaggi dalla piana di Ninive e dal Sinjar: centinaia di migliaia di uomini in una fuga dal genocidio a cui per due volte le autorità non hanno esitato ad aprire i check point di un incerto confine. Un’ondata che oggi presenta il primo, pesantissimo prezzo, alla società curda.
In una riunione a inizio mese l’Unicef ha convocato agenzie umanitarie oltre che rappresentanti del governo di Baghdad, del governo regionale del Kurdistan e dei cinque governatorati più colpiti. Uno sforzo di coordinamento senza precedenti in cui è stato delineato un piano di intervento dai contenuti a dir poco allarmanti. Le scuole, assieme ai centri commerciali e ai numerosi edifici in costruzione, sono diventati da agosto dei campi profughi spontanei nel centro abitato di Erbil come di Duhok. L’impegno di autorità locali, Onu e Chiese cristiane ha garantito sinora cibo e prima assistenza, ma ora 33 scuole ad Erbil e ben 1.300 nel solo governatorato di Duhok devono essere sgomberate per consentire l’istruzione e ridare una normale socialità sia a chi è fuggito come a chi ha aperto le porte di casa. Inutile dire che per queste scuole oggi la campanella della prima lezione suonerà a vuoto. E, fatto con evidenti pesanti ricadute psicologiche su minore i famiglie, rischia di farlo a lungo.
Ad Erbil in questi giorni sono stati individuati cinque siti in cui dovranno sorgere o essere sviluppati dei campi profughi: il primo sarà l’“Agricultural center”, interamente da costruire presso un terreno della scuola di agraria appena fuori dall’abitato. Il “Brasilian center”, un ex centro sportivo, già stipato all’inverosimile e con un sistema fognario al collasso, dovrà essere ristrutturato e ampliato. Un intervento analogo è previsto per il “Bahrka camp”, di proprietà del governo, che già ospita il doppio della sua capienza. Un po’ meglio va nel quartiere cristitano di Ankawa dove si dovranno riconvertire a strutture di accoglienza i cantieri di due centri commerciali: l’“Ankawa mall” e l’“Ankawa church mall”. Quest’ultimo, proprio di fronte alla cattedrale di St. Joesph, da nudo scheletro in muratura a metà agosto ha iniziato ad essere suddiviso in micro-camerette di circa tre metri per lato. Una situazione che garantisce un minimo di dignità. L’unica soluzione che pare essere accettata dalle famiglie sinora in rifugi di fortuna e concordi solo nel dire: «Di qua non ci muoviamo».
O forse, altro elemento di incertezza, potrebbe muoversi solo per rientrare a casa. «Con protezione internazionale», precisano tutti i cristiani. Oppure muoversi, ma per espatriare. Per questo progetti, stime e cifre sono quanto mai incerte. Nessuno, pero, vuole finire in una tendopoli fuori dall’abitato e senza servizi. Intanto tutte le autorità glissano sulle modalità del trasferimento degli sfollati nei campi: l’allerta ordine pubblico è a dir poco evidente. Ma problemi di convivenza potrebbero scoppiare ancora prima. Se il governatorato di Erbil accetta due mesi di ritardo nell’apertura delle scuole, alcuni sindaci avrebbero annunciato una sola settimana di disagio in un evidente rimpallo di responsabilità. Il malumore serpeggia, mentre avanza l’emergenza umanitaria: fra i bambini nei campi più isolati e già comparsa la scabbia. L’inverno, proibitivo in particolare sulle montagne di Duhok, è un altro incubo.
Per lottare contro il degrado, in primo luogo psicologico, sui bambini, la Focsiv sta studiando un progetto di animazione per i ragazzi dai 6 ai 12 anni. Una sorta di super oratorio ampliando il lavoro che padre Ialil Jako, rogazionista iracheno, e suor Ibbtisan Torghis, francescana egiziana, stanno già facendo. «Una presenza concreta con giochi, mini sceneggiature, canti che dà un enorme sollievo a bambinio e famiglie», spiega Terry Dutto appena rientrato da Erbil.
Intanto l’Onu prevede di attivare 26 campi in tutto il Kurdistan per 240mila degli 850mila profughi censiti e sono già stati spesi metà dei 500 milioni di dollari donati all’Onu da Riad. Una corsa contro il tempo, prima che suoni la campanella della rivolta.