Ogni riga de “La Civiltà Cattolica” passa precedentemente al vaglio delle autorità vaticane, che ne autorizzano o no la stampa.
Non deve quindi passare inosservato l’editoriale
dell’ultimo numero della rivista dei gesuiti di Roma, firmato da padre
Luciano Larivera e intitolato: “Fermare la tragedia umanitaria in Iraq”.
L’articolo esordisce tratteggiando il quadro della situazione:
“Stati Uniti, Unione europea, Nazioni Unite e governo iracheno non
sono riusciti a impedire la violenza contro le popolazioni cristiane,
yazide, shabak, turcomanne, sciite e sunnite ‘moderate’ a Mossul e nella
piana di Ninive. Per loro non è rimasta, secondo i casi, che la
conversione forzata, la morte, la schiavitù (per le donne) o la fuga.
Anche ad Aleppo, la più grande città siriana, i cristiani temono la
‘pulizia religiosa’ o la fuga forzata, se le milizie dell’Islamic State
in Iraq and Sham (o Levant) prenderanno il controllo dei loro
quartieri…”.
Prosegue elencando i ripetuti interventi delle autorità della Chiesa:
“In diversi modi e varie occasioni papa Francesco, gli organi della
Santa Sede e l’episcopato iracheno e mediorientale, come pure i vescovi
italiani e di tutto il mondo, sono intervenuti per implorare la pace in
Iraq e in Siria e chiedere soccorsi internazionali…”.
Ma poi arriva al nocciolo della questione, con un giudizio di
nettezza senza precedenti sulla qualità di vera e propria “guerra di
religione” dell’attacco sferrato dal Califfato islamico.
“Ovviamente, per promuovere la pace è necessario conoscere che cosa è
veramente la guerra, e non che cosa vorremmo che fosse. È cruciale
studiare e comprendere perché e come l’IS combatte. La sua è una guerra
di religione e di annientamento. Non va confusa o ridotta ad altre
forme, da quella bolscevica a quella dei khmer rossi. Strumentalizza il
potere alla religione e non viceversa. La sua pericolosità è maggiore di
al-Qaeda…”
L’analisi continua poi denunciando l’insufficienza delle attuali
iniziative armate, compresi i bombardamenti americani, e proponendo
invece un insieme di interventi coordinati, militari ma non solo:
“Analisti militari attestano che l’attuale soluzione armata non è
efficace. Limitarsi a questo mezzo può continuare a permettere all’IS
spazi di conquista e occasioni di atrocità maggiori. All’IS vanno
interdetti i rifornimenti di armi, l’arruolamento e l’addestramento di
nuovi combattenti, i canali di finanziamento, le infrastrutture
energetiche e logistiche. Ma non basta ‘l’arte della guerra’: servono la
politica interna, la diplomazia, la religione, l’economia.”
“La stabilità e la sicurezza saranno garantite soltanto se i sunniti
in Siria e in Iraq avranno gli stessi diritti politici, civili, sociali
ed economici delle altre etnie e gruppi religiosi. Ma questa soluzione
di ‘politica interna’ sarà fattibile soltanto se le potenze regionali
troveranno un accordo per interrompere lo scontro settario tra sunniti e
sciiti e mettere pace tra l’Iran e le monarchie del Golfo. E
soprattutto se gli intellettuali musulmani svuoteranno il conflitto
ideologico-religioso tra le scuole interpretative sunnite sul jihad…”.
La parte finale dell’editoriale argomenta precisamente quanto è
necessario fare sul terreno religioso, in particolare da parte del mondo
musulmano, proprio per la natura essenzialmente religiosa e addirittura
“di civiltà” della guerra scatenata dal Califfato:
“La guerra dai tratti religiosi è estremizzata anche contro i
musulmani sunniti che non sono ‘veramente’ salafiti, inclusi i Fratelli
Musulmani, Hamas, i wahabiti sauditi e i jihadisti al-Qaeda. Costoro
sono apostati, secondo l’IS, perché non perseguono il califfato globale,
ma al massimo Stati nazionali governati dalla sharia. E per conquistare
il consenso e l’aiuto del maggior numero di ‘veri musulmani’ l’IS
incorporerà anche le attività tipiche di al-Qaeda: attentati suicidi
anche nei Paesi non a maggioranza musulmani”
Non lascia indifferenti il recente editoriale, ‘Noi in fuga dalla realtà‘,
di E. Galli della Loggia: in particolare gli europei occidentali non
sono in grado di affrontare con realismo lo scontro con il sedicente
Califfato islamico, avendo evitato di riflettere su ‘religione, guerra e
civiltà’ (non semplice ‘cultura’).
Ma contro la guerra religiosa scatenata dall’IS, data la sua non
disponibilità a cessare il fuoco e a negoziare, la risposta sbagliata è
una controffensiva armata di stampo religioso, anche soltanto
intra-islamico: si radicalizzerebbe l’islamismo dell’IS nelle menti e
nei cuori di molti musulmani. Le armi da fuoco sono di pertinenza della
politica, quelle delle religioni sono il dialogo e la formazione di
coscienze rette e corrette.
Lo ha rimarcato la dichiarazione
del pontificio consiglio per il dialogo interreligioso del 12 agosto.
In essa si fa osservare che la contestazione della restaurazione del
Califfato ‘da parte della maggioranza delle istituzioni religiose e
politiche musulmane non ha impedito ai jihadisti dello Stato Islamico di
commettere e di continuare a commettere atti criminali indicibili’. Ed
essi vengono elencati. ‘Nessuna causa può giustificare tale barbarie e
certamente non una religione. Si tratta di una gravissima offesa
all’umanità e a Dio che è il Creatore’.
Il documento prosegue: ‘La situazione drammatica dei cristiani,
degli yazidi e di altre comunità religiose numericamente minoritarie in
Iraq esige una presa di posizione chiara e coraggiosa da parte dei
responsabili religiosi, soprattutto musulmani, delle persone impegnate
nel dialogo interreligioso e di tutte le persone di buona volontà. Tutti
devono unanimemente condannare senza alcuna ambiguità questi crimini e
denunciare l’invocazione della religione per giustificarli. Altrimenti
quale credibilità avranno le religioni, i loro seguaci e i loro leader?
Quale credibilità potrebbe avere ancora il dialogo interreligioso così
pazientemente perseguito negli ultimi anni?’.
“Segnaliamo che il Gran Muftì – la massima carica religiosa nazionale
– dell’Arabia Saudita, il 9 agosto, come in precedenza il suo Re, ha
dichiarato che ‘lo Stato Islamico e al-Qaeda sono apostati’.
“Anche il suo omologo egiziano è intervenuto, denunciando il
Califfato islamico come minaccia per l’islam. Il Gran Muftì turco ha
ribadito che le atrocità commesse in Iraq e Siria non trovano posto
nella religione musulmana, ma sono una malattia della società; non sono
giustificabili nell’islam e in alcuna sua setta. Sulla stessa linea si
sono espressi il segretario generale della Organizzazione della
cooperazione islamica e quello della Lega Araba.
“Rimarchevole l’azione del Grande Ayatollah Alì al-Sistani, la
massima autorità religiosa e morale per gli sciiti in Iraq. Egli ha
creato i presupposti politici per le dimissioni dell’ex-premier iracheno
al-Maliki; altrimenti non si sarebbe aperta la possibilità di un nuovo
governo, credibilmente nazionale perché inclusivo, ma che aspetta di
essere varato entro il 10 settembre dallo sciita Haider al-Abadi, il
premier incaricato. Sistani è colui che, senza prendere posizione in un
partito, continua a voler ritessere la stoffa sociale, cioè
interconfessionale e multietnica, dell’Iraq. Per questo il suo nome è
tra quelli proposti per il Nobel della pace 2014.
“Il Califfato islamico è un proto-Stato, benché terrorista. Domina su
circa 6 milioni di abitanti, offre servizi pubblici e combatte la
corruzione dei funzionari pubblici per conquistare le menti e i cuori
dei suoi sudditi sunniti. Persegue obiettivi religiosi usando ‘in modo
apocalittico’ gli strumenti della politica, dell’economia e della forze
armate. La comunità islamica mondiale ha il dovere di distruggere nei
cuori di tutti i musulmani una concezione estremista del Corano e della
tradizione islamica”.