By Baghdadhope
La proposta francese di accogliere 500 rifugiati iracheni di religione cristiana sta suscitando aspre polemiche in patria. Secondo quanto riportato da PRESS TV l’iniziativa ha ricevuto l’approvazione di Mons. Marc Stenger, il vescovo di Troyes e presidente di Pax Christi Francia che a febbraio ha guidato la visita di un gruppo franco-italiano nel Kurdistan. Il vescovo, pur riconoscendo il fatto che tutti gli iracheni stiano vivendo una situazione difficile ha aggiunto che essa lo è ancora di più per i cristiani.
Di parere contrario si è dichiarato invece Pierre Henry, a capo dell’associazione francese Terre d’Asile che ha sottolineato il rischio insito nel garantire il rifugio sulla base dell’appartenza religiosa.
A sostenere l’opinione di Pierre Henry c’è anche la dichiarazione rilasciata ad Inter Radio dal vescovo siro di Mosul (non viene citato il nome ed è quindi incerto se si tratti del vescovo cattolico, Mons. Qas Mousa o di quello ortodosso, Mor Gregorious Saliba Shamoun, nota di Baghdadhope) che sottolinea come la comunità irachena cristiana sarebbe portata a favorire l’emigrazione dei giovani che invece potrebbero in futuro aiutare la ricostruzione del proprio paese.
La questione della fuga degli iracheni cristiani dal paese tiene ormai banco sui media da anni, da quando cioè si è trasformata in un’emorragia apparentemente inarrestabile cui la morte di Monsignor Rahho ha dato nuovo impulso. Le dichiarazioni a proposito però sono praticamente unanimi, e sostenute dal Vaticano: “bisogna fermarla”. Ad esprimersi così sono i vescovi, gli alti prelati cui i media danno voce, coloro che, giustamente nella loro posizione, difendono la millenaria presenza cristiana in Iraq appellandosi ad una sorta di “precedenza temporale” che la fa risalire a ben prima dell’arrivo dell’Islam. Coloro che vedono nella diaspora la perdita dei valori, delle tradizioni, della lingua ancestrale che sempre hanno unito una comunità dal suo divenire minoritaria.
Ma che opinione ha la gente? Non c’è bisogno di leggere dichiarazioni a proposito. Molti iracheni cristiani l’hanno espressa con i fatti, con il loro diventare profughi. Il contrasto tra gli appelli al restare e la realtà del partire è netto.
E questo sarà uno dei molti problemi che la chiesa in Iraq dovrà affrontare. Perchè, anche se ciò può risultare blasfemo alle orecchie di molti, potrebbero essere più di quanti si pensa coloro che ai valori, alla tradizione, alla lingua oppongono semplicemente la possibilità di vivere. E’ doloroso ma realistico ammettere che essere cristiani non per tutti significa necessariamente sacrificare se stesso o i propri cari. Che le parole del Santo Padre dedicate ai missionari martiri la cui opera deve essere considerata come uno stimolo a testimoniare con coraggio la fede e la speranza in Cristo che “sulla Croce ha vinto per sempre il potere dell’odio e della violenza con l’onnipotenza del suo amore” possano non toccare il cuore di coloro che con quell’odio e quella violenza sono costretti a convivere da anni. Che ancora oggi, ed è la testimonianza di Mons. Luis Sako, Arcivescovo caldeo di Kirkuk, molti cristiani sono costretti a scegliere se pagare la tassa di protezione (jizia) di 10,000 dollari, se vedere la propria casa distrutta o un familiare ucciso. Che ci siano madri cui della ricostruzione del paese non importa nulla perchè non ci credono e che considerano il lacerante dolore che la separazione da un figlio sempre comporta preferibile alla sua morte o ad un destino incerto.
Questa è la realtà in Iraq. Un’ennesima sfida per una Chiesa già molto provata.
Di parere contrario si è dichiarato invece Pierre Henry, a capo dell’associazione francese Terre d’Asile che ha sottolineato il rischio insito nel garantire il rifugio sulla base dell’appartenza religiosa.
A sostenere l’opinione di Pierre Henry c’è anche la dichiarazione rilasciata ad Inter Radio dal vescovo siro di Mosul (non viene citato il nome ed è quindi incerto se si tratti del vescovo cattolico, Mons. Qas Mousa o di quello ortodosso, Mor Gregorious Saliba Shamoun, nota di Baghdadhope) che sottolinea come la comunità irachena cristiana sarebbe portata a favorire l’emigrazione dei giovani che invece potrebbero in futuro aiutare la ricostruzione del proprio paese.
La questione della fuga degli iracheni cristiani dal paese tiene ormai banco sui media da anni, da quando cioè si è trasformata in un’emorragia apparentemente inarrestabile cui la morte di Monsignor Rahho ha dato nuovo impulso. Le dichiarazioni a proposito però sono praticamente unanimi, e sostenute dal Vaticano: “bisogna fermarla”. Ad esprimersi così sono i vescovi, gli alti prelati cui i media danno voce, coloro che, giustamente nella loro posizione, difendono la millenaria presenza cristiana in Iraq appellandosi ad una sorta di “precedenza temporale” che la fa risalire a ben prima dell’arrivo dell’Islam. Coloro che vedono nella diaspora la perdita dei valori, delle tradizioni, della lingua ancestrale che sempre hanno unito una comunità dal suo divenire minoritaria.
Ma che opinione ha la gente? Non c’è bisogno di leggere dichiarazioni a proposito. Molti iracheni cristiani l’hanno espressa con i fatti, con il loro diventare profughi. Il contrasto tra gli appelli al restare e la realtà del partire è netto.
E questo sarà uno dei molti problemi che la chiesa in Iraq dovrà affrontare. Perchè, anche se ciò può risultare blasfemo alle orecchie di molti, potrebbero essere più di quanti si pensa coloro che ai valori, alla tradizione, alla lingua oppongono semplicemente la possibilità di vivere. E’ doloroso ma realistico ammettere che essere cristiani non per tutti significa necessariamente sacrificare se stesso o i propri cari. Che le parole del Santo Padre dedicate ai missionari martiri la cui opera deve essere considerata come uno stimolo a testimoniare con coraggio la fede e la speranza in Cristo che “sulla Croce ha vinto per sempre il potere dell’odio e della violenza con l’onnipotenza del suo amore” possano non toccare il cuore di coloro che con quell’odio e quella violenza sono costretti a convivere da anni. Che ancora oggi, ed è la testimonianza di Mons. Luis Sako, Arcivescovo caldeo di Kirkuk, molti cristiani sono costretti a scegliere se pagare la tassa di protezione (jizia) di 10,000 dollari, se vedere la propria casa distrutta o un familiare ucciso. Che ci siano madri cui della ricostruzione del paese non importa nulla perchè non ci credono e che considerano il lacerante dolore che la separazione da un figlio sempre comporta preferibile alla sua morte o ad un destino incerto.
Questa è la realtà in Iraq. Un’ennesima sfida per una Chiesa già molto provata.