Andrea Oltolina
Dal
13 al 20 aprile 2016 sono stato nel nord dell’Iraq, nella regione
autonoma del Kurdistan. L’occasione è giunta grazie all’invito di
Giorgio, priore del monastero della Piccola Famiglia della Risurrezione a
Marango (VE), e di Gemma, del monastero della Piccola Fraternità di
Gesù di Pian del Levro (TN).
Ci
conosciamo da tempo e hanno offerto alla nostra comunità di prendere
parte a questa esperienza, che loro avevano già vissuto. La trasferta è
finalizzata a incontrare tre monaci siro-cattolici, conosciuti qualche
anno prima.
In
Iraq c’è la guerra e, prima di partire, il tema sicurezza attraversa
spesso la mia mente e i dialoghi con le persone più care:
fortunatamente, da questo punto di vista non ci saranno problemi. C’è
però in me ancora un po’ di apprensione perché sono solo al secondo volo
aereo: ma si viaggia in perfetto orario con my Austrian airlines, facendo scalo a Vienna e atterrando alle 15.00 a Erbil.
La
città, una delle più antiche del mondo (i primi insediamenti datano al
XXIII secolo a.C.), dall’alto mostra una evidente pianta circolare,
sviluppatasi attorno alla Cittadella. Attualmente ha circa due milioni e
mezzo di abitanti ed è un cantiere infinito, con interi quartieri in
costruzione ma nella totale assenza di un progetto urbanistico: si vuole
farne la nuova Dubai dell’Iraq ma il prezzo del petrolio è in netto
ribasso, così che l’edilizia ha subìto una pausa di arresto. L’aeroporto
internazionale è immenso e nuovissimo ma ci accoglie con diversi secchi
di plastica: la pioggia della sera precedente ha messo in luce le
evidenti falle costruttive…
In
questa terra sperimenteremo una significativa escursione termica: i
primi giorni ci si copre volentieri con un pile mentre negli ultimi
avremo modo di verificare quanto questo luogo sia uno dei più caldi del
mondo. Sull’aereo avevo ingenuamente domandato ai miei compagni se la
nostra destinazione fosse in area desertica, con clima torrido: appena
sbarcato resto subito sorpreso dall’ampiezza dell’orizzonte ma… quanto
verde! Capisco – e avrò modo di verificarlo nei giorni seguenti – di
essere nella famosa mezzaluna fertile, abbondantemente irrigata dagli
antichi fiumi mesopotamici del Tigri e dell’Eufrate e intensamente
coltivata: un vero paradiso!
Nella
mezz’oretta necessaria per giungere ad Ainkawa, cittadina di 50.000
abitanti ormai unita ad Erbil, cerco di capire come sia possibile
viaggiare su viali “modello americano” da cinque-sei corsie ma… senza
semafori, senza cartelli segnaletici, senza stop e senza rotonde! Quello
che a noi parrebbe inverosimile, lì si svolge con la massima
naturalezza: ogni tanto si interrompe lo spartitraffico e chi deve
svoltare fa “tranquillamente” inversione a U mentre le macchine
sfrecciano in senso inverso…traffico folle, dove non si contano le
strombazzate con il clacson! La velocità viene moderata da alcuni dossi
ma soprattutto dalle innumerevoli buche nell’asfalto. Mi accorgo che ci
sono targhe bianche, rosse, verdi e gialle, un numero altissimo di taxi
coloro crema ma soprattutto che le macchine, oltre a essere quasi tutte
bianche (la moda del momento ma anche per il calore estivo, che può
raggiungere i cinquanta gradi) sono tutte di grandi dimensioni e
cilindrata potente: è un importante simbolo di potere e di visibilità
sociale. Noto che alla guida ci sono sia uomini che donne.
La
nostra meta è il campo profughi di Ozal: 850 famiglie (3500 persone),
prevalentemente cristiane ma dove c’è anche una buona presenza musulmana
e perfino un gruppetto di yazidi, gruppo religioso tra i più
perseguitati nella recente storia irachena. Qui saremo ospiti della
comunità di monaci siro-cattolici composta da Wisam, il superiore,
attualmente impiegato del Jesuit Refugees Service presente nel campo;
Yasser, presbitero a servizio di chi ha subito traumi fisici e
psicologici, collaboratore di un centro per la salvaguardia dei
manoscritti iracheni, redattore ed editore di una rivista liturgica
scientifico-spirituale; Raid, anch’egli presbitero e attuale “parroco”
del campo, nonché insegnante di liturgia alla facoltà di teologia per
laici.
La
ragione fondamentale della nostra visita è portare loro e a tutti i
cristiani dell’Iraq un profondo ringraziamento per quanto stanno
insegnandoci, pagando sulla propria pelle: cosa significa essere
autentici cristiani oggi, in una situazione di persecuzione. Aggiungiamo
anche un piccolo sostegno economico raccolto nelle nostre comunità e
per la generosità di alcuni amici, insieme a piccoli altri regali: due
icone, delle medicine, qualche confezione di caffè.
Nella
notte tra il 6 e il 7 agosto 2014 il Daesh (Isis) ha costretto gli
abitanti di numerosi villaggi cristiani e musulmani ad abbandonare la
propria abitazione per avere salva la vita.
Qaraqosh
è un villaggio quasi interamente cristiano, di circa 50.000 abitanti,
ubicato nella piana di Ninive, da cui proviene il 90% del clero e delle
suore di tutto l’Iraq: colpire questo luogo aveva un evidente valore
simbolico! La gente, che non ha potuto portare nulla con sé, ha compiuto
un impegnativo tragitto a piedi e si è rifugiata più a nord (Ainkawa,
Duhok, Zakho), magari dove già c’era una comunità cristiana. Dopo aver
trascorso i primi mesi dormendo nei giardini pubblici, sperando in una
soluzione rapida della crisi, si è successivamente sistemata in tende;
ora la stragrande maggioranza di questi profughi è alloggiata in
container o in modeste abitazioni. A ormai venti mesi dalla cacciata,
tutti sperano ancora di poter tornare ma diversi sono già emigrati
definitivamente all’estero (USA, Canada, Australia, Europa, Libano)
mentre chi è rimasto cerca di sistemarsi sempre meglio: aprendo piccoli
negozi di alimentari, di parrucchiere, venendo impiegato come insegnante
o come taxista…
Le
chiese, qui suddivise in diverse denominazioni (caldea, siriaca,
assira, latina…), si sono coinvolte in maniera significativa per dare
conforto a tutte le persone sfollate. Grazie al contributo di numerose
agenzie mondiali, forniscono supporto alimentare, pagano gli affitti,
hanno realizzato scuole, ospedali, luoghi di culto, cercano di creare
posti di lavoro e alleviare le sofferenze.
La vicenda degli amici monaci è bella e merita di essere raccontata.
Inizia
nel 2001. A Qaraqosh un gruppo di giovani partecipano con vivacità alla
vita della loro parrocchia: si ritrovano per pregare, confrontarsi
sulle vicende attuali, comunicarsi le aspirazioni più profonde, fare
catechesi, leggere la Parola di Dio. In alcuni di loro comincia a
maturare il desiderio di vivere insieme. A servizio della chiesa e della
nazione, vogliono cercare di seguire le indicazioni contenute nel libro
degli Atti degli Apostoli a riguardo delle prime comunità cristiane. Ne
parlano con il vescovo e questi riconosce in loro una “forma
monastica”. Grazie alle indicazioni di un religioso carmelitano francese
sono invitati a studiare la loro tradizione antica per adattarla ai
nostri giorni. Frequentano studi teologici – Wisam viene in Italia,
conosce diverse comunità monastiche, impara la nostra lingua così che
ora può fare da tramite con il nostro gruppetto – e iniziano a vivere
stabilmente insieme. Naturalmente in arabo e con significative parti in
siriaco, la preghiera si nutre dei bellissimi inni di Efrem e viene
tutta cantata. Per restare vicini alla gente e soprattutto ai giovani si
inventano un lavoro come “netturbini” e ripuliscono Qaraqosh
coinvolgendo una quarantina di giovani.
Dei
quattro del gruppo iniziale, uno muore in uno scontro con un carro
armato americano mentre Raid resta seriamente ferito. Ora sono stati
costretti a scappare con la loro gente e gestiscono il campo profughi
dove siamo accolti. Vivono in una modesta casetta mal rifinita, dove
hanno anche creato una “cappella” tirando una tenda nel locale più
ampio: in essa ci ritroveremo ogni mattina per cantare qualche salmo in
italiano e ascoltare la melodica cantillazione della preghiera in arabo.
I tre riescono ad offrire una spartana ma calorosissima accoglienza ai
cinque (insieme a noi tre vi è anche una coppia di Treviso, Annalisa e
Giorgio) amici italiani.
Subito
siamo sorpresi dall’ospitalità e dalla generosità alimentare di tutti:
in qualsiasi casa, campo profughi, episcopio, monastero entreremo,
immediatamente siamo accolti con grande gioia e fraternità. Malgrado le
pessime condizioni abitative di alcuni, un bicchiere di tè è sempre
pronto per l’ospite! Delle curiose confezioni di singoli bicchieri
d’acqua vengono distribuite in ogni occasione di incontro. Quel poco che
si ha lo si condivide, non è mai trattenuto pensando al futuro seguendo
una logica “prudenziale”.
L’alimentazione,
tradizionalmente, non prevede portate successive: sul tavolo si trova
fin da subito tutto quanto è a disposizione. Al mattino, oltre
all’immancabile tè e al buonissimo pane arabo, yogurt, marmellata e una
deliziosa crema di sesamo; a pranzo e cena il riso si accompagna a
verdure crude e cotte, spesso si aggiungono delle brodose minestre, la
carne e il pesce non mancano, abbonda la frutta. Poche le spezie, ottimo
il gusto! Nelle giornate di festa possono comparire anche bevande
gassate e uno yogurt liquido da bere.
Gli
sfollati in Iraq sono milioni, tutti rifugiatisi al nord. Le chiese
cristiane gestiscono, solo in Ainkawa, ventisei campi profughi, altri
sono gestiti dallo stato. Ognuno ha una storia a sé e molto dipende
dalle capacità organizzative dei responsabili, laici o preti che siano,
oltreché dalla disponibilità economica. Se in qualche campo è possibile
rinvenire addirittura strutture “sorprendenti” (campetto per calcio a
cinque in erba sintetica), il grosso dell’impegno va per strutturare
asili e scuole primarie (ma c’è anche una università con alcune facoltà
ad Ainkawa): non si vuol privare del futuro i più giovani. È
significativo che una delle prime disposizioni di Daesh è impedire ai
bambini di andare a scuola, di pensare e ragionare, di studiare.
Resto
davvero impressionato dal campo insediato allo Sporting Center, una
struttura governativa con un campo sportivo, una piscina e una pista di
atletica. Una serie di container, inizialmente disposti a sufficiente
distanza l’uno dall’altro, hanno ora creato tra di loro un “corridoio”
molto più ristretto in ragione dell’ampliamento, realizzato con
materiale di fortuna (cartoni, teli in plastica, assi di legno) da ogni
famiglia, di una “cucina” esterna. Non c’è spazio vitale, il rischio di
esplosione delle bombole esposte al sole è altissimo. Come se non
bastasse, tra i vari container scorrono abbondanti rivoli di acqua
sporca, frutto della “lavanderia” famigliare. I bagni sono naturalmente
esterni. Ogni famiglia ha normalmente quattro-cinque figli: riuscire a
vivere e dormire in sei metri per due, senza finestre e con cinquanta
gradi in estate non è semplice… La raccolta dell’immondizia – mi dicono –
è molto migliorata dall’anno precedente: ci dicono però che i topi
scorrazzano liberamente e i bambini girano a piedi nudi nell’acqua
sporca…
C’è
un’arte dell’arrangiarsi, dell’imparare a vivere con quello che oggi
c’è, senza sperare ed esigere troppo, anche in situazioni terribili e
faticosissime. Questa è una grande lezione.
Il
campo peggiore che abbiamo visitato ad Ainkawa è stato certamente
quello gestito dalla Barzani Charity Foundation: tutto “statale” e con
ospiti solo musulmani, scacciati da Mosul e da Baghdad. 271 famiglie,
1420 persone. Tutti ancora in tende piantate su terra battuta che, in
inverno e con la pioggia, si trasforma in fango, al punto che i bambini
non riescono a raggiungere la scuola interna. Chi abita qui non vuole
tornare a casa ma andare in Europa… Non hanno più speranza e non credono
che Mosul sarà mai liberata.
Una
coraggiosa ragazza musulmana, responsabile scolastica di 500-600
bambini, lei stessa scacciata dalla provincia di AlAnbar, alla domanda
se credesse ancora nella pace, non ha dato altra risposta che: “Ci sono
stati troppi morti…”. Se i cristiani hanno le chiese e strutture di
supporto dietro di loro, in questo campo non hanno nessuno, perché lo
stato fa molto meno!
Dal
dinamico vescovo caldeo di Erbil, mons. Bashar Warda, resosi
disponibile per un incontro-intervista la domenica mattina, veniamo a
conoscenza dell’ingente giro di denaro che le chiese si trovano a
gestire in questa situazione di difficoltà. Gli riportiamo
esplicitamente la testimonianza che diversi ci hanno insinuato girando
per i campi: la distribuzione di soldi e beni primari non è poi così
equa; l’occasione di dare una testimonianza di collegialità ecclesiale
in questa situazione di urgenza funziona fino a un certo punto e
continuano a prevalere i vari campanilismi; i preti che sono stati messi
come responsabili dei campi sono stremati dalle richieste della gente e
si trovano a svolgere un compito da assistente sociale, tralasciando la
dimensione spirituale; la gerarchia appare distaccata dalle vicende
reali della gente… La replica è realistica e formale al contempo: non
siamo in paradiso, facciamo quello che possiamo, cerchiamo di
documentare tutte le spese per evitare qualsiasi forma di corruzione e
prepotenza, restiamo in situazione di urgenza.
Uno
degli aspetti maggiormente presente nei campi profughi, soprattutto
cristiani, è quello della depressione (per la mancanza di lavoro; per le
persone della famiglia scomparse, rapite, uccise; per le violenze
subite; per le attuali precarie condizioni di vita), che colpisce gli
adulti come i ragazzi e perfino i bambini (che, fortunatamente, sono
tantissimi e, nella maggioranza dei casi, sempre sorridenti e desiderosi
di ricevere abbracci): i volti tristi immortalati nelle foto non
lasciano dubbio in merito. La speranza per il futuro è centrale: “Se
anche riusciremo a tornare nei nostri villaggi, sarà possibile di nuovo
la convivenza con i vicini musulmani che, subito dopo la nostra
cacciata, hanno depredato le nostre case e le hanno occupate? I curdi,
che ci hanno già tradito e massacrato nel passato, come si
comporteranno? C’è ancora posto per i cristiani in Iraq?”
Non
si “insegna” il perdono a chi ha perso tutto – è troppo, almeno per ora
–, si cerca tutt’al più di suggerire che non si ripaghi il male con il
male e si spera che questo induca “il nemico” alla riflessione. Un
vescovo diceva che solo la preghiera personale può sostenere la propria
tenuta. Il responsabile laico del campo profughi di Al Amal (La
Speranza) ci dice: “Come possiamo odiare se Gesù ci dice di amare i
nemici?”. Mons. Rabban, vescovo di Duhok, dal piglio apparentemente
profetico (ma alle cui spalle campeggiava una gigantografia di Barzani,
l’eroe militare del Kurdistan), ci diceva che bisogna innanzi tutto
combattere il disfattismo e la depressione – “Fare il futuro e non
aspettare il futuro!” – e che bisogna ritornare a vivere fianco a fianco
dei musulmani come in passato: dobbiamo però anche armarci…
Più
volte abbiamo ascoltato la critica verso la politica europea di
accogliere i musulmani in Europa. E dinanzi al nostro tentativo di
giustificare le scelte in atto in ragione di una “umanità” che non
guarda al colore della pelle, della nazionalità o addirittura della
religione, la replica è che ci accorgeremo tra vent’anni di chi abbiamo
in casa. In Medio Oriente i musulmani sono moderati ma nel confronto
quotidiano con gli europei, divengono radicali.
Posta
a un vescovo la domanda se in Europa stiamo davvero sbagliando ad
accogliere i musulmani, la replica è stata: “Fate questa domanda alle
persone che vivono nei campi profughi… che stanno pagando sulla loro
pelle la radicalizzazione islamica di alcuni gruppi”. Grande irritazione
l’ha destata anche il papa, che proprio nei giorni del nostro
soggiorno, ha visitato Lesbo e ha portato a Roma tre famiglie di
islamici… Credo che se, da un lato, non possiamo accettare una
discriminazione a partire della religione, va altrettanto rispettata la
posizione e la sofferenza di questi nostri fratelli perseguitati.
Una
riflessione particolare va fatta riguardo la situazione bellica, nella
quale si aggrovigliano tutte le altre dimensioni di questa magnifica
terra.
Sembra
che la radice ideologica di Daesh sia da ritrovare in alcune
affermazioni del sunnita radicale giordano Al-Zarqawi, che riteneva più
importante uccidere uno sciita che un americano! Questa linea di
pensiero è stata assunta da jahdisti e quindi dal Daesh, generando
pertanto una lotta interna all’Islam e aprendo le porte alla guerra
civile.
A
livello territoriale di tutto il Medio Oriente, vi sono, da un lato, il
blocco sciita (da alcuni ritenuto più morbido e culturalmente
preparato) con Iran, la maggioranza degli iracheni, la Siria e il
Libano; dall’altra abbiamo quello sunnita con l’Arabia Saudita, il
Qatar, gli Emirati Arabi Uniti e l’agguerrita minoranza irachena. I due
gruppi, a livello di super potenze mondiali, sono sostenute (sebbene non
ufficialmente) rispettivamente da Russia e Usa.
Sotto
Saddam, che era sunnita, i cristiani erano stimati e, per la loro
integrità morale, occupavano posti significativi nell’ambito lavorativo e
governativo. Una volta caduto il regime dittatoriale, dapprima
sostenuto e poi abbandonato dagli Usa, gli sciiti hanno preso il potere e
hanno tolto ogni responsabilità ai militari sunniti di Saddam. Questi
hanno ora sposato la causa di Daesh, in quanto sapevano solo combattere e
questo hanno continuato a fare.
A
livello geo-politico, attualmente, c’è una divisione triplice in Iraq:
gli sciiti a sud-est, i sunniti a ovest, i curdi (prevalentemente
sunniti) al nord e c’è chi propone di dividere l’Iraq in tre stati,
malgrado l’opposizione statunitense a questo progetto. I curdi hanno una
autonomia regionale che vorrebbero fosse riconosciuta a livello
internazionale come nazione a sé stante.
Tutto
il petrolio iracheno dovrebbe essere gestito dal governo centrale di
Bagdad, che ordinariamente versava il 17% del ricavato al Kurdistan.
Oggi i curdi estraggono immense quantità di petrolio nel loro stesso
territorio, lo vendono alla Turchia – abbiamo visto colonne di autobotti
dirigersi verso nord – senza più comunicare la quantità e il prezzo
allo stato iracheno; il quale, per ritorsione, non sta più pagando gli
stipendi ai suoi dipendenti.
Ci
sono poi, evidentemente, “linee rosse” non ufficiali ma che vengono
rispettate e che giocano un peso enorme: come mai Daesh non ha bloccato
la strada che sale verso la Turchia, sebbene le sue postazioni militari
siano a poco più di dieci chilometri? Da dove passano le armi di cui si
rifornisce lo stesso Stato Islamico? L’ipotesi di un “inciucio” tra
Kurdistan e Daesh sembra reale. Eppure i curdi stanno anche combattendo
il Califfato, sebbene non vogliano farlo insieme all’esercito iracheno,
per evitare di scatenare una guerra civile: ognuno cerca di guadagnare
terreno ma sembra prevalere un interesse particolare, tribale piuttosto
che nazionale. Mosul è tutta sunnita ma i curdi, se vi entrano e la
liberano, vogliono farlo da soli, altrimenti ci sarebbe una battaglia
tra liberatori…
Tutti
coloro che abbiamo interpellato sono comunque convinti che la
situazione si sbloccherà solo e soltanto quando e come lo vorranno gli
Stati Uniti, “che sono solo dei cowboys senza cultura e che vogliono
essere i padroni del mondo!” E, se si scava un po’ e si cerca di capire
quale possa essere la ragione che muove gli americani a questo
atteggiamento, compare senza ombra di dubbio anche Israele, “il vero
motore economico del mondo di cui gli Usa sono succubi”. Questa lettura è
fortemente radicata e si impone in continuazione… Molti cristiani ci
dicono anche che Putin ha fatto un buon lavoro bombardando il Daesh (e
non solo)!
Difficile
riuscire a sbrogliare il nocciolo della matassa, soprattutto per noi
occidentali! Ma proprio l’aggrovigliarsi delle questioni e degli attori
in gioco fa l’interesse delle forze in campo…
La
Chiesa irachena sembra impostata secondo un modello tradizionale. Il
prete – abouna – ha un ruolo centrale nella vita religiosa della
comunità e tutti gli portano grande rispetto, lo salutano e gli baciano
le mani. Abbiamo potuto constatare come diversi parrocchiani, nei giorni
della nostra permanenza, portassero con gratitudine da mangiare ai tre
monaci: pane cotto in casa, vino, frutta, pietanze.
In
ragione della maggioranza musulmana, il giorno di festa in Iraq è il
venerdì e le celebrazioni liturgiche che comportano una partecipazione
collettiva significativa (comunioni, cresime, matrimonii…) sono tenute
nel giorno di riposo ufficiale mentre la domenica si celebra
l’eucaristia la mattina presto, prima dell’inizio del lavoro e della
scuola, e nel tardo pomeriggio. Vi è grande partecipazione, con molti
giovani e moltissimi canti (sentir cantare in arabo Simbolum 77 di
Sequeri è stato sorprendente!). Durante le riunioni e le celebrazioni,
gli uomini siedono nella navata di sinistra e le donne in quella di
destra (ma la prima fila è comunque occupata da uomini!); non c’è
scambio della pace tra uomini e donne.
La
posizione della donna, sia nel mondo cristiano che musulmano, è molto
precisa. Ci si sposa molto presto (15-16 anni per le femmine), con
matrimoni combinati dalle famiglie, che permettono alla donna un minimo
di libertà in più: non si dà loro infatti la possibilità di uscire da
sole, senza un uomo che sia il marito. Le ragazze cristiane sono molto
truccate e vestono in modo appariscente. Le donne lavorano molto, gli
uomini fumano, guardano e attendono…
I
giovani sono anche critici riguardo l’azione della gerarchia, un po’
troppo generica nelle indicazioni pastorali. In un incontro con il
patriarca dei siro-cattolici mons. Younan, alla domanda sul ruolo della
cultura nella vita di un giovane che lamentava di non poter più
frequentare l’università in questa situazione di persecuzione, ha
risposto che importante è rimanere, che la cultura non è tutto nella
vita e si può essere buoni cristiani anche se non si è studiato in
università…
Si
rispettano, ovviamente, anche coloro che partono per altre zone del
mondo, ma l’invito è a rimanere, anche perché se ci si allontana dalla
propria terra si perde l’identità cristiana e si indebolisce la propria
fede. Qualcuno del nostro gruppo ha commentato che non sembra esista la
volontà reale di risolvere i problemi, c’è grande attenzione
all’apparenza esteriore!
Sembra
che nessuno riesca ad avere notizie riguardo i villaggi occupati –
distanti non più di quindici chilometri e a venti minuti di strada
dall’ultimo posto di blocco – ,cosa oggettivamente inverosimile con i
mezzi scientifici a disposizione (droni, satelliti spia…): forse non ci
si vuol illudere… Tutte le abitazioni hanno una parabola satellitare e
la televisione: si cercano continuamente notizie ma ufficialmente sono
rare.
Alcuni
riescono a trovare anche aspetti positivi nella nuova situazione: hanno
conosciuto nuovi amici, perfino tra musulmani e yazidi, riconoscendo un
valore universale all’umanità tout court.
Verso
la fine del nostro soggiorno, abbiamo visitato il monastero di Al-Qosh,
un villaggio interamente cristiano dove c’è un monastero del VII
secolo. Qui c’è anche la tomba del profeta Naum, segno inequivocabile
della presenza ebraica almeno a partire dal VI secolo a.C., il tempo
della deportazione in Babilonia... Fino a poco tempo fa c’erano villaggi
dove si parlava ancora in ebraico; ora resta solo qualche famiglia.
L’ultimo
giorno della nostra permanenza abbiamo fatto due interessanti incontri,
che ci hanno lasciato un po’ di speranza. A Duhok lavora una
organizzazione italiana, Un ponte per, che supporta e coordina alcune
attività di riconciliazione attraverso la mediazione di ong arabe,
curde, yazide, cristiane. Cercano di mettere insieme arabi e curdi,
cristiani e shabak (altra minoranza perseguitata) aiutandoli a conoscere
una libertà partecipativa, sconosciuta ai più. Tutti costoro sono stati
colpiti da Daesh e ora hanno stilato alcuni programmi:
1) individuare i responsabili e metterli in carcere;2) curare le ferite di coloro che sono stati colpiti, fisicamente e moralmente;3) formare una comunità che cerca di vivere in pace.
Il sostegno viene dato a singoli individui e non ai governi, in quanto questi sostengono solo la loro parte contro le altre.
Una
giovane donna yazida ci ha raccontato una straziante testimonianza: le
donne dei loro villaggi, considerate adoratrici del diavolo, sono state
ripetutamente violentate, rapite e ridotte in schiavitù: ora, anziché
reagire con la violenza alla violenza, cercano di parlare tra di loro di
tutte queste violenze per iniziare un cammino di recupero. Alcune
fuggono, soprattutto in Germania, che è il primo paese di emigrazione
degli yazidi, ma non è la soluzione. Questo gruppo è uno dei più
colpiti: hanno ancora famigliari (di cui non sanno più nulla) che
abitano nei territori occupati dal Daesh, vivono in tende, hanno
pochissimi soldi.
Il
secondo incontro è stato fatto a Ainkawa con p. Nagjjb, un domenicano
iracheno che sta realizzando, con il supporto economico-digitale di
alcuni monaci benedettini americani e la collaborazione di alcune
studentesse universitarie irachene, la scansione fotografica di tutti i
manoscritti, cristiani e non, dell’Iraq, mettendoli on line a
disposizione di tutti gli studiosi. Sembrerebbe un lavoro inutile – di
fatto, ha salvato alcuni testi che, attualmente in mano a Daesh, non si
sa se siano ancora disponibili o siano stati distrutti – ma lui, che è
anche responsabile di un campo profughi al cui ingresso c’è la lettera
araba con cui inizia il nome di nazirei (ossia i cristiani) dentro a un
cuore, dice che bisogna salvare le vite insieme alla cultura: mai uno
senza l’altro! Una splendida testimonianza.
I
tre monaci che ci hanno ospitato sono stati molto contenti della nostra
visita e sperano di poterla presto ricambiare. Dicono che non hanno mai
sentito parlare con tanta franchezza i loro vescovi e questo è dovuto
alla nostra presenza. Sono rimasti molto sorpresi del nostro interesse
per la loro vicenda, che dura nel tempo, del fatto che continueremo a
parlare di loro, in modalità e ambienti differenti.
Noi
siamo ripartiti con un gran dolore nel cuore per la sorte di tutto il
popolo iracheno, ma anche con la certezza di aver incontrato persone e
cristiani autentici, che ci possono insegnare una vera sequela del
Signore Gesù. Personalmente, sono rimasto colpito e affascinato dalla
capacità di rimanere “dentro” le situazioni in una tale insicurezza e
fragilità: un modo unico di donare gratuitamente.
Andrea Oltolina è monaco benedettino della comunità monastica della Santissima Trinità di Dumenza (Varese)