By Settimo Cielo - l'Espresso
Sandro Magister
Sandro Magister
Tra pochi giorni papa Francesco si
recherà in Turchia, quindi nel vivo di quella nuova guerra globale “a
pezzi” che egli vede imperversare nel mondo. Il califfato islamico che
si è insediato sotto il confine turco, tra la Siria e l’Iraq, polverizza
le vecchie frontiere geografiche, è per sua natura mondiale. Gli hanno
dichiarato obbedienza dall’Egitto, dall’Arabia Saudita, dallo Yemen,
dall’Algeria, dalla Libia. In Nigeria e Camerun Boko Haram ha esteso il
califfato anche nell’Africa subsahariana. «La marcia trionfante dei
mujaheddin arriverà fin a Roma», ha proclamato Abu Bakr al Baghadi, il
califfo.
I cristiani sono tra le molte vittime di questo islam puritano, che vuol fare deserto anche di ciò che considera i maggiori tradimenti dell’islam delle origini: l’eresia sciita con epicentro l’Iran e il modernismo laicizzante della Turchia di Kemal Atatürk, dal cui mausoleo papa Francesco inizierà il suo viaggio. A Mosul non c’è più una chiesa dove ancora si celebri messa, come nemmeno era avvenuto dopo l’invasione dei mongoli. Impossibile non ravvisare in ciò i connotati di una “guerra di religione” all’estremo, combattuta nel nome di Allah.
Ma sull'Islam la Chiesa cattolica balbetta, tanto più quanto si sale di grado. A Roma il cardinale Jean-Louis Tauran pubblica la più circostanziata denuncia delle atrocità del califfato e dichiara cessata ogni possibilità di “dialogo” con chi tra i musulmani non estirpi la violenza dalle radici. Ma quando il segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, parla a New York dalla tribuna dell’Onu, evita accuratamente le parole tabù “islam” e “musulmani”. Certo, Parolin eleva la protesta contro la “irresponsabile apatia” dimostrata dal Palazzo di Vetro. Ma è proprio all’Onu che Francesco demanda la sola decisione legittima d’intervento armato sul teatro mediorientale.
Papa Jorge Mario Bergoglio ha restituito ai diplomatici, in curia, quel ruolo che i due pontefici precedenti avevano offuscato. Ma in definitiva è lui in persona a dettare tempi e modi della geopolitica vaticana. Più con i silenzi che con le parole. Ha taciuto sulle centinaia di studentesse nigeriane rapite da Boko Haram. Ha taciuto sulla giovane madre sudanese Meriam, condannata a morte solo perché cristiana e infine liberata per interventi d’altri. Tace sulla madre pakistana Asia Bibi, da cinque anni nel braccio della morte perché “infedele”, e nemmeno dà risposta alle due lettere accorate da lei scrittegli quest’anno, prima e dopo la riconferma della condanna.
Il rabbino argentino Abraham Skorka, amico di Bergoglio da vecchia data, ha detto d’aver ascoltato da lui che «dobbiamo accarezzare i conflitti». Con l’islam, anche il più teologicamente sanguinario, il papa fa così. Non chiama mai per nome i responsabili. Vanno “fermati”, ha detto, ma senza esplicitare come. Prega e fa pregare, come con i due presidenti israeliano e palestinese. Invoca ad ogni passo il dialogo, ma su ciò che unisce e non su ciò che divide.
Benedetto XVI nel 2006, prima a Ratisbona e poi a Istanbul, disse ciò che nessun papa aveva mai osato: che la violenza associata alla fede è l’inevitabile prodotto del fragile legame tra fede e ragione nella dottrina musulmana e nella stessa sua comprensione di Dio. E disse chiaro al mondo islamico che esso aveva davanti a sé la stessa sfida epocale che il cristianesimo aveva già affrontato e superato: quella di «accogliere le vere conquiste dell’illuminismo, i diritti dell’uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio». Da lì prese vita quel germoglio di dialogo che trovò espressione nella lettera dei 138 saggi musulmani.
Nei giorni scorsi papa Francesco ha salutato alcuni loro rappresentanti, arrivati a Roma per una nuova tornata di quel dialogo. Ma di quelle questioni capitali non si è parlato. È ormai da un millennio che nell’islam la “porta dell’interpretazione” è chiusa e il Corano non si può discutere se non ad alto rischio, anche della vita.
I cristiani sono tra le molte vittime di questo islam puritano, che vuol fare deserto anche di ciò che considera i maggiori tradimenti dell’islam delle origini: l’eresia sciita con epicentro l’Iran e il modernismo laicizzante della Turchia di Kemal Atatürk, dal cui mausoleo papa Francesco inizierà il suo viaggio. A Mosul non c’è più una chiesa dove ancora si celebri messa, come nemmeno era avvenuto dopo l’invasione dei mongoli. Impossibile non ravvisare in ciò i connotati di una “guerra di religione” all’estremo, combattuta nel nome di Allah.
Ma sull'Islam la Chiesa cattolica balbetta, tanto più quanto si sale di grado. A Roma il cardinale Jean-Louis Tauran pubblica la più circostanziata denuncia delle atrocità del califfato e dichiara cessata ogni possibilità di “dialogo” con chi tra i musulmani non estirpi la violenza dalle radici. Ma quando il segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, parla a New York dalla tribuna dell’Onu, evita accuratamente le parole tabù “islam” e “musulmani”. Certo, Parolin eleva la protesta contro la “irresponsabile apatia” dimostrata dal Palazzo di Vetro. Ma è proprio all’Onu che Francesco demanda la sola decisione legittima d’intervento armato sul teatro mediorientale.
Papa Jorge Mario Bergoglio ha restituito ai diplomatici, in curia, quel ruolo che i due pontefici precedenti avevano offuscato. Ma in definitiva è lui in persona a dettare tempi e modi della geopolitica vaticana. Più con i silenzi che con le parole. Ha taciuto sulle centinaia di studentesse nigeriane rapite da Boko Haram. Ha taciuto sulla giovane madre sudanese Meriam, condannata a morte solo perché cristiana e infine liberata per interventi d’altri. Tace sulla madre pakistana Asia Bibi, da cinque anni nel braccio della morte perché “infedele”, e nemmeno dà risposta alle due lettere accorate da lei scrittegli quest’anno, prima e dopo la riconferma della condanna.
Il rabbino argentino Abraham Skorka, amico di Bergoglio da vecchia data, ha detto d’aver ascoltato da lui che «dobbiamo accarezzare i conflitti». Con l’islam, anche il più teologicamente sanguinario, il papa fa così. Non chiama mai per nome i responsabili. Vanno “fermati”, ha detto, ma senza esplicitare come. Prega e fa pregare, come con i due presidenti israeliano e palestinese. Invoca ad ogni passo il dialogo, ma su ciò che unisce e non su ciò che divide.
Benedetto XVI nel 2006, prima a Ratisbona e poi a Istanbul, disse ciò che nessun papa aveva mai osato: che la violenza associata alla fede è l’inevitabile prodotto del fragile legame tra fede e ragione nella dottrina musulmana e nella stessa sua comprensione di Dio. E disse chiaro al mondo islamico che esso aveva davanti a sé la stessa sfida epocale che il cristianesimo aveva già affrontato e superato: quella di «accogliere le vere conquiste dell’illuminismo, i diritti dell’uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio». Da lì prese vita quel germoglio di dialogo che trovò espressione nella lettera dei 138 saggi musulmani.
Nei giorni scorsi papa Francesco ha salutato alcuni loro rappresentanti, arrivati a Roma per una nuova tornata di quel dialogo. Ma di quelle questioni capitali non si è parlato. È ormai da un millennio che nell’islam la “porta dell’interpretazione” è chiusa e il Corano non si può discutere se non ad alto rischio, anche della vita.