Il 17 dicembre Mohammed Bouazizi, un giovane ventiseienne tunisino, si diede fuoco come estremo gesto di protesta per la confisca del suo banchetto di frutta e verdura con il quale, illegalmente secondo la polizia, si guadagnava da vivere.
L’episodio diede il via a proteste che hanno portato alla caduta dei governi in Tunisia ed Egitto ed all’instaurarsi di un clima per nulla tranquillizzante per gli altri regimi del nord africa e del medio oriente.
Tra essi non può mancare quello iracheno che, come gli altri, deve fronteggiare le proteste della popolazione che dal nord al sud è scesa nelle strade per lamentare la mancanza di sicurezza, lavoro, servizi e la corruzione del governo.
Anche in questo caso la protesta marcia e si ingrossa sul web, sui social network come Facebook e Twitter dove la parola d’ordine è un colore, quello scelto per rappresentarla: il blu.
Rivoluzione blu si chiama infatti il movimento comparso sul web lo scorso 16 dicembre quando l’intellettuale iracheno Ahmad Latif ha lanciato su una pagina Facebook il manifesto con cui ha invitato tutti gli iracheni, di ogni etnia ed appartenenza religiosa, a mobilitarsi scendendo nelle piazze indossando qualcosa di blu per una “rivoluzione della speranza e della libertà” contro la “corruzione e la classe politica, l’occupazione e gli occupanti”. Una rivoluzione “non politica” ma “puramente irachena e popolare” che miri alla liberazione di tutto il paese attraverso “l’opposizione al regime” e che è, nelle parole di Latif “non sostenuta da alcuna istituzione né finanziata da attori interni o esterni” perché, come è sottolineato, chi la sostiene “rifiuta i tentativi della classe politica e dei paesi alleati e non, vicini e lontani, arabi e non arabi di interferire negli affari interni iracheni” e “la rielezione dei politici corrotti senza alcuna eccezione, dal consiglio dei ministri a quello presidenziale, dai partiti al governo a quelli dell’opposizione” perché li considera tutti, in quanto singoli o gruppi “illegali”.
Quello della Rivoluzione Blu non è però il solo movimento in Iraq che sta spingendo i cittadini a far sentire la propria voce.
Ad esso, e sempre sui social network, si sono uniti gruppi che marciano con slogan del tipo “No al silenzio” “Baghdad non sarà Kandahar” “Piattaforma per la libertà” e che condividono la presa di coscienza del fatto che è ora di riconoscere che se i problemi del paese sono peggiorati dal momento della sconsiderata ed illegale guerra all’Iraq del 2003, e della ancora più sconsiderata ed illegale gestione del paese da parte degli Stati Uniti, anche il governo iracheno, fantoccio quanto si vuole ma pur sempre iracheno, ha le sue colpe ed è ora che risponda ai propri cittadini delle proprie manchevolezze.
Quasi completamente ignorato dai media, almeno quelli italiani, il movimento di protesta in Iraq mira a crescere ed a dimostrare la sua forza il 25 di febbraio quando i partecipanti si troveranno in Piazza Tahrir, lo stesso nome della piazza delle proteste del Cairo, per esprimere il proprio malcontento per una situazione che a quasi 8 anni dalla guerra del 2003 è ancora terribile.
In molte zone dell’Iraq i cittadini devono convivere giornalmente non solo con il pericolo degli attentati e delle violenze che continuano, seppure a ritmo minore rispetto a qualche anno fa, ma anche con la mancanza, in alcuni casi totale, di servizi.
Servizi basilari come l’acqua, l’elettricità, il sistema fognario, le scuole, gli ospedali e le già povere razioni di cibo garantite dallo stato che comprendono per ogni cittadino che ne abbia diritto il controvalore di dodici dollari in beni quali olio, riso, farina e zucchero, a fronte degli undicimila dollari che mensilmente guadagna un parlamentare.
Un altro punto della protesta è la mancanza di opportunità lavorative specialmente per i giovani che per questo ambirebbero ad emigrare verso un mondo che però non li accetta ed anzi rimpatria forzatamente coloro che non riescono ad ottenere lo status di rifugiato nei paesi d’arrivo, anche nei casi in cui, come denunciato da diverse organizzazioni umanitarie, una volta tornati in patria corrono il rischio di essere uccisi perché provenienti da zone per essi pericolose.
Anche quando il lavoro c’è però la situazione non è migliore. Questo almeno è quanto hanno affermato, solo uno tra i tanti esempi, gli operai della compagnia petrolifera statale North Oil Company il 12 febbraio quando hanno minacciato lo sciopero se non ci saranno miglioramenti nelle loro condizioni di lavoro.
La diffusa corruzione del governo è un altro argomento di protesta che accomuna tutti gli iracheni a dispetto dell’appartenenza etnica e religiosa che ora possono basare le proprie richieste di un cambio di rotta non solo sui “si dice” ma anche sulle affermazioni del capo del dipartimento anti corruzione che ha accusato i ministri di “coprire” gli illeciti guadagni derivanti dai propri uffici. Illeciti che hanno posto l’Iraq al quarto posto della speciale classifica degli stati più corrotti al mondo curata da Transparency International.
C’è poi il problema delle prigioni segrete, anche queste denunciate dalle organizzazioni umanitarie, in cui i detenuti non hanno consulenza legale e sono sottoposti ad abusi fisici e psicologici, accuse negate dal governo ma sostenute non solo dai cittadini quanto anche dagli avvocati, anch’essi scesi in piazza a febbraio.
Una richiesta di legalità che tocca anche una delle questioni più spinose degli ultimi anni della storia irachena, gli eserciti di guardie private che al di fuori di ogni regola hanno non poco contribuito al suo sfascio, e che ha avuto l’ennesima spinta dalla decisione presa a gennaio da un giudice di corte federale americana che ha assolto 5 mercenari della Blackwater che, secondo quanto riferito da diversi testimoni e per loro stessa ammissione, hanno ucciso 14 civili e ne hanno ferito altri 20 in un attacco ingiustificato nel 2007. Uno dei tanti episodi di violenza compiuti dai free-lance della guerra che spingono gli iracheni a diffidare delle promesse del governo che ha dichiarato “non graditi” nel paese gli appartenenti alla Blackwater che, come ha affermato il primo ministro Nuri al Maliki, si cercherà in ogni caso di giudicare. Una sfiducia ben espressa su Facebook che accusa le diverse fazioni politiche irachene di aver usato proprio la Blackwater come “strumento per cancellare l’avversario politico”.
Come già avvenuto in Tunisia ed Egitto la protesta popolare ha spinto il governo iracheno a promettere qualche concessione. Così Ali al-Dabbagh, il portavoce del governo, ha dichiarato che il previsto acquisto di 18 caccia F-16 americani sarà posposto a favore di un incremento di spesa per l’acquisto delle razioni di cibo, il ministero dell’elettricità ha disposto l’elargizione gratuita dei primi mille kilowattora di elettricità erogata (!?) ed il primo ministro, Nuri al Maliki, ha proposto di tagliare della metà lo stipendio dei parlamentari ed il suo che annualmente ammonta a trecentocinquantamila dollari, di non ricandidarsi più per la carica e di provare a cambiare la costituzione perché essa non ecceda i due mandati.
Le promesse però non sono bastate a calmare gli animi dei cittadini esasperati. Dal nord al sud dell’Iraq si sono moltiplicate a febbraio le manifestazioni di protesta e con il loro crescere è cresciuta anche di intensità e forza la repressione che ormai fa contare morti e feriti.
Mancano solo pochi giorni al 25 febbraio e, se la repressione aumenterà, a Piazza Tahrir a Baghdad la protesta potrebbe davvero diventare collera. Una violenta onda blu che potrebbe diventare una lunga risacca in grado di trascinare con sé gli ostacoli che l’hanno fermata.
La classe politica irachena ha molto da perdere. I cittadini iracheni nulla, perché nulla hanno.
Solo la dignità e la disperazione che li stanno spingendo a reagire.
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