By Tracce.it
di Giorgio Paolucci
11/02/2011 - All'auditorium di Bergamo, un incontro sulla persecuzione dei cristiani. Una «carneficina» che induce molti a emigrare. E tra le testimonianze si alza l'appello dei sacerdoti iracheni: «Non dimenticatevi di noi»
Intere famiglie uccise nelle loro case, studenti aggrediti mentre vanno a scuola, attentati alle chiese. Il più recente, il 31 ottobre scorso nella chiesa siro-cattolica di Baghdad, è costato la vita a 55 persone, tra cui due sacerdoti. È il martirio dei cristiani d’Iraq, colpevoli unicamente di professare la loro fede. Una carneficina che induce molti a emigrare, svuotando progressivamente i luoghi dove stanno le radici stesse del cristianesimo.
È il grido di dolore che si è levato ieri sera dall’auditorium del Collegio vescovile Sant’Alessandro a Bergamo, dove la diocesi ha promosso una serata di testimonianze sulla persecuzione dei cristiani.
«Dal punto di vista numerico siamo una minoranza, come nel resto del Medio Oriente, ma chiediamo gli stessi diritti di cittadinanza e di libertà religiosa del popolo a cui apparteniamo, il popolo iracheno», dice Mikhael Al Jamil, arcivescovo iracheno, procuratore a Roma del patriarcato siro-cattolico e visitatore apostolico per i siro-cattolici in Europa. Che lamenta l’indifferenza dell’Europa di fronte al dramma che si sta consumando nel suo Paese e la latitanza rispetto all’emigrazione forzata dei cristiani dal Medio Oriente.
Don Robert Saeed Jarjis, giovane sacerdote di Baghdad che ha da poco ultimato gli studi biblici a Roma, racconta lo sgomento di fronte alle immagini di tanti suoi amici uccisi nell’attentato del 31 ottobre. In questi giorni tornerà a casa, ma non li troverà più. «Eppure capisco che ciò che ancora mi unisce a loro, il corpo mistico di Cristo a cui apparteniamo, è più forte della morte che ci ha separato. E a voi italiani chiedo di pregare perché si alimenti la fedeltà a questo corpo mistico». È la testimonianza semplice e commovente di un uomo che non nasconde di avere paura, ma insieme riconosce di non essere determinato dalla durezza della situazione che deve affrontare ma dalla grandezza della vocazione che lo costituisce.
La persecuzione dei cristiani, che in Iraq trova una delle sue espressioni più drammatiche, viene raccontata nella sua drammatica estensione planetaria da Mario Mauro, uno degli europarlamentari più attivi nella difesa della libertà religiosa. «Negli ultimi cinque anni, su 100 persone che hanno perso la vita per motivi religiosi, 75 erano cristiane. In 52 Stati del mondo si muore perché si crede in Gesù. Non solo Paesi islamici, ma anche luoghi dove il potere non ammette presenze scomode e ultimamente irriducibili perché tese al bene della persona come bene supremo. In molte regioni i cristiani vivono come vasi di coccio in mezzo a vasi di ferro. E un’ Europa dimentica delle radici storiche e culturali che l’hanno resa grande si dimostra balbettante e incapace di svolgere un’azione adeguata per tutelare la libertà religiosa, che non è un diritto tra tanti, ma il fondamento di tutti i diritti umani».
Concludendo l’incontro, il vescovo di Bergamo Francesco Beschi sottolinea la lezione che viene dalle testimonianze ascoltate: «A noi, che qui viviamo una vita tutto sommato comoda, sembra incredibile che ci siano luoghi dove la professione della fede cristiana mette a rischio la vita, e dove anche andare a messa diventa un atto di coraggio. La testimonianza dei nostri fratelli perseguitati ci commuove, ci scuote e ci ricorda che abbiamo ricevuto un tesoro di cui spesso non siamo consapevoli. Non possiamo dimenticarci di loro: il nostro impegno e la nostra preghiera per loro è anche per tutti i perseguitati nel mondo».
di Giorgio Paolucci
11/02/2011 - All'auditorium di Bergamo, un incontro sulla persecuzione dei cristiani. Una «carneficina» che induce molti a emigrare. E tra le testimonianze si alza l'appello dei sacerdoti iracheni: «Non dimenticatevi di noi»
Intere famiglie uccise nelle loro case, studenti aggrediti mentre vanno a scuola, attentati alle chiese. Il più recente, il 31 ottobre scorso nella chiesa siro-cattolica di Baghdad, è costato la vita a 55 persone, tra cui due sacerdoti. È il martirio dei cristiani d’Iraq, colpevoli unicamente di professare la loro fede. Una carneficina che induce molti a emigrare, svuotando progressivamente i luoghi dove stanno le radici stesse del cristianesimo.
È il grido di dolore che si è levato ieri sera dall’auditorium del Collegio vescovile Sant’Alessandro a Bergamo, dove la diocesi ha promosso una serata di testimonianze sulla persecuzione dei cristiani.
«Dal punto di vista numerico siamo una minoranza, come nel resto del Medio Oriente, ma chiediamo gli stessi diritti di cittadinanza e di libertà religiosa del popolo a cui apparteniamo, il popolo iracheno», dice Mikhael Al Jamil, arcivescovo iracheno, procuratore a Roma del patriarcato siro-cattolico e visitatore apostolico per i siro-cattolici in Europa. Che lamenta l’indifferenza dell’Europa di fronte al dramma che si sta consumando nel suo Paese e la latitanza rispetto all’emigrazione forzata dei cristiani dal Medio Oriente.
Don Robert Saeed Jarjis, giovane sacerdote di Baghdad che ha da poco ultimato gli studi biblici a Roma, racconta lo sgomento di fronte alle immagini di tanti suoi amici uccisi nell’attentato del 31 ottobre. In questi giorni tornerà a casa, ma non li troverà più. «Eppure capisco che ciò che ancora mi unisce a loro, il corpo mistico di Cristo a cui apparteniamo, è più forte della morte che ci ha separato. E a voi italiani chiedo di pregare perché si alimenti la fedeltà a questo corpo mistico». È la testimonianza semplice e commovente di un uomo che non nasconde di avere paura, ma insieme riconosce di non essere determinato dalla durezza della situazione che deve affrontare ma dalla grandezza della vocazione che lo costituisce.
La persecuzione dei cristiani, che in Iraq trova una delle sue espressioni più drammatiche, viene raccontata nella sua drammatica estensione planetaria da Mario Mauro, uno degli europarlamentari più attivi nella difesa della libertà religiosa. «Negli ultimi cinque anni, su 100 persone che hanno perso la vita per motivi religiosi, 75 erano cristiane. In 52 Stati del mondo si muore perché si crede in Gesù. Non solo Paesi islamici, ma anche luoghi dove il potere non ammette presenze scomode e ultimamente irriducibili perché tese al bene della persona come bene supremo. In molte regioni i cristiani vivono come vasi di coccio in mezzo a vasi di ferro. E un’ Europa dimentica delle radici storiche e culturali che l’hanno resa grande si dimostra balbettante e incapace di svolgere un’azione adeguata per tutelare la libertà religiosa, che non è un diritto tra tanti, ma il fondamento di tutti i diritti umani».
Concludendo l’incontro, il vescovo di Bergamo Francesco Beschi sottolinea la lezione che viene dalle testimonianze ascoltate: «A noi, che qui viviamo una vita tutto sommato comoda, sembra incredibile che ci siano luoghi dove la professione della fede cristiana mette a rischio la vita, e dove anche andare a messa diventa un atto di coraggio. La testimonianza dei nostri fratelli perseguitati ci commuove, ci scuote e ci ricorda che abbiamo ricevuto un tesoro di cui spesso non siamo consapevoli. Non possiamo dimenticarci di loro: il nostro impegno e la nostra preghiera per loro è anche per tutti i perseguitati nel mondo».