By Baghdadhope
Che l’aria stesse cambiando per gli iracheni richiedenti asilo in Svezia era chiaro già dallo scorso anno. A provarlo era non solo un sondaggio commissionato dallo Swedish Integration Board da cui risultava che 1 svedese su 4 avrebbe votato per un partito che sostenesse una restrizione dei diritti degli immigrati, e che la percentuale di chi si dichiarava a favore di una politica che garantisse la precedenza agli autoctoni nei campi del lavoro, del diritto alla casa ed all’assistenza era salita dal 12 al 14%, ma anche dalle parole del Ministro dell’Immigrazione, Tobias Billstrom, che aveva definito “ironico e strano” il fatto che la Svezia - pur non avendo partecipato alla guerra contro l’Iraq, non avendo fatto parte della coalizione anti-Saddam, essendosi più volte spesa a livello internazionale per la pace, ed essendo geograficamente lontana dal conflitto - accogliesse il maggior numero di rifugiati iracheni, e che aveva chiarito senza mezzi termini come non fosse possibile per il paese scandinavo “aiutare tutti”.
A luglio del 2007 poi, era arrivata la conferma di questo nuovo corso: le regole per i richiedenti asilo cambiarono, l’Iraq venne considerato un paese non più in guerra e di conseguenza si decise di prendere in considerazione, e giudicare caso per caso, solo coloro che avessero potuto dimostrare di essere davvero in pericolo di vita in caso di rimpatrio forzato. Per tutto il 2007 però quella regola non fu applicata, o almeno non lo fu in modo rigoroso, e le statistiche lo dimostrano: dei 36.207 richiedenti asilo ben 18.550 erano iracheni (8.951 nel 2006 e meno di 3.000 nel 2005) ed al 93% di loro l’asilo fu concesso.
Fare pronostici per quello che accadrà nel 2008 è certamente prematuro, ma il sapere che nel mese di gennaio al solo 42% degli iracheni sia stato concesso l’asilo non fa ben sperare.
Fare pronostici per quello che accadrà nel 2008 è certamente prematuro, ma il sapere che nel mese di gennaio al solo 42% degli iracheni sia stato concesso l’asilo non fa ben sperare.
Eppure è proprio una speranza quella che si legge nelle parole di Monsignor Philip Najim, Procuratore Caldeo presso la Santa Sede e Visitatore Apostolico in Europa che, interpellato da Baghdadhope a proposito di queste cifre, ha spiegato che esse possono essere dovute al fatto che secondo le informazioni in suo possesso il governo svedese, proprio in considerazione del gran numero di iracheni che in questi ultimi anni sono arrivati nel paese, sta istituendo un ufficio ad essi esclusivamente dedicato, e ciò può aver rallentato il ritmo di disbrigo e dell’eventuale accettazione delle pratiche.
“A ciò” continua Mons. Najim “si deve aggiungere, è vero, il diverso approccio del governo svedese che considera più pericolosa la situazione nel centro e nel sud dell’Iraq rispetto al nord, e come valide le richieste di asilo sostenute dalle prove di reale minaccia alla vita. In ogni caso la Svezia continua ad essere un paese molto attento alle esigenze dei rifugiati iracheni e colgo l’occasione per ringraziare pubblicamente il suo governo che, malgrado le ovvie difficoltà che un tale flusso migratorio comporta, fa di tutto per accoglierli, con scuole di lingua, facilitazioni abitative e lavorative.”
Certamente, e le parole di Monsignor Najim lo confermano, nessun rimprovero può essere mosso alla Svezia anche se le stragi nei due mercati di Baghdad di venerdì scorso fanno dubitare di quel: “Iraq non più in guerra.”
Altrettanto certamente, invece, si possono biasimare tutti gli altri paesi, Stati Uniti in testa, che non hanno fatto e non fanno abbastanza per i profughi iracheni. A questo proposito i dati parlano chiaro: nel 2007 il Dipartimento di Stato americano aveva dichiarato la disponibilità ad accogliere 7.000 iracheni durante l’anno fiscale in corso (sett.-sett) ma in realtà solo 1608 hanno varcato i confini americani legalmente. Per il 2008 la cifra prevista è salita a 12.000 ma nei primi quattro mesi sono stati rilasciati solo 1332 permessi.
Lo scorso anno Ellen Sauerbrey, assistente segretario del Dipartimento di Stato in materia di popolazione, rifugiati ed immigrazione, aveva dichiarato che uno dei motivi per i quali la quota di iracheni ammessi era stata inferiore a quella prevista era da ricercarsi nelle regole imposte dopo gli attacchi dell’11 settembre che obbligano il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale ad esaminare individualmente i casi dei rifugiati.
Alla luce dei dati si può quindi dire che gli iracheni, benché abbiano sofferto per una guerra dichiarata loro sulla base di false accuse di regia degli attentati del 9/11 da parte del governo di Saddam Hussein, stiano ancora pagando un prezzo altissimo. Per quanto ancora i governi occidentali faranno finta di non vedere? Per quanto ancora la piccola Svezia rimarrà sola in questa lotta?