Fonte: AsiaNews
Un rapporto dell’Unhcr smentisce le cifre del governo iracheno sull’alto numero di profughi che rientrano dalla Siria: sono 1200 al giorno quelli che varcano il confine, rispetto ai 700 che tornano. Il 46 per cento di chi rimpatria lo fa per motivi economici e il 25 per cento perché non può rinnovare il permesso di soggiorno. E per le minoranze religiose, soprattutto cristiani, pensare di tornare è come “andare incontro a morte sicura”.
Gli iracheni continuano a fuggire verso la Siria e il numero di chi varca il confine è di gran lunga maggiore di quello di chi torna a casa. Le ragioni di chi sceglie il rimpatrio, inoltre, non sono legate al miglioramento della sicurezza, ma per lo più alla scadenza dei permessi di soggiorno e alle difficoltà economiche. È il contenuto dell’ultimo rapporto dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) sulle cifre dell’immigrazione irachena in Siria. Il risultato dello studio contraddice nettamente lo scenario dipinto dal governo di Baghdad, secondo il quale il calo degli attentati e del livello di insicurezza sta riportando a casa migliaia di profughi ogni mese.
Il rapporto dell’Unhcr, anticipato ieri sera dall’Agence France Press, parla di una media di 1200 iracheni al giorno che entrano in Siria, rispetto ai circa 700 che rimpatriano. Il dato, che si riferisce alla fine di gennaio scorso, non è ancora stato commentato ufficialmente. Ma fonti anonime del ministero iracheno dell’emigrazione lo hanno subito definito “falso”. Già a gennaio, però, la Mezzaluna Rossa aveva ridimensionato le cifre dei rimpatri fornite da Baghdad: 46mila, tra settembre e dicembre 2007, rispetto ai 60mila ufficiali. Un sondaggio condotto dall’Unhcr in Siria, rivela ora che il 46 per cento di chi ritorna lo fa per motivi economici e il 25 per cento, perché non si vede rinnovato il permesso di soggiorno.
Tra i profughi, inoltre, gli unici che si dimostrano più propensi al rientro sono i musulmani (sunniti o sciiti a seconda della zona e del quartiere di appartenenza), raccontano da Damasco alcune famiglie caldee. “Per i cristiani, gli yazidi e per chi lavorava con ditte occidentali o con le forze Usa – continuano le fonti – tornare a Baghdad, Mosul o Samarra significa andare incontro a morte certa. Non abbiamo una zona dove possiamo dirci sicuri”. Una ragazza siro-ortodossa di soli 30 anni, che chiede l’anonimato, racconta con le lacrime agli occhi: “La prossima settimana devo tornare a casa a Mosul perché le autorità siriane a Damasco non mi hanno concesso il rinnovo: non ho famiglia, non sono malata, nessuno dei miei parenti è stato ucciso dai terroristi, per questo non sono ritenuta soggetto a rischio in Iraq. Ma pur di non partire farei di tutto; a Mosul già mi cercano, sanno chi sono e minacciano di uccidermi solo perché ho lavorato per le Nazioni Unite”.
Secondo stime dell’Unhcr, dal 2003 la Siria ha accolto 1,4 milioni di iracheni. Di questi l’80 per cento vive a Damasco. I cristiani in tutto sono circa 60mila e i caldei il gruppo più consistente. Stando a dati dell’arcidiocesi caldea di Aleppo, solo nella capitale e nei villaggi limitrofi si concentrano circa 7mila famiglie.
La consistenza del flusso di cristiani in fuga dall’Iraq è diventato un vero e proprio “esodo”. Ne ha parlato in questi termini Mons. Benjamin Sleiman , arcivescovo latino di Baghdad in un'intervista a ''Terrasanta'', la rivista della Custodia francescana. Il presule racconta che “la situazione della popolazione cristiana irachena è quella di una comunità che ha perso fede nel proprio Paese”. Anche l‘esodo verso il più pacifico nord dell’Iraq nasconde grandi difficoltà, continua l’arcivescovo: “I villaggi cristiani del nord mancano di infrastrutture, di imprese artigianali, industriali o commerciali''. C’è quindi maggiore sicurezza, ma sempre una forte disoccupazione.
E dal nord iniziano a programmare la fuga anche i membri della minoranza yazida. Kayiri Shankali, direttore per gli affari degli yazidi presso il ministero dei Beni religiosi del governo regionale del Kurdistan Iracheno, ha dichiarato che più di 200 famiglie sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni per non subire nuovamente minacce e attacchi terroristici condotti allo scopo di spaventare gli abitanti ed impossessarsi delle loro proprietà per lo più terriere.