"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

2 gennaio 2008

A Torino il primo sacerdote cattolico caldeo iracheno ospite di una diocesi italiana

Fonte e foto: Ufficio Pastorale Migranti
Arcidiocesi di Torino

By Luigia Storti
Progetto Iraq

Il primo ottobre del 2007 ha avuto inizio un progetto di accoglienza da parte dell’Arcidiocesi di Torino di un sacerdote cattolico caldeo proveniente da Baghdad, una città profondamente ferita da decenni di guerre, dittatura ed embargo: Padre Douglas Dawood. Da quel giorno Padre Douglas è diventato collaboratore della parrocchia di San Vincenzo Ferreri di Moncalieri che proprio in quegli stessi giorni ha visto l’avvicendamento del vecchio parroco Don Pier Giorgio Ferrero con il nuovo: Don Beppe Orsello.

Per quanto si sa lei, Padre Douglas, è il primo sacerdote cattolico di rito caldeo che collabora in modo continuativo con una diocesi di rito latino. E’ vero?
Prima di rispondere vorrei approfittare di questo incontro per ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile la mia presenza a Torino. La Curia e Monsignor Guido Fiandino che mi ha accolto con calore ed amicizia, Don Fredo Olivero, che mi è stato vicino non solo in questa occasione ma anche tutte le altre volte che sono venuto qui a Torino per periodi più o meno lunghi, Don Bartolo Perlo, che per primo, nel 2002, si è dimostrato sensibile ai problemi di quella che all’epoca era la mia parrocchia, la chiesa di Mar Mari a Baghdad. Ovviamente ringrazio anche i due parroci della chiesa di Moncalieri dove vivo ed opero, Don Pier Giorgio Ferrero e Don Beppe Orsello, e per quanto riguarda la mia chiesa Monsignor Philip Najim il cui aiuto è stato prezioso nel disbrigo delle pratiche burocratiche necessarie al mio viaggio.
Per quanto riguarda la sua domanda penso effettivamente di essere il primo sacerdote cattolico di rito caldeo che lavora in una diocesi – e quindi in una parrocchia – in un luogo dove non esiste una comunità del mio rito in diaspora. Negli ultimi decenni a causa delle guerre – quella contro l’Iran durata dal 1980 al 1988, quella del 1991 a seguito dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, e quella del 2003 – e delle sanzioni economiche che hanno duramente colpito il mio paese, molti iracheni e tra essi molti cristiani sono fuggiti all’estero ma, per quanto ne so tranne che in pochissime eccezioni, non sono venuti in Italia.
Perché?
Sostanzialmente i motivi si possono ridurre a due. In Iraq molte persone conoscono l’inglese visto che anche durante il periodo della dittatura di Saddam Hussein molti corsi universitari venivano svolti in quella lingua, e di conseguenza quelle persone hanno preferito trasferirsi in paesi anglofoni. Un altro motivo è che, in passato come ora, altri paesi più che l’Italia, hanno aperto le loro frontiere agli iracheni in fuga. Penso ai paesi scandinavi – soprattutto la Svezia – alla Germania, alla Francia, alla Gran Bretagna, all’Australia. Ciò significa che queste nazioni dove esistevano comunità di rito caldeo già formate ed integrate hanno sempre avuto un maggior potere di attrazione verso chi era costretto o voleva lasciare l’Iraq.
E lei come è arrivato in Italia ed a Torino in particolare? I

Clicca su "leggi tutto" per il testo completo dell'intervista dell'UPM Torino
Il mio rapporto con Torino è iniziato quando a Baghdad ho conosciuto dei torinesi venuti nella mia città per distribuire dei farmaci che durante l’embargo non era possibile trovare. Da allora è nata un’amicizia che con il tempo è diventata una serie di progetti di aiuto tra la Chiesa di Torino ed alcune chiese caldee di Baghdad.
Così il mio primo viaggio a Torino è stato nel 2001, per un breve periodo di vacanza. Nel 2004 era previsto che rimanessi due mesi per iniziare ad imparare l’italiano ma purtroppo, a metà della mia permanenza, il primo di agosto, una serie di attentati ha colpito diverse chiese a Baghdad ed io sono ritornato a casa per essere vicino alla mia famiglia ed ai fedeli della mia parrocchia. Voglio anche ricordare il mio viaggio nel marzo del 2007. Nel novembre del 2006 ero stato rapito a Baghdad e tenuto in ostaggio per 9 giorni, ed i miei amici di Torino hanno insistito perché fossi sottoposto qui agli esami clinici ed alle cure resesi necessarie a seguito di quell’evento. Anche in questo caso mi permetta di ringraziare tutti gli amici che mi sono stati vicini e soprattutto i medici che mi hanno visitato e curato.
Che impressione le ha fatto la sua nuova vita a Torino ora che non è qui né per vacanza né per cure mediche?
In molte occasioni la vita nella parrocchia in cui ora vivo mi spinge a ricordare quella che era la mia vita prima dell’ultima guerra. Non era facile, certo. Il regime, le difficoltà economiche conseguenti all’embargo, lo stesso senso di precarietà in cui l’Iraq viveva isolato dal mondo erano problemi da affrontare ogni giorno, e difficili per un giovane sacerdote diventato parroco nel 1998. Nonostante queste difficoltà però le chiese erano sempre piene, specialmente di giovani, e le attività erano molte. Non era come ora. Quando dopo il mio rapimento ho dovuto lasciare Baghdad per motivi di sicurezza e trasferirmi nel nord del paese, molte chiese erano chiuse, molte distrutte, in quelle ancora funzionanti le poche attività si svolgevano in un ambiente fatto di filo spinato, strade chiuse, barriere di cemento anti autobomba, guardie armate. Non saprei dire quante notti ho trascorso per strada insieme alle guardie della mia chiesa per controllare che nessuno si avvicinasse e piazzasse un ordigno pronto ad esplodere magari all’arrivare dei fedeli per la messa.
Lei è stato rapito ma anche ferito…
Sì. Ho ancora in una gamba una scheggia che sia a Baghdad che a Torino i medici hanno giudicato non pericolosa, ma la cui rimozione chirurgica non è, almeno per ora, consigliabile. Il 29 gennaio del 2006 una bomba è esplosa lungo il muro di cinta della mia chiesa provocandomi contusioni varie e sordità temporanea. Ad aprile dello stesso sono stato ferito da uomini armati che hanno iniziato a sparare dalle macchine all’impazzata davanti alla mia chiesa. E’ stato un giorno orribile. La moschea sciita di Samarra era stata sventrata da un’esplosione, e gli sciiti di Baghdad e di tutto l’Iraq intendevano sfogare la propria rabbia per l’offesa subita, anche contro chi, come me, come noi cristiani, eravamo del tutto estranei a quell’avvenimento.
La vita a Moncalieri a volte le ricorda quella a Baghdad prima della guerra. Cosa ci può dire invece sulle differenze di rito?
Lei appartiene infatti alla chiesa caldea che, sebbene cattolica e quindi legata a Roma, è una chiesa di rito orientale, quello caldeo, appunto. In tre mesi è difficile scoprire tutte le differenze. Anche un liturgista – ed io non lo sono – sarebbe in difficoltà nel valutarle tanto lunga e ricca è la tradizione di entrambe le nostre chiese, quella latina e quella caldea. La prima è, come è ovvio, la lingua, qui l’italiano e da noi l’arabo e l’aramaico, la lingua che lo stesso Gesù parlava e che per noi è mezzo di trasmissione liturgica ma anche lingua ancestrale, familiare.
La seconda è che secondo il rito caldeo la messa, tranne l’omelia, è interamente salmodiata il che la rende molto più lunga della vostra, dalle due alle tre ore.Tra le differenze citerei anche le preghiere che il rito caldeo prevede dopo l’Eucarestia ed il momento della pace. A Moncalieri, come in altre chiese di Torino, San Rocco, con Don Fredo Olivero, ma anche San Vincenzo De Paoli, dove una volta ho concelebrato la Santa Messa con Don Ermis Segatti, la pace viene portata dall’altare ai fedeli dallo stesso sacerdote che va tra i banchi a stringere le mani dei fedeli. Da noi è il contrario. Alcuni fedeli si avvicinano all’altare dove il sacerdote stringe le loro mani e sono loro a ripetere il gesto con gli altri fedeli tra i banchi. Devo dire che apprezzo entrambi i sistemi. Quello che usavo a Baghdad perché per me rappresenta la tradizione, l’abitudine. Quello che ho imparato qui perché permette un contatto diverso con i fedeli. Ho anche notato, e mi ha fatto piacere, che qualcuno dandomi la mano per ricambiare il segno della pace usa la parola aramaica “shlama” che vuol dire “pace”. Mi sembra un atto di vera cortesia ed accettazione, un modo per farmi sentire a casa.
Il rapporto con gli italiani quindi è amichevole… Si. Studio italiano da due mesi soltanto e solo per otto ore alla settimana. Non posso dire quindi di saperlo ma la gente mi aiuta, e lo fa non ridendo dei miei errori, non facendomi sentire imbarazzato, ed anche correggendomi, ripetendo le parole più volte, parlando in maniera semplice. Così non mi fanno sentire estraneo ma uno di loro. Molte persone mi avvicinano e mi parlano in italiano, anche in dialetto. Magari non capisco tutto ma apprezzo il fatto che in ogni caso, a dispetto di ciò, vogliano stabilire un contatto con me.
A novembre lei è andato a Roma in occasione della nomina a cardinale del Patriarca della chiesa caldea, Mar Emmanuel III Delly. Cosa pensa di questa nomina?
Molti hanno visto in quella nomina un riconoscimento speciale per la nostra chiesa che nonostante le sofferenze che ha attraversato ed attraversa è ancora viva, come vivo è il suo spirito missionario.Nella nostra lunghissima storia, iniziata nel primo secolo dopo Cristo con la predicazione in Mesopotamia di San Tommaso Apostolo e dei suoi discepoli Addai e Mari, c’è stato un patriarca che veniva dalla Mongolia. Perché non dovremmo sognare un domani un pontefice di una chiesa orientale? Ed a proposito di sogni e di Roma. Perché non dovrei sognare che un giorno il Vaticano non possa far assurgere a santità anche qualche venerabile figura della nostra chiesa, come Yohanna al-Dalyathi o Hunian ben Isahaq per citarne solo due?
I miei giorni a Roma in ogni caso, a parte le celebrazioni nella bellissima cornice vaticana, sono stati bellissimi. Un’occasione per incontrare tante persone che conosco e che non vedevo da molto tempo. Laici ma anche sacerdoti con cui ho condiviso gli anni del seminario e dell’università e che ora vivono in diversi continenti.
Per una comunità piccola come la nostra, divisa a causa dei tragici eventi che l’hanno colpita, ogni incontro è importante per rinsaldare i legami che la distanza tenderebbe ad affievolire.
Il numero di sacerdoti stranieri in Italia sta aumentando anche a causa di quella che viene chiamata “crisi vocazionale.” Cosa ne pensa un giovane sacerdote che viene da un paese in cui, nonostante l’essere sacerdote è pericoloso, i seminari sono pieni?
Tutte le chiese sono sorelle nel servire la Parola di Dio, e l’universalità della Chiesa è un bene per la fede, necessaria proprio a unirle ed a renderle più forti. Lo scambio di esperienze che un sacerdote straniero comporta per lui e per la comunità in cui arriva è importante anche se non è la soluzione perfetta a risolvere i problemi legati alle poche vocazioni. Nessuno, infatti, è in grado di capire e conoscere la comunità in cui opera come colui che in essa è vissuto dalla nascita. Fortunatamente per ora in Iraq il problema della mancanza di vocazioni non è grave, i seminari hanno molti iscritti. Certo non tutti termineranno il loro percorso diventando pastori di anime, ma molti ci provano nonostante le difficoltà ed i pericoli. Sono anche molti i sacerdoti che, proprio come me, hanno dovuto allontanarsi dal paese ma la nostra vita è nelle mani di Dio, e se viviamo altrove è perché così Lui ha deciso. Possiamo e vogliamo quindi fare tesoro di ogni esperienza perché tutto serve a crescere ed a far crescere chi ci è vicino.
Quale pensa sarà il risultato della sua esperienza a Torino?
Per prima cosa vorrei che i progetti iniziati con la collaborazione dei diversi uffici diocesani continuino. Ricordo il primo in ordine temporale: il sostegno che dal 2004 è stato dato a dieci sacerdoti caldei di Baghdad e che ha permesso loro di fronteggiare le diverse situazioni di emergenze che in una nazione in guerra sono molte, e che possono essere, solo per citarne alcuni, gli stipendi per le guardie delle chiese o la rottura dei generatori di corrente. Il progetto, curato dall’Ufficio Pastorale Migranti, è stato rinnovato anche per il 2008 e colgo l’occasione per sottolinearne l’importanza. Non solo dal punto di vista economico, perché per quanto ne so è l’unico progetto che in modo continuativo ha mirato all’aiuto diretto dei sacerdoti, ma anche da quello morale perché per quanto magari possa risultare difficile da capire per i cristiani che in Italia vivono la loro fede in modo normale, per quei sacerdoti – ed anch’io sono stato per tre anni beneficiario del progetto e posso quindi testimoniarlo – il sapere di non essere soli, di avere qualcuno che li ricorda, prega ed agisce per loro è un’iniezione di coraggio e speranza.Oltre a questo progetto mi piace ricordare anche gli altri che in questi anni sono partiti da Torino. I disegni che bambini di Torino e di Baghdad si sono scambiati per Natale e Pasqua. I fondi inviati per acquistare i regali di Natale per i bambini delle parrocchie dei dieci sacerdoti del progetto di cui ho parlato, “Io ho un nuovo amico, un sacerdote caldeo iracheno”. La presenza a Torino, in questi anni di altri rappresentanti della chiesa caldea, come Monsignor Jacques Isaac, Vescovo di Baghdad e rettore del Babel College, l’unica facoltà di studi teologici cristiani in Iraq per la quale è attivo un progetto di sostegno dell’Arcidiocesi di Torino nell’ambito delle iniziative legate alla “Quaresima di Fraternità”, Padre Raad Washan Sawa, il primo sacerdote caldeo rapito in Iraq e come me anche lui ora all’estero, Padre Fadi Philippe, Padre Rayan Atto.
E quali sono i suoi sogni? Sono molti. Per prima cosa spero che il mio essere qui serva ad iniziare nuove forme di collaborazione tra le due chiese. Penso ad esempio alla possibilità che altri sacerdoti possano avere le stesse occasioni che ho avuto io, che altri caldei, ad esempio appartenenti ai gruppi di catechismo possano conoscere più da vicino la realtà italiana. Penso anche alla possibilità futura dell’apertura di un istituto di lingua e cultura italiana in Iraq come ad esempio quello francese che esisteva a Baghdad.
Pensa che un istituto di tale tipo potrebbe attirare molti iracheni? In fondo l’italiano non è l’inglese…
E’ vero, ma se consideriamo la comunità cristiana non dimentichiamo che l’associazione italiano=vaticano è automatica ed i cristiani, almeno i caldei, si sentono parte della famiglia vaticana. L’italiano è anche la lingua che molti vescovi, sacerdoti e suore conoscono e per questo esercita sui cristiani un fascino molto particolare, dettato anche dalla curiosità. Ma non è solo questo. E’ l’Italia tutta ad esercitare tale fascino tanto che, per fare un esempio non legato alla fede, non c’è stato dubbio sulla squadra per la quale i cristiani appassionati di calcio hanno tifato ai mondiali, come non c’è dubbio neanche su quale sia lo stile a cui le donne irachene guardano come modello. So che queste possono sembrare motivazioni banali ma la comunità irachena cristiana non è fatta solo di sacerdoti ed a volte pensare o sognare di calcio e moda può servire ad allontanare almeno temporaneamente i brutti pensieri che la guerra porta sempre con sé.
Qual è la situazione degli iracheni di fede cristiana?
La situazione è uguale a quella che la nostra comunità ha vissuto a causa delle persecuzioni persiane, islamiche ed ottomane.
La cristianità in Iraq è emigrazione, persecuzione all’interno del paese che ci fa sentire stranieri a casa nostra. Tra 30 e 40 anni fa più di 4000 villaggi cristiani sono stati cancellati, da tre anni a questa parte più di 20 chiese nel paese sono state distrutte o costrette a chiudere. I cristiani che vivevano nel nord e che erano emigrati nel centro e nel sud ora sono stati costretti a ritornarci fuggendo a causa dei pericoli che corrono. Molti sono fuggiti all’estero, in Siria e Giordania soprattutto, e molti che non hanno potuto lasciare Baghdad sono stati costretti ad abbandonare le proprie case e trasferirsi in quartieri più sicuri senza poter portare nulla con sé e perdendo quindi tutto: case, lavoro, ricordi.
Per adesso la zona più sicura è la regione del Kurdistan dove molti cristiani si sono trasferiti per sfuggire alle violenze. Certo i problemi ci sono, i prezzi ad esempio sono molto alti e non è facile trovare lavoro e che sia ben retribuito, ma è anche la zona dove si vive in una relativa pace. In quella zona – ne sono testimone per averci vissuto e lavorato prima di venire a Torino – grazie all’aiuto del Ministro delle Finanze del Governo Regionale Curdo, Sarkis Aghajan, un cristiano, sono stati costruiti più di 1000 villaggi, strade, chiese, ambulatori, scuole, sono stati forniti autobus per il trasporto degli studenti, e generatori di corrente, un bene preziosissimo in Iraq. Certo non tutto è perfetto, ma affrontare il problema di decine di migliaia di sfollati senza casa, lavoro e soldi non è facile. D’altra parte molte di quelle persone sarebbero morte se non avessero la possibilità di trasferirsi nel nord e di avere aiuto.
Cosa ne pensa degli inviti che dall’estero vengono fatti agli iracheni cristiani perché non abbandonino il loro paese?
Penso che solo chi vive una tale realtà possa giudicare ciò che è bene per sé. E’ facile per chi vive al sicuro all’estero – e parlo di miei correligionari - invitare gli altri a rimanere in Iraq e poi non aiutarli a farlo, parlare e scrivere di tradizione ed attaccamento alla terra ancestrale che loro stessi hanno lasciato. Vorrei essere io ad invitare quelle persone sempre pronte a dare consigli a tornare a vivere in Iraq, a confrontarsi con i pericoli, la paura ed il dolore, come noi abbiamo fatto ed ancora facciamo.
Anche lei però ora vive al sicuro…
E’ vero. Ma io ho fatto il mio dovere e per questo ho pagato sulla mia pelle. La mia famiglia ha dovuto lasciare la casa, i miei fratelli il lavoro. Per tutto quello che è successo a me ed a loro era arrivato il tempo per me di allontanarmi, di fare nuove esperienze, di lavorare in un altro modo. Io sono qui con l’approvazione della Curia di Torino e del Patriarcato di Babilonia dei Caldei ed il mio compito è fare conoscere la situazione che la comunità irachena cristiana sta vivendo, fare crescere i progetti di collaborazione e se, facendolo, potrò essere di aiuto alla comunità di Torino che con tanto affetto mi ha accolto il mio tempo non sarà sprecato.