"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

4 marzo 2021

Visita del Papa in Iraq, nel villaggio dove i jihadisti sfregiarono i simboli cristiani «Abbiamo cacciato l’Isis, ma tanti non sono tornati»

Lorenzo Cremonesi

«Non c’è più Santa Barbara. Qui di santo esiste solo lo Stato Islamico», avevano scritto sprezzanti con vernice nera nell’agosto di sette anni fa gli attivisti di Isis sul marmo chiaro che riveste le pareti della basilica più nota del villaggio.
Per oltre due anni la struttura massiccia di Santa Barbara fu il loro fortino, scavarono un lungo tunnel nella collina appena dietro, vi nascosero munizioni e armi pesanti. Per non farsi notare dai droni americani, accumularono sabbia e sassi dello scavo dentro le antiche sale della basilica. Cancellarono a colpi di martello le croci e le scritte in caldeo arcaico, assiro e aramaico lungo le pareti. Bivaccarono vicino alla tomba con le reliquie della santa, la profanarono, ruppero la lapide, devastarono i cimeli del sesto secolo dopo Cristo.
Dopo tutto cosa sapevano loro della lunga tradizione delle chiese orientali? E dalla centenaria diatriba teologica tra nestoriani e latini sul rapporto tra il Cristo, suo Padre e l’essenza del divino?
«Vennero qui da conquistatori. Hanno occupato queste sale per due anni. Ma alla fine li abbiamo scacciati. Karamles è tornato ai suoi abitanti cristiani», dice fiero il 45enne padre caldeo-cattolico Paolo Mekko, che nell’ottobre 2016 fu ripreso dalle televisioni internazionali intento a piantare sulla collina dietro Santa Barbara una grande croce destinata a segnalare a tutti i villaggi della piana di Ninive che i suoi fedeli ce l’avevano fatta, avevano resistito alla barbarie dei jihadisti.

   

 Con lui ripercorriamo i vicoli del villaggio. Tante abitazioni sono chiuse, mostrano i segni degli incendi. Paolo era stato uno degli ultimi a fuggire durante quei giorni d’inizio agosto 2014. Isis era come un fiume in piena. L’avevamo incontrato prima nella sua parrocchia mentre osservava preoccupato i peshmerga curdi che non sembravano in grado di resistere ai fanatici in avanzata da Mosul. Poi, ancora nel giardino del patriarcato caldeo a Erbil, mentre si dava da fare per distribuire tende, materassi e acqua alla sua gente sfollata e spaventata, priva di tutto.
«Non va malissimo. Sui circa 3.000 cristiani originari di Karamles, più o meno 1.200 sono rientrati alle loro case. Non tornano quelli che hanno avuto il permesso per emigrare negli Stati Uniti, oltre che in Canada, Australia ed Europa. Il mondo occidentale pensava di soccorrerci con la politica dei visti facili. Ma così contribuisce all’esodo. Meglio aiutarci a casa nostra», spiega.
Qui però la gente sottolinea che i giovani cercano di non rientrare. Prevalgono gli anziani. La parte antica dell’abitato risale al quarto secolo dopo Cristo. Ma le fondamenta sono preistoriche e tutto attorno gli archeologi hanno scoperto siti assiro-babilonesi. Lui mostra le croci spezzate nel cimitero attorno alla chiesa dedicata a San Giorgio. L’oratorio locale sta organizzando un saggio ginnico delle allieve in occasione del passaggio del Papa a Qaraqosh, soltanto tre chilometri da qui. E domenica prossima la statua lignea restaurata della madonna di Karamles, cui i jihadisti avevano mozzato testa e braccia, sarà benedetta da Francesco durante la messa celebrata nello stadio di Erbil.