By Espresso
Francesca Mannocchi
15 marzo 2021
Dal tetto della chiesa di Nostra Signora dell’Ora, Saa’a in arabo, i campanili e i minareti si sorridono. Sono da poco passate le cinque, è l’ora in cui la luce in Medio oriente svela le ombre e tiene insieme le emozioni. Sul tetto della chiesa ci sono insieme preoccupazione e speranza, rovine e ricostruzione.
Dal tetto della chiesa di Nostra Signora dell’Ora, Saa’a in arabo, i campanili e i minareti si sorridono. Sono da poco passate le cinque, è l’ora in cui la luce in Medio oriente svela le ombre e tiene insieme le emozioni. Sul tetto della chiesa ci sono insieme preoccupazione e speranza, rovine e ricostruzione.
Padre Olivier Poquillon cammina nella tonaca bianca a passi svelti, nell’urgenza di spiegare perché le mura siano così simboliche. Urgenza che non si trasforma mai in pura fretta di mostrare. Mancano poche ore alla visita a Mosul di Papa Francesco, padre Olivier cammina lungo le vie della città deserte per l’epidemia e per le misure di sicurezza. Le poche persone che incontra lo fermano, vogliono una fotografia, una parola per i bambini. Salam aleikum padre, gli dice un uomo invitandolo ad abbracciare il figlio. Aleikum salam ragazzo mio, risponde lui, e lo abbraccia. Ha vissuto a Mosul tra il 2003 e il 2004. Ha lasciato il paese per tornarvi quindici anni dopo per la missione più faticosa: riportare a casa chi se n’è andato. Rimettere insieme i pezzi.
Oggi supervisiona la ricostruzione della chiesa, almeno di quello che resta, nel progetto Revive the Spirit of Mosul, una partnership tra l’Unesco, gli Emirati Arabi Uniti e l’ordine domenicano cattolico romano.
«Soffrire insieme significa condividere una responsabilità, non si tratta solo di rimettere un mattone dopo l’altro, ma di tessere un filo per il tappeto più bello, quello che farà tornare a casa le persone, tutte: cristiani e musulmani».
La chiesa di Nostra Signora dell’Ora è stata la base della parrocchia cattolica romana nel nord dell’Iraq, a Mosul, sulla riva occidentale del Tigri, fino all’arrivo dell’Isis che ne ha danneggiato la struttura e saccheggiato l’antica biblioteca, che conteneva più di seimila volumi. Una chiesa danneggiata ma non distrutta perché usata come base dai miliziani. Sede di un tribunale, dunque anche di tortura.
Quello che l’ha violata l’ha anche salvata.
«Qui c’era il primo orologio della Mesopotamia, regalo dell’imperatrice Eugenia, la moglie di Napoleone III, e anche la prima scuola per giovani donne in Mesopotamia, e il primo impianto di stampa della grammatica curda, della prima bibbia in arabo». Non è solo l’elenco di quello che è stato, è il preludio all’interrogativo su quello che sarà: e ora che facciamo?
La domanda risuona sul tetto: davanti ai suoi occhi, di fronte alla chiesa, la moschea al-Nuri. Da lì nel 2014 Abu Bakr al Baghdadi ha chiesto ai musulmani di seguirlo come Califfo, autoproclamando lo stato che si sarebbe esteso al nord della Siria, e in profondità nel Nord e nell’Ovest dell’Iraq, fino alla fine del 2016, data di inizio della sanguinosa guerra di liberazione.
Oggi a Mosul sono rimaste solo cinquanta famiglie cristiane. Prima del 2014 erano cinquecento. Non tornano per paura, perché parte della città è ancora in macerie, perché non hanno fiducia nel governo che non garantisce né infrastrutture né la protezione di cui hanno bisogno.
Quelli che restano sono giovani. Metà della popolazione, qui, ha meno di quarant’anni. «È per tutti loro, non importa che religione professino, che dobbiamo ricostruire Mosul. La visita di Papa Francesco chiede a chi c’è di resistere, a chi se ne è andato di tornare. La ricostruzione è prima sociale che materiale», dice padre Olivier che oggi vive con due milioni di musulmani che condividono con lui la missione di restare. Papa Francesco domenica scorsa ha pregato per le vittime della guerra, tutte – musulmane, cristiane, yazide – uccise dal terrorismo, per gli sfollati.
La piazza in cui ha parlato ospita quattro chiese, la siro-cattolica, la armeno-ortodossa, la siro-ortodossa e la caldea, ognuna lasciata in rovina dall’Isis.
«In questa città vediamo due segni di perenne desiderio umano di vicinanza, la moschea di Al Nouri con il minareto di Al Hadba e la chiesa di Nostra Signora dell’Ora, il cui orologio per 100 anni ha ricordato ai passanti che la vita è breve e il tempo è prezioso», ha detto il Papa davanti alle mura della chiesa di Al-Tahira, l’Immacolata Concezione, anch’essa usata dall’Isis come prigione.
Ali al Baroodi ha resistito a Mosul quando era prigione e resiste oggi che Mosul è liberata. È tornato al suo lavoro, insegna inglese all’Università. Vive in una quotidianità che ha sempre due volti. «C’è un pezzo della città in rovina e un pezzo che prova a brillare come un tempo», dice, camminando lungo le vie delle botteghe e dei mercati. «Qui c’era il quartiere cristiano, i cristiani però non ci sono. Ci hanno portato via la cosa più preziosa cha aveva questa comunità: la sua natura multietnica, l’abbraccio che un campanile sapeva dare a un minareto. Con la fuga delle persone anche questa natura è stata espulsa».
Un cartello sulla via che lambisce la moschea al Nuri, recita: benvenuto Francesco, mentre la vita procede al passo lento della corruzione, della burocrazia, delle mancate compensazioni a tre anni dalla fine della guerra.
Le Nazioni Unite hanno stimato che più di ottomila case di Mosul siano state distrutte dagli attacchi aerei della guerra di liberazione, la città vecchia resta in macerie. Chi ha ricostruito l’ha fatto a proprie spese.
Troppa la corruzione, troppe le lotte di potere: il governatore della provincia di Ninive è stato sostituito tre volte dalla fine della guerra.
Il Comitato per la Compensazione ha ricevuto 90 mila richieste di risarcimento, ma non ci sono fondi. A oggi sono state risarcite solo 2500 famiglie.
L’Iraq ha raccolto circa 30 miliardi di dollari dalle donazioni internazionali promesse nel 2018 in Kuwait per progetti di ricostruzione, eppure due anni e mezzo dopo pochissimi fondi sono stati erogati. Quelli effettivamente arrivati sono stati dirottati per aiutare il governo federale a combattere il coronavirus mentre le casse statali si sono ridotte con il crollo dei prezzi del petrolio e il governo di Baghdad faticava a raccogliere i soldi per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici.
Ricostruire Mosul, evidentemente, non era in cima alla lista delle priorità.
Come permettere ai cittadini di tornare a casa.
È ai cittadini che parla il pontefice, è per i diritti civili che intercede.
Si è appellato allo Stato di diritto, ha chiesto, nei suoi discorsi e nei suoi incontri, non solo fratellanza ma diritti di cittadinanza.
Per questo l’incontro forse più importante del suo viaggio è stato a Najaf con l’Ayatollah Ali al-Sistani, una delle figure più autorevoli e influenti del mondo sciita.
La tappa più politica che prosegue lo sforzo di Bergoglio nella strategia di dialogo e di allacciamento dei rapporti nel mondo musulmano, una politica che però aveva finora realizzato quasi solo con interlocutori del mondo sunnita e aveva visto compiersi una tappa cruciale ad Abu Dhabi nel 2019, durante la prima visita nella penisola arabica da parte di un pontefice, quando Papa Francesco firmò una dichiarazione di Fraternità Umana con il Grande Imam di Al Azhar, Ahmed Al-Tayeb, considerato una delle massime autorità dell’Islam sunnita e che si era distinto per una presa di distanza forte dai fanatismi.
Quell’accordo equivaleva a un accordo di pace del capo della Chiesa cattolica romana e di un’influente figura sunnita che chiedeva la fine di «odio, violenza, estremismo e fanatismo cieco», in nome della religione.
Incontrando al-Sistani, il Papa marca un passaggio fondamentale anche col mondo sciita. Un passaggio politico di straordinaria importanza.
Nel corso degli anni, le dichiarazioni di al-Sistani hanno fortemente influenzato le vicende irachene. Nel 2019 il suo sostegno alle manifestazioni anticorruzione ha portato alle dimissioni dell’allora primo ministro al Mehdi, nel 2014 fu una sua fatwa a spingere decine di migliaia di giovani uomini a combattere contro l’Isis. Il reclutamento fu essenziale per la sconfitta dei miliziani di al Baghdadi ma ha determinato che le milizie, sostenute dall’Iran, consolidassero il loro potere aggravando il livello di corruzione del paese, minandone la stabilità.
L’incontro è ancor più significativo perché al-Sistani rappresenta la scuola di Najf, in contrasto con quella di Qom, in Iran, e spinge per una separazione netta tra politica e religione puntando alla costruzione di uno stato solido, con istituzioni affidabili. Al-Sistani riceve pochissime persone, la visita di cortesia del Papa avviene dopo il rifiuto del leader sciita di incontrare Embrahim Raisi, uno dei possibili successori di Al Khamenei, la massima autorità politica e religiosa in Iran.
La scelta di incontrare Papa Francesco e sottolineare in un comunicato che i cristiani in Iraq debbano vivere in pace in un quadro giuridico che garantisca loro protezione, rende Sistani l’interlocutore giusto di Papa Francesco nell’affermare la presenza dei cristiani come affermazione di piena cittadinanza, in uno stato laico che garantisca loro il pieno esercizio dei diritti.
Un risultato diplomatico, dunque, così importante per gli equilibri non solo iracheni ma di tutta la regione.
Solo a gennaio, in Iraq, ci sono stati due attacchi contro basi militari occidentali.
Uno il 15 febbraio, a Erbil e uno due settimane dopo nella base aerea di Ain al Asad, in Anbar.
Entrambi gli attacchi per mano delle milizie appoggiate dall’Iran.
È ad Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, che si è concluso il viaggio di Papa Francesco.
Alle 4 del pomeriggio il pontefice è entrato nello stadio Franso Hariri.
Ad attenderlo per una messa recitata in italiano, curdo, arabo e siriaco, c’erano diecimila persone.
«Prego per questo amato paese, prego perché i membri delle varie comunità religiose, insieme agli uomini di buona volontà, cooperino per la solidarietà al servizio di tutti», ha detto il Papa alla fine della celebrazione.
Salam. Salam. Salam. Scandisce tre volte la parola pace.
Come un chiodo, fissato con potenza su un muro che però è un muro da abbattere.
Quello delle divisioni settarie.
Lo stadio esulta. «Dio Benedica tutti. Dio benedica l’Iraq».
Eppure in quello stadio i fedeli erano solo cittadini cristiani.
Per i musulmani prenotare un posto è stato impossibile.
Il muro delle divisioni settarie è scalfito, ma ancora molto alto.