By Oasis
Michele Brignone
Tra il palcoscenico scintillante di Abu Dhabi e le macerie di Mosul il contrasto non potrebbe essere più vivo. Conoscendo Papa Francesco, tuttavia, c’era d’aspettarsi che il messaggio di fratellanza lanciato due anni fa da una delle città più ricche e sicure del pianeta fosse destinato preferenzialmente ai luoghi più feriti del mondo. E se c’è un Paese che negli ultimi decenni ha sperimentato tutto ciò che più violentemente contrasta con l’idea della concordia fraterna questo è l’Iraq, al punto che il motto scelto per il viaggio del Papa – “Siete tutti fratelli” – rischiava di ridursi a mero wishful thinking di fronte alla realtà sul terreno, fatta di devastazioni belliche, conflitti etnici e confessionali e malgoverno.
Tuttavia, già le proteste scoppiate a più riprese nel 2019 e nel 2020 avevano dato voce al bisogno degli iracheni di voltare pagina. L’entusiasmo con cui il Papa è stato accolto da molte persone, non solo cristiane, è stato un altro segno del desiderio diffuso nella popolazione di uscire da una tragedia che non si è conclusa neanche con la fine dello pseudo-califfato dell’Isis.
Emblematica da questo punto di vista è stata la testimonianza di Omar Muhammad, celebre autore del blog Mosul Eye, il quale al Wall Street Journal ha dichiarato che, attraverso gli occhi del Papa, ha potuto rivedere in Mosul «la città più bella del mondo». Qualche giorno dopo la visita, anche un osservatore di questioni mediorientali piuttosto disincantato come Steven Cook ha colto l’eccezionalità del viaggio di Francesco. «Nessuno – ha scritto Cook su Foreign Policy – deve aspettarsi che il papa risolva i problemi della regione, ma se farà sentire la sua voce su questioni specifiche potrà fare in qualche modo la differenza […]. È un interlocutore molto meno compromesso e ha molta più gravitas di qualsiasi funzionario americano, russo, europeo o delle Nazioni Unite. Questi ultimi hanno tutti fallito. Il Papa potrebbe non fallire».
Emblematica da questo punto di vista è stata la testimonianza di Omar Muhammad, celebre autore del blog Mosul Eye, il quale al Wall Street Journal ha dichiarato che, attraverso gli occhi del Papa, ha potuto rivedere in Mosul «la città più bella del mondo». Qualche giorno dopo la visita, anche un osservatore di questioni mediorientali piuttosto disincantato come Steven Cook ha colto l’eccezionalità del viaggio di Francesco. «Nessuno – ha scritto Cook su Foreign Policy – deve aspettarsi che il papa risolva i problemi della regione, ma se farà sentire la sua voce su questioni specifiche potrà fare in qualche modo la differenza […]. È un interlocutore molto meno compromesso e ha molta più gravitas di qualsiasi funzionario americano, russo, europeo o delle Nazioni Unite. Questi ultimi hanno tutti fallito. Il Papa potrebbe non fallire».
L’impresa era ed è oggettivamente proibitiva. All’incontro interreligioso di Ur il pontefice ha citato la celebre visione di Isaia sulla riconciliazione tra i popoli: «spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci» (Is 2,4). Se qualche anno fa l’allora arcivescovo di Parigi, il Cardinal Lustiger, aveva potuto riferirsi allo stesso passo biblico per leggere come un fatto spirituale la nascita della Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio (CECA), antesignana della dell’Unione Europea, in Iraq il Papa ha dovuto riconoscere che non solo la profezia non si è realizzata, ma «spade e lance sono diventati missili e bombe».
Anche volendo insistere nel realismo, tuttavia, non è necessariamente questa l’ultima parola sul destino dell’Iraq e del Medio Oriente. A Mosul, durante la preghiera di suffragio per le vittime della guerra, il Papa ha osservato, anche sulla base delle testimonianze che ha potuto ascoltare lungo le tappe del suo viaggio, «che la fraternità è più forte del fratricidio, che la speranza è più forte della morte, che la pace è più forte della guerra».
Non basta però la memoria dei disastri passati per costruire il futuro. Dopo aver sperimentato una sequenza ininterrotta di progetti politici fallimentari, se non distruttivi – la monarchia “pilotata” (al primo monarca dell’Iraq, Faysal I, è attribuita la frase «sono un funzionario britannico con il grado di re»), il nazionalismo radicale, la democrazia “esportata”, il settarismo religioso – l’Iraq ha bisogno di una nuova visione. Il Papa l’ha delineata nei suoi tratti più essenziali ancora alla piana di Ur, dove ha spiegato che l’alternativa al fragore delle armi è la rinuncia «ad avere nemici»: un atteggiamento che dovrebbe caratterizzare la religiosità più autentica, dal momento che «chi ha il coraggio di guardare le stelle, chi crede in Dio, non ha nemici da combattere. Ha un solo nemico da affrontare, che sta alla porta del cuore e bussa per entrare: è l’inimicizia. […] Chi segue le vie di Dio non può essere contro qualcuno, ma per tutti. Non può giustificare alcuna forma di imposizione, oppressione e prevaricazione, non può atteggiarsi in modo aggressivo».
Questo disarmo dei cuori come preludio necessario al disarmo materiale potrebbe sembrare una fuga dalla realtà. Tuttavia, non solo Francesco ha specificato che gli occhi al cielo «non distolsero, ma incoraggiarono Abramo a camminare sulla terra», in un percorso irto di sacrifici e difficoltà, ma le sue considerazioni vanno al cuore dei mali che si sono cumulati in Iraq. Da un lato, infatti, richiamando le persone a una realtà che le trascende e le garantisce nella loro dignità, il Papa mette in guardia dai pericoli di una politica ridotta al cinico perseguimento di interessi particolari; dall’altro, smaschera le ideologie che, arruolando Dio come un qualsiasi capobanda, nel “cielo” non vedono tanto una bussola da cui farsi guidare sulla terra quanto un sistema da imporre con la violenza.
Benché fortemente radicata nella tradizione cristiana (difficile non cogliere nella rinuncia all’inimicizia la rivoluzione evangelica dell’amore verso i nemici), si tratta di una proposta strutturalmente aperta al contributo delle altre religioni, che non devono aderirvi in nome di una generica religiosità universale, sovraordinata rispetto alle religioni storiche, ma alla luce del loro patrimonio peculiare. È quanto è avvenuto con la dichiarazione di Abu Dhabi, scritta a quattro mani con l’imam al-Tayyeb, e si è ripetuto nell’incontro con l’Ayatollah al-Sistani, il quale ha fatto eco al motto della visita del Papa – “Siete tutti Fratelli” – con un detto dell’imam ‘Ali: “Gli esseri umani sono di due tipi: o fratelli nella religione o pari a te nel fatto di essere creati”.
Il frutto più immediato del viaggio del Papa, oltre all’attenzione mediatica che ha risvegliato verso un Paese spesso dimenticato e, più significativamente, all’iniezione di speranza a favore di una popolazione provata da decenni di guerra, è l’invito rivolto dalle autorità irachene al Grande Imam di al-Azhar: un’iniziativa inedita, che potrebbe creare tra Roma, il Cairo e Baghdad/Najaf un sorprendente, e fino a pochissimo tempo fa imprevedibile, triangolo del dialogo, interconfessionale oltre che interreligioso. Un punto di partenza più che un traguardo, visto che la soluzione dei problemi iracheni richiede una più generale pacificazione della regione. Il Papa lo sa bene, e durante il volo di ritorno verso Roma ha già indicato la prossima tappa: il Libano, altro Paese delle diversità «non ancora riconciliate» e avamposto mediterraneo dei conflitti mediorientali.Oasis