Lorenzo Cremonesi
Ecco ciò che resta di una delle più antiche comunità cristiane del Medio Oriente: povere macerie lasciate dalla guerra, colonne di marmo sbrecciate in basiliche dissacrate, altari spezzati, croci ridotte in polvere, oratori trasformati in bivacchi per la soldataglia, quartieri vuoti e ingombri di rovine.
Ma soprattutto non ci sono più le persone, mancano i fedeli, azzerate le classi del catechismo e con loro sono spariti i sacerdoti, i rituali, i libri liturgici, le messe, le feste tradizionali.
Appare morto il senso di continuità dal passato al futuro. Un’intera fetta di cultura e storia ridotta all’ombra di se stessa, se non spazzata via del tutto.
«Non ci riprenderemo mai più. Le nostre Chiese irachene risalgono alla predicazione di San Tommaso nel primo secolo dopo Cristo. Sino all’invasione americana del 2003 vivevano ben oltre 50 mila cristiani a Mosul. L’esodo era iniziato subito dopo con la crescita dei rapimenti e degli attentati islamici. Isis occupandola nel giugno 2014 aveva causato la fuga dei 2 mila rimasti. Per tre anni non c’è stato più nessuno. Quindi, dalla sconfitta del Califfato nell’estate 2017, sono tornate una settantina di famiglie, per lo più anziani, che significa meno di 150 persone in tutto. Ma la paura regna sovrana, prevale la caducità. Tengono le valigie pronte in caso di allarme. Il dato più grave sta nella consapevolezza che coloro che sono fuggiti all’estero non torneranno indietro», spiega il 48enne Immanuel Kallo, sacerdote cattolico-siriaco che, grazie agli aiuti del cristianesimo mondiale, è riuscito a ricostruire una chiesa in periferia, ma tiene appese ai muri le foto della sua antica basilica distrutta nel cuore della città vecchia. Le sue parole riportano ai giorni concitati di quella terribile estate di sette anni fa. E ai racconti incredibili dei vecchi, che erano stati gli ultimi a lasciare le loro case. «Con i musulmani abbiano sempre convissuto. E ce la faremo anche con Isis», spiegavano.
Ma poi erano arrivate le tasse per i cristiani come ai tempi dei califfati medioevali, c’erano i fanatici che irrompevano nelle case rubando a piacimento, avevano disegnato in vernice nera croci e cerchi sulle porte minacciando che sarebbero tornati. Non erano mancati assassini mirati, erano iniziate le decapitazioni in piazza. Sino a che li avevano presi tutti e obbligati a marciare sotto il sole di luglio per venti chilometri verso le linee dei curdi sulla strada per Erbil.
Una misera processione di esseri zoppicanti, assetati, privi di tutto, alcuni erano caduti sull’asfalto bollente senza più la forza per rialzarsi. Nell’estremo atto di sprezzante offesa i jihadisti si erano presi collane, anelli, orologi, avevano frugato impietosi nei vestiti per rubare i portafogli, i risparmi di una vita nascosti nelle scarpe, negli slip, sotto le cinture.
«Potevo fare la fine di Paulos Rahho, il vescovo cattolico, e degli altri prelati uccisi in quegli anni. Provai a restare nel regno del terrore di Isis. Ci riuscii per un mese. Ma un giorno venni fermato sulla strada per Karakosh. Uno dei jihadisti mi disse chiaramente che dovevo sparire subito. Rischiavo la decapitazione pubblica se non mi fossi convertito. Intendevano islamizzare Mosul. Non c’era spazio per i cristiani. Poco dopo iniziò la devastazione sistematica delle oltre 30 chiese locali», continua Kallo. Anche qui verrà il Papa nel corso della sua prossima visita in Iraq. E infatti per lui sono stati accelerati i lavori di rimozione delle macerie.
Quelli principali avvengono nell’area della Hosh al-Bieaa (la piazza della chiesa), vi si affacciano quattro basiliche (armena, siriaco-ortodossa, siriaco-cattolica, caldea). La più antica risale al Dodicesimo secolo. Nessuna è stata risparmiata dalla furia dei combattimenti. Interi sotterranei nascondono ancora cadaveri e bombe inesplose. «Oltre il 90 per cento della città vecchia è distrutto. Le chiese vennero usate da Isis come centri amministrativi, oltre a tribunali islamici e prigioni», spiega Anas Ziad, ingegnere civile 29enne che per conto dell’Unesco dirige la ricostruzione «I lavori sono pagati soprattutto da fondi arrivati dagli Emirati. Ma ci vorranno ancora almeno due o tre anni per ridare forma a queste rovine. C’è anche un aspetto paradossale in questo luogo. I militanti di Isis non avevano esitato a distruggere le moschee che contenevano tombe di emiri o qualsiasi altro elemento che violasse la loro lettura purista del Corano. Erano per contro certi che la coalizione alleata non avrebbe sparato sulle chiese, che utilizzarono come rifugi. Si sbagliavano. Qui le bombe sono cadute più numerose. Isis non ha avuto scampo», aggiunge, mostrando le linee segnate in calce bianca sul terreno appena bonificato dove è previsto il palco papale. Tutto attorno la città vecchia sta lentamente riprendendo a vivere. Solo un quinto del suo mezzo milione di abitanti sono tornati. I danni più gravi vanno per circa 900 metri in linea d’aria dalle chiese alla zona della moschea Al Nuri, dove ai primi del luglio 2014 Abu Bakr al Baghdadi aveva per la prima volta annunciato pubblicamente la nascita del suo Califfato.
Tra i ruderi si scorgono ancora i resti delle auto-bomba e mucchi di cinture esplosive utilizzate dai kamikaze sono impilati all’entrata. Per i cristiani iracheni l’arrivo del Papa sarà l’occasione non tanto per sottolineare la distruzione degli edifici, quanto quella delle loro comunità: vent’anni fa erano oltre un milione e 600 mila, ora sono ridotti a meno di 300 mila. Potrebbe anche essere peggio. Non esistono censimenti precisi.
«Il grave è che restano le condizioni che potrebbero fare emigrare anche gli ultimi», ci spiega l’arcivescovo 51enne caldeo cattolico di Erbil, Bashar Matti Warda. «Occorre infatti modificare la costituzione irachena, che deve essere fondata non sulla legge islamica, ma sul diritto di cittadinanza come ogni altro Stato moderno. Oggi noi siamo considerati come una minoranza tollerata dalla maggioranza musulmana. In questo modo si fomenta il settarismo religioso. Non è ammissibile che un musulmano rischi la pena capitale se dichiara di volersi convertire ad un’altra fede. Vanno garantiti i diritti fondamentali dell’individuo. Senza una riforma radicale dello Stato, i cristiani saranno sempre minacciati».
Ecco ciò che resta di una delle più antiche comunità cristiane del Medio Oriente: povere macerie lasciate dalla guerra, colonne di marmo sbrecciate in basiliche dissacrate, altari spezzati, croci ridotte in polvere, oratori trasformati in bivacchi per la soldataglia, quartieri vuoti e ingombri di rovine.
Ma soprattutto non ci sono più le persone, mancano i fedeli, azzerate le classi del catechismo e con loro sono spariti i sacerdoti, i rituali, i libri liturgici, le messe, le feste tradizionali.
Appare morto il senso di continuità dal passato al futuro. Un’intera fetta di cultura e storia ridotta all’ombra di se stessa, se non spazzata via del tutto.
«Non ci riprenderemo mai più. Le nostre Chiese irachene risalgono alla predicazione di San Tommaso nel primo secolo dopo Cristo. Sino all’invasione americana del 2003 vivevano ben oltre 50 mila cristiani a Mosul. L’esodo era iniziato subito dopo con la crescita dei rapimenti e degli attentati islamici. Isis occupandola nel giugno 2014 aveva causato la fuga dei 2 mila rimasti. Per tre anni non c’è stato più nessuno. Quindi, dalla sconfitta del Califfato nell’estate 2017, sono tornate una settantina di famiglie, per lo più anziani, che significa meno di 150 persone in tutto. Ma la paura regna sovrana, prevale la caducità. Tengono le valigie pronte in caso di allarme. Il dato più grave sta nella consapevolezza che coloro che sono fuggiti all’estero non torneranno indietro», spiega il 48enne Immanuel Kallo, sacerdote cattolico-siriaco che, grazie agli aiuti del cristianesimo mondiale, è riuscito a ricostruire una chiesa in periferia, ma tiene appese ai muri le foto della sua antica basilica distrutta nel cuore della città vecchia. Le sue parole riportano ai giorni concitati di quella terribile estate di sette anni fa. E ai racconti incredibili dei vecchi, che erano stati gli ultimi a lasciare le loro case. «Con i musulmani abbiano sempre convissuto. E ce la faremo anche con Isis», spiegavano.
Ma poi erano arrivate le tasse per i cristiani come ai tempi dei califfati medioevali, c’erano i fanatici che irrompevano nelle case rubando a piacimento, avevano disegnato in vernice nera croci e cerchi sulle porte minacciando che sarebbero tornati. Non erano mancati assassini mirati, erano iniziate le decapitazioni in piazza. Sino a che li avevano presi tutti e obbligati a marciare sotto il sole di luglio per venti chilometri verso le linee dei curdi sulla strada per Erbil.
Una misera processione di esseri zoppicanti, assetati, privi di tutto, alcuni erano caduti sull’asfalto bollente senza più la forza per rialzarsi. Nell’estremo atto di sprezzante offesa i jihadisti si erano presi collane, anelli, orologi, avevano frugato impietosi nei vestiti per rubare i portafogli, i risparmi di una vita nascosti nelle scarpe, negli slip, sotto le cinture.
«Potevo fare la fine di Paulos Rahho, il vescovo cattolico, e degli altri prelati uccisi in quegli anni. Provai a restare nel regno del terrore di Isis. Ci riuscii per un mese. Ma un giorno venni fermato sulla strada per Karakosh. Uno dei jihadisti mi disse chiaramente che dovevo sparire subito. Rischiavo la decapitazione pubblica se non mi fossi convertito. Intendevano islamizzare Mosul. Non c’era spazio per i cristiani. Poco dopo iniziò la devastazione sistematica delle oltre 30 chiese locali», continua Kallo. Anche qui verrà il Papa nel corso della sua prossima visita in Iraq. E infatti per lui sono stati accelerati i lavori di rimozione delle macerie.
Quelli principali avvengono nell’area della Hosh al-Bieaa (la piazza della chiesa), vi si affacciano quattro basiliche (armena, siriaco-ortodossa, siriaco-cattolica, caldea). La più antica risale al Dodicesimo secolo. Nessuna è stata risparmiata dalla furia dei combattimenti. Interi sotterranei nascondono ancora cadaveri e bombe inesplose. «Oltre il 90 per cento della città vecchia è distrutto. Le chiese vennero usate da Isis come centri amministrativi, oltre a tribunali islamici e prigioni», spiega Anas Ziad, ingegnere civile 29enne che per conto dell’Unesco dirige la ricostruzione «I lavori sono pagati soprattutto da fondi arrivati dagli Emirati. Ma ci vorranno ancora almeno due o tre anni per ridare forma a queste rovine. C’è anche un aspetto paradossale in questo luogo. I militanti di Isis non avevano esitato a distruggere le moschee che contenevano tombe di emiri o qualsiasi altro elemento che violasse la loro lettura purista del Corano. Erano per contro certi che la coalizione alleata non avrebbe sparato sulle chiese, che utilizzarono come rifugi. Si sbagliavano. Qui le bombe sono cadute più numerose. Isis non ha avuto scampo», aggiunge, mostrando le linee segnate in calce bianca sul terreno appena bonificato dove è previsto il palco papale. Tutto attorno la città vecchia sta lentamente riprendendo a vivere. Solo un quinto del suo mezzo milione di abitanti sono tornati. I danni più gravi vanno per circa 900 metri in linea d’aria dalle chiese alla zona della moschea Al Nuri, dove ai primi del luglio 2014 Abu Bakr al Baghdadi aveva per la prima volta annunciato pubblicamente la nascita del suo Califfato.
Tra i ruderi si scorgono ancora i resti delle auto-bomba e mucchi di cinture esplosive utilizzate dai kamikaze sono impilati all’entrata. Per i cristiani iracheni l’arrivo del Papa sarà l’occasione non tanto per sottolineare la distruzione degli edifici, quanto quella delle loro comunità: vent’anni fa erano oltre un milione e 600 mila, ora sono ridotti a meno di 300 mila. Potrebbe anche essere peggio. Non esistono censimenti precisi.
«Il grave è che restano le condizioni che potrebbero fare emigrare anche gli ultimi», ci spiega l’arcivescovo 51enne caldeo cattolico di Erbil, Bashar Matti Warda. «Occorre infatti modificare la costituzione irachena, che deve essere fondata non sulla legge islamica, ma sul diritto di cittadinanza come ogni altro Stato moderno. Oggi noi siamo considerati come una minoranza tollerata dalla maggioranza musulmana. In questo modo si fomenta il settarismo religioso. Non è ammissibile che un musulmano rischi la pena capitale se dichiara di volersi convertire ad un’altra fede. Vanno garantiti i diritti fondamentali dell’individuo. Senza una riforma radicale dello Stato, i cristiani saranno sempre minacciati».