By Asia News
21 giugno 2017
“La testimonianza di fede di questi cristiani stupendi è un tesoro
per noi”. Con queste parole, mons. Alberto Ortega Martín, nunzio
apostolico in Giordania e Iraq, commenta l’esperienza dei cristiani
iracheni. Un “sì a Dio” che a loro è “costato tutto” e che la Chiesa è
chiamata a sostenere. L’occasione della sua testimonianza è stata la
recita del Santo Rosario per i cristiani perseguitati, organizzato dal
comitato Nazarat ieri sera nella chiesa di Santa Maria delle Fornaci.
Dall’inizio del millennio, i cristiani in Iraq si sono ridotti in
modo drastico, passando da un milione e mezzo a 300mila. Una “grave
perdita non soltanto per la Chiesa, ma per la società, perché i
cristiani possono e svolgono un ruolo fondamentale nella vita del
Paese”.
Nel 2014, con l’arrivo dello Stato islamico, essi sono stati
costretti a scegliere fra convertirsi, pagare una tassa e andarsene per
sfuggire alla morte: “Hanno lasciato tutto per non rinnegare la fede.
Non so di nessuno che abbia rinunciato alla fede, neanche per finta”,
racconta mons. Ortega. “Da un giorno all’altro hanno preso poche cose e
sono partiti”. Ma anche il poco che si erano portati nella fuga è andato
perduto, confiscato dai militanti dell’Isis all’uscita dalla città.
Ora tanti di questi cristiani vivono nel Kurdistan, per lo più in
case affittate con l’aiuto della Chiesa universale e in un campo
profughi “dignitoso” che ospita 4mila persone. Le abitazioni sono
pensate per una famiglia, ma vengono condivise da due o tre a seconda di
quanti bambini hanno: “[Vivono in] una stanzetta piccola, con i
materassi da una parte, che la notte mettono per terra per dormire, un
armadio di plastica con tre cose, una piccola televisione, e sempre
l’immagine di Gesù, della Madonna, o un altare”.
Nonostante le difficoltà, essi non si lamentano perché “hanno perso tutto, ma non la fede”.
“È commovente come queste persone non abbiano rancore nel cuore”, ha
continuato mons. Ortega. “Sono capaci di perdonare quelli che li hanno
cacciati via, che hanno fatto loro del male. Addirittura pregano per
quelli che li hanno perseguitati, perché si convertano perché il Signore
domini il loro cuore”.
Una fede, secondo il prelato, rinata nelle difficoltà: alcuni di loro
che non erano molto praticanti, si dichiarano addirittura grati per
quanto accaduto perché “è stata occasione per riscoprire ciò che è più
importante, che è la fede”.
“Il Signore permette queste cose per un bene più grande. La loro testimonianza di fede per noi in occidente è stato un regalo”.
Nei pensieri del prelato vi è il futuro di Mosul, dove è in corso la battaglia per la liberazione della città:
“Non basta la vittoria militare, bisogna agire dal punto di vista
politico, economico e soprattutto dal punto di vista dell’educazione.
Bisogna introdurre una nuova mentalità del dialogo, della
collaborazione”.
Alcuni cristiani stanno tornando ai loro villaggi, ma si scontrano
con la delusione di trovare le case distrutte e bruciate “senza nessun
motivo” se non “per far del male”: “Si deve ricostruire, perciò abbiamo
bisogno dell’aiuto di tutta la Chiesa, delle Nazioni unite, della
comunità internazionale. In alcuni paesini, per esempio a Teleskuf dove
l’Isis è stato per poco tempo, le case non sono state tanto danneggiate e
ci sono già 500 famiglie che sono rientrate”. A Karamles alcuni gruppi stanno tornando entro la fine del mese.
Un ritorno che ha bisogno di essere sostenuto non solo con la preghiera e l’aiuto concreto di campagne come “Adotta un cristiano di Mosul” lanciata da AsiaNews,
ma soprattutto con il sostegno del “nostro sì al Signore” perché “loro
per dire sì al Signore hanno perso tutto”. Per il prelato, è degno di
nota che alla domanda “cosa vi aspettate dai cristiani di occidente?”
essi rispondano “che vivano la fede”.
I cristiani devono tornare perché la loro missione è essere “la presenza di Cristo, un bene per tutti”.
In un commento esclusivo per AsiaNews, mons. Ortega ha
raccontato che i giovani iracheni hanno “una mentalità più unitaria,
sono cresciuti con più valori: la fede, la famiglia. I giovani vivono la
fede, si cercano per stare insieme nelle parrocchie. Quando si può
fanno delle attività per loro”. Egli ha ricordato Miriam, la bambina che
in un filmato di due anni fa aveva detto di voler perdonare tutti:
“L’ho vista durante un incontro di catechesi per la comunione di
venerdì, c’erano 400 bambini. Mi dava tanta speranza pensare ‘ma guarda
un po’, ci saranno sicuramente tanti bambini così. Questa l’ho
conosciuta per il filmato, ma quanti ce ne saranno ancora?’. Bisogna
curarli perché quel tesoro che hanno possano coltivarlo”.