By Avvenire
Sara Lucaroni
Sara Lucaroni
Ci si sono ritrovati a vivere insieme, come prima, cristiani,
yazidi, turcomanni, shabak, tutte le minoranze: Avro City sono 20
edifici gialli tirati su nel 2007, una lottizzazione senza geometria
alle porte di Douhk. Ismael, cristiano ortodosso, indica il suo palazzo
e ne va fiero. È un triangolo coraggioso il governatorato di Dohuk:
avamposto dei fuochi turchi, dei gorgoglii dell’Iran, delle
fluttuazioni di Baghdad, della Siria sconvolta e denudata. Il futuro
della regione autonoma del Kurdistan, che il 25 settembre voterà per
l’indipendenza, si gioca anche sulle minoranze, non solo sull’orgoglio
della “curdità”.
Dall’estate 2014, le province hanno accolto tra
i loro 4 milioni di abitanti due milioni di sfollati da Ninive, Mosul e
Sinjar. Ora Daesh è un serpente che dai sobborghi di Kirkuk arriva a
Baaij, ha la spina dorsale rotta ma morde e uccide. I peshmerga del
presidente Masoud Barzani e l’esercito iracheno presidiano e avanzano,
le varie milizie fanno gli interessi dei loro ispiratori. Il fronte è
ora nord-ovest, oltre Mosul che in questi giorni sta per essere
totalmente liberata, compresa la citta vecchia dove il Daesh è
asserragliato. È già il dopo Daesh. Ismael ha 60 anni, vive con moglie,
figlio, nuora, nipoti, tutti sfollati di Sinjar. Ha messo in piedi un
ristorante: «Noi siamo stati fortunati ma non dimenticherò quel che
abbiamo lasciato».
Dal secondo piano in cui vive Ismael, scende
Myriam. Suo marito è morto poco tempo fa per un incidente. Piange. Lei
il futuro non lo vede. «Se sarà chiaro quale autorità governerà sulle
nostre vecchie case, le minoranze non avranno problemi a convivere come
prima», spiega Ismael. Nello stesso istante a Erbil il patriarca Louis
Raphaël I Sako presiede l’incontro dei vescovi caldei sull’appello
all’unità della componente cristiana di fronte alle scelte politiche e
nel dialogo con le istituzioni. Istituzioni che per i cristiani assiri
del partito Abnaa al Nahrain, i “Figli della Mesopotamia”, spezzano
col referendum i tempi (e i fili) con Baghdad e la comunità
internazionale: prima tornino a casa gli sfollati. È il pensiero di
molti. Poco più di sei mesi fa l’esercito iracheno e quello dei
peshmerga liberavano Bartella, Qaraqosh, Bashiqa, Batnaya, Baqofa,
Karamlis, Telkeif, Teleskoff e si facevano fotografare mentre
rimettevano le croci sui tetti delle chiese.
Gli altari sono
vivi, si lavora col cuore, i simboli sono tornati prima delle 12mila
famiglie sfollate e dei 200 milioni di dollari che servirebbero alla
ricostruzione. Qualcuno, grazie a Ong e reti solidali, è tornato o si
prepara a tornare. Ma la Piana, che non è Kurdistan e neppure più
Iraq, è senza controllo e l’identità della minoranza è stata il primo
fattore del de- stino scelto per ognuna da Daesh: va ricostruita la
fiducia, appianati i presunti tradimenti.
«Siamo confinanti e
abbiamo avuto un destino simile con i cristiani, ora dovremmo avere il
controllo diretto delle nostre provincie, Ninive e Shin- gal, come
prevede l’art. 140 della Costituzione » spiega il principe Breen
Thasen, con il padre guida politica della comunità yazida. Niente è
facile: i 30mila a Sinjar denunciano tentativi di «curdizzazione», e
il restante è sfollato Turchia, in Siria, in Grecia, in Germania, in
Canada. Il riconoscimento del genocidio da parte della comunità
internazionale aprirebbe alla creazione di un’area autogestita e sotto
protettorato.
Mentre Breen snocciola le cifre sugli orfani (sono
2.700) da un hotel di lusso ad Erbil, la disperazione del premio
Sacharov, Nadia Murad, che per la prima volta entra nella casa a Kojo
dove fu rapita, fa il giro del mondo. Poche ore e via di nuovo in
Europa. È tra gli ultimi villaggi liberati il suo, mentre a Sinjar
città, presidio di retrovia sul Daesh in fuga, le poche famiglie
rientrate fanno i conti con l’assenza di servizi e le bombe
artigianali. Sulla montagna, la vivacità delle attività commerciali di
Sinuni, lungo la strada principale, naufraga sulle case povere dei
pastori. Resiste anche il grande campo dentro la valle più alta, dove
tra le 10mila famiglie, qualcuno ha dismesso la tenda per costruirsi la
casa.
Ci sono divisioni. Anche le zone sono divise tra i gruppi
combattenti curdi in lotta, come i Pkk-Ypg e i peshmerga siriani
Rojava. Ora anche la milizia sciita di Hashd al-Shaabi recluta gli
yazidi. «È la terza forza di terra nella liberazione di Ninive e Mosul, e
poche settimane fa era entrata nei villaggi a sud-est, Kojo compreso»
spiega il principe, ricordando come l’accoglienza degli sfollati non
cancelli l’idea che si sia consumato un tradimento sulla pelle della sua
comunità.
«Daesh ha ucciso oltre 1.400 shabak», dice uno dei
capi della comunità che contava a Ninive 60mila persone, suddivisi tra
sunniti e sciiti. Il 35 per cento di Bartella era shabak, ma è nata una
diffidenza sul loro presunto appoggio alle truppe paramilitari sciite
arrivate dopo la liberazione. «La nostra sorte viene ignorata, dai
tempi di Saddam Hussein. Noi vivremo con tutti se il governo centrale
assumerà il controllo della zona» incalza, accomunando la necessità di
un sostegno più corposo a quelle di un’altra minoranza, i Kakai.
Curdi, templi distrutti, 250mila persone in Iraq, la necessità di un riconoscimento religioso effettivo. A Beshir, tutta macerie, 700 turcomanni sciiti sono stati massacrati dai jihadisti, e nella vicina Amerli in migliaia furono assediati. Le ragazze, come quelle yazide, vendute. Kirkuk, di cui si discute l’annessione alla regione autonoma del Kurdistan alla luce del referendum, è la loro capitale. «Non abbiamo problemi di convivenza, ci hanno difesi e ci hanno ascoltato. Ora vorremmo avere più peso nelle decisioni politiche» argomenta chiusa nel suo ufficio al Parlamento curdo Duna Nani Kahveci, vice presidente del Turkman Reform Party. Nella vicina Suleymaniyah, dai campi di Ashti 1 e Ashti 2 non si vede l’immensa vela di vetro dell’hotel Grand Millennium, ma il via vai della statale verso l’Iran. Le minoranze sono divise in settori, in 10mila vivono secondo geometria: yazidi, sunniti, cristiani, sciiti e le regole formali del vicinato.
Curdi, templi distrutti, 250mila persone in Iraq, la necessità di un riconoscimento religioso effettivo. A Beshir, tutta macerie, 700 turcomanni sciiti sono stati massacrati dai jihadisti, e nella vicina Amerli in migliaia furono assediati. Le ragazze, come quelle yazide, vendute. Kirkuk, di cui si discute l’annessione alla regione autonoma del Kurdistan alla luce del referendum, è la loro capitale. «Non abbiamo problemi di convivenza, ci hanno difesi e ci hanno ascoltato. Ora vorremmo avere più peso nelle decisioni politiche» argomenta chiusa nel suo ufficio al Parlamento curdo Duna Nani Kahveci, vice presidente del Turkman Reform Party. Nella vicina Suleymaniyah, dai campi di Ashti 1 e Ashti 2 non si vede l’immensa vela di vetro dell’hotel Grand Millennium, ma il via vai della statale verso l’Iran. Le minoranze sono divise in settori, in 10mila vivono secondo geometria: yazidi, sunniti, cristiani, sciiti e le regole formali del vicinato.
Lo sa il
patriarca Nicodemus Daoud Matti Sharaf, vescovo metropolitano della
chiesa siriano ortodossa, che si infervora: «Qui si parla l’aramaico, la
lingua di Cristo, le radici di ogni comunità vanno protette ad ogni
costo – afferma –. Se la legge ci proteggerà sarà possibile vivere con
chiunque come sempre: musulmani, yazidi, tutti. Della sicurezza si
occupino Onu, Europa, Usa, le potenze vicine. Servono garanzie. Servono
radici robuste».
Ecco i numeri del dramma degli yazidi
La
battaglia di Mosul ha restituito pochissimi prigionieri alle famiglie
sfollate nei campi e nelle città del Kurdistan iracheno. Ma grazie ad
attivisti, Organizzazioni non governative e il Comitato istituito dal
governo regionale per indagare sulle stragi e censire le vittime del
genocidio, le cifre aggiornate e soprattutto i nomi delle vittime danno
un contorno sempre più netto ai crimini di Daesh contro la minoranza
yazida: 340.000 gli sfollati dall’area di Sinjar, 60.000 quelli
dall’area di Bashiqa, a Ninive. Ben 1.300 uccisioni in un solo giorno,
6.417 i8 prigionieri e 3.001 persone liberate. Sono invece 2.745 minori
rimasti orfani di uno o entrambi i genitori. Trentatré le fosse comuni
scoperte alle porte dei villaggi con una media di 35-40 cadaveri. I
luoghi sacri e i templi distrutti sono 70, mentre 80.000 yazidi hanno
lasciato in questi tre anni l’Iraq settentrionale.
La secessione: il compito a tre comitati elettorali di sondare le nazioni confinanti
La
domanda a cui gli elettori risponderanno con «Sì» o «No» è riportata
sulla scheda di voto in lingua curda, araba e turkmena sarà: «La Regione
del Kurdistan e le aree curde al di fuori dell’amministrazione della
regione dovrebbero essere un Paese indipendente?». Il prossimo 25
settembre la regione autonoma del Kudistan deciderà sulla sua
indipendenza dall’Iraq, un progetto politico ora accelerato dalla
necessità di rivedere gli equilibri regionali politico-etnici
all’indomani della sconfitta di Daesh. Dopo la riunione straordinaria a
cui hanno preso parte i maggiori partiti della regione, il Pdk del
presidente Massoud Barzani, il Puk di Jalal Talabani e il Gorran, il cui
leader è recentemente scomparso, è stata decisa la creazione di tre
comitati elettorali che avranno il compito di sondare il terreno con i
paesi confinanti, in primis Turchia e Iran. Per il 6 novembre invece
sono state fissate le elezioni parlamentari. Tra le questori più
complesse legate alla consultazione referendaria c’è quella sui confini:
annettere o meno Kirkuk, strappata a Daesh dai peshmerga e in cui
ancora si combatte, e la provincia di Ninive, esclusa Mosul,
riconquistata negli ultimi mesi.