di Giorgio Bernardelli
Una lettera ai cristiani perseguitati dell'Iraq e della Siria. Una lettera come quelle che Paolo scriveva alle comunità nella tribolazione; lodandole per la loro testimonianza di fede, ma aggiungendo anche che «è proprio della giustizia di Dio rendere afflizione a quelli che vi affliggono» (2 Tes 1,6).
Dopo il concistoro tenuto lunedì in Vaticano, è questo il nuovo gesto che Papa Francesco si appresta a compiere per i cristiani del Medio Oriente. A confermarlo è stato il patriarca di Babilonia dei Caldei, Luis Sako, da mesi voce di questa umanità lasciata senza voce dalla violenza dei fondamentalisti islamici e dall'indifferenza del mondo. «Gli ho chiesto di scrivere un messaggio personale, una piccola lettera pastorale - ha detto in un'intervista il patriarca dei caldei - come faceva l’apostolo Paolo per le prime comunità cristiane per esortare i cristiani a perseverare».
Chissà se nella Lettera ai cristiani di Ankawa (il sobborgo di Erbil dove in migliaia sono sfollati da quest'estate) Papa Francesco userà davvero anche le ultime parole forti dell'apostolo Paolo, quelle sulla giustizia di Dio che si abbatterà un giorno su quanti affliggono i deboli. Di certo è quanto si augurano i cristiani della Siria e dell'Iraq, che ormai nella coalizione internazionale in arrivo per prendere le loro difese non ci credono più.
Mentre le cronache ci raccontano l'assedio di Kobane - con i raid aerei che non sono altro che un modo per dire che «si sta facendo qualcosa» - tra gli sfollati di Mosul sta arrivando l'inverno. Che si dà il caso in Kurdistan sia anche parecchio rigido: il termometro tocca lo zero a Erbil e sulle montagne attorno scende ancora di più. Decine di migliaia di persone si trovano tuttora ad attenderlo sotto una tenda o un riparo di fortuna. Quelli che non hanno ucciso né la violenza dei jihadisti né la fuga nel deserto sotto il sole d'estate - dunque - ora rischia di ucciderli il freddo in Iraq. Per non parlare poi dei cristiani della Siria, che stanno entrando nel loro quarto inverno consecutivo di una guerra fatta di fame, freddo e minacce.
In Kurdistan - come sempre - l'unica speranza oggi ha il volto della mobilitazione delle Chiese cristiane di tutto il mondo. Anche la Cei e molte ong cattoliche del nostro Paese sono in prima linea nella corsa a dare almeno un prefabbricato al numero maggiore possibile di profughi, prima che l'inverno arrivi sul serio. Ma il tempo a disposizione è pochissimo: già qualche giorno fa a Erbil è arrivato il primo grande nubifragio e le tendopoli si sono subito allagate con immense pozzanghere e fango ovunque.
È a questa umanità ferita che il Papa sta scrivendo. Sapendo che - oltre che a loro - c'è da parlare a chi continua a perseguire obiettivi propri sulla pelle di queste popolazioni. Tra le cose che il patriarca Sako ha detto in questi giorni c'è anche il fatto che Francesco desidererebbe andare personalmente tra gli sfollati dell'Iraq. Un desiderio probabilmente oggi irrealizzabile.
Però proprio ieri il Vaticano ha confermato il viaggio che Bergoglio compirà dal 28 al 30 novembre in Turchia. Una visita apostolica legata a una motivazione ecumenica - l'incontro con il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo - ma che per ciò che rappresenta oggi Ankara in questo Medio Oriente insanguinato non potrà non avere anche un significato politico. Nella capitale turca il Pontefice incontrerà il presidente turco Erdogan e il premier Davutoglu, le autorità di un Paese non proprio al di sopra di ogni sospetto di ambiguità nella lotta all'Isis. E a Istanbul - come aveva già fatto papa Benedetto - anche Francesco entrerà nella Moschea Blu, luogo carico di significati importanti per l'islam sunnita. Farà già molto freddo in quei giorni ad Ankawa. E ci sarà ancora più bisogno di ascoltare parole che indichino che anche a Istanbul il Papa è loro vicino. E addita una strada perché questo incubo finisca davvero.
Una lettera ai cristiani perseguitati dell'Iraq e della Siria. Una lettera come quelle che Paolo scriveva alle comunità nella tribolazione; lodandole per la loro testimonianza di fede, ma aggiungendo anche che «è proprio della giustizia di Dio rendere afflizione a quelli che vi affliggono» (2 Tes 1,6).
Dopo il concistoro tenuto lunedì in Vaticano, è questo il nuovo gesto che Papa Francesco si appresta a compiere per i cristiani del Medio Oriente. A confermarlo è stato il patriarca di Babilonia dei Caldei, Luis Sako, da mesi voce di questa umanità lasciata senza voce dalla violenza dei fondamentalisti islamici e dall'indifferenza del mondo. «Gli ho chiesto di scrivere un messaggio personale, una piccola lettera pastorale - ha detto in un'intervista il patriarca dei caldei - come faceva l’apostolo Paolo per le prime comunità cristiane per esortare i cristiani a perseverare».
Chissà se nella Lettera ai cristiani di Ankawa (il sobborgo di Erbil dove in migliaia sono sfollati da quest'estate) Papa Francesco userà davvero anche le ultime parole forti dell'apostolo Paolo, quelle sulla giustizia di Dio che si abbatterà un giorno su quanti affliggono i deboli. Di certo è quanto si augurano i cristiani della Siria e dell'Iraq, che ormai nella coalizione internazionale in arrivo per prendere le loro difese non ci credono più.
Mentre le cronache ci raccontano l'assedio di Kobane - con i raid aerei che non sono altro che un modo per dire che «si sta facendo qualcosa» - tra gli sfollati di Mosul sta arrivando l'inverno. Che si dà il caso in Kurdistan sia anche parecchio rigido: il termometro tocca lo zero a Erbil e sulle montagne attorno scende ancora di più. Decine di migliaia di persone si trovano tuttora ad attenderlo sotto una tenda o un riparo di fortuna. Quelli che non hanno ucciso né la violenza dei jihadisti né la fuga nel deserto sotto il sole d'estate - dunque - ora rischia di ucciderli il freddo in Iraq. Per non parlare poi dei cristiani della Siria, che stanno entrando nel loro quarto inverno consecutivo di una guerra fatta di fame, freddo e minacce.
In Kurdistan - come sempre - l'unica speranza oggi ha il volto della mobilitazione delle Chiese cristiane di tutto il mondo. Anche la Cei e molte ong cattoliche del nostro Paese sono in prima linea nella corsa a dare almeno un prefabbricato al numero maggiore possibile di profughi, prima che l'inverno arrivi sul serio. Ma il tempo a disposizione è pochissimo: già qualche giorno fa a Erbil è arrivato il primo grande nubifragio e le tendopoli si sono subito allagate con immense pozzanghere e fango ovunque.
È a questa umanità ferita che il Papa sta scrivendo. Sapendo che - oltre che a loro - c'è da parlare a chi continua a perseguire obiettivi propri sulla pelle di queste popolazioni. Tra le cose che il patriarca Sako ha detto in questi giorni c'è anche il fatto che Francesco desidererebbe andare personalmente tra gli sfollati dell'Iraq. Un desiderio probabilmente oggi irrealizzabile.
Però proprio ieri il Vaticano ha confermato il viaggio che Bergoglio compirà dal 28 al 30 novembre in Turchia. Una visita apostolica legata a una motivazione ecumenica - l'incontro con il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo - ma che per ciò che rappresenta oggi Ankara in questo Medio Oriente insanguinato non potrà non avere anche un significato politico. Nella capitale turca il Pontefice incontrerà il presidente turco Erdogan e il premier Davutoglu, le autorità di un Paese non proprio al di sopra di ogni sospetto di ambiguità nella lotta all'Isis. E a Istanbul - come aveva già fatto papa Benedetto - anche Francesco entrerà nella Moschea Blu, luogo carico di significati importanti per l'islam sunnita. Farà già molto freddo in quei giorni ad Ankawa. E ci sarà ancora più bisogno di ascoltare parole che indichino che anche a Istanbul il Papa è loro vicino. E addita una strada perché questo incubo finisca davvero.