Maria Acqua Simi
Nello stanzone l’afa si fa sentire: un po’ per il
caldo soffocante che a ottobre in Iraq ancora fa bruciare l’aria nei
polmoni, un po’ perché in queste quattro mura sono stipate almeno
un’ottantina di persone. Sono i rifugiati cristiani in fuga dagli uomini
del Califfo. Vivono qua dal luglio scorso. Non ci sono letti, solo
materassini (e pure su quelli ci si alterna per dormire).
Non ci sono vestiti di ricambio. Il cibo e l’acqua grazie a Dio vengono assicurati ogni giorno dagli approvvigionamenti stanziati da UNICEF e UNHCR (l’agenzia ONU per i rifugiati), ma soprattutto dalle donazioni della gente comune, che dall’Occidente ha risposto con generosità agli appelli della Chiesa locale. Ma non sempre riescono a raggiungere tutti con scadenza regolare.
Non ci sono vestiti di ricambio. Il cibo e l’acqua grazie a Dio vengono assicurati ogni giorno dagli approvvigionamenti stanziati da UNICEF e UNHCR (l’agenzia ONU per i rifugiati), ma soprattutto dalle donazioni della gente comune, che dall’Occidente ha risposto con generosità agli appelli della Chiesa locale. Ma non sempre riescono a raggiungere tutti con scadenza regolare.
Non è scontato niente, in un contesto di emergenza
come quello che vive oggi il Kurdistan: l’acqua, ad esempio, non è
potabile. Si può dunque bere solo quella in bottiglie sigillate. Gli
aiuti internazionali garantiscono enormi sacchi pieni di riso, ma
chiunque abbia bambini in casa sa che non può essere sufficiente e così
si cercano verdura, frutta e the nero nel grosso suk del quartiere
musulmano.
Dove le trattative sono estenuanti e i prezzi quintuplicati da quando c’è l’ondata di rifugiati. L’elenco delle cose di cui questa povera gente ha bisogno si potrebbe protrarre all’infinito: latte in polvere per i neonati, pannolini per vecchi e bambini, coperte, stufe elettriche e abiti pesanti per affrontare l’inverno che qua non si preannuncia (arriverà all’improvviso come ogni metà novembre), biancheria, botti per contenere l’acqua, nuove tende per i campi rifugiati.
Dove le trattative sono estenuanti e i prezzi quintuplicati da quando c’è l’ondata di rifugiati. L’elenco delle cose di cui questa povera gente ha bisogno si potrebbe protrarre all’infinito: latte in polvere per i neonati, pannolini per vecchi e bambini, coperte, stufe elettriche e abiti pesanti per affrontare l’inverno che qua non si preannuncia (arriverà all’improvviso come ogni metà novembre), biancheria, botti per contenere l’acqua, nuove tende per i campi rifugiati.
«Siamo una delle Nazioni più ricche al mondo, e il
nostro popolo è costretto a chiedere l’elemosina», ci dice con piglio
duro uno dei vescovi ortodossi rifugiati a Erbil. Perché se è vero che i
più fortunati hanno trovato riparo in alcuni cantieri aperti, o in
piccoli appartamenti in affitto, i soldi per pagare la pigione ai
proprietari scarseggiano. La Chiesa non ne ha più. Con gli aiuti ricevuti
(tra questi anche quelli dei lettori del Giornale del Popolo) i
vescovi, i preti e le suore si adoperano giorno e notte per coprire le
emergenze. Incontrano uno per uno i capifamiglia, li segnano in un
registro speciale, stabiliscono le priorità e poi destinano i fondi per
le operazioni più urgenti (donne con gravidanze al termine, feriti
gravi, bambini e anziani).
Non lo hanno mai fatto, non sono operatori
umanitari. Sono pastori di anime che si trovano oggi a dover guidare e
accompagnare il loro gregge nella quotidianità più straziante. Guardo
queste famiglie e guardo loro: sembra di rivedere quella povera donna
lavare i piedi di Gesù. È lo stesso gesto pieno di amore e compassione.
C’è una grande dignità in questo stanzone pieno di mosche e caldo. C’è
una grande dignità in quelle povere tende ammassate nei dintorni delle
chiese. Chi li abita cerca di tenere pulito come può, di non fare
sgarbi, di dividere equamente il poco che si ha.
Ognuno qui ha la sua storia, il
proprio dolore portato con discrezione. Sono spicci nel denunciare le
carenze degli aiuti o gli orrori dell’ISIS. Eppure si fanno compagnia
nella maniera più autentica e cristiana: compagni nella fede e nella
speranza. Un bello schiaffone a tutti noi e alla nostra fede così spesso
tiepida e poco appassionata; ma è uno schiaffone buono, da cui ognuno
di noi può ripartire.