By Avvenire
Luca Geronico
L'altoparlante, come d’incanto, rompe il fruscio sordo del campo e
riesce a scuotere dall’apatia ormai cronica, persino gli adulti. I
bambini, abituatisi dopo pochi incontri all’appuntamento di metà
pomeriggio, sono già schierati in attesa delle prime note delle melodie
tradizionali. Un suono – nostalgia di casa e normalità – che con un MP3,
piccolo prodigio della tecnologia, si riesce a riprodurre anche lì, fra
i profughi ad Ankawa, il sobborgo cristiano di Erbil. In quello che
doveva essere un centro commerciale, l’Ankawa Mall, hanno trovato riparo
250 famiglie, circa 2mila profughi di Qaraqosh e Bartalla, sistemati in
micro-camerette con le pareti in lamierino fissate al nudo cemento.
È li che Focsiv e Avvenire hanno deciso di avviare il progetto
«Emergenza Kurdistan: non lasciamoli soli» con un intervento iniziale
stimato per 104mila euro. L’animazione dei ragazzi è il primo passo,
quello che gli esperti di primo soccorso umanitario definiscono “Child
protection”: da lì può partire una serie di interventi mirati secondo la
filosofia Focsiv di completare con l’«elemento mancante» a quello che è
il sostegno di base di Unicef e Acnur.
Si tratta di fornire pentole e posate a chi ha solo un fornelletto; il sale per cuocere a chi riceve un pacco di riso alla settimana; coperte a chi ha solo un materassino; kit igienico sanitari in particolare per donne con neonati; istruzione, a chi ha solo tempo da perdere. Tutti passi successivi con richieste motivate e documentate. Intanto sono già quattordici, tutti ragazzi tra i 18 e i 22 anni, i giovani del “Focsiv team”, reclutati da padre Jalal Jako pure lui sfollato: prima erano studenti o neo-diplomati di Qaraqosh e Bartalla. Prima che lo Stato islamico strappasse via tutto, comprese scuole, giochi e i sorrisi dei più piccoli anche a Qaraqosh e Bartalla, 50mila cristiani da secoli insediati nella Piana di Ninive. Prima del 6 agosto, la notte della ritirata dei peshmerga e l’arrivo dei miliziani dello Stato islamico. Il “dopo”, per i rifugiati ad Ankawa Mall, sono stati due mesi senza tempo: solo attesa di un ritorno impossibile, solo speranza un aiuto improbabile.
Per questo quella musica che da inizio settembre, nei giorni stabiliti, risuona ad Ankawa Mall, nel salone della chiesa Assira di San Giovanni e in altri cinque punti che raccolgono in tutto 1.300 bambini, significa ricominciare. Risuona, ritmata e un poco ossessiva, la melodia, mentre i bambini, come in una danza, ripetono passi, flessioni e gesti della «mosika sha’bia» (la musica popolare) già imparati nelle piazze di quella che era la loro terra. Basta quel suono ad avvicinare anche adulti. Una scintilla per far nascere ricordi e incontri: «Come quella insegnante, madre di tre figli, che frequentava un corso di specializzazione per leggere i caratteri cuneiformi del codice di Hammurabi», ricorda Terry Dutto, il responsabile del progetto Focsiv in Iraq. Vite prima intense, ora quasi cancellate e messe all’angolo: ma le tre figlie sono a danzare, anche per dimenticare la sola stanzetta in cui convivono, in più di una decina, con un’altra famiglia. Qualcuno, quasi di nascosto dagli altri, ferma padre Jalal: richieste d’aiuto, un vergognoso dolore da confidare, l’atroce speranza di poter un giorno tornare. «Spesso il silenzio o gli occhi inumiditi chiudono quelle poche battute», confida Dutto. Come è dura provare a ricominciare. Intanto padre Jalal ha già iniziato la sua breve lezione: una storiella tratta dalla Bibbia, un canto, un po’ di letteratura. Poi i ragazzi divisi per classi di età iniziano i lavori di gruppo: negli ultimi giorni è spuntata pure una lavagna assieme a quaderni e pastelli colorati.
Un disegno, per dimenticare quegli stanzoni in cui si vive ammassati, o le tende che prima dell’inverno tutti sperano di aver abbandonato almeno per un tetto in lamierino. Peggio di tutti stanno quelli che per due mesi hanno pagato, a prezzi di guerra, un appartamento in affitto dando fondo ai risparmi di una vita. Ora, sul lastrico e ultimi arrivati, sono ai margini persino della comunità dei senza terra. Ma i racconti che giungono ancora da chi è rimasto nella Piana di Ninive danno ragione al dolore della fuga: «Una solo reazione ai soprusi e sono brutalmente eliminati», raccontano. Per questo, quando ormai è sera, la danza finale è una liberazione per tutti. Anche i grandi iniziano a ballare fra i serpentoni dei bambini. Un canto a cui ha voluto unirsi mercoledì pure il segretario della Cei, monsignor Nunzio Galantino: «Anche voi genitori, avanti: ballate tutti insieme», ha urlato nel microfono. Solo le tante mamme con bimbi neonati in braccio restano a guardare. Giovedì sono però iniziate le piogge: in tanti, tremanti con le magliette a maniche corte, hanno chiesto un maglione a padre Jalal. Abuna non ha risposto: da Qaraqosh lui è arrivato a piedi con solo due camicie.
Si tratta di fornire pentole e posate a chi ha solo un fornelletto; il sale per cuocere a chi riceve un pacco di riso alla settimana; coperte a chi ha solo un materassino; kit igienico sanitari in particolare per donne con neonati; istruzione, a chi ha solo tempo da perdere. Tutti passi successivi con richieste motivate e documentate. Intanto sono già quattordici, tutti ragazzi tra i 18 e i 22 anni, i giovani del “Focsiv team”, reclutati da padre Jalal Jako pure lui sfollato: prima erano studenti o neo-diplomati di Qaraqosh e Bartalla. Prima che lo Stato islamico strappasse via tutto, comprese scuole, giochi e i sorrisi dei più piccoli anche a Qaraqosh e Bartalla, 50mila cristiani da secoli insediati nella Piana di Ninive. Prima del 6 agosto, la notte della ritirata dei peshmerga e l’arrivo dei miliziani dello Stato islamico. Il “dopo”, per i rifugiati ad Ankawa Mall, sono stati due mesi senza tempo: solo attesa di un ritorno impossibile, solo speranza un aiuto improbabile.
Per questo quella musica che da inizio settembre, nei giorni stabiliti, risuona ad Ankawa Mall, nel salone della chiesa Assira di San Giovanni e in altri cinque punti che raccolgono in tutto 1.300 bambini, significa ricominciare. Risuona, ritmata e un poco ossessiva, la melodia, mentre i bambini, come in una danza, ripetono passi, flessioni e gesti della «mosika sha’bia» (la musica popolare) già imparati nelle piazze di quella che era la loro terra. Basta quel suono ad avvicinare anche adulti. Una scintilla per far nascere ricordi e incontri: «Come quella insegnante, madre di tre figli, che frequentava un corso di specializzazione per leggere i caratteri cuneiformi del codice di Hammurabi», ricorda Terry Dutto, il responsabile del progetto Focsiv in Iraq. Vite prima intense, ora quasi cancellate e messe all’angolo: ma le tre figlie sono a danzare, anche per dimenticare la sola stanzetta in cui convivono, in più di una decina, con un’altra famiglia. Qualcuno, quasi di nascosto dagli altri, ferma padre Jalal: richieste d’aiuto, un vergognoso dolore da confidare, l’atroce speranza di poter un giorno tornare. «Spesso il silenzio o gli occhi inumiditi chiudono quelle poche battute», confida Dutto. Come è dura provare a ricominciare. Intanto padre Jalal ha già iniziato la sua breve lezione: una storiella tratta dalla Bibbia, un canto, un po’ di letteratura. Poi i ragazzi divisi per classi di età iniziano i lavori di gruppo: negli ultimi giorni è spuntata pure una lavagna assieme a quaderni e pastelli colorati.
Un disegno, per dimenticare quegli stanzoni in cui si vive ammassati, o le tende che prima dell’inverno tutti sperano di aver abbandonato almeno per un tetto in lamierino. Peggio di tutti stanno quelli che per due mesi hanno pagato, a prezzi di guerra, un appartamento in affitto dando fondo ai risparmi di una vita. Ora, sul lastrico e ultimi arrivati, sono ai margini persino della comunità dei senza terra. Ma i racconti che giungono ancora da chi è rimasto nella Piana di Ninive danno ragione al dolore della fuga: «Una solo reazione ai soprusi e sono brutalmente eliminati», raccontano. Per questo, quando ormai è sera, la danza finale è una liberazione per tutti. Anche i grandi iniziano a ballare fra i serpentoni dei bambini. Un canto a cui ha voluto unirsi mercoledì pure il segretario della Cei, monsignor Nunzio Galantino: «Anche voi genitori, avanti: ballate tutti insieme», ha urlato nel microfono. Solo le tante mamme con bimbi neonati in braccio restano a guardare. Giovedì sono però iniziate le piogge: in tanti, tremanti con le magliette a maniche corte, hanno chiesto un maglione a padre Jalal. Abuna non ha risposto: da Qaraqosh lui è arrivato a piedi con solo due camicie.