Gianni valente
“L'ultimatum” è fissato per mercoledì prossimo, 22 ottobre. Entro quella data, i tanti preti e monaci della Chiesa caldea che negli ultimi tempi hanno lasciato le proprie diocesi e le proprie case religiose e si sono imboscati in qualche Paese occidentale senza consenso dei superiori dovranno concordare con i vescovi e i capi delle comunità i tempi e i modi del loro rientro alla base o dell'eventuale trasferimento in altre diocesi e comunità. Se non lo faranno, saranno sospesi dal servizio sacerdotale e vedranno annullata ogni forma di retribuzione. Le misure canoniche, annunciate già il mese scorso dal Patriarca di Babilonia dei Caldei Louis Raphael I Sako, verranno ufficializzate con un decreto ad hoc, approvato dal Sinodo permanente della Chiesa Caldea.
La vicenda fa affiorare uno dei fattori più determinanti e meno osservati nel processo di estinzione che sembrano aver imboccato in Medio Oriente comunità con radicamento e tradizioni millenarie. Se il cristianesimo di origine apostolica sembra spegnersi nelle terre dell’antica Mesopotamia, la colpa non è solo dei tagliagole jihadisti dello Stato islamico, ma anche di chierici – preti e monaci – che sono i primi a fuggire dalle proprie terre di nascita, per “riparare” in Occidente e cercare sistemazioni comode presso le fiorenti comunità in diaspora.
Ne è convinto il Patriarca Louis Raphael I, che nelle ultime settimane, con una sequenza crescente di messaggi-denuncia, ha preso di mira i sacerdoti e i monaci che hanno lasciato senza permesso le loro diocesi in Medio Oriente, e senza esitazioni ha bollato il fenomeno come vera e propria diserzione clericale, tanto da segnalare sul sito d’informazione legato al Patriarcato anche una lista “casi” sintomatici, con i nomi e i cognomi dei novelli chierici vaganti. Sono decine i nomi di preti e monaci segnalati da Patriarca che hanno approfittato di periodi di formazione e viaggi all'estero per chiedere asilo in Usa, Canada, svezia e Australia e non tornare più. Alcuni di loro, mentendo, si sono presentati come vittime di minacce da parte dagli islamisti. E adesso, alcuni di loro sono presi a organizzare l'esodo dei rispettivi clan familiari dall'Iraq in preda all'offensiva jihadista e al riesplodere dei settarismi.
Per il Primate della Chiesa irachena quantitativamente più
consistente, i monaci e i sacerdoti hanno scelto di servire Dio e i
fratelli con le proprie vite. Per questo «non è giustificato da parte
loro tirare in ballo difficoltà e le insicurezze» della situazione
irachena per sottrarsi al loro compito pastorale e agli impegni connessi
con la loro vocazione, proprio quando tanti loro confratelli «restano
saldi in Iraq, a consolare e sostenere i fedeli» in questo momento
tremendo.
Nelle storie dei preti e monaci caldei che approfittano del loro
status per emigrare in contesti ecclesiali e mondani più ricchi e comodi
si tocca con mano che gli insistiti richiami di papa Francesco ai
sacerdoti affinché non si trasformino in funzionari del sacro o in
“chierici di Stato”non valgono solo per la diocesi di Roma. Ma dietro
alla vicenda riaffiora anche il rapporto carico di problemi e tensioni
che molte Chiese d'Oriente vivono con le rispettive comunità in
diaspora, spesso influenti e più dotate di mezzi anche finanziari. I
sacerdoti trasmigrati in Occidente sono spesso accolti a braccia aperte
dai vescovi che reggono le diocesi d'Oltremare. Negli allarmi diffusi
dal Patriarca, si denunciano con nomi e cognomi le responsabilità di
quei membri dell'episcopato che, infrangendo le regole canoniche e anche
il fair play nei confronti dei propri colleghi, hanno accettato i
“chiarici vaganti” aprendo loro anche prospettive di più alta carriera
ecclesiastica.
Sono almeno vent'anni che nella Chiesa caldea (come è avvenuto anche per quella assira, per che Chiese sire e per la Chiesa copta) le comunità della diaspora sono diventate vasca di coltura una svolta “nazionalista” e identitaria. La galassia di circoli, movimenti e sigle politiche “caldee” sorti all’interno della diaspora irachena negli Usa hanno sempre condannato senza appello la linea “arabizzante” assunta dalle comunità caldee in Iraq nei decenni del regime baathista. Una scelta “mimetica” che aveva garantito a tanti cristiani iracheni spazi sia pur limitati di agibilità e sopravvivenza. I circoli identitari caldei operanti soprattutto in Nordamerica hanno sempre gestito in chiave lobbistica rapporti e buone entrature con gli ambienti politici Usa, con buoni risultati. Dopo il crollo del regime di Saddam hanno cercato di ottenere garanzie per i cristiani nella ristrutturazione del Paese sotto tutela anglo-statunitense. Adesso, nelle convulsioni settarie che scuotono il Medio Oriente e con le operazioni di pulizia etnico-religiosa messe in atto dai jihadisti dello Stato Islamico, le comunità in diaspora calamitano nei rispettivi Paesi quel che resta delle comunità caldee presenti in Iraq, fornendo anche appoggio logistico a quanti vogliono lasciare le terre d'origine magari per unirsi ai propri parenti già emigrati. A settembre è stata l'eparchia di San Pietro dei Caldei, con sede a San Diego, in California a raccogliere su input di funzionari dell'amministrazione Usa la liste di decine di migliaia di cristiani caldei desiderosi di lasciare l'Iraq. Gli elenchi sono stati consegnati alla Casa Bianca direttamente dal vescovo Sarhad Jammo, alla guida dell'eparchia incaricata della cura pastorale dei caldei negli Stati Uniti occidentali.
Sono almeno vent'anni che nella Chiesa caldea (come è avvenuto anche per quella assira, per che Chiese sire e per la Chiesa copta) le comunità della diaspora sono diventate vasca di coltura una svolta “nazionalista” e identitaria. La galassia di circoli, movimenti e sigle politiche “caldee” sorti all’interno della diaspora irachena negli Usa hanno sempre condannato senza appello la linea “arabizzante” assunta dalle comunità caldee in Iraq nei decenni del regime baathista. Una scelta “mimetica” che aveva garantito a tanti cristiani iracheni spazi sia pur limitati di agibilità e sopravvivenza. I circoli identitari caldei operanti soprattutto in Nordamerica hanno sempre gestito in chiave lobbistica rapporti e buone entrature con gli ambienti politici Usa, con buoni risultati. Dopo il crollo del regime di Saddam hanno cercato di ottenere garanzie per i cristiani nella ristrutturazione del Paese sotto tutela anglo-statunitense. Adesso, nelle convulsioni settarie che scuotono il Medio Oriente e con le operazioni di pulizia etnico-religiosa messe in atto dai jihadisti dello Stato Islamico, le comunità in diaspora calamitano nei rispettivi Paesi quel che resta delle comunità caldee presenti in Iraq, fornendo anche appoggio logistico a quanti vogliono lasciare le terre d'origine magari per unirsi ai propri parenti già emigrati. A settembre è stata l'eparchia di San Pietro dei Caldei, con sede a San Diego, in California a raccogliere su input di funzionari dell'amministrazione Usa la liste di decine di migliaia di cristiani caldei desiderosi di lasciare l'Iraq. Gli elenchi sono stati consegnati alla Casa Bianca direttamente dal vescovo Sarhad Jammo, alla guida dell'eparchia incaricata della cura pastorale dei caldei negli Stati Uniti occidentali.